Così la Lombardia costrinse i centri per anziani a riaprire

“Io sono in pace con la mia coscienza”, ha ribadito ieri il governatore Attilio Fontana al Corriere della Sera. “Per dirla chiara sulle Rsa – ha proseguito Fontana – la Regione non ha competenza, se non di controllo”. La Regione lo va ripetendo da settimane. La convinzione è che, sulla “strage dei nonni”, sia in atto una campagna mediatica – e politica – mirata a “cavalcare l’onda emotiva di questi giorni per confondere il ruolo di controllo e di sorveglianza della Regione con i ruoli e le responsabilità organizzative e gestionali delle strutture stesse”. L’ultimo tassello alla “linea di difesa” del Pirellone nel ridimensionare il peso della famosa delibera dell’8 marzo lo ha aggiunto, sempre dalle pagine del Corriere, l’assessore al Lavoro Melania Rizzoli. Calcolando che “trascorrono dalle 2 alle 5 settimane per il manifestarsi complessivo della malattia virale e del suo eventuale esito letale – ha detto l’assessore Rizzoli, che è anche medico – è facile dedurre che tutti gli anziani ospiti delle case di cura lombarde, che sono deceduti per coronavirus a marzo e nei primi 15 giorni di aprile, erano venuti in contatto ben prima dell’8 marzo con il Covid-19”.

Per provare a capire davvero cosa sia successo nelle Residenze per le anziani e in quelle per i disabili (Rsa e Rsd), è importante certo partire dai numeri. Sappiamo però anche che i dati sui decessi degli anziani nelle Rsa lombarde, come raccontato dal Fatto, sono ancora parziali, per usare un eufemismo (su circa 700 strutture censite in regione hanno risposto all’Istituto superiore di sanità che si occupa dello specifico report solo in 266). Ecco perché – per provare a ricostruire i tempi tra una morte e l’altra, oltre che l’incidenza – la magistratura si sta concentrando anche sugli “ambienti”, a partire dalle testimonianze degli operatori sanitari, e sulle direttive regionali, e i documenti che ne sono derivati. All’elenco, si aggiunge ora un nuovo documento ufficiale della Regione, intitolato “Chiarimenti relativi all’applicazione dell’Ordinanza del Ministero della Salute di intesa con il Presidente di Regione Lombardia”. Data: 23 febbraio 2020, ovvero due giorni dopo lo scoppio del primo focolaio a Codogno.

È sulla base di questo documento che alcune strutture per anziani sarebbero state costrette a riallargare la stretta, imposta da direttori sanitari particolarmente illuminati o da sindaci lungimiranti, su due questioni dimostratesi fondamentali per il contenimento dei contagi, e di conseguenza dei decessi. Stiamo parlando delle visite dei parenti esterni e, soprattutto, della chiusura dei centri diurni per anziani. Nel documento della Regione si legge: “Le case di riposo/Rsa restano aperte a visite di parenti che devono attenersi alla regola di accesso alla struttura in numero non superiore a 1 visitatore per paziente. Anche i Centri Diurni rimarranno aperti. Con riferimento alle Unità d’offerta sociali, considerato che tali strutture sono autorizzate e eventualmente convenzionate dai singoli Comuni, si rimanda agli stessi la valutazione in merito”.

Queste disposizioni rimarranno valide almeno fino all’8 marzo. Permettendo di fatto così, per più di due settimane dallo scoppio dell’epidemia, il contatto con persone che arrivando dall’esterno hanno potuto, da asintomatiche, diffondere il virus nelle strutture. E, soprattutto, permettendo agli anziani di incontrarsi per qualche ora nei centri diurni, per poi ritornare dalle proprie famiglie, col rischio potenziale di un contagio a catena.

La polemica su un certo ritardo, e sulla mancanza di linee guida chiare a riguardo da parte della Regione, era già stata sollevata, a partire dal sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Emilia Romagna e Veneto avevano infatti emesso subito un’ordinanza regionale che imponeva la chiusura dei centri diurni per anziani e disabili. Mentre ancora nella prima settimana di marzo mancava una direttiva univoca su tutti i territori della Lombardia. Ma non solo. Ci sono anche Rsa che, sulla base del documento del 23 febbraio, sono state costrette a riaprire. Proprio sul Fatto, il 5 aprile scorso, avevamo raccontato della casa ospitale Aresi, a Brignano Gera D’Adda, in provincia di Bergamo, che aveva deciso di sbarrare il proprio centro diurno su disposizione del direttore sanitario. “Ma l’Ats mandò una lettera a tutte le strutture – ricorda Marco Ferraro, presidente della Aresi – dicendoci che potevamo anche essere accusati di interruzione di servizio pubblico, con conseguente revoca dell’accreditamento. Così siamo rimasti aperti fino alla fine della prima settimana di marzo, una disposizione tardiva… Nessuno a Milano aveva capito l’urugano che stava arrivando”. Il danno più grosso era fatto. “E chi è riuscito ad attuare prima le azioni di contenimento, ora può contare su una percentuale di decessi largamente più bassa di altri”, dicono dall’Osservatorio Rsa Lombardia, che sta raccogliendo diverse centinaia di testimonianze.

“Questa è grave distorsione del mercato”

“Siamo noi gli esperti del mercato e siamo superpartes. Vorremmo solo che le istituzioni facessero le scelte migliori per i cittadini e il settore e non scelte che stanno distorcendo il mercato, violano i principi della libera concorrenza e scateneranno ricorsi e contenziosi”. Parola di Renato Bonaita, presidente di Confindustria Assodiagnostici. Secondo Bonaita le gare e le manifestazioni d’interesse attualmente in corso per le forniture dei test sierologici “sono scritte chiedendo requisiti che possono essere soddisfatti da una sola azienda, la DiaSorin. E questa è una distorsione del libero mercato”. Mentre nelle stesse ore il Tar Lombardia prende sul serio un ricorso di Technogenetics contro l’accordo tra Diasorin e il Policlinico San Matteo, che ha permesso lo sviluppo dei requisiti esclusivi: “Merita approfondimenti – scrive il giudice nel rinvio – potrebbe aver sottratto valore di mercato al confronto concorrenziale”

Presidente Bonaita, che ne pensa dei tempi e dei modi della gara nazionale dei 150.000 test sierologici firmata dal commissario Domenico Arcuri?

