Ritardi, impreparazione e retorica. Crolla la fiducia nel governo Philippe

La Francia delude. Varcata la soglia dei 20mila morti, il Paese si è sentito precipitare nel vortice dei più colpiti dall’epidemia e di quelli che hanno mostrato di avere meno preparazione per affrontarla. La fiducia dei francesi nel governo è in fase calante, l’incertezza delle misure sulla fine del lockdown, annunciata per l’11 maggio, si sposa con l’ampollosità e la lunghezza della comunicazione dei leader. Anche quando – come domenica scorsa – non hanno granché da annunciare.

La quota di insoddisfatti della gestione della crisi del coronavirus è cresciuta dal 46 al 58% in un solo mese, stando a un sondaggio Ipsos pubblicato ieri da Le Monde. Se il presidente Emmanuel Macron è quello che perde meno popolarità (dal 43% di un mese fa al 39%), è l’esecutivo a pagare il prezzo dell’evidente impreparazione, ammessa dallo stesso governo: mascherine, respiratori, letti in rianimazione, bluse per infermiere, guanti… la Francia è stata costretta a fare ordini internazionali (alla Cina) fuori tempo massimo, quando ormai tutto il mondo si è dovuto mettere in fila. Il tesoretto di 2 miliardi di mascherine che aveva accumulato nel 2011, dopo la crisi della H1N1, non si sa che fine abbia fatto.

Senza parlare dei 5mila posti letto in rianimazione con i quali si è presentata alla crisi, di fronte a una Germania che ha affrontato il virus con il quintuplo della possibilità di soccorrere i più gravi. Proprio il confronto con i tedeschi è uno degli elementi che fanno più soffrire i francesi, che puntualmente devono ringraziare il partner europeo per le decine e decine di malati francesi che ha dovuto ospitare nei suoi ospedali all’acme della crisi. Come hanno fatto anche Svizzera e Lussemburgo.

Sono 45 su 100 i francesi a provare “rabbia” per l’andamento dell’epidemia in Francia, mentre l’ansia aumenta giorno dopo giorno da quando c’è il lockdown.

Molti hanno criticato l’esercizio di comunicazione del premier Edouard Philippe, due ore e 20 di diretta tv e molto poco da dire: “La Francia declassata?”, si chiede il direttore di Liberation.

Gli 007 combattono il virus con una App come se fosse Hamas

Grazie alla pandemia di coronavirus è avvenuta una rivoluzione in meno di un mese, che ha messo da parte in Israele il diritto alla privacy. Milioni di cittadini sono adesso soggetti allo stesso monitoraggio un tempo riservato ai sospetti terroristi. Servizi segreti, polizia, ministeri. Diversi apparati dello Stato partecipano a questa rivoluzione. Dopo lo Shin Bet e il ministero della Salute, ora anche il ministero della Difesa e il Mossad sono scesi in campo. È preoccupante come questa rivoluzione sia avvenuta quasi senza proteste da parte di un pubblico concentrato sulla paura della pandemia. Il quotidiano Haaretz ha scritto che “le uniche proteste finora sono arrivate da una manciata di esperti della privacy e organizzazioni non governative, come l’Israel Democracy Institute, Adalah e l’Associazione per i diritti civili in Israele”.

Quando è diventato chiaro che il virus si stava diffondendo in modo incontrollato, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha emesso direttive di emergenza a metà marzo autorizzando lo Shin Bet – per aiutare il ministero della Salute – a rintracciare le persone attraverso le reti cellulari per scoprire chi era stato in stretto contatto con chiunque fosse positivo al coronavirus. L’iniziativa è stata intrapresa senza l’approvazione o la supervisione della Knesset, con il risultato di tre cause legali depositate all’Alta Corte di Giustizia per bloccarla.

I giudici hanno concesso allo Shin Bet solo l’approvazione temporanea per iniziare il monitoraggio, previo accordo con una qualche forma di supervisione della Knesset. Lo Shin Bet è stato autorizzato a raccogliere ulteriori informazioni, la posizione e i movimenti durante un periodo di quarantena di due settimane per tutte le persone che risultano positive al virus.

L’agenzia della sicurezza interna è in grado di ottenere anche i nomi, i numeri di identità e i dati di tutti coloro che sono entrati in contatto con un contagiato, inclusi l’orario e il luogo in cui si è svolto l’incontro. In questo caso si riceve un Sms che ordina di entrare immediatamente in quarantena. I movimenti di oltre 13.000 casi confermati di coronavirus in Israele vengono monitorati in questo modo, ma non è noto quante altre persone sono sotto sorveglianza per essere entrate in contatto con loro. Una settimana dopo l’inizio di questo monitoraggio, il ministero ha lanciato un’app chiamata Magen (Protezione) per avvisare gli utenti quando hanno un possibile contatto con una persona che risulta positiva al coronavirus in base a dove si è trovata. L’app è stata sviluppata con la National Cyber Security Authority è adesso sul cellulare di quasi 2 milioni di israeliani. Dal momento in cui viene scaricata, raccoglie e memorizza informazioni su dove l’utente è stato per un periodo di 14 giorni. Per la tutela della privacy, il ministero, tuttavia, non conosce l’identità dell’utente. La app consente di sapere se sei entrato in contatto con qualcuno infetto dal coronavirus, ma a differenza del caso del sistema Shin Bet, spetta all’utente decidere come applicare le informazioni.

