Ecco i “dimenticati” della cassa in deroga: in tre milioni a secco

Con le attività serrate da marzo e in attesa del nuovo decreto di “aprile” (che arriverà a maggio), i lavoratori senza più lavoro che non possono richiedere la normale cassa integrazione dovranno tirare la cinghia minimo per altri 40 giorni prima di vedere un po’ di quattrini. Sono quelli delle micro imprese, i commercianti, gli artigiani e i negozianti con più di 5 dipendenti, vale a dire i tre milioni di invisibili degli ammortizzatori sociali che aspettano di ricevere la cassa integrazione in deroga, riconosciuta per 9 nove settimane. Ma una procedura tortuosa e svariati passaggi amministrativi tra le Regioni e l’Inps l’hanno trasformata in una via crucis. Risultato: neanche uno degli assegni è partito.

I lavoratori hanno solo assistito agli svariati annunci che, di fatto, hanno ritardato di settimana in settimana la fatidica data del pagamento. Il primo annuncio c’è stato il 16 marzo, quando il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha spiegato che le misure previste dal “Cura Italia” – 10 miliardi di euro a copertura della cassa integrazione – sarebbero state pagate entro il 15 aprile. Colpa anche della solita cattiva comunicazione che ha spiegato tardi e male che fino a quando le Regioni non attiveranno le procedure di raccolta delle domande, per poi inviarle all’Inps, i lavoratori continueranno a restare senza soldi. Con un rimpallo di responsabilità tra gli enti locali, la politica e l’Istituto di previdenza. Come successo in Lombardia, dove il governatore Attilio Fontana due settimane ha chiesto al governo di mettere in pagamento la cig in deroga senza aver però presentato richiesta all’Inps. “E la Regione si è attivata solo venerdì scorso, insieme ad Abruzzo, Calabria, Liguria, Molise, Piemonte e Valle d’Aosta, presentando le prime 37 domande”, spiega la presidente del Consiglio nazionale dei Consulenti del Lavoro, Marina Calderone. Mancano all’appello le province autonome di Trento e di Bolzano.

Insomma, 21 diversi accordi, 21 diverse tempistiche e 21 diverse procedure hanno determinato lungaggini burocratiche che, al momento, non possono dare certezze a oltre 3 milioni di lavoratori che dovranno continuare a pazientare fino a fine maggio in attesa che le pratiche vengano esaminate, autorizzate e poi liquidate dall’Inps. I consulenti spiegano che tra le Regioni che si stanno muovendo più velocemente ci sono l’Emilia-Romagna con 1.355 pratiche lavorate, il Veneto (oltre 850) e le Marche (oltre 2.600). Il Lazio svetta per il numero di domande presentate: 25.600 di cui poco più di tremila quelle autorizzate e 372 quelle pronte all’erogazione.

Il calvario dei disperati in attesa della cassa integrazione in deroga non è stato neanche alleviato dalla convenzione tra l’Inps e l’Associazione bancaria italiana (Abi) per anticipare 1.400 euro. Dopo aver aspettato tre settimane tra l’annuncio dell’accordo, la firma e poi l’effettiva presentazione dei moduli nelle filiali, sono solo un migliaio i lavoratori che sono riusciti a ottenere i soldi. “Come può funzionare questo aiuto se le banche chiedono tra i documenti anche un modello dell’Inps che viene predisposto solo dopo l’autorizzazione alla stessa cig in deroga?”, chiedono i consulenti del lavoro.

Decisamente meglio va ai lavoratori in cassa integrazione ordinaria. “Su una platea di 4 milioni di lavoratori, 2,8 hanno già ricevuto il pagamento. Gli altri dovrebbero riceverlo entro il 30 aprile”, ha annunciato ieri la ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo. La speranza è l’ultima a morire.

La Ue oggi prenderà tempo Il litigio: sussidi o prestiti?

Oggi al Consiglio europeo gli Stati membri daranno sostanzialmente un calcio al barattolo per guadagnare qualche settimana: se pare esserci consenso sulla creazione di un Recovery Fund legato al prossimo Bilancio Ue – e senza il quale la Francia non firmerà le conclusioni del vertice – su come dovrebbe funzionare e finanziarsi, invece, lo scontro tra le due fazioni in cui si sono divisi i Paesi Ue prosegue e assai duramente. La videoconferenza a cinque di lunedì pomeriggio – in cui Giuseppe Conte s’è confrontato con Emmanuel Macron (Francia), Pedro Sánchez (Spagna), Mark Rutte (Olanda) e Angela Merkel (Germania) – ha segnato un passo avanti se non altro dal punto di vista dei rapporti personali: il belga Charles Michel aveva tentato di organizzare la stessa riunione due settimane fa, ma l’Italia aveva declinato l’invito. Ora si è tornati a parlarsi, ma i passi avanti restano a un livello puramente nominalistico: Merkel ha accettato, lasciando isolato Rutte, di dar vita al Fondo europeo per la ripresa proposto da Macron. Le consonanze finiscono qui, tanto è vero che oggi non sarà presa alcuna decisione: si darà mandato alla Commissione di elaborare proposte sul funzionamento del Fondo, un modo per prendere tempo e vedere se viene fuori un accordo o se, magari, la situazione sui mercati (spread) costringe i ribelli a più miti consigli.