È stata indetta esattamente due giorni dopo che DiaSorin ha ottenuto la marchiatura Ce, obbligatoria per partecipare. Stiamo parlando di una multinazionale che compete tra aziende medio piccole che distribuiscono strumenti cinesi o con tecnologia Elisa a micropiastre forse non adatte per certi volumi.

La tecnologia Elisa è tra quelle previste dal bando.

Letto il quale, prevediamo ci saranno tre o quattro offerte. Ma di fatto è solo una che avrà le caratteristiche indicate nel bando, in termini di presenza di strumentazione sul mercato e altro, ed è la DiaSorin. E questo ci può stare. Ma quel che è sbagliato è la conseguenza della gara, che tra le righe stabilisce che verrà individuato il fornitore nazionale per il futuro, come fosse un protocollo di validazione di un unico test nazionale.

E cosa c’è di sbagliato?

È una violazione della libera concorrenza, che provocherà una valanga di ricorsi: non esiste un unico test e siamo in un settore nel quale nei prossimi giorni arriveranno colossi come Roche, Abbott, Siemens. Ma non potranno partecipare perché i tempi tecnici non ci sono. E lo stesso peccato lo sta commettendo la Regione Lombardia che dopo aver fatto leva sulla sperimentazione DiaSorin al San Matteo di Pavia, ha lanciato una manifestazione di interesse da 80 milioni di euro per 2 milioni di test sierologici, una cifra che penso sia sbagliata.

Confermiamo: è stato un errore, è stato corretto a otto milioni.

Allora siamo nel mercato. Però dimostra con quanta fretta si stia procedendo in questo campo.

Lei dice che solo la DiaSorin ha i requisiti chiesti nei bandi. Perché?

Perché sono scritti così, anche se le diranno che non è vero. Chiedono certi strumenti, un grande installato, poi una specifica caratteristica, e in automatico rimangono solo loro.

Si riferisce alla ricerca degli anticorpi neutralizzanti?

Esatto. La fanno solo loro. O si aspetta che arrivino anche le altre, oppure si sta consegnando il mercato a un’unica azienda, italiana, quotata sulla Borsa di Milano.

La comunità scientifica è perplessa sull’utilità di uno studio di sieroprevalenza che cerca un solo tipo di anticorpo.

Non esiste fare una gara solo per la ricerca degli Igg. E se c’è un infetto precoce? Lo diamo come negativo perché non si cercano le Igm? Scherziamo?

Fontana ha scelto Diasorin, ma la gara è ancora aperta

Diasorin ieri in Borsa ha segnato un +8,13 per cento. La società di Saluggia, (Vercelli) vale oggi 9 miliardi e 230 milioni di euro, il triplo di Pirelli e solo 2 miliardi meno di Fca. Diasorin ha aumentato il suo valore grazie anche al lancio del test sierologico sviluppato con il Policlinico San Matteo di Pavia che è appena arrivato sul mercato, ma gode di una sterminata fiducia della Regione Lombardia e forse anche del governo. Il test promette di essere l’unico a trovare, tra tutti gli anticorpi IgG presenti nel sangue proprio quelli neutralizzanti contro il coronavirus. A detta del suo ideatore, il professor Fausto Baldanti, quel test potrebbe dare la tanto desiderata ‘patente di immunità’ per tornare al lavoro.

Martedì sera a Cartabianca su Rai3 il presidente lombardo Attilio Fontana è arrivato a dire che “il Veneto sta usando dei test che non hanno ancora ottenuto il via libera dall’Istituto Superiore di Sanità. Noi abbiamo deciso di iniziare ad acquistare e inizieremo il prossimo 23 aprile quei test sierologici che hanno ottenuto la certificazione CE e il via libera dall’ISS”.

Al Fatto risulta che il test usato in Veneto (il Maglumi della cinese Snibe) abbia avuto il marchio CE prima del test Diasorin. Non risulta invece uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità in merito. Fontana quella sera ha detto due cose interessanti: la prima è che la sua Regione ha già scelto il test Diasorin senza aspettare l’esito della ‘gara nazionale’ indetta dal commissario Domenico Arcuri il 17 aprile e che scade il 29 aprile.

Non solo. La Lombardia ha scelto senza aspettare nemmeno una sorta di ‘gara regionale’ indetta il 20 aprile che scade domani alle 12. La situazione è davvero anomala. La Regione Lombardia, mediante la sua centrale di acquisto ARIA, chiede alle aziende una “manifestazione di interesse per la fornitura di test per ricerca anticorpi neutralizzanti anti SARS-COV-2’.

Prima della scadenza però anticipa la sua scelta e parte oggi con i test Diasorin nei laboratori di Bergamo, Brescia, Lodi e Cremona. Il 27 quando toccherà a Milano forse i test Diasorin potrebbero essere stati scelti con una procedura simile a una gara. Intanto in borsa già hanno capito come finirà e la società di Saluggia già vola. Anche perché la vittoria dell’appalto da due milioni di test in Lombardia potrebbe essere un bel biglietto da visita per presentarsi sul mercato Usa dove Diasorin è già presente e in altri Stati europei come Belgio e Francia.

In pochi giorni Diasorin potrebbe aggiudicarsi anche il test nazionale su un campione di 150 mila persone che potrebbero diventare 300 mila. Anche se l’affare più grande è quello lombardo: 2 milioni di test per un valore stimato nel bando in 8 milioni di euro. Inizialmente avevano scritto 80 milioni, poi l’errore è stato corretto.

I fatti segnalano una strana sinergia tra il governo centrale e quello lombardo, forse perché i tecnici che supportano le decisioni di entrambi sono in grande sintonia. Certo il test sierologico è una tappa fondamentale per la ripartenza e la politica nazionale sembra un po’ disattenta.