Lo stato di emergenza autorizza anche la polizia a ottenere dati sulla posizione dai cellulari degli israeliani a cui è stata ordinata la quarantena. Questo per garantire che aderiscano alle regole. A loro volta, tali informazioni saranno fornite alle autorità locali in cui risiedono, che dovrebbero usarle per controllare le restrizioni, individuare coloro che sono stati in contatto con un contagiato. Il ministero dell’Interno ha promesso di rispettare la privacy di coloro che sono nel database, ma non ha rivelato quali meccanismi sta usando per trasmettere le informazioni alle autorità locali o proteggere i dati in loro possesso. Il Mossad è stato l’ultimo a unirsi alla rivoluzione. La scorsa settimana, il governo ha emesso una richiesta di informazioni per start-up e ricercatori accademici per sviluppare strumenti per il Mossad per analizzare e monitorare i movimenti delle persone, per analizzare i dati per geografia e parametri socioeconomici e per monitorare le comunità, come le persone rispettino il distanziamento sociale, direttive e comportamenti pertinenti.

“Incubo Congo, qui c’è anche l’Ebola”

“Se un Paese è per decenni devastato da guerre e problemi interni, il sistema sanitario è il primo a saltare”, racconta Davide Scalenghe, responsabile della comunicazione di Medici senza Frontiere nella zona orientale del Congo, attorno al lago Kivu. Teatro di scontri interni e per procura a causa delle enormi risorse naturali che fanno gola a tutti, questa area dal 2018 è colpita dall’Ebola, a cui si è aggiunta il mese scorso l’epidemia da Covid-19 .

Agli inizi di marzo, Medici senza Frontiere ha cominciato a operare per delimitare e curare il Covid-19 dato che, come accade anche nei Paesi sviluppati, questa epidemia richiede molti farmaci e competenze specifiche. Due settimane fa, mentre il governo congolese stava per dichiarare la fine della epidemia da Ebola, è scoppiato un nuovo caso, oggi arrivati a 6, e di conseguenza ora bisogna combattere ben due epidemie contemporaneamente. Le autorità hanno messo a capo del pool sanitario d’emergenza il premio Nobel per la Pace, Denis Mukwege.

Quanti sono i casi di Covid-19 attualmente scoperti?

Finora 350, di cui 25 morti.

Quali sono le difficoltà principali che state incontrando per curare il Covid-19 nel contesto in cui vi trovate ?

Prima di rispondere vorrei ricordare che qui le strade sono in pessime condizioni e distiamo ben 1.500 chilometri dalla capitale Kinshasa raggiungibile solo in aereo. Per questo il centro di riferimento è Bukavu, più vicina. Muoversi per andare a fare i tamponi e poi mandarli in queste città dove ci sono i pochi laboratori è già di per sé un’impresa. Se fosse anche più semplice muoversi, rimarrebbe il fatto che i contagiati reali sono difficilmente tracciabili perché di tamponi e di test sierologici ce ne sono molto pochi. Un altro enorme problema è la mancanza di ventilatori, in tutto il Paese ce ne sono 80, di cui 20 qui, su una popolazione di quasi 100 milioni di abitanti. Manca anche il personale qualificato, ossia i rianimatori e gli anestesisti, che per Ebola non erano richiesti. Noi provvediamo per quanto possiamo.

Secondo lei i dati ufficiali corrispondono a quelli reali?

Non credo. È altamente improbabile che corrispondano.

Il vostro team da quali figure professionali è composto ?

Il team di MSF è composto da medici, infermieri, esperti in logistica, promotori della salute e psicologi che stanno mettendo a disposizione la propria esperienza nella gestione delle epidemie supportando ospedali e centri di salute, formando gli operatori sanitari sulle misure per contenere il virus, e proteggendo persone vulnerabili come anziani, senzatetto e rifugiati, in collaborazione con le autorità sanitarie locali. Msf ha lanciato un fondo globale dedicato proprio al Covid-19 . Christos Christou, presidente internazionale della nostra Ong ha dichiarato: ‘In decine di Paesi stiamo adattando e mettendo a disposizione la nostra esperienza nella gestione delle epidemie. Ma saranno la solidarietà internazionale e il coinvolgimento delle comunità la chiave fondamentale per combatterla’. Se l’epidemia dovesse crescere esponenzialmente in questo continente, sarà un’ecatombe.

Migranti e lavoro, Trump usa il Covid per la sua campagna

L’epidemia come scorciatoia per realizzare le promesse mancate della sua presidenza, dal blocco dell’immigrazione alla restituzione agli americani dei posti di lavoro nel manifatturiero. Certo, è una scorciatoia seminata di decine di migliaia di morti – lui considera un successo non andare oltre 60mila – e di decine di milioni di disoccupati – già 22,5 milioni in cinque settimane –, l’economia in recessione e il petrolio addirittura “sotto zero” (bisogna pagare per venderlo). Ma tutto ciò è sempre colpa di qualcun altro: la Cina, che non si sa che cosa combini nei laboratori di Wuhan – e chi se n’importa se gli scienziati assicurano che il virus è naturale, dagli animali all’uomo, e non è una manipolazione genetica –; dell’Oms che tiene bordone alla Cina e non diede l’allarme in tempo – circostanza smentita –; degli esperti che, se fosse per loro, “terrebbero chiuso tutto”; e dei governatori (democratici) che non vogliono riaprire, magari perché sono alle prese con focolai di contagio ostinati.

