Cupolavirus

Mentre Conte viene accusato contemporaneamente di decidere tutto da solo come ogni dittatore che si rispetti e di non decidere nulla delegando tutto a una pletora di task force, Bonafede viene tacciato simultaneamente di non scarcerare nessuno e di scarcerare tutti, compresi i boss al 41-bis. Ora, è vero che il Guardasigilli s’è opposto alle campagne della solita lobby dei decarceratori, che prende a pretesto l’emergenza sanitaria e le rivolte violente per paventare “stragi nelle carceri” e invocare amnistie, indulti e liberi tutti. Infatti nel decreto Cura Italia ha previsto solo lo snellimento delle procedure di leggi già esistenti che prevedono i domiciliari per chi deve scontare pene residue di 18 mesi, aggiungendo l’obbligo del braccialetto elettronico per quelle superiori ai 6 mesi ed escludendo i condannati per mafia e altri gravi delitti. Ma di stragi da coronavirus, almeno nelle carceri, per ora non si vede l’ombra: i controlli sanitari potenziati su detenuti, agenti e amministrativi hanno circoscritto il contagio a pochissimi casi (un solo morto in due mesi su 60mila detenuti). Con buona pace dei tromboni che prevedevano apocalissi, dei radicali che hanno addirittura denunciato Bonafede per epidemia colposa e dei renziani che chiedevano la testa del direttore del Dap.

Ora la destra più analfabeta, orgogliosamente capitanata da Salvini che confonde il Codice penale con Topolino, accusa Bonafede di aver scarcerato da Opera il boss dell’Uditore Francesco Bonura, pensando che il ministro della Giustizia possa sostituirsi ai giudici o magari ordinare sentenze à la carte. La sciagurata scarcerazione è stata invece disposta da un giudice di sorveglianza di Milano, interpretando a modo suo una nota del Dap. Questa si limitava a trasmettere ai provveditori e ai direttori delle carceri un “elenco di patologie/condizioni cui è possibile riconnettere un elevato rischio di complicanze”, affinché comunicassero ai giudici i detenuti a rischio: non certo per liberarli, ma per “le determinazioni di competenza”, cioè per sottoporli a tampone, o a isolamento, o a visite supplementari. Ora, visto l’effetto-domino che l’uscita di Bonura sta innescando fra mafiosi e altri criminali di tutt’Italia, si spera venga presto appellata dai magistrati di Palermo che l’avevano condannato a 18 anni e 8 mesi per associazione mafiosa ed estorsione. Del resto basta un occhio profano per notarne l’assurdità. Il Tribunale di sorveglianza esclude legami col Covid-19 e parla di “normativa ordinaria applicabile a tutti i detenuti… a tutela dei diritti costituzionali alla salute e all’umanità della pena”.

Ma è smentita dallo stesso giudice, che cita “l’attuale emergenza sanitaria” e il “correlato rischio di contagio, indubitabilmente più elevato in un ambiente ad alta densità di popolazione come il carcere, che espone a conseguenze particolarmente gravi i soggetti anziani e affetti da serie patologie”. Parole risibili, visto che il carcere è isolato anche senza lockdown. Tantopiù per i detenuti al 41-bis, reclusi in celle singole senza contatti con altri, né sovraffollamento, né visite ravvicinate. Bonura, sebbene vecchio e malandato, anzi proprio per questo, rischia il virus molto più adesso in casa che prima in carcere. Ma il provvedimento è una miniera di perle “deve ragionevolmente escludersi il pericolo di fuga o di reiterazione dei reati” per via del “non lontano fine pena a fronte di una lunga carcerazione, l’esistenza di riferimenti famigliari, l’età e il complesso quadro clinico”. Cioè il giudice ritiene che un boss di 78 anni, che in vita sua ha fatto solo il mafioso e torna libero dopo 14 anni senz’aver mai aperto bocca, non tornerà a fare il mafioso. E perché mai? Perché è stato dentro, tiene famiglia e non ha più l’età, dunque andrà certamente in pensione (infatti Provenzano era il capo dei capi a 73 anni quando fu arrestato nel 2006 e l’ultimo boss della Cupola catturato nel 2018, Settimo Mineo, di anni ne aveva 80).
Non solo. Il sant’uomo va, sì, ai domiciliari a Palermo in casa della moglie, ma senza esagerare: “sono autorizzate sin d’ora le uscite dal domicilio” per “motivi di salute propri o inerenti familiari conviventi”, incluse le “sedute dentistiche” della signora. E persino – tenetevi forte – “spostamenti in giornata fuori dal Comune di dimora o ampliamenti orari per significative esigenze famigliari (es. matrimoni, battesimi, eventi luttuosi, 25 e 26 dicembre, Domenica di Pasqua e Lunedì dell’Angelo”. Carino, il giudice, a pensare alle festicciole in famiglia e alle gite fuori porta nelle feste comandate, persino Pasquetta e Santo Stefano. Ma perché non pure Ferragosto? E Santa Rosalia e Capodanno coi botti, no? Senza dimenticare, si capisce, le “esigenze lavorative”: magari come rider per cibi a domicilio o trapezista al circo. “Per quanto possibile”, il sant’uomo dovrà poi “adoperarsi al risarcimento del danno provocato alle vittime dei reati”: quindi, essendo un estorsore, andrà a trovare gli estorti per farci due chiacchiere. L’importante è che “tenga condotta conforme a regole di civile convivenza”, non faccia “uso di sostanze stupefacenti” (al massimo può importarle), “né abusi di alcolici”, né “frequenti, senza adeguata ragione, pregiudicati”. Tanto Berlusconi è in Costa Azzurra.

Perché infierire sulla salma di Arbasino?

Paolo Isotta, ieri, su questo giornale, ha avuto un’idea insolita. Ha deciso di seguire il funerale di Arbasino (o poco dopo) dedicando insulti al morto. La sorpresa è grande perché Paolo Isotta è un personaggio autorevole della vita culturale italiana, libero di sfogare un legittimo risentimento quando il destinatario della sua polemica può ancora rispondergli, libero di sfogare il suo misterioso rancore sulle pagine dei migliori giornali e delle più autorevoli pubblicazioni di cultura, per non parlare di eventi e convegni, in cui un critico come Isotta è sempre desiderato partecipante. Certo, mi rendo conto. Arbasino in vita, oltre che spiritoso, era (come Isotta, del resto) un vivacissimo polemista.