Proviamo a fare una breve cronologia a beneficio dei distratti. Il 20 aprile Policlinico San Matteo e Diasorin firmano un accordo che prevede uno studio clinico sul tampone Symplexa e sul test sierologico con il pagamento di royalties pari all’uno per cento sulle vendite del solo test sierologico al Policlinico. Il professor Baldanti, virologo del San Matteo e responsabile dello studio del Diasorin, è anche il coordinatore del gruppo di lavoro sugli altri test in Regione Lombardia nonché membro del gruppo di lavoro nazionale al Ministero. Quando Il Fatto svela il contratto con le royalties si dimette da entrambi i gruppi di lavoro.

Il 17 aprile il Commissario Domenico Arcuri firma un bando per cercare il test migliore e da alcuni requisiti (ricerca solo delle Igg neutralizzanti nonché grande disponibilità di macchine nei laboratori) Diasorin sembra in pole position.

Il 20 aprile, la Regione Lombardia vara la sua ‘gara’ con scadenza il 24 per cercare il test migliore. Però lo stesso giorno il dirigente della Regione Lombardia Mario Cassani impartisce ai responsabili dei laboratori pubblici lombardi le direttive per fare solo i test Diasorin a partire dal 23 aprile. Baldanti è presente alla riunione operativa come San Matteo ma anche come massimo esperto del test.

E il comitato per valutare gli altri test? Dopo le dimissioni di Baldanti non è stato nominato un nuovo coordinatore e non si ha notizia del suo futuro.

Martedì il premier Giuseppe Conte durante il suo discorso al Senato presenta il test sierologico varato dal Commissario Arcuri come il quarto punto della sua ‘strategia’ per uscire dall’emergenza. In quella sede, Conte promette che il contratto sarà siglato entro il 29 aprile “all’esito di una procedura trasparente e rigorosa”.

A leggere l’intervista sotto viene qualche perplessità.

Ombre e problemi della app con cui vogliono tracciarci

Il fatto che la si scaricherà volontariamente è stato per ora messo al sicuro con le dichiarazioni del premier Conte. Il commissario dell’emergenza, Domenico Arcuri, però, ha sottolineato che senza la app di contact tracing si tornerà in lockdown, mentre gli esperti sostengono che sarà efficace solo se scaricata sul proprio telefono dal 70% degli italiani. Fermati questi punti, la app “Immuni” ha molte altre grane davanti e dietro di sè che stanno rendendo faticoso il suo ultimo miglio, problemi che non possono essere semplicemente catalogati come “tecnici”: dalla loro risposta dipendono aspetti politici ed etici.

Se in queste ore l’azienda creatrice della app, Bending Spoons, e il ministero della Salute stanno lavorando su un documento condiviso, ancora non si sa quale server custodirà i dati. La app, come licenziata dalla gruppo di lavoro del ministero dell’Innovazione, prevede (oltre alla rilevazione dei contatti tra le persone con il Bluetooth) una fase in cui i dati anonimizzati dei contatti sono conservati sui dispositivi e una fase in cui vengono trasferiti su un server, ovvero quando si palesa un positivo e si debba far arrivare la notifica alle persone “a rischio”. È stata progettata considerando come server quello della società creatrice Bending Spoons, ma ora tocca al ministero della Salute indicare quale sarà quello “pubblico”. Saperlo risponderà a questioni ancora aperte: chi deterrà legalmente i dati? Sotto quale legislazione saranno i server? Quali le garanzie?

Sullo sfondo c’è uno scontro di “filosofia” digitale che sta creando ulteriori rallentamenti. Bending Spoons ha aderito sin dall’inizio del progetto al consorzio Pan-European Privacy-Preserving Proximity Tracing (Pepp-Pt), appoggiato da ricercatori, aziende e governi e promotore dello sviluppo di app di contact tracing che rispondano a specifici parametri. Serve a questo punto uno “spiegone”. Il contact tracing digitale ha tre livelli di “pensiero”: il primo che vuole centralizzare nei server i dati di ogni fase, dalla raccolta dei contatti all’allerta; il secondo (che è quello di Immuni) che vuole centralizzare i dati raccolti via bluetooth solo quando si rivela un positivo; il terzo che, invece, prevede che i contatti e i dati restino sempre sui telefoni e che nei server finisca solo il codice del positivo.

Quest’ultima soluzione era stata sposata da un ramo del consorzio Pepp-Pt, denominato Dp-3T, che però è stato fatto fuori senza spiegazioni nei giorni scorsi e che risponde al cosiddetto principio di privacy by design (ovvero garantire la massima privacy già al momento della realizzazione di un software o hardware) previsto anche nel Gdpr, il regolamento europeo per la protezione dei dati. La defenestrazione ha messo in allerta gli esperti.

Secondo Lorenzo Zaccagnini, attivista della privacy e sviluppatore di software per blockchain e intelligenza artificiale, “i problemi di trasparenza dietro queste scelte hanno decretato l’uscita da Pepp-Pt di realtà come Isi, Cispa, Ethz, Epfl, Ku Leuven. I critici sottolineano la possibilità di ricostruire a ritroso i dati che possono consentire a terze parti, anche se escluse dal server centralizzato, di identificare i singoli”. Ci sono quindi rischi di attacchi con spyware o malware, usati da privati e governi per tracciare oppositori e giornalisti. “Le vulnerabilità, poi, possono intaccare i sistemi operativi Android di Google o iOs di Apple e invalidare anche l’app migliore. Sarebbe opportuno che l’audit di Immuni fosse fatto dal più ampio pubblico possibile”. Tanto più che in base al Regolamento Ue, i dati sanitari sono una categoria speciale e richiedono un livello di protezione più elevato. Possono essere raccolti se necessario per proteggere interessi vitali della persona e per motivi di rilevante interesse pubblico e di prevenzione, ma il trattamento, proporzionato allo scopo, deve prevedere “idonee e misure specifiche per salvaguardare i diritti fondamentali degli interessati”. E in caso di ricorso a nuove tecnologie per la loro elaborazione, che possano comportare rischi elevati per i diritti dei cittadini, serve una valutazione di impatto preliminare. L’assioma è però semplice: i dati che non possono essere rubati sono solo quelli che non vengono memorizzati.