Nel merito, la “grande spaccatura” di cui ha scritto ieri anche la Reuters è riassumibile in un due parole: elargizioni (grant) o prestiti (loan) e quanto delle une o degli altri? I punti ancora da discutere sono molti: di che dotazione parliamo? Sarà debito perpetuo o a lungo termine (e quanto)? Emesso da chi e garantito in che modo? Assegnato pro-quota del Pil o sulla base dei danni da Covid-19? Tutte cose su cui le opinioni dei vari Paesi divergono, e non poco, ma il punto centrale è il dilemma tra sussidi e prestiti: i primi, proposti da Spagna e Italia (vedi il ministro Gualtieri ieri al Financial Times), sono necessari ai Paesi del Sud per non ritrovarsi sotto la scure dei vincoli Ue non appena sarà revocata la sospensione del Patto di Stabilità; i prestiti, che incidono sul rapporto debito-Pil, sono lo strumento con cui i Paesi del Nord vogliono garantirsi il controllo sulle scelte politiche dei più deboli. Una soluzione che vada bene a tutti è difficile e, storicamente, è sempre stato il blocco tedesco a prevalere con l’appoggio della Francia.

Insomma, sul tavolo restano – già approvati (“Evitiamo rigidità astratte”, s’è raccomandato il Quirinale col governo) – i prestiti più o meno condizionati del Meccanismo europeo di stabilità, della Banca europea degli investimenti e del programma anti-disoccupazione “Sure”, più la speranza di un accordo sul Recovery Fund che nel migliore dei casi ci vorranno mesi ad attivare: per questo l’Italia si pone il problema, da settimane e su spinta del Tesoro, di un meccanismo-ponte al momento non ancora definito, specie se – come continua a dire Conte – non si vuole ricorrere al Mes.

Questo lavorio europeo su strumenti alternativi alla normale emissione di titoli sul mercato, in un momento in cui la Bce si è impegnata a comprare tutto per mesi, sta togliendo efficacia all’azione della stessa banca centrale con l’aumento degli spread: gli investitori paiono prezzare la possibilità che si scelga una via – quella dei prestiti con effetto stigma su chi li richiede – che comporti prima o poi una rottura traumatica dell’Eurozona o la ristrutturazione del debito per alcuni Paesi.

Per l’Italia non tira una bella aria. Ieri gli analisti di Goldman Sachs hanno diffuso una nota agli investitori proprio sull’Italia: “Sosteniamo che la probabilità di downgrade del rating sui titoli di Stato è aumentata” a causa della crisi da Covid-19, ma “è la risposta politica dell’Ue la chiave che determinerà la mossa dalle agenzie di rating”. Non ci sarà da attendere molto: Standard&Poor’s deciderà domani, Moody’s e Drbs l’8 maggio, Ficht a luglio. È improbabile che tutte ci portino al livello “spazzatura” e, in ogni caso, la Bce ha iniziato a comprare anche titoli junk, ma – sottolinea Goldman – in caso di downgrade “fino a 100 miliardi” di debito italiano già sul mercato potrebbe essere venduto causando un crollo dei prezzi e un aumento dello spread.

Se la Bce non fa sapere pubblicamente che non lo permetterà, magari indicando una soglia di spread ritenuta invalicabile, il governo italiano tra poco non sarà in condizioni di scegliere liberamente quale strada prendere.

Adesso al Mose manca un altro miliardo

In Laguna è scoppiata la guerra tra gli amministratori straordinari del Consorzio Venezia Nuova Giuseppe Fiengo e Francesco Ossola, il commissario Elisabetta Spitz nominata per sbloccare i cantieri del Mose e il Provveditore alle opere pubbliche del Triveneto, Cinzia Zincone. Se le stanno suonando a colpi di lettere, memorie, accuse e repliche, su costi delle consulenze, bilanci consuntivi, soldi che non ci sono e possibilità di concludere entro dicembre 2021 la colossale opera.

L’ultimo capitolo è un documento che Fiengo e Ossola definiscono una “bozza di lavoro”, ovvero “Scenari di produzione esercizio 2020 e a finire”, il calcolo più attuale su disponibilità e risorse da impiegare. Il commissario Spitz lo ha subito definito un documento ufficiale proveniente dai due amministratori nominati dopo gli scandali, con il beneplacito dell’Anac. Intanto la Zincone risponde a colpi di mail alle accuse dei parlamentari 5S secondo cui la sua proposta di un Settimo Atto aggiuntivo diventerebbe un colpo di spugna sugli errori e le ruberie delle imprese (Mantovani, Condotte e Fincosit) che si spartirono lavori e distribuirono tangenti.