Ma perché aspettare il passaggio della salma per inveire? Stupisce anche la modestia delle accuse che il noto e apprezzato critico Isotta lancia al noto e apprezzato scrittore Arbasino.

Primo, Arbasino non vale Sciascia. A Sciascia spettavano gli elogi deposti sul feretro di Arbasino. Posso permettermi di dire: esempio sbagliato. A Sciascia, grande scrittore italiano, è stata dedicata mai interrotta attenzione critica e politica per decenni, Arbasino è appena morto e molto di ciò che scrittori, lettori e amici hanno detto a lui e di lui è legato al rapporto personale, all’aver lavorato insieme, all’affetto fraterno e (una folla molto più numerosa) al grande e inconsueto autore delle letture di mezza Italia per mezzo secolo.

Secondo, Isotta rimprovera la salma di essere incolta. È un po’ fuori tempo durante la tumulazione. E non è forse un po’ di cattivo gusto (l’ultima cosa che ti aspetti da Isotta) incaricarsi dell’ultimo esame di cultura a silenziosi candidati defunti? Peccato non aver dato un’occhiata alla New York Review of Books negli anni Novanta.

Terzo, Arbasino – dice Isotta – non sapeva niente di musica. Questo gesto di disprezzo è il più stupefacente. Ha avuto quattro decenni per dirlo (e, certo, avrebbe avuto dovuto ascoltare la risposta). Ma si sente che l’impeto funerario di Isotta si sarebbe sfogato di più se avesse avuto più spazio. Per capire tenete conto di questi frammenti di citazione: “Ero afflitto dal peso degli articoli su Repubblica (…) Erano soliloqui di recchia (…) costituiti dall’accumulazione di meri fatti, oggetti visti o musica udita”. “Si credeva elegantissimo. A Roma sarà riuscito a trovare un economico sarto di Voghera”. Credo proprio che Isotta abbia sbagliato giorno. E abbia sbagliato le accuse, tutte.

“Magistro sed omnia licet”

(Paolo Isotta)

Profezie, amori, sfide e nemici: dilaga il virus da instant book

Ci sono momenti, come la zona di sospensione odierna, in cui non possiamo restare solo a guardare, aspettando che la tempesta diventi un brutto ricordo. Urge dare senso allo spazio vuoto, tenere alta la curiosità, abbeverarsi a fonti autorevoli, codificare il presente e immaginare il futuro, decifrare noi stessi e il prossimo, sviluppare coscienza critica. Quella non possono togliercela.

Poiché i libri non si fermano mai, perché le idee sono inarrestabili, instant book ed eBook a tema Covid, spuntati come funghi nelle ultime settimane, si rivelano preziosi. Paolo Giordano, scrittore con una laurea in Fisica teorica, mixa umanesimo e matematica, mettendo un po’ d’accordo tutti, nei 27 mini saggi di Nel contagio (Einaudi-Corriere della Sera), “per pensare ciò che la normalità c’impedisce di pensare: come siamo arrivati qui, come vorremo riprendere. Acquistare un cuore saggio. Non permettere che questa sofferenza trascorra invano”.

Attribuire senso al contagio è anche il focus di Leonardo Caffo, filosofo e autore di Dopo il Covid, ebook gratuito della nuova collana Semi di Nottetempo, 28 punti sul “poi” che mirano al rispetto dell’ambiente come pilastro del futuro. Chiave più socio-politica, invece, per l’opera aperta, in fieri, di Slavoj Zizek, filosofo sloveno di fama mondiale, autore di Virus. Catastrofe e solidarietà (Ponte alle Grazie), ebook già aggiornato sei volte (gli update sono gratis). Dal 10 marzo Zizek segue in real time la crisi pandemica, i rapporti fra popolo e Stato, le relazioni internazionali, l’impatto sul quotidiano e azzarda, con ottimismo: “Magari si propagherà un virus ideologico che ci faccia immaginare una società che si realizzi nella forma della solidarietà globale e della cooperazione”. Se più della speranza, vana?, vi coinvolgono le profezie è tornato in ebook, schizzando in cima alle classifiche, un libro del 2012, Profezie. Che cosa ci riserva il futuro (Mondadori), della sensitiva americana Sylvia Browne, scomparsa nel 2013, che in quelle pagine profetizzava – è l’unico vaticinio che ha azzeccato! – un’epidemia nel 2020 simile a quella odierna. Curioso, inquietante, specie perché prediva un’ondata di ritorno. Instant book pure per il virologo più viral e social d’Italia, Roberto Burioni, per alcuni guru per altri narcisista sopravvalutato. A chi ha definito l’uscita di Virus. La grande Sfida (Rizzoli) un’operazione commerciale ha chiarito che i proventi andranno in beneficenza, che il libro era già in lavorazione e l’uscita anticipata è stata un modo per fornire ai lettori notizie accurate e comprensibili sulle epidemie. Sulla scia del best-seller di Quammen, Spillover (Adelphi), escono il saggio divulgativo Uomini e Virus. Storia delle grandi battaglie del nostro sistema immunitario, dello scienziato Guido Silvestri, in edicola con Repubblica, e il primo titolo di Clouds, collana di instant ebook di Longanesi, che inaugura con Conosci il tuo nemico. Cos’è, da dove viene e cosa ci insegna il Coronavirus del fisico Valerio Rossi Albertini. C’è però anche chi, nella lettura, cerca nutrimento per l’anima. Ve n’è nei 25 racconti di Andrà tutto bene. Gli scrittori al tempo della quarantena (Garzanti), progetto di solidarietà, i proventi andranno all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, e creatività, in cui penne come Stefania Auci e Donato Carrisi propongono il loro sguardo su questi giorni incerti, uniti da una convinzione: le parole creano vincoli invisibili che spezzano ogni barriera. L’amore è invece il perno dei nove racconti di Incontri ravvicinati del terzo tempo. Storie d’amore e quarantena (Giunti, eBook gratuito), progetto di Lidia Ravera che ha invitato gli autori della sua collana Terzo tempo, dedicata ai sentimenti degli over 60, a regalare, “come fosse un mazzo di fiori”, una love story in tempi duri.