In mezzo, ci sono le due maggiori aziende dei sistemi operativi per smartphone. Dal protocollo che il ministero della Salute deciderà di sposare (Pepp-pt o Dp-3T) dipenderà la compatibilità con il sistema che stanno realizzando Apple e Google, che sposano la filosofia della decentralizzazione e che gestiscono i sistemi operativi della quasi totalità dei telefoni. Ai governi (non solo all’Italia, ma anche alla Francia) interessa invece riuscire a gestire più informazioni possibili per tracciare i contagi più velocemente.

“Altri problemi riguardano i super-cluster, cioè i tracciamenti di molte persone per vicinanza ma senza un reale contatto, ad esempio se si è riparati da un vetro”, conclude Zaccagnini. Della squadra che sviluppa l’app Immuni fa parte Geouniq, società il cui sistema di geolocalizzazione individua la posizione di un cellulare, compreso il piano del palazzo, ma con un errore di 10 metri: implementare un sistema di questo tipo potrebbe creare enormi rischi di falsi positivi. Inoltre Bending Spoons produce molte app tra le quali Pico, un “raccoglitore” di dati che registra tutti i clic sulle altre app della società, li analizza, li aggrega e ne estrae informazioni. Pico interagirà con Immuni? A questa e altre domande Bending Spoons non ha risposto.

“Quanto dormi? Quanto litighi col partner?”. Il questionario sulla resistenza al lockdown

Carmelo Serva, 80 anni, di Palinuro, si è sparato: aveva appena ristrutturato il suo locale e non sapeva come andare avanti. È una delle vicende di cronaca che è finita in questi giorni all’attenzione degli esperti della task force di Colao. Ma poi ci sono tante storie, quotidiane. Luigi ha 15 anni, si era appena fidanzato per la prima volta in vita sua: ma sono sei settimane che non vede la sua ragazza e non sa quando potrà succedere di nuovo. Si incontrano su Zoom, ma è una frustrazione continua. Alessia ha 35 anni, è in smartworking dal 10 marzo, il 4 maggio deve tornare a lavorare e non sa cosa fare dei suoi tre figli. Luisa, 42 anni, non ne può più di litigare con suo marito, Giorgio, 44. Lui ha degli attacchi di ira improvvisa e lei teme che una volta finirà per non controllarsi. Alice, 73 anni, che adesso se li sente tutti insieme, si chiede se potrà mai tornare a fare i compiti con i suoi nipoti, che vede solo da lontano.

Questi sono nomi di fantasia, ma le storie che gli esperti della task force di Colao si trovano davanti, hanno proprio queste caratteristiche. Per evitare che le situazioni degenerino è allo studio un questionario da somministrare a 150mila cittadini italiani, scelti a campione, per monitorare gli effetti sul piano psico-sociale e comportamentale del lockdown. Per capire quanto ancora la gente potrà sopportarlo, quanto le chiusure successivamente potranno reggere. E poi, come e dove intervenire. È questo lo strumento che si sta studiando per arrivare a una sorta di termometro del benessere e del malessere collettivo e individuale. Non un test per dare una sorta di patentino di “sanità mentale” (concetto, peraltro, di difficile definizione).

Gli esempi di questionari di questo genere sono tantissimi, ma l’idea è prima di tutto quella di individuare le categorie da esaminare. Che sono anziani e adolescenti, ma poi anche piccoli imprenditori, adulti con disturbi psicologici pregressi. E donne. In questo caso, per esempio, la prevenzione è fondamentale. Meglio capire prima a che punto sono arrivate le situazioni di criticità, piuttosto che rivolgersi poi ai Centri anti violenza per valutare gli effetti della cattività forzosa su coppie disfunzionali. “Quanti litigi hai con il tuo partner?”, sarà una delle domande centrali. Evidente che se emergerà una situazione generale al limite, sarà il caso di stoppare le convivenze strettissime dovute al lockdown. E poi si andrà a indagare su sentimenti, stati d’animo, emozioni. “Sei irritabile?”, “Fai fatica a concentrarti?”, “Hai momenti di ansia?”. “Ti senti triste?”. Ci saranno anche domande con declinazioni più specifiche. Rivolta ai ragazzi: “Hai episodi di rabbia nei confronti dei tuoi genitori?”

Il questionario è in fase di elaborazione: bisogna tararlo a seconda del grado di istruzione, della condizione lavorativa e di quella familiare delle persone.

A livello internazionale esiste già una letteratura in materia. In Cina un questionario è stato somministrato a 52mila persone per definire raccomandazioni e policy. E un esperimento è stato fatto anche in Corea. A sistematizzare il tema è uno studio britannico pubblicato sulla rivista scientifica, Lancet, il 15 aprile: Multidisciplinary research priorities for the COVID-19 pandemic: a call for action for mental health science (“Priorità di ricerca multidisciplinare per la pandemia di Covid-19: un invito all’azione per le scienze della salute mentale”). Nell’articolo, firmato da 24 esperti, si prova una prima sistematizzazione della questione. Si parte dal monitoraggio per arrivare alle strategie a breve e lungo termine. E si suggerisce di capire qual è l’effetto del Covid su ansia, depressione e tendenze suicide, ma anche quale debba essere la condotta migliore per affrontare la vita ai tempi del distanziamento sociale. E ancora, si occupa anche di misurare l’effetto dei media. Spunti preziosi per la task force, in una situazione che a livello psicologico è ancora tutta da inquadrare.