La bozza di conto economico formalizza ciò che Il Fatto aveva rivelato ai tempi dell’acqua altissima di novembre. Ovvero, che il Mose alla fine costerà più di 6 miliardi di euro. La più grande delle incompiute. Finora sono stati spesi 5 miliardi e 93 milioni di euro, a fronte dei 5,493 miliardi da anni stati fissati dal governo come costo totale. Gli amministratori hanno (teoricamente) un credito di 413 milioni dai residui (soprattutto finanziari) dei contributi previsti dallo Stato negli ultimi 15 anni e che andrebbero destinati a lavori (286 milioni), studi, e accantonamento per rimborsi e imprevisti (76 milioni).

A questi si aggiunge una previsione di altri 390 milioni per le spese di avviamento, di cui solo 100 stanziati. In una tabellina vengono sintetizzate le risorse che devono essere prodotte e contabilizzate per ultimare il Mose e avviarlo: 752 milioni nel 2020, 167 nel 2021, 109 nel 2022, 61 nel 2023 e 10 nel 2024. Il totale di quanto manca da spendere (a partire dai 5 miliardi 93 milioni già spesi) è quindi un miliardo 101 milioni (818 milioni per lavori). Il costo finale raggiunge così i 6 miliardi e 194 milioni, a cui però bisogna togliere – extra progetto – i 390 milioni dell’avviamento. Se i soldi arriveranno tutti, l’opera sarà ultimata e collaudata, altrimenti dovrebbero essere lasciate da parte alcune voci di spesa. Commento di Fiengo: “I calcoli sono per ora una bozza e comunque in linea con la previsione del Cipe del 2012”.

“Carabinieroni” per Pignatone. Quella frase Fuzio-Palamara

Era una manciata di secondi che mancava, nell’intercettazione tra il pm romano Luca Palamara e l’ex presidente della Corte di Cassazione Riccardo Fuzio. Ora che c’è, si sta trasformando in un dettaglio interessante dell’inchiesta, ormai conclusa, che vede i due magistrati accusati di violazione del segreto istruttorio. Per la procura di Perugia, Fuzio rivelò a Palamara dettagli sull’inchiesta che lo riguardava. É un filone nato dall’indagine, anch’essa ormai conclusa, che vede Palamara indagato per corruzione con l’imprenditore Fabrizio Centofanti e che, la scorsa primavera ha costituito un autentico terremoto per il Csm (si sono dimessi cinque consiglieri) e per la stessa nomina del futuro procuratore di Roma.

L’audio tra le 21.53 e le 21.58 del 21 maggio scorso è stato – in gran parte lo è tuttora – classificato dal Gico della Guardia di Finanza come “rumori”. In effetti il fruscio è altissimo. La difesa di Palamara – assistito dagli avvocati Benedetto e Mariano Buratti e Roberto Rampioni – aveva chiesto di trascrivere quella manciata di secondi mai verbalizzata. Il Gico della Gdf – con gli strumenti del Ris dei Carabinieri – ha coperto la falla. C’è quindi una trascrizione inedita. Il Fatto ha ascoltato l’audio e rilevato delle potenziali difformità con la trascrizione del Gico. Invece della parola “carabinieroni” sembra che si dica il nome dell’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone. In un’altra frase sembra che si parli del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il cui nome, nella trascrizione del Gico non c’è.

“A nostro avviso esiste una difformità tra l’audio e la trascrizione – sostiene la difesa di Palamara ed effettivamente i nomi da voi citati rientravano nel colloquio tra Fuzio e Palamara”. Non si tratta peraltro dell’unica divergenza tra accusa e difesa: secondo gli avvocati di Palamara, la contestazione sulla ristrutturazione dell’appartamento di Daniela Attisani, legata a Palamara, della quale l’accusa ha acquisito i documenti, si basa su “fatture palesemente false”. Ma torniamo all’intercettazione mai trascritta prima.

Ecco la versione del Gico.

Fuzio: alla fine hanno definito male (…) in che senso… perché hanno già fasciato la testa …ma perché è per venire fuori

P: uhm… carabinieroni

F: no… che cosa sono

P: eh be

F: no ricollegandola probabilmente a…

P: ma loro lo fanno sai

F: il 6 o il 7 agosto? … di più

P: non lo so

F: non ho capito… prima mi avete detto di farla presto… di farla presto… mo se la facciamo presto dice… perché si sono spaventati di questo fatto che può venire fuori uno sputtanamento su di te … ma nessuno l’ha mai detta questa storia di Fava, perché Fava è fermo… non è che chi è figlio….

Questa è l’altra – secondo la difesa di Palamara verosimile – versione.

F: alla fine hanno definito male…perché hanno… nel senso… che… la verità ma purtroppo può venire fuori

P: quella di Pignatone dici?

F: no (interlocutorio)…

P: mbe

F: ricollegandola probabilmente alla storia di Pignatone (poi sembra che dica Amara)

P: Erbani

F: sì però questa cosa di Mattarella è dopo… Mattarella mi avete detto di farlo presto… perché si sono spaventati di questo fatto che può venire fuori uno sputtanamento su di te … ma nessuno l’ha mai detta questa storia di Fava, perché Fava è fermo… non è che chi è figlio….”.