Su come sarà la vita dopo il Covid-19 intervengono 44 tra intellettuali, umanisti, docenti, esperti di comunicazione chiamati dalla rivista di antropologia digitale Be UnSocial a esprimere un’idea per la nuova normalità perché di certo c’è solo che bisognerà inventarsi nuove rotte e itinerari. Il risultato è l’ebook gratuito Back to the future, omaggio alla pellicola Ritorno al futuro dell’85. Timothy Small, che ha diretto e co-fondato riviste come Vice ed Esquire, ipotizza la fine della celebrity culture mentre il filosofo, esperto tanatologo, Davide Sisto, invita a prendere coscienza dell’utilità delle tecnologie digitali per affrontare future emergenze che implichino la mancanza tangibile dei corpi. Vivi o morti che siano.

Quel Dio chiamato Teatro. Un’arte viva e immortale

Nella storia dell’umanità nulla ha mai potuto fermare il Teatro. Guerre, rivoluzioni, persecuzioni, pestilenze non sono mai riuscite a fermare il Teatro. C’è riuscito un “virus mutante”, microscopico, invisibile che si è “mutato da sé”, ci dicono con sempre meno convinzione, e che ha “fermato” il teatro. Ma non lo ha ucciso. Il Teatro è vivo! È fermo lo “spettacolo” ma il Teatro non è fermo né tantomeno è morto. Il Teatro non è mai stato così vivo! “Vivo” nella mente e nel sentimento degli attori che il teatro lo fanno e lo vivono col pubblico. Vivo negli spettatori che “aspettano”. E gli attori “ora” si “danno da fare”. Come possono. “Ora che non possono”. Ora gli attori pensano di più, studiano di più. E sentono di più, ognuno in “se stesso”, la “spinta a fare qualcosa”. È una spinta in avanti che ritorna in se stessi. Una “spinta” che è il “se stesso” di ogni attore che “è”.

Attenzione, gli attori sanno molto bene che il “teatro” è un “dono fisico” (e solo fisico) tra attore e spettatore. È una “comunione”. Anche la Comunione cristiana è il “dono del corpo fisico, umano, del Cristo”. Nella Comunione, per mistero, è “necessario” l’ESSERE FISICO del Cristo e del “fedele”. E il Teatro è lo stesso. È il corpo dell’attore, nel suo “essere fisico”, di fronte all’“essere fisico” dello spettatore. Ora il “virus mutante” rende impossibile la “vicinanza fisica”.

Quello che qualcuno chiama “Teatro in Streaming” non è fisico (da Physis) ma logico (da Logos). Tutta un’altra cosa. Non è Teatro. Gli attori lo sanno. Non sono loro il “pericolo”…

Physis è una parola greca, intraducibile, che vuol dire più o meno “sorgere che tramonta – in se stesso – istante per istante” o anche “luce che – in sé – è buio, vita che – in sé – è morte, recitare che – in sé – è non recitare”…). Mamma mia, cos’erano i Greci!

“Teatro” è, appunto, una parola greca e quindi una “parola abissale”, come tutte le parole greche. Questa parola abissale è composta da “Thea” che vuol dire “sguardo”(al femminile) e “Tron” che vuol dire luogo. Tron è proprio un luogo fisico (si pensi ad “autodromo” che vuol dire “luogo delle automobili”). Theatron è dunque il “luogo fisico dello sguardo” e lo “sguardo” è ciò che ci “guarda” da dentro, quello che noi stiamo “vedendo” in quell’istante: e “sguardo” si dice, in greco, “DIO”. Insomma, “dio”, in greco, vuol dire “sguardo”. Theo o Thea, a seconda se è uno sguardo maschile o femminile.

È per questo che c’erano tanti “dei” in Grecia, tanti “sguardi”, perché era tutto, ma proprio tutto quanto a “guardare” lo “zoon logon echon”, cioè l’“essere vivente ‘risuonante’ di parola”, cioè l’Uomo. Attenzione, l’uomo è “risuonante” di parola, non è “parola”. Già perché Thea o Theo significano, per i Greci, proprio l’infinità degli sguardi che colgono l’uomo in mezzo alla totalità dell’“essente” (scusate la parola). E, pensate, quegli sguardi (Theoi) l’uomo li può “DIRE” perché l’Uomo “possiede” il LOGOS. Anche se l’uomo non “è” il LOGOS. Solo Dio è il Logos, dice San Giovanni. Per forza!… Lo sguardo (DIO) si può soltanto “dire”. Ma qual è la dea, lo sguardo al femminile del Thea-Tron? La dea è la ALETHEIA, la svelatezza. Parola che i latini tradussero, falsandone per sempre il senso, con VERITAS.

La “svelatezza” è lo “svelamento di ciò che pur se ‘svelato’ rimane sempre ‘velato’”. Cioè è svelato nel suo essere “mistero”. E qual è questo mistero? L’Uomo. Ecco perché nel Teatro c’è il “velario” che poi chiamarono, falsandone – anche lì – il senso, “sipario”. Il “Velante” (velario) era diventato per sempre il sipario. Il Separatore. Magari qualche attore forse avrà detto: “Guardate che dire ‘sipario’ è sbagliato!…”. Ma agli attori chi dà retta? Sono “attori”… E allora, qual è il mistero che anche se “svelato” rimane pur sempre “velato”? L’Uomo.

Il “mistero” è l’Uomo nel suo essere “fisico” ( non fisiologico). Fisico da physis, cioè il “sorgere che in sé è tramontare”, come dire, la vita che in sé è la morte, la luce che in sé è il buio… la finzione che in sé è il vero…

Per questo il Teatro racconta soltanto l’Uomo attraverso l’uomo. Per questo il Teatro è soltanto “fisico”. È soltanto “presenza fisica”. È proprio per la “presenza fisica” che certi attori “il pubblico li sta a sentire” e altri no. Ed è per questo che si dice che “attori si nasce”. Perché è la “natura di attore” che fa di quell’attore l’attore che “è” per “natura”… per “nascita di natura”. La parola “PHYSIS” i latini la tradussero con “NATURA”.

Senza “presenza fisica” il Teatro non c’è. Non ci può essere. È come fare sesso per telefono. Ci si può innamorare per telefono, eccitare per telefono o anche “via streaming”… Il sesso, però, ha bisogno della “physis”, ha bisogno dell’ “essere corpo”. Con tutti i suoi limiti carnali. Quei limiti lo rendono non “immortale” ma eterno.