Mirafiori e le altre: “Si rischia il contagio dagli operai positivi” – “

Aprire le fabbriche tra pochi giorni o settimane è fattibile, soltanto se il sistema produttivo e sanitario è in grado di rintracciare e isolare tempestivamente i casi di positività da Covid-19 che inevitabilmente emergeranno. È quanto spiega il professor Giuseppe Costa, ordinario d’Igiene dell’Università di Torino, dopo che gli ultimi dati del Seremi (Servizio regionale di controllo e vigilanza per le malattie infettive) del Piemonte fanno emergere come il 44 percento circa dei positivi al coronavirus abbia un’età compresa tra i 40 e i 69 anni. In sostanza, quella della forza lavoro.

Se quindi, a essere infettati dal virus non sono solo gli anziani, ma anche i giovani, ha senso riaprire le aziende per tornare al lavoro i primi giorni di maggio? E c’è anche chi ripartirà prima. Come gli operai di Mirafiori che lunedì torneranno a varcare i cancelli dell’ex Fiat.

Secondo Costa, per rispondere alla questione va fatta una precisazione importante: “C’è un’enorme differenza tra contagio e malattia. Se parliamo del primo, allora certamente non è vero che il coronavirus colpisce solo gli anziani. Non è così. Si contagiano anche i ragazzi e i bambini. Il problema vero è che ci si può ammalare, e seriamente. Allora, in questo caso, sono gli anziani a essere a rischio maggiore”. “Anche se – afferma il professore – ci sono persone in piena salute, e non avanti con l’età, che si sono infettate: si veda il caso di Codogno, che è da manuale. Il soggetto aveva circa quarant’anni. La loro frequenza però è limitata”. Ma perché i quarantenni e i cinquantenni rappresentano quasi la metà dei contagiati? “Perché sono le persone che si muovono di più e che hanno maggiori contatti con altri”, precisa Costa, che aggiunge: “Il Covid-19 colpisce chi incontra numerose persone, chi va in giro: ecco perché hanno chiuso da subito le scuole, per i bambini, ma anche per i genitori, che magari dalla scuola vanno sul luogo di lavoro, e poi al supermercato”. Per fortuna molte (ma non tutte) delle persone colpite dal coronavirus tra i 40 e i 60 anni hanno sintomi lievi o medi. E poi ci sono gli asintomatici, “untori” inconsapevoli.

“Il problema reale della riapertura dei luoghi di lavoro – spiega Costa – è avere un efficiente sistema di protezione dei contatti, sia nelle aziende sia sui trasporti che i lavoratori usano per andare in fabbrica”. “Sappiamo – sottolinea il docente d’Igiene – che in queste maglie qualcosa scapperà. È inevitabile. Ma se abbiamo un ottimo sistema di rintracciamento dei casi positivi e un metodo di isolamento efficiente e rigoroso, allora – e solo in presenza di queste condizioni – le attività produttive potranno riaprire, se la pressione della prima ondata si spegnerà”.

È quindi l’intero sistema Piemonte – dalla Regione, alle industrie, dai sindacati alla sanità – che deve riorganizzarsi per una ripartenza in sicurezza. E tutto sarà diverso. A partire dagli orari e dai turni di lavoro. “Partiamo dal concetto che i trasporti pubblici sono fondamentali”, dice Costa, che giustamente ritiene che non si possa esortare la popolazione a usare l’auto, perché se no oltre al coronavirus dovremmo fronteggiare una nuova emergenza inquinamento. “Quindi – sottolinea il professore – occorrerà che il sistema produttivo e delle relazioni industriali, sindacati compresi, negozi – come credo stia avvenendo – la diluizione nel tempo dell’orario di inizio e di fine lavoro, considerando anche turni serali e nel weekend”. Manovre indispensabili, sostiene Costa, “per diminuire l’affollamento sui mezzi pubblici e in fabbrica”. Servirà anche quindi la volontà dei singoli lavoratori per affrontare una grande rivoluzione che impatterà sulla quotidianità.

E le scuole? “Io credo che sia prematuro riaprire adesso”, continua Costa, che aggiunge: “Starei tranquillo ancora per un po’. Ma lavorerei da subito con le cooperative, su base territoriale, per assistere i bambini, lasciandoli a casa”.

Il piano della task force: poche riaperture e cautela

Quattro pagine e un diagramma di flusso: uno schema esclusivamente mirato alla riapertura di una serie di attività produttive, il prossimo 4 maggio. E che – “se funziona” – potrà essere poi applicato in futuro per allargare la cerchia a quei settori economici che ancora devono rimanere chiusi. Così ha lavorato la task force guidata da Vittorio Colao, che ieri ha consegnato la sua prima relazione al presidente del Consiglio. Un lavoro fatto in una settimana, confrontando documenti, protocolli e altre esperienze extra-nazionali, ma che di fatto non entra nel merito di molte scelte che ora toccheranno alla politica. In pratica il primo passo con cui la fase 2 si mette in moto, non certo il ritorno alla normalità. E che riguarderà poco meno di 3 milioni di lavoratori, un terzo di quelli attualmente sospesi dall’emergenza coronavirus.

D’altronde, al termine di una giornata di riunioni con i rappresentanti delle task force, i capidelegazione della maggioranza, le parti sociali e gli enti locali, è la stessa Presidenza del Consiglio a chiarire che tra due lunedì non ci sarà nessuno “stravolgimento”: la fase 2 comincia, ma nessuno immagini di tornare alla vita che faceva a febbraio. Già domani il premier dovrebbe essere pronto a illustrare agli italiani il dettagliato piano che allenterà – ma solo un po’ – le misure imposte dal decreto in vigore. Tornano al lavoro le aziende manifatturiere e quelle edili, riapre qualche negozio, si stempera leggermente l’imperativo del “restate a casa”, ma di fatto la parola d’ordine resta la solita: prudenza.