A causa “dell’attacco del nemico invisibile”, Donald Trump annuncia il blocco temporaneo dell’immigrazione negli Usa: di briefing in tweet, il magnate presidente afferma la necessità “di proteggere i posti di lavoro del nostro grande Paese” – gli agricoltori di California e Texas s’arrangino, per gli stagionali che garantiscono il raccolto –. Trump esalta la rinascita dell’America dal lockdown anti-epidemia e loda i governatori che stanno riaprendo i loro Stati, allentando o revocando del tutto le restrizioni: il presidente, in piena campagna elettorale, torna a solleticare, come fece con successo nel 2016, gli istinti anti-establishment dell’individualismo americano, ammiccando alla Alt-right, ma anche ai libertari, cioè i renitenti alle regole, specie se sono imposte dallo Stato. L’America è guarita? Mai stata così malata, dicono le cifre, anche se il contagio potrebbe avere raggiunto il suo picco e, in alcuni Stati, anche in quello di New York, il più colpito, sta calando. Secondo i dati della Johns Hopkins University, che lunedì contava 1.433 decessi, i positivi al virus negli Usa s’avviano a raggiungere quota 800 mila – un contagiato su tre al mondo è statunitense –, mentre le vittime hanno ormai superato quota 42mila. Ma il Texas e gli Stati del Sud cominciano a riaprire attività non essenziali, stimolati dal presidente e sotto la pressione delle proteste di piccoli imprenditori: nelle numerose manifestazioni dei giorni scorsi, non sono mai mancati i cartelli della campagna di Trump. Indizio di una regia che non sarà forse del presidente, ma certo del suo staff. Fra gli Stati che riaprono, oltre al Texas, c’è la South Carolina che autorizza la riapertura di empori, negozi al dettaglio e mercati dell’usato, a patto di rispettare le linee guida sulle distanze sociali. Inoltre, la Georgia darà via libera da venerdì 24 a palestre, barbieri e parrucchieri, saloni di bellezza, centri massaggi e tatuaggi; e da lunedì 27 anche a ristoranti e cinema. In Tennessee, l’ordine di stare in casa sarà revocato a partire dal 30 aprile; nell’Indiana dopo il 1° maggio. Conscio che il magnate sta utilizzando l’epidemia per ritrovare la sintonia col suo elettorato nonostante i morti, i posti di lavoro perduti e il tonfo del Pil, Joe Biden, il candidato democratico alla Casa Bianca, esce dal riserbo degli ultimi giorni e attacca Trump: ha fallito – sostiene –, perché non ha agito in tempi rapidi contro l’epidemia e ciò “sta costando enormemente all’America”. “È finito il tempo delle scuse”, aggiunge Biden, riferendosi al fatto che il presidente scarica puntualmente la responsabilità di quanto accade su altri. L’ex vicepresidente di Obama si sente forte dell’unità del partito ritrovata sul suo nome e sta per ricevere l’endorsement di Michelle Obama, una wild card da giocare con le donne e i neri (c’è chi s’immagina un “dream ticket” Joe-Michelle, anticamera d’una presidenza dell’ex first lady nel 2024).

Dalla Casa Bianca, il magnate presidente difende il suo operato: “Da mesi non lascio la Casa Bianca e ho salvato molte vite umane”, sostiene, citando la decisione di bloccare i voli dalla Cina, anche se in realtà alcuni collegamenti sono tuttora operativi e il divieto d’ingresso negli Usa dalla Cina non vale per i cittadini statunitensi, i residenti e le loro famiglie. In prospettiva elettorale, l’epidemia allunga la sua ombra sull’Election Day: secondo un sondaggio del Wall Street Journal, una netta maggioranza di americani, il 58%, è favorevole a rivedere e cambiare la legge elettorale, in modo che tutti abbiano la possibilità di votare per posta. Due quinti degli intervistati sono invece contrari. I lockdown hanno già alterato la corsa alla Casa Bianca, inducendo diversi Stati a rimandare – per ora a giugno – le primarie previste tra aprile e maggio.

Niente stipendi, quindi niente aiuti Il paradosso dei 150 operai di Teramo

In un tempo nemmeno troppo lontano produceva componenti in fibra di carbonio commissionate dalla Ferrari e da altre case automobilistiche. Oggi, invece, l’Atr di Colonnella (Teramo) costringe i suoi 150 lavoratori a vivere da quattro mesi senza stipendio. Questa volta il Covid-19 non c’entra: il lockdown di questa azienda è arrivato diversi mesi prima della diffusione del virus. La beffa per le persone coinvolte da questa crisi è che, in una fase come questa, non riescono ad accedere ad alcun sussidio, né nazionale né regionale.

Mancano le buste paga di gennaio, febbraio, marzo e aprile, oltre a quella di luglio 2019. Per questo hanno scioperato per tre settimane. Ieri mattina hanno incassato l’ennesima promessa da parte del proprietario: Antonio Di Murro, che si è preso l’Atr ad agosto 2019, ha assicurato durante un incontro in Prefettura che verserà i salari entro la fine del mese. Un po’ come aveva fatto due mesi prima, indicando come data ultima metà febbraio. “Ci ha detto che sta facendo un’operazione con una banca inglese per un finanziamento da cinque milioni di euro e che si sta concludendo positivamente”, ha raccontato Mirco D’Ignazio della Fiom di Teramo, presente al tavolo. Altri dieci giorni di preghiere per gli operai.

A partire dal 9 marzo, tra l’altro, era stato raggiunto l’accordo per avviare la cassa integrazione ordinaria (non quella prevista per il coronavirus). Sarebbe stato un sollievo, ma c’è un problema: l’azienda non ha ancora inviato all’Inps tutta la documentazione necessaria per attivare l’ammortizzatore sociale, quindi nulla è ancora arrivato nelle tasche degli addetti. Intanto 50 di loro hanno lasciato l’Atr: gli altri cento sono ancora in difficoltà.