Il Teatro è nato per sempre. Con lo spettacolo dell’Uomo. Dio stesso si è dovuto “fare uomo di carne” per la CATARSI DELL’UMANITÀ e rappresentarsi “fisicamente” come uomo sulla Croce. Sì, il Teatro è una “cosa bella”. Fatta di corpo. E “anche” di anima che si dice in greco “psyche” cioè alito, soffio, respiro. E l’anima-respiro serve per “dire”. Serve per il Logos che dice il “dio”. Lo Sguardo.

Il Teatro è un abisso dove si cade soltanto verso l’alto. Un mistero dove tutto è luminoso. Bisogna trattarlo con delicatezza, intimamente e semplicemente. Profondamente e misteriosamente amarlo per tentare di essere “presso” di lui. Per mettersi “sulla via”.

Parigi, esplode la rivolta nelle banlieue povere e “malate”

Mercoledì notte è stato dato fuoco a una scuola di Gennevilliers, periferia nord di Parigi, la banlieue più “calda”, anche durante l’epidemia di Covid-19. Nello stesso tempo nelle vicine Nanterre o Colombes, gruppi di giovani hanno sfidato la polizia lanciando oggetti e petardi. È stata la quarta notte di seguito di scontri nelle banlieue parigine. Anche a Aulnay o Clichy-sous-Bois, degli ordigni fabbricati con fuochi d’artificio sono stati lanciati contro gli agenti che pattugliavano i quartieri e dei cassonetti sono stati date alle fiamme.

Alcune decine di persone sono state fermate. Il governo minimizza: “Violenze inaccettabili, ma deboli, non c’è da preoccuparsi”, ha detto la portavoce Sibeth Ndiaye. Per Libération invece “la rivolta scoppia nei quartieri popolari”. Tutto è iniziato sabato a Villeneuve-la-Garenne: in un video si vede un uomo in moto da cross che precipita a terra dopo essere stato urtato dalla portiera aperta di un’auto. Riporta una brutta frattura a una gamba.

A bordo dell’auto dei poliziotti in borghese, che scendono per prestargli soccorso. Da versione ufficiale, gli agenti volevano effettuare un banale controllo: il motociclista circolava ad alta velocità e senza casco. Sulla fedina penale risultano 14 condanne per traffico di droga e violenze. Testimoni sostengono invece che i poliziotti avrebbero provocato l’incidente. È dall’inizio del lockdown che gli specialisti guardano preoccupati le banlieue povere di Parigi, le stesse che si erano “incendiate” nel 2005 e dove da allora poco è cambiato. Starsene “confinati” nelle cité, dove in pochi metri quadri vivono famiglie numerose, è più difficile che altrove. È qui che il virus è più presente. In Seine-Saint-Denis, dove vivono cassiere, infermiere o addetti alla nettezza urbana che non hanno mai smesso di lavorare, la mortalità è cresciuta del +63% a fine marzo. Nella regione di Parigi più di cinquemila persone sono morte di Covid negli ospedali.

Dall’ultimo bollettino, le vittime in Francia sono ormai 21.340 (13.236 negli ospedali, 8.104 nelle case di riposo).

 

Russia. In piazza si festeggia Lenin

Mosca rossa: 5 mila morti al giorno e dopo il Bolshoy rischia il museo Hermitage

Nessuno ha fermato i comunisti: bandiere rosse al cielo e mascherine in volto, hanno celebrato ieri nella Piazza Rossa a Mosca il compleanno di Lenin. Il virus continua però a strisciare e diffondersi: si registrano non più 4mila, ma 5mila nuovi malati ogni giorno, presto verrà superata la soglia funesta dei 60mila casi di contagi in Russia. Quasi 600 i decessi totali: tra i nomi dei morti per Covid-19 c’è quello del conosciuto arciprete Alexander Ageykin della Cattedrale Elokhov di Mosca e quello dell’urologo Maxim Starinsky, 56 anni, morto in servizio tra i reparti del Kommunarka, l’ospedale visitato all’inizio dell’emergenza dal presidente Vladimir Putin. Oltre 60 collaboratori e colleghi di Starinsky sono risultati positivi ai test. È un presente rosso quello che vive la Russia: rosso è il codice dei casi gravi nelle corsie degli ospedali saturi della Capitale, epicentro dell’epidemia, rossi i conti in banca dei cittadini che per la quarantena non vanno più al lavoro. Non si dipana solo l’emergenza sanitaria sotto il cielo plumbeo della Federazione, ma anche lo scontento cittadino per il lockdown, molte promesse politiche di soluzione e pochi rubli. Contro la contumacia domiciliare almeno 500 persone sono scese in strada a protestare tre giorni fa a Vladikavkaz contro la disoccupazione e la mancanza di informazioni certe e chiare sulla diffusione del Covid-19. In divisa blu e maschera azzurra sul volto sotto i caschi, i poliziotti hanno disperso i manifestanti arrestando i tre organizzatori della manifestazione. Proprio come il leggendario teatro Bolshoy a Mosca, adesso teme per la sua sede serrata anche il museo Hermitage a San Pietroburgo. L’arte russa chiede l’aiuto del Cremlino ad alta voce: “Lo Stato deve assicurarsi la sopravvivenza della cultura”, ha detto il direttore Mikhail Piotrovsky, preoccupato da casse e corridoi vuoti dell’istituzione, visitata da cinque milioni di turisti paganti ogni anno e ora deserta per la crisi in corso.
Michela AG Iaccarino

 

Brasile. Il più alto tasso di decessi

Migliaia di corpi e fosse comuni: l’Amazzonia chiama Bolsonaro Lui: “Io non sono un becchino”

Con 2.200 casi confermati e 200 decessi, lo Stato di Amazonas registra il più alto numero di morti e infetti per 1 milione di abitanti. A Manaus, capitale dell’Amazzonia brasiliana, si costruiscono fosse comuni chiamate “trincee” per seppellire le numerose vittime di Covid-19 nel cimitero pubblico Nossa Senhora Aparecida, nel distretto di Tarumã, zona ovest della capitale. Con oltre 100 morti al giorno nell’ultima settimana, nel cimitero non c’è più posto e la domanda di sepolture nella Capitale, cresciuta del 50%. Il sindaco, Arthur Virgilio Neto ha lanciato un appello al presidente Jair Bolsonaro: “L’Amazzonia ha bisogno di aiuto” che vuole portare anche al G7. Ma di tutta risposta alle lacrime del primo cittadino e di chi gli chiedeva quanti morti per lui fossero accettabili, il presidente del Brasile ha lanciato una provocazione: “Non sono mica un becchino”, ha detto. “Volevo dirgli che ci sono molti impresari di pompe funebri malati. Alcuni gravi”, ha controbattuto Neto. “Ho molto rispetto per loro. Non so se lui farebbe questo lavoro. Vorrei che assumesse le funzioni di vero presidente della Repubblica e uno di questi è quello di rispettare i becchini”, ha concluso il sindaco, aggiungendosi alla lunga lista di amministratori critici con la gestione della crisi Covid del presidente.