Se invece di “carabinieroni” leggiamo Pignatone, il passaggio diventa interessante: evoca l’esposto che il pm Stefano Fava aveva presentato al Csm su Pignatone. Se così fosse sarebbe interessante capire perché Fuzio e Palamara ne stessero parlando.

Eni, il risiko offshore e il condono fiscale dall’Olanda “cattiva”

Cayman, Bahamas, Bermuda, Singapore, Jersey, Isole Vergini Britanniche, Trinidad e Tobago, Dubai. E poi i paradisi fiscali dietro casa: Olanda, Irlanda, Belgio, Lussemburgo, Cipro, Malta. È la lista delle piazze offshore mondiali in cui ha sede la principale azienda controllata dallo Stato italiano, Eni. Un elenco che mostra in modo chiaro il paradosso della competizione fiscale interna all’Unione europea. Il gigante petrolifero guidato da Claudio Descalzi, appena confermato dal governo Conte per altri tre anni come amministratore delegato, finora ha preferito pagare le tasse in Irlanda e in Olanda piuttosto che versarle nelle casse del suo azionista di maggioranza, lo Stato italiano. Tutto legale, ma quantomeno schizofrenico viste le recenti invettive di alcuni membri del governo contro i paradisi fiscali europei, oggi accusati di attirare nei loro Paesi le nostre multinazionali con aliquote da zero-virgola sottraendo così miliardi all’erario. Proprio il meccanismo di cui ha beneficiato finora Eni.

È tutto raccontato dall’associazione Tax Justice Italia in uno studio che uscirà su Fq Millennium, in edicola il 16 maggio. Una ricerca basata su dati forniti dalla stessa Eni, tra le pochissime società al mondo ad aver pubblicato il country by country report, lista di tutti i Paesi in cui una multinazionale è presente, con relative cifre economiche e numero di dipendenti. I dati di Eni dicono che nel 2018 il gruppo aveva 10 controllate registrate nelle più note Piazze offshore. Nei documenti ufficiali la società dice di non essere coinvolta in programmi di “pianificazione fiscale aggressiva”: sei delle dieci controllate offshore, ha spiegato Eni a Tax Justice Italia, vengono in effetti tassate in Italia mentre le altre quattro, pur avendo sede in un paradiso fiscale, non ottengono per questo vantaggi, tant’è che l’Agenzia delle Entrate non ha avuto nulla da dire. Perché allora l’accusa di sottrarre denaro all’Italia?

Se è vero che il gruppo ha solo 10 filiali in Paesi che la legge da noi considera paradisi fiscali, è anche vero che nel computo non sono incluse le oltre 50 società sparse tra Irlanda e Olanda. Ad Amsterdam e Dublino, Eni ha registrato decine di succursali che dichiarano pochi dipendenti e parecchi profitti. I servizi svolti da queste filiali potrebbero essere trasferiti in Italia, sostiene Tax Justice Italia, così Eni contribuirebbe maggiormente al bilancio dello Stato in un momento come questo, in cui c’è enorme bisogno di denaro da investire per contrastare la crisi innescata dal coronavirus.

In Irlanda Eni ha piazzato ad esempio la società che fornisce servizi di assicurazione interni al gruppo. Un business che nel 2018 ha garantito profitti per 51 milioni di euro, sui quali l’azienda ha pagato il 12,5% di Ires (imposta sul reddito delle società), quasi la metà rispetto all’Italia. Buona parte delle filiali offshore di Eni si trova però in Olanda, il più acerrimo nemico della mutualizzazione del debito comune europea chiesta adesso dal governo italiano. L’Olanda è stata scelta anni fa come uno degli hub finanziari dell’azienda oggi guidata da Descalzi. Al 1725 di Strawinskylaan, in un grattacielo a sud di Amsterdam, sono infatti registrate 53 società del gruppo. Filiali che fanno esplorazioni petrolifere in mezzo mondo. Tutte piazzate lì per pagare meno imposte possibile? Eni ha garantito a Tax Justice Italia che in alcun modo queste società sono basate in Olanda per ottenere un risparmio fiscale. Il rapporto cita però alcuni fatti. Nel 2017 la multinazionale italiana ha registrato ad Amsterdam profitti per 248 milioni di euro, e su questi ha pagato 4,8 milioni di imposte. Insomma, l’aliquota effettiva con cui sono state tassate le filiali olandesi di Eni è stata pari all’1,94%. Inoltre buona parte delle 53 società sono scatole vuote: impiegano in totale 69 persone, una media di meno di due lavoratori per ogni filiale.