Nemmeno le forme di sostegno introdotte dalla Regione Abruzzo possono intervenire, perché sono destinate solo a chi è disoccupato. Queste persone, invece, un datore di lavoro ce l’hanno, solo che non li paga.

Il percorso tortuoso dell’Atr è iniziato ben dieci anni fa, con lo stato di insolvenza e l’ammissione all’amministrazione straordinaria del 2009. Un lungo processo per la vendita che nel 2011 ha assegnato la società a Valter Proietti (socio industriale) e Primo Massi (finanziatore). Quest’ultimo ha mollato a fine 2013: da quel momento l’impresa si è retta solo sui pagamenti dei committenti e sono cresciuti i debiti. Otto mesi fa, le quote sono passate al costo simbolico di un euro ad Antonio Di Murro, imprenditore abruzzese che tre anni fa aveva provato – senza riuscirci –a comprare la Vitrociset, azienda tecnologica del settore difesa (è coperta dal golden power), oggi in mano a Leonardo.

Come e perché il petrolio crolla e cosa succede ora

La recessione indotta dal Covid-19 sta trascinando il petrolio, la principale fonte di energia al mondo, verso territori inesplorati. I contratti future di maggio sul petrolio americano hanno toccato il valore negativo di -40 dollari, per poi risalire a 5 dollari. Alla base dei prezzi negativi dei future ci sono problemi tecnici relativi all’esaurimento della capacità di stoccaggio del petrolio, ma le pressioni al ribasso sono tremende. I prezzi del Brent, il petrolio del Mare del Nord, hanno toccato i 20 dollari al barile. A inizio anno erano a circa 70 dollari. È un tracollo del mercato petrolifero senza molti precedenti storici.

Come si è arrivati fin qui? Agli inizi di marzo, quando l’emergenza sanitaria aveva cominciato a farsi sentire fuori dalla Cina, Russia e Arabia Saudita hanno rotto l’alleanza che teneva assieme loro e altri Paesi produttori dal 2016 – la Opec Plus – scatenando una guerra per accaparrarsi quote di mercato. La società nazionale saudita Saudi Aramco è arrivata a produrre il suo massimo storico di 12,3 milioni di barili al giorno (mbg). Mai tempistica fu più improvvida. La domanda di petrolio infatti iniziava già a tracollare, anche perché il settore dei trasporti, da quello aereo a quello su strada, andava in ibernazione in tutto il mondo. Tanto per dare un’idea, in Spagna la vendita di carburante per aerei e di benzina per auto è diminuita rispettivamente del 93% e dell’83% rispetto alla stessa settimana dal 2019. L’Agenzia internazionale dell’energia, solitamente prudente, ha predetto una riduzione del consumo di petrolio di 30 mbg ad aprile e di 10 mbg per il 2020. Sarebbe la prima diminuzione consistente dei consumi dall’inizio degli anni 80. I prezzi del petrolio iniziavano così il loro declino inarrestabile. Poi il colpo di scena. Il presidente Usa Trump, che ha esultato a ogni calo dei prezzi del greggio e definito ogni taglio dell’Opec “un furto”, si trasformava nel broker di un accordo fra i Paesi produttori, bombardando di telefonate il presidente Putin e l’erede al trono saudita Mohammad bin Salman. Trump temeva per la bancarotta del settore dello shale americano, nonché per la perdita di occupazione in Stati petroliferi come il Texas, dove l’industria petrolifera rappresenta il 10% del Pil e impiega 360mila lavoratori. Grazie all’intervento di Trump, e con la benedizione dei ministri dell’Energia del G20, appositamente convocato a Riyad, l’Opec Plus ha faticosamente raggiunto il 12 aprile un accordo definito “storico”, con un impegno al taglio di 9,7 mbg per maggio/giugno.

Già il giorno successivo allo storico accordo, il mercato prendeva atto che il taglio era assolutamente inadeguato. Molti cominciavano a chiedersi quale fosse la contropartita americana per i tagli Opec Plus, non esistendo alcun concreto impegno americano a ridurre la produzione. A differenza dei leader Opec, infatti, Trump non ha potere sulle decisioni di imprese private. La Texas Railroad Commission, autorità che potrebbe invece intervenire sulla produzione petrolifera del Texas (il terzo maggior produttore al mondo), resta ancorata a un’ideologia liberista che vede nella regolazione il primo passo verso il socialismo. Insomma, a oggi nel mondo non esiste un’impalcatura di accordi internazionali che possa stabilizzare il prezzo del petrolio.

Le società petrolifere internazionali (tutte) e quelle nazionali (parecchie) con questi prezzi non sono in grado di generare profitti. L’Eni si era mossa a marzo con vari tagli degli investimenti in previsione di un prezzo del Brent di 40-45 dollari (siamo alla metà). Le società del fracking negli Stati Uniti, che tra il 2006 e il 2015 hanno già speso 80 miliardi in più rispetto alle entrate, rischiano un crac finanziario di proporzioni epocali. I principali Paesi produttori, che dipendono dalle entrate petrolifere per sostenere la spesa pubblica, vedono aprirsi il baratro davanti a loro. Questo vale per l’Arabia Saudita (che può pareggiare il proprio bilancio con un prezzo sopra gli 84 dollari) così come per la Russia (con un break even più basso a 48 dollari).