Perché le indiscrezioni che in questi giorni hanno riguardato le nuove misure del lockdown rischiavano di far passare il messaggio che il peggio è passato. E, purtroppo, così ancora non è. Non che si fosse parlato del ritorno alla normalità, sia chiaro: le passeggiate al massimo in due, la mascherina ovunque, le metropolitane con i distanziometri a terra, niente viaggi extra-regione. Eppure, il rischio che segnali di distensione eccessivi facciano breccia nell’opinione pubblica è avvertito un po’ da tutti: da Palazzo Chigi, dalla task force, figuriamoci dal comitato tecnico scientifico che rappresenta gli scienziati. E che infatti ieri sera ha invitato tutti a rispettare la “gradualità” delle riaperture.

Sarà così, d’altronde, anche secondo gli esperti che hanno scritto il primo paper per la fase 2: la mission che Conte gli aveva affidato era circoscritta, per il momento, all’organizzazione delle attività produttive costrette alla convivenza con il virus. Per questo i tecnici si sono concentrati sugli strumenti di “rarefazione” del numero di persone nei luoghi di lavoro: lo smart working innanzitutto, ma anche una tabella oraria che permetta di non concentrare nelle medesime fasce della giornata l’ingresso e l’uscita da fabbriche, uffici e negozi.

Un tema, come vi abbiamo raccontato più volte, che si incrocia inevitabilmente con quello dei trasporti: non ci sono ancora soluzioni sulla nuova organizzazione dei mezzi pubblici. Per ora, la previsione e l’auspicio, è che chi torna al lavoro non li usi proprio: la task force ha elaborato dei flussi secondo cui, con la riapertura delle attività del 4 maggio, autobus e treni resteranno più o meno vuoti come adesso, anche perché si tratta di imprese dislocate fuori dalle città. Il tema del trasporto pubblico si porrà con la ripresa della vita sociale che, ribadiamo, non è in programma per le prossime settimane. E riguarderà anche una questione sollevata ieri dalla sindaca di Roma Virginia Raggi: il “ristoro” dei mancati introiti di questi mesi. Nel capitolo dedicato ai trasporti della relazione consegnata ieri, comunque, si fa riferimento anche all’incentivo di nuove forme di mobilità, come la bici elettrica (non proprio la soluzione per Roma).

La cornice di ogni ragionamento, come ovvio, resta il controllo della curva epidemiologica: sono stati predisposti alcuni indicatori, delle clausole di salvaguardia, superati i quali si tornerà a provvedimenti restrittivi. Anche per questo i tecnici della task force avevano inserito un consiglio: vietare la ripresa del lavoro a chi ha più di 60 anni. Non solo perché si tratta della categoria più a rischio, ma anche perché è quella che – se si ammala – necessita con maggior probabilità del ricovero in terapia intensiva e rischia così di mandare di nuovo in sofferenza le strutture ospedaliere.

È l’unica misura, però, che Conte in persona ha bocciato: indigeribile per l’opinione pubblica italiana che ha pur sempre un terzo di popolazione in quella fascia d’età, tuttora attiva in molti servizi e professioni.

Levategli il vino

Gioco di società. Indovinate, fra queste 10 notizie, qual è quella inventata per farci quattro risate.

1. Un simpatico giudice di sorveglianza di Milano, siccome le prigioni italiane, e tantopiù quelle del 41-bis, sono il luogo più sicuro al mondo contro il Coronavirus (1 morto in tre mesi su 60mila detenuti), scarcera il boss Francesco Bonura autorizzandolo a girovagare fuori Palermo per matrimoni, funerali, banchetti pasquali e natalizi, facendosi scudo del ministero della Giustizia che però dice l’opposto: nessun mafioso o altro delinquente pericoloso deve uscire (anche perché fuori si rischia il contagio molto più che dentro). Così ora chi stava al 41-bis è fuori e chi era fuori sta al 41-bis.

2. Vittorio Feltri dichiara in tv che i meridionali “non soffrono di complessi di inferiorità: in molti casi sono inferiori”. Intanto pubblica in prima pagina l’editoriale quotidiano di Paolo Becchi, ma gli affianca un commento che lo definisce “incomprensibile” per “i lettori, i quali difficilmente arriveranno a leggere fino in fondo”, “di una noia più mortale del Covid”, insomma “solo dei cretini come noi possono ospitare un pistolotto quale quello che ci infliggi”. E sono soddisfazioni, per entrambi.

3. Su Italia1 (Mediaset) le Iene danno la caccia al temibile viceministro della Sanità Pierpaolo Sileri e alla moglie Giada Nurry, accusandoli di conflitto d’interessi perché la signora è nientemeno che impiegata in un’azienda fornitrice di mascherine (che è come accusare le Iene di aver frodato il fisco o corrotto Metta, Mills e De Gregorio). Per mancanza di tempo, è stato di nuovo rinviato il servizio delle Iene, pronto da 26 anni, sui conflitti d’interessi di un noto miliardario pregiudicato per frode, pluriprescritto e amico di mafiosi sceso in campo nel ’94 per farsi gli affari suoi, che stipendia le Iene.

4. Attilio Fontana, celebre per aver annunciato che il 4 maggio la sua Regione uscirà da sola dal lockdown con “la via lombarda per la libertà che passa dalle quattro D”, intima a Conte di non fare ciò che, diversamente da Fontana, mai aveva pensato di fare: “No a riaperture su base regionale, monche e zoppe, che non consentirebbero un equilibrato sviluppo alle regioni che aprono”. Guai se Conte desse retta a Fontana, dice Fontana.

5. Ieri le destre e i loro giornali ci avevano quasi convinti di essere in piena dittatura del Duce Conte: “Qui sta nascendo un nuovo dispotismo e sarà peggiore di quelli del passato” (Giorgio Agamben, Verità), “Quante leggi fascistissime: sembra il 1925” (Libero), “Nessuno parla delle libertà violate” (Giornale).

Poi, sempre ieri, la cocente delusione: “Conte Godot, le scelte non arrivano” (Giornale), “Conte parla tanto per non dire nulla”, “in stato confusionale” (Verità), “Conte cala le brache” (Libero). Primo caso di dittatore-re travicello indeciso a tutto. Peccato.