A differenza di Piazze offshore come le Cayman o le Bermuda, nei Paesi Bassi l’Ires non è per niente contenuta: teoricamente le aziende pagano un’aliquota del 25 %, superiore persino a quella italiana. Eppure grazie a una serie di incentivi (imposte minime su dividendi, plusvalenze, sfruttamento di marchi e brevetti), la tassazione effettiva delle multinazionali può arrivare a livelli minimi. In più, se una società ha accumulato perdite nel tempo, gli eventuali profitti registrati quell’anno vengono compensati: una possibilità concessa da diverse nazioni del mondo, ma dall’Olanda in modo più generoso dato che è permesso utilizzare per molti anni le perdite pregresse con lo scopo di abbattere il carico fiscale di un’impresa. Un’opzione sfruttata proprio da Eni. Si legge in fatti nello studio di Tax Justice Italia che Eni International BV, la holding olandese dell’azienda di Stato italiana, grazie a questa possibilità potrebbe evitare di pagare imposte sul reddito fino al 2027. Secondo Gabriel Zucman, tra i massimi esperti mondiali di paradisi fiscali, ogni anno l’Italia a causa delle sole Piazze offshore europee perde circa 6,5 miliardi di euro in gettito fiscale. Di questi, un miliardo va in fumo grazie alle generosissime politiche riservate dal governo olandese alle multinazionali. A beneficiarne sono aziende di tutto il mondo, comprese tante italiane tra cui Fca e Ferrari, Mediaset, Campari, la Cementir di Francesco Gaetano Caltagirone. Imprese totalmente private, che hanno come primo obiettivo il profitto dei propri azionisti e che dunque sfruttano come possono gli escamotage legali per pagare meno tasse. Eni è invece una controllata dello Stato italiano. Ogni euro tolto alla fiscalità italiana è una perdita per il suo azionista principale. Lo stesso governo che ora chiede all’Olanda di non essere più un paradiso fiscale.

Ora Accentrare le decisioni sul 41bis

Quando la pandemia sarà esaurita, faremo il conteggio finale dei morti. Col tempo tutti i numeri perdono importanza. Rimarranno nel ricordo, invece, i sanitari che hanno sacrificato la vita per curare gli altri e gli anziani che sono morti in solitudine. E poi temo (ma così spero non sia) che nel ricordo possano rimanere anche i mafiosi detenuti al 41 bis mandati ai domiciliari. Come Francesco Bonura (boss palermitano già a capo della “famiglia” dell’Uditore) nei cui confronti un giudice di Milano, anticipando per asserite ragioni d’urgenza il Tribunale competente, ha preso una decisione che qui si discute per le possibili ripercussioni.

Intendiamoci: l’aggrovigliarsi di questioni tutte complicate rende il problema tremendo . Il mafioso, per giuramento di fedeltà, se non si pente conserva lo status di “uomo d’onore” fino alla morte. Gli “irriducibili” non pentiti, perciò assoggettati al 41 bis, restano convinti di appartenere a una “razza” speciale, quella appunto degli uomini d’onore (gli altri sono individui da assoggettare). Il 41 bis segna la fine di un “mostrum”: criminali sanguinari che stavano in galera come in un grand hotel da dove continuavano a comandare. Per Cosa nostra la sorte dei boss condannati è da sempre una ferita aperta. Pentitismo e 41 bis sono da eliminare (Riina si sarebbe “giocato anche i denti”) e la riprova sta nella sentenza di primo grado sulla “trattativa”. In vari modi (alcuni documentati in quanto sventati da Alfonso Sabella quand’era al Dap) si è cercato di estendere ai mafiosi “dissociati”, non collaboranti, i benefici per i terroristi. Il 41 bis, dopo una fase iniziale di giusto rigore, è stato poi sensibilmente ridimensionato. Nuove speranze in tal senso hanno suscitato (al di là delle intenzioni) le sentenze sull’ergastolo ostativo della Cedu e della Consulta. Il sovraffollamento che opprime le carceri (senza però investire il 41 bis) si è aggravato col Covid 19. Una circolare del Dap del 21 marzo scorso ha chiesto ai direttori delle carceri di indicare all’autorità giudiziaria i detenuti over 70 e quelli con patologie rientranti in un elenco di nove voci, e qualcuno ha pensato di potervi leggere come una sorta di “lista d’attesa” per i domiciliari in emergenza coronavirus (il Dap ha però chiarito che si tratta di un semplice monitoraggio, e del resto il ministro Bonafede aveva già escluso a suo tempo ogni scarcerazione di mafiosi).

In sostanza, intorno al pianeta carcere si affollano opposte esigenze: assicurare che la pena sia effettivamente espiata per i delitti più gravi; tutelare la salute di tutti i detenuti (e del personale) anche in situazioni di emergenza pandemica; garantire la sicurezza della collettività pure in caso di scarcerazione di pericolosi detenuti, tenendo presente che il 41 bis potrebbe essere la punta di un iceberg comprendente anche il regime di “Alta sicurezza”.