 

Stati Uniti. Vittime già a metà febbraio

Trump il magnate richiede gli aiuti di Trump presidente per pagare l’affitto dell’hotel

Donald Trump il magnate chiede sussidi al presidente Trump: succede anche questo nell’America ai tempi del coronavirus. La Trump Organization, di proprietà del presidente, ma gestita dal figlio Eric, chiede una dilazione del pagamento degli affitti che il Trump Hotel di Washington, ora vuoto causa epidemia, deve al governo federale: 268 mila dollari al mese, oltre 3 milioni di dollari l’anno. Ad accettare o meno la richiesta dovrà ora essere la General Services Administration (Gsa) dell’Amministrazione Trump: c’è puzza di conflitto di interessi. La Trump Organization sollecita aiuti pari a quelli garantiti ad altri affittuari federali, scrive il New york Times. Negli Stati Uniti, i morti per coronavirus martedì sono stati 2.700 circa: il totale delle vittime supera i 44 mila, i positivi sono oltre 825 mila – dati della Johns Hopkins University –. Il Cdc di Atlanta avverte che un’ondata di contagi autunnale potrebbe rivelarsi più letale della attuale perché cadrebbe nella stagione dell’influenza e le autorità sanitarie sconsigliano il mix di farmaci “propagandato” da Trump, l’anti-malarico idrossiclorochina e l’antibiotico azitromicina: insieme potrebbero risultare tossici. Nel frattempo, il presidente ha firmato il blocco temporaneo per 60 giorni dell’immigrazione, che – sostiene – aiuterà gli americani a trovare un lavoro. Venti Stati su 50 stanno per riavviare le attività; il Dipartimento della Giustizia minaccia cause agli Stati per eccesso di lockdown; e il Missouri si rivale sulla Cina per i danni causati dal coronavirus (“un’assurdità”, commenta Pechino). La data dei primi decessi per coronavirus negli Stati Uniti è stata anticipata di tre settimane: è stato infatti accertato che due persone morte il 6 e il 17 febbraio nella contea di Santa Clara in California avevano contratto il Covid-19, anche se allora non era stato loro diagnosticato. Finora, si pensava che i primi decessi fossero avvenuti dal 26 febbraio nello Stato di Washington.
Giampiero Gramaglia

“Suono il piano in salotto. E sogno i tortellini”

Una citazione come benvenuto, per Umberto Smaila: “Pensavo a uno spettacolo di Bramieri, Gli attori lo fanno sempre”. E? “Era sottinteso un abbraccio o un bacio sulla bocca”.

E non si può…

Appunto.

Oltre ai mancati baci, come sta?

Chiuso in casa a Milano da 50 giorni.

Ligio.

Per forza; (cambia tono) e non sono mica come altri colleghi che hanno parchi o piscine, io vivo in centro, in appartamento.

Dolore.

Potevo andare in montagna, ma i miei figli si sono rifiutati, lì non c’è Internet.

Da quanto tempo non stava così tanto fermo?

Mai, neanche quando mi sono rotto il femore: andavo a cantare su una sedia a rotelle.

Dà una mano in casa?

Zero. Nulla. Anzi, non è proprio previsto un mio intervento.

Viziato.

Ho una famiglia meravigliosa, e non scherzo e non voglio cadere nella retorica.

Ma…

Davvero, è bello ritrovare un clima del genere, seduti tutti e quattro a tavola per pranzo e cena. Una sana normalità.

Film?

La sera mi abbrutisco su Netflix.

Cosa vede?

Tutto, e accompagnato dal vino.

Quanto vino?

Mezza bottiglia, e ogni tanto pure un bicchierino di whisky o una buona grappetta.

Niente dieta.

Mi adeguo al volere della famiglia, va bene pure il salmone di mia figlia.

La sua funzione in casa.

Tengo alto il morale della truppa e suono il pianoforte; poi mio figlio posta sui social i brani che interpreto.

Primo appuntamento post-quarantena.

Voglio andare con la mia famiglia in un ristorante vicino Verona e mangiare i tortellini.

Altro che salmone.

Burro fuso, pepe e formaggio. E una bottiglia di Amarone.

Idee chiare.

E voglio tornare a suonare, voglio risentire il pubblico; di noi si parla pochissimo.

Per lo spettacolo dal vivo sono guai.

Enormi, e non siamo tutti come Elton John e Lady Gaga.

Cioè?

A quel livello possono campare di rendita, e bene, per almeno vent’anni, mentre c’è un mondo sotto che adesso non trova speranze.

Nello specifico?

Penso ai musicisti che lavorano con me, o a chi si occupa delle luci e del suono: dovranno cambiare lavoro.

Quante serate suonava in un anno?

Io? Almeno 150 e sparse durante i mesi, mentre la maggior parte dei cantanti lavora solo l’estate nelle feste di piazza.

Azzerate.

Per loro sono guai enormi e la lista di chi è nei guai economici è piena di nomi molto conosciuti, insospettabili per il pubblico.

@A_Ferrucci

I “test Orwell”: così l’università ci spia fino nelle mutande

“Il teleschermo riceveva e trasmetteva simultaneamente. Ogni suono che Winston emetteva sopra la soglia di un lievissimo sussurro, veniva captato; inoltre, finché restava nel campo visivo controllato dalla piastra metallica, poteva essere visto e ascoltato. Naturalmente non c’era modo di sapere se si era osservati in un dato momento”. La distopia con cui si apre1984è spesso ritenuta un’iperbole. Di recente ho appreso che colleghi della mia università usano un software molto particolare per risolvere il problema che si pone ormai a tutti i livelli dell’istruzione: come esaminare uno studente a distanza sincerandosi che non imbrogli (libri squadernati attorno al pc, post-it sul muro, pdf di appunti a mezzo schermo, browser per googlare le domande, mamme nascoste che mimano le risposte, smartphone che risolvono in tempo reale etc.). Nel caso degli esami universitari, poi, come sincerarsi che la persona nello schermo sia effettivamente il candidato che si è iscritto?