6. Nuova, meritoria campagna del Riformista, dopo quelle per non processare il suo editore Alfredo Romeo, assolvere tutti gli imputati del pianeta, scarcerare tutti i detenuti dell’orbe terracqueo, non arrestarne mai più, e scongiurare la nomina di una pericolosa incensurata alla presidenza Eni. Testuale: “Chiedere di abolire il carcere è un obbligo. Deve farlo ogni politico contrario a questa brutalità, a costo di giocarsi anche l’ultimo voto”. E, si capisce, di assicurarsi quelli di chi sta dentro e vuol uscire e di chi sta fuori e non vuol entrare.

7. Siccome il Mes prevede condizionalità giugulatorie per gli Stati che lo chiedono (vedi Grecia) e nessuno sa ancora se il “nuovo Mes sanitario” ne avrà, Conte dice che l’Italia non è interessata, almeno finché non saranno escluse tutte le condizionalità. Dunque i giornaloni titolano: “Conte apre al Mes”. E i migliori patrioti, dal trio Giavazzi-Alesina-Franco (Corriere) al duo Sorgi-Stefanini (Stampa) a Cappellini (Repubblica), raccomandano a Conte di impiccarci al Mes per fare dispetto a Di Maio. Cioè di arrendersi a Olanda e Germania prim’ancora di combattere al Consiglio Ue. E poi, possibilmente, di tagliarsi le palle per fare dispetto alla fidanzata.

8. La Corte d’appello di Milano che ha assolto Scaroni&C. per le tangenti Eni in Algeria, spiega che “la sola prova del pagamento di somme all’intermediario (197 milioni da Saipem alla scatola vuota a Hong Kong di un prestanome del ministro dell’Energia algerino, ndr) non esaurisce l’onere dell’accusa di dimostrare che il denaro sia stato promesso o versato” per un “patto corruttivo”. Giusto: poteva pure essere una colletta per i poveri orfanelli.

9. Aldo Cazzullo spiega sul Corriere che, se l’Italia ha ricevuto aiuti anti-Covid soprattutto da Cina, Russia e Cuba non è perché Cina, Russia e Cuba ce li hanno inviati, mentre quelli promessi da Trump non sono mai arrivati; ma a causa di una diabolica “strategia” del “governo a guida 5Stelle”. Che, a caval donato, non guarda in bocca. Dunque è anti “atlantico”.

10. Libero batte sul tempo gli scienziati di tutto il mondo e scopre in un colpo solo vaccino e cura contro il Covid-19: “Un bicchiere di rosso può stordire il virus”.

Soluzione. Le notizie sono tutte vere. Ma la 10 aiuta forse a spiegare la 1. E non solo quella.

Arbasino, soltanto fumo negli occhi (anche della critica)

Medén thaumázein, nihil admirari, non stupirsi di nulla. Questa massima della saggezza antica è attribuita da Plutarco a Pitagora: e dovrebb’essere regola di vita. Io sono troppo ingenuo rispetto a Cicerone e Orazio. Quindi, se paragono quel che i giornali scrissero alla morte di Leonardo Sciascia, uno che avrebbe dovuto quanto meno esser pregato di accettare il premio Nobel, a ciò che medio tempore hanno riempito a paginate per la scomparsa di Alberto Arbasino, non riesco a non admirari. (Ben vero, neanche Arbasino lo conseguì: per snobismo non era abbastanza buonista). Qui vorrei dire una mia opinione che cozza contro quella esposta dai più autorevoli.

Lessi nel 1967 Fratelli D’Italia, seconda edizione, Me lo volli far piacere a forza: sedicenne, m’attirava un libro dove si parlava con tanta libertà del vincolo omosessuale. Da allora non l’ho più ripreso in mano; me ne resta l’impressione che del lato omosessuale ci sia solo il blaterare di recchie di provincia, dal tono insinuante al gridolino isterico. I presunti romanzi basati su sillogi di articoli di giornale mi hanno sempre ispirato diffidenza. Ma i colti, gl’intelligenti, dicono che non è più possibile raccontare storie, occorre decostruire e perdere il centro. Ciò è verissimo se consideriamo due fra le sommità del Novecento, L’uomo senza qualità di Musil: e quanto a letteratura omosessuale pensiamo solo a I turbamenti del giovane Törless; e La morte di Virgilio di Hermann Broch; Arbasino viene considerato un esponente del romanzo-saggio, ma pensiamo alle due principali opere di Musil e Broch per ammettere che la differenza con lo scrittore di Voghera non è solo di statura, è anche essenzialmente qualitativa. I due buttano tutto se stesso in opere che sono sfida alla letteratura e alla vita, Arbasino butta sì qualcosa, il fumo negli occhi. E pure Sciascia mescola i generi: è il Maestro incontestato della novella-saggio.

Pierluigi Battista il tremulo attribuisce al povero Alberto una sterminata conoscenza dei classici greco-latini. Ma andiamo! Da come scriveva, Arbasino avrà al massimo letto il Satyricon, direttamente in italiano, senza testo a fronte.

Poi, non lessi molto di altro. Il SuperEliogabalo: ci cercavo Gibbon, ci trovai Artaud, e tu, Cara Salma, hai voluto metterti in competizione con Artaud….

Ero afflitto dal peso degli articoli su Repubblica. Avete idea del cattivo cuoco che mescola e sovrappone ingredienti affinché qualcosa ne esca? Per uno di Napoli, erano soliloqui di recchia, dal genere incerto, costituiti dall’accumulazione di meri fatti o oggetti visti o musica udita…. Ovvio, ricordare a chi non l’ha mai ascoltato Il cavaliere della Rosa diretto da Erich Kleiber. Splendidissimo, ma come non l’ho ascoltato io non l’ha ascoltato lui, ché la registrazione fu degli anni Trenta. Quella serie di accumulazioni e citazioni, ossessiva, aveva il bisogno di nascondere il nulla del pensiero; torno al cattivo cuoco che aggiunge, inoltre, la panna… E quella leziosa, interminabile serie di puntini di sospensione. Di musica non capiva niente; era un altro Mario Bortolotto, lo scopo del quale era épater piuttosto che parlare di ciò che è, e il quale al Quartetto op. 132 trova sempre superiore Ein musikalische Spass, e ai Valzer di Strauss antepone la loro trascrizione per armonium e complessino fatta da Schönberg perché anche questo Grande doveva mangiare. L’enumerazione, la digressione, l’accumulazione, vennero inventate da Flaubert, e sono una vera visione del mondo in ogni tipo di opera. Così i discorsi degli imbecilli. Arba arbae si limitava a registrare quel che sentiva nel suo ambiente aggiungendovi, quando non poteva farne a meno, un pizzico di umorismo.