Per “governare” la situazione occorre intervenire con urgenza. Ecco alcuni suggerimenti… non richiesti, ma forse utili. Prima di tutto evitare la frammentazione delle decisioni in tema di 41 bis: non dovrebbero occuparsene tanti magistrati qui e là dispersi in tutte le sedi giudiziarie; sarebbe bene (come per le “pratiche” penitenziarie dei pentiti) centralizzare la competenza in un unico ufficio, congruamente rinforzato. A decidere dovrebbe sempre essere un collegio di magistrati, mai un singolo giudice. Le funzioni di pm dovrebbero essere affidate ad un pool di magistrati della Procura nazionale antimafia, in stretto collegamento con la procura distrettuale dell’indagine che ha portato alla condanna (non la procura del carcere). Se la Pna esprime parere sfavorevole ai domiciliari, il collegio di sorveglianza dovrà motivare rigorosamente e puntigliosamente la sua decisione contraria.

Se le cose sfuggissero di mano, lo Stato… divorzierebbe da se stesso. Assurdo. Più che mai in tema di mafia.

Scarcerati altri boss mafiosi. Cutolo pensa di fare richiesta

Raffaele Cutolo, 78 anni, fondatore della Nuova camorra organizzata, detenuto ininterrottamente dal 1979, dall’81 in isolamento, dal ’93 al 41-bis, oggi saprà se il suo legale, Gaetano Aufiero, dopo aver consultato i familiari, presenterà istanza di scarcerazione, viste le condizioni di salute e l’età. La circolare sull’emergenza coronavirus del Dap datata 21 marzo – sulla quale si è scatenato un putiferio dopo la scarcerazione, ieri, del boss di Cosa nostra Francesco Bonura – per l’avvocato Aufiero è “una nota di civiltà giuridica: parlerò (oggi, ndr) con la famiglia e decideremo se presentare istanza, allo stato non posso escluderlo”.

La nota invitava i direttori delle carceri a segnalare ai tribunali di sorveglianza i nominativi di detenuti con alcune patologie e con più di 70 anni, considerati più a rischio Covid. Rispetto alla scarcerazione di Bonura, ieri il Tribunale di sorveglianza di Milano ha spiegato: “Il detenuto è affetto da gravissime patologie e gli rimanevano da scontare 11 mesi, otto con la liberazione anticipata”, e ancora: “Il provvedimento è stato preso sulla base della normativa ordinaria”. E gli consentirà, nonostante la malattia (sic!), di recarsi anche fuori Palermo per battesimi, nozze e funerali, come si legge dallo stesso provvedimento. Ma ormai sulla polemica sono saltate le opposizione, Matteo Salvini in testa, tanto che è intervenuto il ministro Alfonso Bonafede: “Tutte le leggi approvate da questa maggioranza e riconducibili a questo governo sanciscono esplicitamente l’esclusione dei condannati per mafia (ma anche di qualsiasi reato grave) da tutti i benefici penitenziari. Sostenere che alcuni esponenti mafiosi sono stati scarcerati per il decreto legge Cura Italia (a cui la nota del Dap fa riferimento, ndr) non solo è falso, è pericoloso e irresponsabile”. Il guardasigilli ha annunciato di aver già “attivato verifiche sulle scarcerazioni dei boss”. Una soluzione la suggerisce Catello Maresca dalla Procura generale di Napoli: “Dopo il caso di Bonura il rischio di ulteriori scarcerazioni eccellenti è altissimo: la situazione è grave e sta sfuggendo di mano. Il Dap deve revocare la circolare del 21 marzo 2020 ed emanare un’altra circolare di segno opposto che indichi a magistrati di sorveglianza e tribunali ordinari tutte le misure che sono state adottate per fronteggiare l’emergenza sanitaria nei singoli istituti di detenzione”.

Ma il carcere duro del 41 bis è solo la punta di un iceberg, che comprende anche l’Alta sicurezza. Dopo Bonura, a Palermo è ritornato a casa anche Pino Sansone, 69 anni e affetto da diverse patologie, anche lui dell’Uditore: arrestato nel luglio scorso, era recluso a Voghera dove un detenuto è morto per Covid. La decisione è stata del Riesame di Palermo. E altri boss sono stati scarcerati nei giorni scorsi. Tre imputati, erano detenuti in misura cautelare, dopo l’arresto di un anno fa nell’operazione Kaulonia che azzerò la famiglia di Pietraperzia (Enna): Giuseppe Trubia, Giuseppe Marotta e Antonino Di Dio, quest’ultimo senza neppure la presentazione di un’istanza di scarcerazione, su decisione del Gip di Caltanissetta. Il capo della famiglia di Pietraperzia, Giovanni Monachino, 56 anni, arrestato dal Ros dei carabinieri nella stessa operazione è stato invece di recente trasferito al Sant’Orsola di Bologna proprio perché malato Covid.

Un altro “uomo d’onore” scarcerato da pochi giorni dopo l’istanza del suo legale è Francesco detto Ciccio La Rocca, 82 anni, già capo della famiglia di Caltagirone, condannato in via definitiva per omicidio e associazione mafiosa. La Rocca, atteso fuori da Milano-Opera da un parente, è stato portato dal Nord a San Michele Ganzaria (Catania) in auto privata, senza nessuna scorta, in pieno lockdown. Nel 2016 era in carcere quando proprio a San Michele la processione di Pasqua, un centinaio di persone, si fermò dinanzi casa sua per l’inchino.