C’è un metodo artigianale: farsi mostrare a video la carta di identità, rinunciare agli esami scritti, impossibili da controllare, e provare a intuire dalle risposte orali se il candidato stia annaspando o ricorrendo ad ausili vietati; i più severi chiedono financo ai candidati di rispondere tenendo gli occhi chiusi. Ma questo è il passato: il futuro è appunto un gruppo di software dedicati al cosiddetto proctoring(nessun rapporto – almeno sul piano materiale – con dolorose ispezioni anali), già diffusi nelle piattaforme di università pubbliche e private d’Oltreoceano. Si tratta di programmi che in occasione di test ed esami scritti registrano tratti biometrici del candidato (fisici e comportamentali), nonché elementi del contesto in cui è inserito: riconoscimento facciale (per verificare in automatico la corrispondenza con la carta di identità, appositamente scansionata), velocità e ritmo di battitura sulla tastiera, esame costante del movimento di occhi e bocca, verifica di suoni o voci, apertura e intervento su browser files e applicazioni, in certi casi anche ricognizione diretta della stanza (anzitutto la scrivania e il circondario). Tutti i diversi software in circolazione penetrano dunque dentro microfoni, webcam e desktop dei computer degli studenti, ma si distinguono per il numero maggiore o minore di elementi la cui verifica è demandata a un controllore umano (sempre remoto e invisibile all’utente) piuttosto che a un sistema interamente automatizzato. L’obiettivo è quello di rilevare “eventi sospetti” (il più banale: guardare un punto fuori dallo schermo per più di 4 secondi due volte in un minuto), che vengono poi raccolti e giudicati da chi somministra il test per stabilire se l’esame sia valido o meno.

Sia chiaro: questi software si muovono in un perimetro di assoluta legalità, chiedono prima di avviarsi il consenso dello studente (che però non ha scelta, se vuole sostenere l’esame; pare tra l’altro che l’installazione imponga di disattivare vari antivirus), garantiscono che i dati saranno conservati “per il tempo necessario”, verranno criptati e anonimizzati, e non verranno venduti a terze parti. La crisi del Covid ha provocato un’esplosione di nuove richieste di questi sistemi di proctoring sia negli atenei americani (pur tra qualche mal di pancia: un gruppo di docenti di Santa Barbara li ha ripudiati come inaccettabili; un articolo sul Washington Post del 1° aprile ha censito episodi inquietanti) sia in Europa. Su programmi simili si lavora anche all’interno di progetti finanziati dal nostro ministero dell’Università (iLearn Tv Anywhere Anytime), con l’intento collaterale di interpretare le risposte emotive e cognitive degli studenti e valutare così l’efficacia dell’insegnamento.

Varie le reazioni possibili. Gli entusiasti rammentano che è ben difficile tramutare in forma orale un esame di Analisi matematica o di Econometria, e che i software livellano le differenze tra chi avrebbe un aiuto in casa e i meno provvisti. Gli scettici trovano che non abbia più senso somministrare test nozionistici, e che gli esami dovrebbero sondare non ciò che si può sapere in un clic (chi era Temistocle o l’assioma di continuità della retta) bensì la capacità di ragionamento o di problem-solving. Gli smaliziati osservano che, per quanto sempre più stagno, il proctoring è comunque aggirabile (Jake Binstein ha stilato sul web un rutilante elenco di metodi per “bucarlo”), e che non vale dunque la pena di dispiegare un’odiosa diffidenza verso gli studenti a causa di una minoranza di malintenzionati, che poi riesce magari a farla franca comunque.

I più inquieti hanno dubbi: la sola idea di una sorveglianza di questo tipo non influirà negativamente sulla serenità e la concentrazione dei candidati? E se le banche dati di questi software venissero hackerate? È mica vero che alcuni software creano filmati-gogna con gli esempi più comuni di tentativi di imbrogliare? In Cina, dove il riconoscimento facciale è una realtà dentro e fuori le università (fino a ieri criticavamo tale controllo dagli evidenti fini politici, si pensi agli Uiguri dello Xinjiang), chi passa col rosso vede la sua carta di identità esposta al pubblico ludibrio sui maxi-schermi degli incroci.

E certo, la resa al controllo privato è un fatto acquisito da tempo: i rassegnati ricordano che basta avere uno smartphone per essere sempre tracciabili (fantastico il battagliero pamphlet di Ca_Gi del collettivo Wu Ming, che peraltro elenca delle alternative concrete): ma ciò forse non giustifica che istituti d’istruzione pubblica ci obblighino ad aggravare la nostra posizione lasciando che ci spiino il fondo della retina. Nello specifico della didattica digitale basta leggere gli accordi siglati dal Miur (sotto ogni colore politico) con Microsoft, Google, Samsung, Fastweb etc. per sospettare che già oggi, usando Google Classroom o Hangouts Meet, Teams, Skype o Zoom, partecipiamo di fatto a quella “privatizzazione molecolare” che conferisce a colossi multinazionali una forma di monopolio sulla trasmissione del sapere. C’è poi il sovrammercato di atenei che – dopo aver appoggiato i loro servizi di posta elettronica interamente su Google Mail – hanno magari ceduto a Ibm i dati personali dei propri dipendenti e allievi.

Uno potrebbe temere, in altre parole, una crisi di sovranità digitale che rischia di riguardare il Paese nel suo complesso tanto quanto le vite di ciascuno. Perché non è solo che poi ti arrivano i pop-up pubblicitari ad personam. Anzi in fondo, tra gli usi dei nostri dati intimi (i movimenti degli occhi, le patologie pregresse, i poster in camera, i colloqui di lavoro andati male, i gusti politici o le capatine su YouPorn) quello commerciale è forse il più innocuo: cosa capiterebbe se dietro il telescreen orwelliano, manovrato 24/7 da mano pubblica, si celasse un giorno non un improvvisato proctor canadese con funzioni di cerbero, ma un vero e proprio “ministero dell’Amore”?