Si credeva un elegantissimo, Anche su questo fatela dire a un napoletano. A Roma sarà riuscito a trovare un economico sarto di Voghera o Lodi; e su quelle tristissime colorate pochettes anche i miei occhi fanno scorrere copiose lagrime – perché, in fondo, tra la finta Signorina Snob (Franca Valeri sì ch’è un genio) e io, sono io il meno cattivo.

Un virus contro i Faraoni: l’Egizio rischia la chiusura

Anche il Museo Egizio di Torino sta lottando per sopravvivere al coronavirus. Dopo quasi due mesi di incasso zero, iniziano a far paura i 600.000 euro mensili di costi fissi: per quanto le utenze siano state ridotte del 40% e il Cura Italia stia fornendo un contributo per gli stipendi dei 55 dipendenti, il Museo non può farcela da solo. È quel che sta dicendo, con l’onestà intellettuale che lo contraddistingue, il direttore Christian Greco: “È impossibile stare dietro a queste perdite da soli, l’ultima cosa che vogliamo fare è consegnare le chiavi”. E ha anche aggiunto che, nel caso di ripartenza con tetto contingentato di ingressi, il museo potrebbe dover esser gestito con una logica da pizzeria: “Aprire al 50% non ci conviene – ha detto – se non entrano almeno 1500 visitatori al giorno siamo in perdita”. Nessuno dei soci locali della Fondazione – Regione Piemonte, Comune di Torino, Compagnia di San Paolo e Fondazione CRT – può o vuole accollarsi la salvezza dell’Egizio e così Greco e la presidente della fondazione Museo Egizio, Evelina Christillin, hanno scritto due settimane fa al quinto socio – il ministero per i Beni culturali – per segnalargli una situazione di pericolo che, se dovesse prolungarsi, finirebbe per mettere a rischio la conservazione stessa degli oltre 30.000 reperti: “Stiamo lavorando per ottenere un fondo anche per i musei non statali” risponde al Fatto lo stesso ministro Franceschini. Del resto le collezioni dell’egizio rimangono inalienabile proprietà statale.
Greco è probabilmente il miglior direttore possibile dell’Egizio, e l’amministrazione della Christillin non potrebbe essere più oculata: eppure la più importante collezione di reperti egizi al mondo dopo quella del Cairo sta correndo in questi giorni un pericolo fatale. Perché?
Quando, su Twitter, ho fatto notare che è stata una pessima idea trasformare in fondazione privata un museo statale, la responsabile del marketing e comunicazione del Museo Egizio, Paola Matossi l’Orsa, mi ha risposto, piccata: “Si è mai chiesto chi conserva, restaura, studia e cura le collezioni, chi consente la migliore accessibilità possibile, chi paga gli stipendi dei dipendenti dell’Egizio, chi sostiene i progetti di ricerca? Ecco, sono quei 1500 visitatori al giorno”. In effetti me l’ero chiesto più volte (per esempio in un mio libro del 2015, Privati del patrimonio), per concludere che era sbagliato e pericoloso trasformare i musei nazionali in prodotti costretti a stare sul mercato, o a dipendere dalle oligarchie bancarie locali. Al contrario, da tutti gli ultimi ministri per i Beni culturali, la Fondazione Museo Egizio è stata raccontata come la dimostrazione che la privatizzazione dei musei è cosa buona e giusta: da Veltroni che mise le pasticciate basi giuridiche perché lo Stato si spogliasse (sia pure per 30 anni) di quello straordinario patrimonio, a Giovanni Urbani che nel 2004 fece decollare la fondazione pensando bene di assegnarne la presidenza ad Alain Elkann, a Franceschini che lo ha preso a modello per la sua riforma dei musei, non nascondendo l’intenzione di far approdare prima o poi tutti i grandi musei autonomi allo stesso destino di privatizzazione (“ancora troppo poco applicata in Italia e su cui stiamo ragionando per diversi luoghi”, dichiarava nel 2015 in visita all’Egizio). Anzi, Alberto Bonisoli (ministro per i Beni culturali del Conte 1) mi disse che, quando subentrò a Franceschini, trovò che si era pronti ad andare di fronte ai notai per far nascere le varie fondazioni. Se questa formula fosse stata applicata, poniamo, agli Uffizi (come per esempio Dario Nardella esortava a fare in un articolo uscito su Aedon nel 2003), oggi a rischiare il degrado delle collezioni e il licenziamento del personale sarebbe il più grande museo italiano.
Questo è il momento di salvare prontamente il Museo Egizio, e (quando sarà possibile) di tenerlo aperto anche in perdita (come per tutti i servizi pubblici): e siccome solo lo Stato potrà farlo, subito dopo sarà anche il momento di rivedere alla radice il modello “(perverso) del museo-azienda che (recita un documento distribuito dalla Presidenza del Consiglio e poi prontamente sconfessato) ‘deve produrre il reddito necessario a sostenere conservazione e fruizione’” (così Salvatore Settis, nel 2006). Perché per quanto amiamo fare le privatizzazioni all’italiana, spero si converrà sul fatto che non è possibile che lo Stato paghi e il privato governi. Appare oggi plasticamente chiaro perché un processo storico secolare aveva portato a concludere che i musei – come le scuole e gli ospedali, terapie intensive incluse – non possono essere lasciati in balia del mercato: il dibattito futuro non potrà che partire da questo punto fermo.