Al Csm l’attacco di Alessio Lanzi ai pm di Milano su inchiesta Rsa

La Procura di Milano attaccata come ai tempi di Silvio Berlusconi o di Tangentopoli. È stata accusata di fare “processi di piazza” da un componente del Consiglio superiore della magistratura. È Alessio Lanzi (in foto), storico avvocato della Fininvest e oggi consigliere laico di Forza Italia. Contro la sua intervista a La Stampa, nel plenum del Csm, ieri, si è schierata Area (progressisti): “I componenti del Csm – ha detto Giuseppe Cascini –, non dovrebbero mai esprimere giudizi sul merito di una iniziativa giudiziaria in corso” soprattutto con espressioni “che delegittimano il ruolo dell’autorità giudiziaria”. E poiché non c’è stata da parte di Lanzi la smentita richiesta, Area chiederà l’apertura di una pratica a tutela dei pm di Milano. Lanzi, infatti, ha confermato “tutto il contenuto” dell’intervista in cui ha detto: “C’è un attacco strumentale al modello politico di centro destra della Regione Lombardia, alimentato da un’inchiesta giudiziaria spettacolarizzata (sulle Rsa, ndr)… Ma a Milano mi pare che si siano già imbastiti processi di piazza”. Sempre in plenum, ha rivendicato “la libera espressione di pensiero” e ha usato una presa di posizione di Nino Di Matteo per avvalorare la sua tesi di avere il diritto, anche da membro del Csm, di dire che dei magistrati fanno in sostanza processi sommari: “Sottolineo la dichiarazione di Di Matteo, quale differenza c’è?”. Il riferimento è a quanto detto dal consigliere sui domiciliari concessi dal Tribunale di Sorveglianza di Milano al capomafia di Palermo Francesco Bonura, per motivi di salute: “Lo Stato sta dando l’impressione di essersi piegato alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte”. Lo stesso Di Matteo in plenum ha espresso solidarietà a nome del Csm al pm di Napoli, Catello Maresca, minacciato “dopo aver espresso preoccupazioni sulla tenuta del sistema carcerario e sui vantaggi che le mafie cercano dall’emergenza sanitaria”.

Il matrimonio di interesse (e di politica) tra gli editori e le residenze assistite

Ci sono almeno otto miliardi di ottimi motivi per i quali ai padroni della sanità privata e delle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) per anziani conviene possedere giornali. Il business della sanità gestito da privati profit è enorme e in gran parte va ancora misurato. Dati precisi non sono disponibili ma secondo l’Aiop, l’Associazione ospedalità privata che raggruppa solo una parte degli operatori, nel 2018 il fatturato realizzato da 315 strutture ospedaliere è stato di 7,9 miliardi. La cifra è molto al ribasso perché all’Aiop sono associate 518 strutture con 60mila posti letto dei quali 52mila accreditati al Servizio sanitario nazionale (Ssn). Il settore è legato a doppio filo alle decisioni della politica. Non è un caso se tra i gruppi profit che investono nelle residenze socio assistenziali per anziani c’è un’alta concentrazione di editori come le famiglie De Benedetti, editrice sino a pochi mesi fa del gruppo Gedi (Repubblica, La Stampa, l’Espresso) e Angelucci, editori di Libero, del Tempo e dei Corrieri di Lazio, Umbria e Abruzzo, nonché ex editori del Riformista.

Il fatto è che la politica nazionale e regionale ha in mano le chiavi del mercato delle Rsa e della sanità privata. Lo Stato disciplina i requisiti delle strutture, il loro accreditamento al Sistema sanitario ed eroga le risorse alle Rsa attraverso il Fondo nazionale per le politiche sociali. Le Regioni regolano i requisiti di dettaglio delle Rsa e hanno in mano l’asso pigliatutto, la possibilità di dare o negare l’accreditamento di erogatore di prestazioni per conto del Ssn. Infine ci sono gli accordi contrattuali tra singole Rsa e Regioni o Asl sulle prestazioni che le residenze per anziani devono assicurare per fatturarle al Ssn.

Gli operatori privati delle Rsa hanno dato tre missioni ai loro lobbisti. Vogliono dal governo la riqualificazione del fondo per l’indennità di accompagnamento, che vale circa 14 miliardi dei quali però solo cinque vanno all’assistenza organizzata. A Stato e Regioni chiedono la stabilizzazione delle risorse per le disabilità gravi delle Aziende sanitarie e l’introduzione di vincoli pluriennali per poterle “girare” alle banche e facilitare i propri investimenti. Infine, premono sul Parlamento perché emani leggi per diffondere la copertura assicurativa del rischio di non autosufficienza grazie all’introduzione di forti incentivi fiscali.