La nave-lazzaretto e i soldi agli amici: ideone a Trieste

Una nave-lazzaretto ormeggiata nel porto di Trieste per ospitare i vecchietti infettati dal Covid-19. Questa è l’ideona dei vertici del Friuli-Venezia Giulia, il presidente Massimiliano Fedriga e l’assessore regionale alla sanità Riccardo Riccardi, per fronteggiare la strage degli anziani che sta avanzando anche in quella regione. Non spoileratela ai loro omologhi della Lombardia, Attilio Fontana e Giulio Gallera, sennò quelli mandano i superstiti del Trivulzio e i sopravvissuti del Don Gnocchi su un barcone in Darsena o sui Navigli, con il sindaco Giuseppe Sala che offre l’aperitivo insieme a Nicola Zingaretti e il suo collega di Bergamo Giorgio Gori che porta il catering da Mimmo.

La nave individuata per l’operazione è la più grande della flotta Grandi Navi Veloci, gruppo Msc. Ora è ancorata nel porto di Genova, ma con le sue 400 cabine potrebbe essere riconvertita in nave-lazzaretto in una settimana, promettono a Trieste. Costo: 800 mila euro al mese d’affitto, più le spese di ristrutturazione, che potrebbe essere realizzata da Luxory Interiors Factory, società di Fincantieri guidata da Michelangelo Agrusti, ex politico riciclato in boss della Confindustria Alto Adriatico.

Il sinedrio politico del Friuli-Venezia Giulia non è ancora del tutto convinto di procedere verso la Barcolana del Covid-19, non tanto per l’opposizione della ex presidente della Regione Debora Serracchiani e del Pd, quanto per le proteste degli albergatori, che invece della nave hanno offerto le loro strutture, desolatamente vuote in tempi di lockdown. Dubbi sulla nave Covid sono stati sollevati del resto anche dal sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza, e dal presidente dell’Autorità portuale, Zeno D’Agostino.

La storia della nave-lazzaretto, seppur non dovesse andare in porto, ha comunque fatto capire anche ai più distratti almeno un paio di cose. Che in Friuli-Venezia Giulia la pandemia sta facendo molte vittime, anche tra infermieri e personale sanitario. E che tra Udine, Trieste e Pordenone le residenze per anziani si sono trasformate in luoghi di morte. Gli amministratori pubblici che dovevano garantire la sicurezza dei nonni loro affidati e del personale hanno fallito anche qui. Non senza qualche curioso cortocircuito politico-affaristico. Il personale delle cooperative che lavorano nelle case per anziani gira di struttura in struttura, con la possibilità di diffondere il contagio. Tra le imprese che forniscono addetti in questo settore c’è la Euro&Promos Social Health Care, che appartiene al gruppo Euro&Promos, il quale è attivo anche nella sanificazione di strutture ospedaliere e case di riposo in Fvg e in tutta Italia. Chi controlla il 40 per cento della Euro&Promos? Sergio Emidio Bini, assessore regionale alle attività produttive della giunta Fedriga. Il suo collega, l’assessore Riccardi, è fiero di aver preso una decisione rapida: ha stanziato quasi 1 milione (930 mila euro, per la precisione) per le cooperative sociali. “Contributi erogati a tempo di record”, esulta in un comunicato. “La liquidazione dei contributi regionali è avvenuta quest’anno in tempi rapidissimi per dare ossigeno alle cooperative sociali che attualmente versano in una condizione di ridottissima liquidità. La rapidità dell’intervento è stata resa possibile anche grazie allo snellimento dell’iter tecnico-amministrativo a opera degli uffici competenti del servizio, che ha operato con efficienza e disponibilità”.

Chissà se il suo collega di giunta, Bini, lo ha ringraziato per la parte dei soldi che sono finiti alle coop del suo gruppo.

Sono pure i dati a puntare il dito sulla Lombardia

A nessuno può far piacere che la Lombardia, la “locomotiva” dell’Italia, la regione più ricca e più forte, abbia conquistato il primato negativo in questa emergenza sanitaria provocata dall’epidemia di coronavirus. Né tantomeno fa piacere a un meridionale che ha vissuto e lavorato a Milano per dieci anni, e da buon “terrone” è rimasto attaccato all’ex “Capitale morale”. Ma i dati purtroppo parlano chiaro. E assegnano alla regione che è la roccaforte della Lega una serie di record nient’affatto encomiabili.

Non si tratta soltanto del numero complessivo dei morti, 12.579 su un totale nazionale di 24.648 alla data di ieri, più della metà. Uno studio rigoroso pubblicato sul sito lavoce.info, a firma del professor Paolo Frumento e del professor Mauro Sylos Labini, il primo docente di Statistica e l’altro professore associato di Economia presso l’Università di Pisa, parla di un “effetto Lombardia” che ha colpito innanzitutto la popolazione della regione e di conseguenza tutto il Paese. E registra quello che, nella lugubre contabilità dei numeri, viene definito tecnicamente un “eccesso di mortalità”.

In Lombardia, secondo i dati della Protezione civile aggiornati al 19 aprile, quei dodicimila e passa decessi corrispondono a quasi uno in più (0,99) per ogni mille abitanti rispetto al resto d’Italia. È una differenza, come scrivono senza acrimonia i due docenti, “dovuta alla gestione regionale e al suo sistema socio-sanitario”. Un confronto che, da un lato “riflette fattori, come la localizzazione geografica dei primi focolai e il loro mancato isolamento, che esulano – almeno parzialmente – dalle responsabilità della regione”. Dall’altro lato, però, “è purtroppo probabile che il dato della Protezione civile sottostimi il vero numero di morti e che l’errore sia superiore proprio nelle regioni – come la Lombardia – dove il virus si è diffuso di più”.

Per fare una verifica, lo statistico e l’economista dell’Università di Pisa hanno utilizzato i dati Istat – più affidabili – sulla mortalità, riconducibile a qualunque causa, nel periodo 1°marzo-4 aprile in un gruppo di 1.689 comuni lombardi. E in particolare, hanno confrontato le differenze rispetto all’anno precedente in 204 comuni vicini al confine regionale, distinguendo quelli che si trovano esattamente sul confine (banda 1) e quelli contigui (banda 2). In entrambe le aree, il cosiddetto “eccesso di mortalità” risulta più alto rispettivamente di 0,39 e 0,92 per mille abitanti in confronto al resto d’Italia. “Potrebbero sembrare differenze piccole – avvertono gli stessi studiosi – ma se le si estendono a tutta la regione, si traducono in un ‘effetto Lombardia’ che va dai 4mila ai 9mila morti”.