Da questa crisi si può uscire in due direzioni. La prima, molto complicata, è quella “cooperativa”. Considerando che i Paesi Opec Plus producono meno del 50% del greggio mondiale e che la domanda sta crollando un accordo per regolare la produzione deve essere globale. Deve coinvolgere strutturalmente, e non solo con i tweet di Trump, anche gli Stati Uniti. Questo significherebbe un intervento statale senza precedenti nel settore energetico, un abbassamento dei margini di profitto per le imprese nel medio periodo e maggiori pressioni pubbliche per velocizzare la riconversione delle società petrolifere verso il low carbon (un percorso già intrapreso, ma a passo di lumaca).

L’altra via è quella “competitiva”: tutti contro tutti. Questo significa la bancarotta dello shale americano (oppure l’introduzione di dazi commerciali combinata con un impopolare quanto inevitabile salvataggio pubblico del settore), nonché fusioni a raffica tra le imprese energetiche, visto che con prezzi del petrolio e valori in Borsa in calo è più economico comprarsi il petrolio degli altri piuttosto che investire in esplorazione. Queste fusioni potrebbero coinvolgere anche le società nazionali dei Paesi Opec: Saudi Aramco, per esempio, ambisce ad agire secondo una logica puramente “commerciale” e sta già comprando quote di società europee.

Se dovesse prevalere lo scenario “competitivo” i prezzi del greggio resterebbero molto bassi nel medio periodo, mettendo in seria difficoltà le energie da fonti rinnovabili rispetto a quelle fossili (a meno di ulteriori incentivi e/o di una corposa carbon tax), e rendendo irrealistici i piani di trasformazione verde presentati da società e governi in quest’ultimo anno.

Le porte girevoli dei berluscones: via vai alla Cassa di risparmio di Asti

Ad Asti,nel Piemonte bersagliato dal Covid-19, la banca di territorio resta un affare in mano alla politica o, meglio, a una parte politica. Qui il matrimonio tra finanza e centrodestra regge bene e potrebbe essere rinsaldato il 29 aprile quando l’assemblea degli azionisti della Cassa di risparmio di Asti eleggerà il nuovo presidente. Il candidato più forte, sostenuto dalla Fondazione Cassa di risparmio di Asti, principale azionista col 31,8 per cento delle quote, è Giorgio Galvagno, ex socialista passato a Forza Italia, sindaco dal 1985 al 1994 e poi ancora dal 2006 al 2012, con un intermezzo da deputato tra il 2001 e il 2006. Sarebbe un ritorno in grande stile per questo ex insegnante di educazione fisica già consigliere dell’istituto astigiano tra il 2010 e il 2013 (quando era sindaco) per passare poi a quello di Biverbanca (la Cassa di risparmio di Biella e Vercelli), dove è assurto al titolo di vicepresidente. Adesso potrebbe tornare a casa salendo un nuovo scalino. Non è il primo caso di porte scorrevoli tra banche e politica ad Asti. L’attuale sindaco di Forza Italia, Maurizio Rasero, che di Galvagno fu assessore al commercio, è stato vicepresidente della Cassa dal 2013 fino al 2017. Il suo predecessore, Fabrizio Brignolo (all’epoca del Pd), vestiva i panni di sindaco, presidente della Provincia e consigliere dell’istituto bancario fino alla decisione del tribunale cittadino che decretò l’incompatibilità delle ultime due cariche. In città qualcuno vorrebbe sapere se i controllori stiano verificando i requisiti e i potenziali conflitti di interesse. Il deputato M5S Paolo Nicolo Romano ha scritto un’interrogazione al ministero dell’Economia, l’ente che per legge vigila sulle fondazioni bancarie. “Non è ammissibile la nomina a presidente di soggetti, a giudizio dell’interrogante, senza alcuna competenza specifica”, sottolinea. Galvagno “non possiede le capacità specifiche necessarie ad ottemperare i requisiti richiesti”, scrive invece alla Banca d’Italia il consigliere comunale M5S Massimo Cerutti.

Effetto Covid:la corsa veloce della grande distribuzione

L’ultimo a unirsi alla schiera di chi ha adocchiato l’affare della spesa online ai tempi del coronavirus è Deliveroo: qualche giorno fa, ha annunciato che i suoi rider, oltre al cibo già pronto dai ristoranti, consegneranno a domicilio anche la spesa. La torta è a disposizione di tutti, dalle piattaforme di intermediazione alla grande distribuzione che organizza da sola la propria logistica, fino ai gruppi e ai comitati di quartiere che invece offrono un ammirevole servizio gratuito e di assistenza in un momento critico. Consegnare a casa ha diversi vantaggi: riduce il numero delle persone in fila per ore a causa delle restrizioni da Covid-19 e, in generale, il rischio di contagio; offre un servizio aggiuntivo che potrebbe resistere all’emergenza, ha un ritorno di immagine consistente (moltissimi offrono consegna gratuita agli over 65) e contribuisce ad aumentare le entrate col minimo sforzo.

Negli ultimi due mesi, gli ordini per la spesa online sono talmente tanti che ci sono tempi di attesa anche per le consegne, da pochi giorni a settimane. C’è fila anche online. Ogni giorno nascono nuovi servizi e iniziative, da Tispeso.it a Portamelo.it. L’aspetto costruttivo, secondo gli esperti, è che il coronavirus possa aver generato un cambiamento nelle abitudini dei consumatori tale da far sopravvivere il cosiddetto “e-grocery” anche nel post-emergenza. Sono comunque numeri in crescita in un contesto di numeri altrettanto in crescita. In generale, dall’inizio del lockdown, il comparto della Gdo ha registrato un incremento importante: l’ultima rilevazione Nielsen riguarda la settimana tra il 6 e il 12 aprile. A parità di negozi, si è registrato un aumento dell’11,8 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (e anche rispetto alle passate settimane pre-pasquali). Già nelle settimane precedenti c’era stata una forte accelerazione, con una crescita a doppia cifra in alcune categorie per il periodo iniziale della quarantena (e in media dell’8 per cento) e una stabilizzazione intorno al 6 per cento nelle settimane prima di quella di Pasqua.