Ma i ras delle Rsa e della sanità privata giocano anche di sponda con Regioni e parti sociali. Il 7 novembre il presidente della Conferenza Stato Regioni, il governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, ha scritto al ministro della Sanità Roberto Speranza, al presidente dell’Aiop, Barbara Cittadini, e a quello dell’Aris (l’Associazione religiosa istituti socio sanitari), Virginio Bebber, per chiedere di sbloccare il tetto al budget della sanità privata accreditata. La disponibilità delle Regioni era arrivata dopo l’incremento del Fondo sanitario nazionale di 2 miliardi per il 2020. Le Regioni vogliono dal governo l’aumento dei budget per i ricoveri in modo da coprire il 50% dei costi del rinnovo del contratto di categoria dei 70mila dipendenti della sanità privata. Il contratto vale 300 milioni ma è fermo da 13 anni, mentre le tariffe delle prestazioni erogate dal Ssn sono congelate dal 2012 dal decreto Balduzzi che limita il ricorso delle Regioni al privato accreditato. Il personale delle Rsa ha poi un contratto specifico che i sindacati confederali non hanno firmato, perché ha abbassato le retribuzioni e ridotto i diritti, mentre i privati ricorrono sempre più all’outsourcing attraverso appalti a cooperative.

Il rischio per la sanità privata è l’esodo del personale nel settore pubblico che ha riaperto i concorsi e rinnovato il contratto. Nonostante la mossa, il contratto Aiop è rimasto bloccato e Cgil, Cisl e Uil reclamano ancora un tavolo negoziale.

I medici di famiglia contro Fontana: “No al suo bavaglio”

Il documento è lungo 17 pagine, ma sono sufficienti poche righe a mettere in scena un altro scontro, in Lombardia, tra i medici di famiglia e la Regione. “Vogliono solo controllarci, come fanno con i medici ospedalieri che non possono rilasciare dichiarazioni se non sono verificate prima dai superiori”, dice Paola Pedrini, segretaria regionale della Fimmg, federazione dei medici di medicina generale. Pedrini si riferisce alla risoluzione con la quale il Consiglio regionale lombardo ha dato le proprie indicazioni sulla fase due.

E a quelle due righe nelle quali si legge che il governatore Attilio Fontana e la sua giunta devono farsi portavoce, con il governo e in ogni sede istituzionale, della necessità di concedere “una maggiore autonomia nel coordinamento dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta, per ricondurli a tutti gli effetti quali dipendenti del sistema sanitario regionale”. Una proposta che per Pedrini “comporterebbe il venir meno del rapporto di fiducia tra medico e paziente, sostanziato dalla fine della libera scelta del cittadino, tanto cara a chi governa la nostra regione”. Sempre che, “con una inappropriatezza di linguaggio a cui siamo abituati, non si volesse intendere solo la volontà di introdurre norme che rendano il medico di famiglia succube della politica, come è già purtroppo avvenuto per i colleghi che lavorano in ospedale”. Parole durissime con le quali la Fimmg chiude un comunicato che è una bocciatura senza appello del piano del Consiglio regionale.

La risoluzione, votata con 43 voti a favore, 25 contrari (Pd, M5S, Lombardi civici europeisti e +Europa) e l’astensione di Italia Viva, secondo i sanitari prefigura idee per la ripartenza elaborate “come se non fosse mai esistita una fase uno”. E rivela assoluta inconsistenza anche per quanto riguarda “la riorganizzazione del sistema sanitario”, con proposte “che altro non fanno che riproporre l’esistente lasciando di fatto immutate le criticità risultate evidenti, dolorosamente, nella gestione di questa pandemia. Registriamo inoltre con dispiacere l’incapacità di analisi della situazione e soprattutto l’assenza di una analisi degli errori, sempre doverosa da parte di chi ha la responsabilità e l’onere di gestire una organizzazione complessa, soprattutto in occasione di eventi catastrofici”.

Sullo sfondo dello scontro c’è la legge regionale di riforma del 2015, normativa sperimentale, che secondo medici e opposizioni, non ha mai funzionato ed in parte non è stata applicata. Ma soprattutto c’è una concezione del sistema sanitario tutta centrata sugli ospedali, a scapito della medicina territoriale, retta proprio dai medici di famiglia, oggi liberi professionisti convenzionati con la sanità pubblica: impostazione che proprio secondo Pedrini (parole di alcune settimane fa) si è rivelata la Caporetto del sistema sanitario lombardo durante l’emergenza coronavirus. Nella risoluzione, del resto, alla medicina territoriale viene dedicato ben poco spazio. Se non per dire che deve essere rilanciata “per offrire al cittadino servizi ancora più strutturati, garantendo una copertura oraria e di giornate che sia idonea alle esigenze della popolazione, che faccia leva sull’esperienza della medicina di gruppo”, che però secondo i medici non è attuabile in tutti i territori. Così, via libera alla telemedicina e all’integrazione e comunicazione dei sistemi informatici. E poi alla ricerca di cure, farmaci, vaccini. Ma se un “evento catastrofico spesso rende inevitabili gli errori”, dice Pedrini, “poi gli errori vanno riconosciuti, vanno corretti, non nascosti”.