Quali sono le spiegazioni possibili? La risposta sta verosimilmente nel rapporto con le regioni confinanti. Le differenze di mortalità in eccesso sono molto marcate rispetto a Emilia-Romagna e Veneto, mentre appaiono più contenute rispetto a Piemonte e Trento. In confronto alle prime due, la Lombardia ha circa la metà dei pazienti trattati in assistenza domiciliare integrata e quindi una maggiore propensione al ricovero ospedaliero: e questo, secondo il virologo Giorgio Palù, consulente della Regione Veneto, potrebbe “dipendere anche dall’alta proporzione di strutture sanitarie private”. C’è motivo per sospettare, insomma, che un ruolo importante l’abbia giocato “la decisione della Lombardia di curare i pazienti cronici in ospedali e strutture socio-sanitarie, invece di prediligere la medicina di comunità”. Un ulteriore elemento, segnalato nello stesso studio, riguarda infine la strategia e il numero dei tamponi: 5 per ogni caso registrato in Veneto, 5,2 in Emilia-Romagna, solo 3,7 in Lombardia. Tutto ciò mentre il 27 febbraio il leader della Lega, Matteo Salvini, voleva “aprire tutto”, poi voleva “chiudere tutto” e ora vuole “riaprire tutto” all’insegna del federalismo sanitario.

Che cosa significa (oggi) “Resistenza”

Sono passati 75 anni, tantissimi, il tempo di tre generazioni: la maggior parte dei protagonisti non c’è più e non c’è più il racconto, quello che parla all’emozione prima ancora che alla ragione. Inutile nascondercelo: per i più giovani la Resistenza è un’esperienza lontana che conoscono appena, per la generazione di mezzo un ricordo più o meno sbiadito. Basta guardare le piazze sempre più rade e rituali del 25 Aprile (e quest’anno nemmeno quelle) per capire che la memoria sta sfumando e che a coltivarla sono rimasti in pochi.

Perché, allora, insistere a commemorare e a parlarne ancora? Perché il significato di “Resistenza” va ben al di là del periodo storico al quale si riferisce. In quanto fenomeno di opposizione armata all’occupazione tedesca e al regime di Salò, il 1943-45 è stato oggetto di diverse interpretazioni storiografiche che si sono susseguite nel corso dei decenni: per gli studiosi liberali, quarta guerra di indipendenza che si ricollega alla tradizione patria risorgimentale e al volontariato che ne ha caratterizzato tante pagine; per gli studiosi comunisti, guerra di popolo che ha le sue avanguardie sociali nelle lotte degli operai del marzo ’43, le avanguardie militari nelle brigate “Garibaldi” e nei Gap, le avanguardie politiche nel ruolo dei comunisti nei comitati di liberazione nazionale; per la scuola azionista, una grande occasione mancata di rottura e di rigenerazione morale, dove le spinte al rinnovamento vengono spente dallo sforzo di rapida normalizzazione; per i maestri più attenti alla complessità dei fenomeni, come Norberto Bobbio e Claudio Pavone, un intreccio di guerra sociale, guerra di liberazione e guerra civile, che spesso coesistono nella coscienza dei singoli combattenti.

Lasciamo queste interpretazioni alla storia della storiografia e agli approfondimenti universitari. Per rivolgersi ai più giovani servono altri spunti. Proviamo a proporne due. Primo: le derive contro le quali hanno combattuto i partigiani non sono vergogne irripetibili, ma rischi sempre attuali. “Tutto questo è accaduto, dunque può ancora accadere”, scriveva Primo Levi. Dietro il sistema concentrazionario, le camere a gas, lo sterminio di massa, i forni crematori c’era la Germania degli anni 40, la nazione con il più alto tasso di alfabetizzazione al mondo, dove si erano formati Bertolt Brecht, Thomas Mann, Albert Einstein, dove da due secoli si studiavano i valori dell’uomo (da Kant in poi i maggiori filosofi, filologi, storici, artisti sono stati tedeschi). Eppure, in pochi anni, il totalitarismo ha trasformato un popolo di tedeschi in un popolo di nazisti che per convinzione, per viltà, per indifferenza hanno collaborato e taciuto sino alla fine. È questa la forza feroce dei totalitarismi, la capacità di plasmare le generazioni controllando l’educazione e l’informazione e mettendo a tacere le voci discordanti. “I nostri aguzzini non erano mostri, non erano uomini geneticamente tarati – sono ancora parole di Primo Levi –. Erano come noi: ma erano stati educati male”: e una cattiva educazione li aveva portati a credere lecito e legittimo ciò che oggi suscita orrore. Per questo, se “tutto ciò è accaduto, può accadere ancora”.

Secondo spunto, legato al primo. Ciò che significa “resistenza” l’ha espresso al meglio un pastore tedesco, Martin Niemöller (che, peraltro, non si riferiva alla lotta partigiana, ma alle colpe del silenzio): “Hanno portato via gli ebrei e non ho detto nulla perché non ero ebreo;/ poi hanno portato via i comunisti e non ho detto nulla perché non ero comunista;/ poi hanno portato via i sindacalisti e non ho detto nulla perché non ero un sindacalista:/ poi hanno portato via me, e non c’era più nessuno che potesse dire qualcosa”. “Resistenza” significa questo: fare in modo che ci sia qualcuno che può ancora dire qualcosa. È questo il valore profondo del 25 Aprile: chi allora ha scelto la “montagna”, chi ha resistito con le armi o senza le armi, ha testimoniato un modello di valori diverso da quello imposto, ha fatto in modo che ci fosse ancora qualcuno in grado di dire qualcosa. Si possono fare mille distinguo sul ruolo militare della lotta partigiana, relativizzandone importanza strategica e consistenza numerica: ma non se ne può ridimensionare il valore morale. E non si può ignorare l’attualità di quel messaggio.

“Resistere” è un concetto più volte evocato in anni recenti, di fronte a rischi di deriva democratica veri o presunti. Ma per “resistere” non bisogna aspettare la pressione dell’emergenza. “Resistere” significa avere coscienza di sé, capacità di discernere e giudicare senza condizionamenti, libertà di pensiero, coraggio di parola. “Resistere”, in fondo, è un modo di essere: come tale, si addice alle generazioni che hanno ascoltato i racconti partigiani, ma altrettanto a quelle che hanno poca dimestichezza con le memorie passate e piuttosto che il 25 Aprile ricordano l’11 settembre.