Ma cosa comprano gli italiani? L’aumento degli acquisti va ricondotto a due motivi: il cosiddetto effetto “stock”, con un aumento nelle categorie della drogheria alimentare a lunga conservazione come riso (+33 per cento), conserve animali (+29 per cento), pasta (+25 per cento), derivati del pomodoro (+22 per cento), sughi e salse (+19 per cento). Il secondo è l’effetto “prevenzione e salute”, che ha prodotto un incremento delle vendite delle categorie della cura della persona, dal comparto parafarmaceutico (+112 per cento) a quello dell’igiene personale (+15%).

Sempre secondo le rilevazioni Nielsen, di conseguenza è cresciuta la spesa online toccando un picco del 178 per cento in più nella settimana di Pasqua. A marzo – stavolta secondo uno studio della piattaforma di spesa online per i piccoli negozi spesarossa.it (che ha preso in considerazione il traffico di utenti, i tempi di permanenza sui siti, le pagine viste e il bounce rate, che valuta l’aspettativa del visitatore) – il campione nel settore è stato Supermercato24, una delle aziende più famose, che mira a espandersi nei piccoli centri e all’estero e che è ritenuta tra le più affidabili: la piattaforma è cresciuta del 1.230% rispetto allo stesso mese del 2019, ha introdotto una copertura assicurativa per una indennità agli shopper in caso di ricovero, convalescenza o interruzione dell’attività per Covid-19 e previsto che i clienti possano lasciare mance digitali. Se già i ricavi del 2019 erano stati di 30 milioni (con un fatturato raddoppiato negli ultimi tre esercizi) quest’anno i risultati dovrebbero essere ancora più positivi. Come quelli di chi invece decide di gestire da sé: Esselunga, ad esempio, nella stessa settimana ha registrato quasi nove milioni di contatti su esselunga.it e sette milioni di visite su esselungaacasa.it.

Ho fatto la shopper per 15 giorni: pochi soldi e niente mascherine

Otto: è il numero delle casse d’acqua da due litri a bottiglia che un cliente ha chiesto di ricevere nella sua casa in centro, quattro da un supermercato, quattro da un altro, rispettivamente alle 9 e alle 10 del mattino, insieme al resto della spesa. La applicazione, quando mi ha assegnato l’ordine, non mi ha detto che ci sarebbero state. Sono furbi, non si può sapere prima che cosa si dovrà acquistare, lo si scopre solo una volta arrivati al supermercato.

Iscriversi a una delle piattaforme per diventare una sorta di rider per le consegne della spesa online è stato molto più semplice di quanto lo sia in tempi normali: il picco di richieste di consegne a domicilio ha fatto riaprire “le assunzioni” rapidamente. Oggi, soprattutto nelle grandi città, i supermercati sono tappezzati di annunci per lavorare come shopper. Le restrizioni per il Covid-19 hanno generato una folle corsa ai supermercati, la grande distribuzione ha stretto accordi con le piattaforme (soprattutto per i punti vendita più isolati e meno raggiungibili), la crisi economica ha aumentato la disponibilità di manodopera a basso costo. A differenza dei rider, che devono solo consegnare, agli shopper tocca però anche fare gli acquisti.

Colloquio e corsi: tutto online e a distanza

In poche ore mi sono candidata sul sito della piattaforma e mi hanno ammesso al “colloquio”: tre video da dieci minuti ognuno e una decina di domande a cui rispondere: “Se il cliente vuole lo yogurt magro della marca X ma non c’è, cosa gli prendi?”, “Se la tua sostituzione non rientra nel range di prezzo indicato, cosa fai?”, “Come conservi la cernia surgelata se fa caldo?” “Ti è chiaro che sarai pagato a fine settimana?” “Se la app ti dice di pagare con la carta che ti viene fornita, tu che fai?” “E se non trovi la casa del cliente?. Dopo circa mezz’ora hanno stabilito che ero idonea. Ho inviato i miei dati e le scansioni dei documenti, compilato il profilo, mi hanno inviato un contratto in cui si sancisce che mi avvalgo della prestazione d’opera occasionale, che sono un soggetto autonomamente organizzato, che lavoro con mezzi propri e che rispetto il codice etico e che ho molte responsabilità. Ho firmato digitalmente. “Ti diremo dove ritirare il kit”. La consegna, una settimana dopo, nel parcheggio di un supermarket.

Il cliente ha ragione, anche in emergenza

Quasi tutti i clienti scelgono di essere chiamati al termine della spesa per discutere dei prodotti ordinati ma non disponibili. Caso esemplare: erano finiti farina e lievito di birra, ma anche disinfettante, Amuchina, bicarbonato, guanti. Il cliente vuole che li sostituisca con prodotti simili, quelli che gli ho proposto non gli vanno a genio, che gli dica al telefono di cosa è fornito il supermercato, che non sfori neanche di un centesimo il budget che ha previsto. La scena si ripete a ognuno degli ordini che estinguo nei 15 giorni di lavoro. Corro tra gli scaffali, leggo e raffronto marche e prezzi, inserisco i pesi precisi dei prodotti, avviso se non sono disponibili o se del salmone c’è in offerta il trancio anziché il filetto. “Ma l’immagine sul sito mostrava un filetto!” si lamenta una signora che non vuol pagare di più. A volte i punti vendita e le piattaforme non comunicano sulle forniture, il ricambio merci è troppo veloce e tutto si complica. “Siete inaffidabili!” mi urla al telefono, che intanto registra la chiamata per il controllo qualità. Nonostante abbia soddisfatto tutte le richieste dell’ordine, anche quelle di dettaglio (“L’avocado né troppo maturo, né acerbo. La mortadella sottilissima. Il prosciutto un po’ più spesso”), mi lascia un feedback negativo.

Pesi massimi, ma sempre stessa paga

Spingo in cassa due carrelli da 260 euro di spesa, imbusto tutto in 15 sacchetti con attenzione. Tre si romperanno nel trasporto. Quando sono diventata shopper, mi hanno indottrinato: ho diviso i surgelati e i freschi nelle borse termiche che ho comprato io (perché le due fornitemi erano troppo piccole rispetto alla mole di richieste), i detersivi e i prodotti non commestibili isolati, le uova in alto. Tutto in equilibrio sui 30 pacchi di pasta in offerta e 20 lattine di legumi. Poi, carrelli pieni, vado a chiedere la fattura al punto informazioni facendo attenzione a rispettare un metro di distanza e con mascherina e guanti ben posizionati. Li ho comprati io, dicono rimborseranno ma non è chiaro come. E ancora: garage, carica l’auto, cerca l’indirizzo della consegna, ignora le notifiche della piattaforma che prima ti avvisa che manca mezz’ora al termine della consegna, poi che sei in ritardo, poi ti chiede quanto ti ci vorrà ancora. Nella settimana prima di Pasqua, l’assistenza mi contatta continuamente su Whatsapp per sapere se voglio accettare ordini fuori dall’orario di disponibilità. “Ti diamo un bonus di 3 euro, lo fai?”. Rispondo di sì mentre sono ferma al semaforo. cambio il terzo paio di guanti della giornata e la seconda mascherina. Il parcheggio non c’è quasi mai, l’auto è in doppia fila a 100 metri dall’indirizzo. Scaricare richiede cinque viaggi. Il palazzo è vecchio, l’ascensore c’è ma è al termine di una rampa di 15 scalini, la piattaforma assicura al cliente la consegna al pianerottolo. Tutta l’operazione, dall’ingresso al supermercato alla selezione molecolare di frutta, verdura (un finocchio, tre lattughe, due zucchine, una melanzana, una pianta di rosmarino, 200 grammi di pomodorini, un etto di zucca, una mela, due pere, tre banane) e carne fino al ritiro dei soldi dal cliente, ha richiesto due ore e mezza, sudore, 20 chilometri in auto e mal di schiena. Per un guadagno di 10.34 euro, niente mancia.

Compensi: arrotondare al tempo del Covid-19

In tempi normali e su carta, basterebbero ad arrotondare, come raccontano in molti sui forum. Con la mole di lavoro dell’emergenza, però, i compensi rischiano di sfiorare lo sfruttamento nonostante la crescita record delle piattaforme. In media, sono previsti 6 euro di base a consegna: una parte è fissa (circa 3 – 3,5 euro), il resto intorno ai 15 centesimi per categoria di prodotto. Ci metto un po’ prima di capire che “il computo variabile” si calcola per il numero di categorie e non per i pezzi. Tradotto: se compro una cassa d’acqua o ne compro dieci, il mio guadagno corrisponderà sempre a 15 centesimi. Se poi si è particolarmente bravi e si effettuano più ordini contemporaneamente nello stesso punto vendita, anziché essere premiati si rischia di veder ridotto il compenso. Rifiutare innesca la reazione degli algoritmi tipica della gig economy: meno ordini e perdita di bonus. Non vale però in questo caso: le piattaforme hanno così bisogno di lavoratori che anche i ritardi sono tollerati, impensabile fare e consegnare spese da 200 euro in un’ora come vorrebbe la app in tempi normali. Peccato che il compenso è praticamente lo stesso. L’unico modo per guadagnare di più grazie ai bonus è dare più disponibilità o convincere altri a diventare shopper.

“Sono senza lavoro, così mi assicuro le entrate”

Durante una delle consegne, conosco Giovanni. Aspettiamo il turno al banco dei salumi (avremmo precedenza, ma le persone non mollano il loro turno facilmente). Le uova allevate a terra del suo ordine non ci sono, mi chiede se possono andar bene quelle normali. “Io non faccio questo nella vita, sono un operaio in cassa integrazione”, spiega. Racconta che non sa se vedrà uno stipendio nei prossimi mesi, ha moglie e tre figlie. “Non mi fido mica dello Stato. Nel dubbio, meglio questo”. Inserisce in media 9 ore di disponibilità al giorno e lavora anche la domenica.

“La sera sono distrutto: non ho mai visto tutta questa spesa, la gente deve essere impazzita, teme di non uscire più di casa o che finisca la roba. O magari non vuole fare la fila”. La paga? “Non posso lamentarmi perché non c’è alternativa ora”. Ride: “Almeno non c’è traffico”. In realtà sa che non è abbastanza. “Può pure andar bene con commesse normali e part time. Ma se diventa una attività a tempo pieno e muove ordini di queste dimensioni, non può bastare un bonus. Lo spendo in cerotti per la schiena”. Ad aprire la porta, nelle 30 consegne fatte in 15 giorni, la maggior parte delle volte erano universitari o famiglie con bambini. Solo in dieci hanno scelto la consegna “a porta chiusa”, sul pianerottolo. In due casi ho consegnato a persone disabili, in cinque ad anziani. “Grazie per quello che fate in questo periodo – mi ha detto un signore al quarto viaggio per consegnare i suoi sacchetti al terzo piano, senza ascensore (c’è bonus) – siete davvero preziosi in questo momento”.

È vero. E dovremmo essere pagati come tali.

Il vero crollo misurato dai consumi elettrici L’Italia a picco: -20%

“Ci sono momenti in cui tutti noi abbiamo bisogno di più energia”, è lo slogan di uno spot lanciato dall’Enel all’esclusivo scopo di lubrificare i giornali in preparazione della riconferma dell’amministratore delegato, Francesco Starace. Ma non è vero: in questa crisi epocale abbiamo bisogno di poca energia, perché impianti industriali, aerei e auto sono fermi, quindi si consuma meno carburante, come è evidente dal crollo del prezzo del petrolio che è arrivato a valori negativi (in pratica i produttori pagano per smaltire i barili prodotti). Meno ovvio è usare i consumi energetici come misura dello stato di salute dell’economia in un momento in cui non ci sono altri dati affidabili. Secondo un’analisi del professor Steven Cicala della Harris School of Policy di Chicago, in un mese l’economia italiana è crollata del 20 per cento, quella del Nord produttivo addirittura del 30 per cento. Nel resto d’Europa la discesa è stata di molto inferiore, -10 per cento. La ricerca è stata realizzata in collaborazione con la Fondazione Utilitatis, che pubblica dati e analisi per migliorare la qualità dei servizi pubblici locali, diretta da Francesca Mazzarella.

I dati che mancano. L’Ufficio parlamentare di Bilancio (Upb), l’autorità indipendente sui conti pubblici, ha pubblicato ieri la sua nota congiunturale: nel primo trimestre l’economia italiana dovrebbe essersi ridotta di cinque punti percentuali. Nei primi sei mesi la differenza tra 2020 e 2019 potrebbe risultare di -15 o -20, impossibile essere certi di come risulterà il Pil a fine anno, molto dipende da quando e come avverrà la ripartenza delle attività economiche oggi chiuse. Il Fondo monetario internazionale stima un -9, molto peggio della recessione da grande crisi finanziaria del 2009, quando il Pil segnò -6%. Anche l’Upb guidata da Giuseppe Pisauro deve ricorrere ai consumi elettrici per farsi un’idea dello stato dell’economia, perché i dati normali mancano e non saranno affidabili per diversi mesi: “Diverse informazioni utili alla contabilità nazionale sono acquisite chiedendo alle aziende di compilare questionari, ma in diverse circostanze potrebbe essere difficile ottenere le risposte o anche solo individuare le imprese effettivamente attive; nel caso dell’Italia, ad esempio, sono state sospese per il mese di aprile le indagini sulla fiducia di imprese e famiglie”. Inoltre, “le statistiche ufficiali potrebbero essere influenzate dagli slittamenti delle scadenze fiscali e contributive, soprattutto nei Paesi che fanno molto affidamento sui dati amministrativi”. Le nostre statistiche, poi non sono pensate per misurare in modo accurato evoluzioni come lo smart working, il lavoro da casa.

I consumi elettrici. E allora non restano che i consumi elettrici. La ricerca di Steven Cicala, presentata in un report della fondazione Utilitatis, si basa sui dati raccolti dallo European Network of Transmission System Operators for Electricity (ENTSO-E) che dal 2016 monitora i consumi elettrici di tutti i Paesi europei su base oraria. Ci sono variazioni cicliche di cui tenere conto: i consumi sono maggiori in alcuni momenti dell’anno, quando ci sono riscaldamenti o aria condizionata da alimentare, e minori in altri. Nei fine settimana, per esempio, scendono, perché c’è meno gente al lavoro e molti impianti industriali funzionano a ritmo ridotto o sono spenti, di notte si usa meno energia che di giorno. Bisogna anche considerare altri dati, per esempio quelli sulla temperatura: l’inverno 2020 è stato particolarmente mite e questo ha ridotto i consumi pre-crisi di energia elettrica (oltre che le morti per influenza stagionale, ma questo è un altro discorso).

Considerando queste variazioni prevedibili, l’economista Steven Cicala costruisce una traiettoria dei consumi in tempi normali e la confronta con quella che si è invece osservata dopo il lockdown deciso nei primi giorni di marzo per il Nord e poi esteso al resto d’Italia. Si osserva così che in Italia, a partire dal 9 marzo, i consumi elettrici crollano di oltre il 20 per cento rispetto allo scenario base, nel Nord (in particolare in Lombardia) del 30 per cento. Il punto più basso si registra il 25 marzo e le differenze sono ovviamente maggiori durante i giorni lavorativi che nel fine settimana, quando i consumi erano già bassi nel mondo pre-Covid.

Il caso italiano. Si osserva, purtroppo, una specificità tutta italiana: anche nel resto d’Europa il calo è significativo, ma è in media soltanto del 10 per cento, a conferma di quanto riscontrato in recessioni precedenti. La nostra economia viene colpita più duramente nelle fasi di recessione e si riprende meno e in modo più lento in quelle di ripresa. Soltanto la Spagna, il secondo Paese che ha sofferto di più per il virus dopo l’Italia, sperimenta un crollo dei consumi comparabile, ma comunque inferiore: -14,9 per cento. La Francia soltanto -8, la Germania -10.

Quanto sono affidabili questi dati sui consumi elettrici per misurare lo stato di salute generale del Pil italiano? Steven Cicala spiega che “è ancora troppo presto per dire cosa questi numeri comportino esattamente, ma storicamente esiste una relazione a breve termine circa 1 per 1 tra i consumi di elettricità e i principali indicatori economici”.