Gl’incontri riservati tra Descalzi (Eni) e Davide Casaleggio

Agli inizi di febbraio, a poche settimane dalle nomine, Davide Casaleggio ha incontrato Claudio Descalzi, l’amministratore delegato di Eni, considerato dai Cinque Stelle una sorta di impresentabile, finché (quasi) all’unisono non s’è deciso di rinnovargli il mandato alla guida della multinazionale del petrolio, il terzo in carriera.

Eni colloca l’appuntamento a “ridosso” dell’evento aziendale di presentazione del supercomputer Hpc5, tenutasi il 6 febbraio scorso a Ferrara Erbognone in provincia di Pavia, un’occasione per “condividere le caratteristiche e le potenzialità del nuovo sistema di calcolo”. È curioso che l’ad di una società a controllo pubblico, che fattura 70 miliardi di euro e si occupa principalmente di estrazione, lavorazione, esportazione di idrocarburi, all’improvviso trovi il tempo e abbia l’esigenza di riflettere sul supercomputer industriale con il titolare della Casaleggio Associati, una Srl che offre consulenze per le strategie in Rete e dichiara 2 milioni di ricavi. Però Davide Casaleggio, figlio di Gianroberto, è anche il capo dell’associazione Rousseau, la piattaforma che gestisce le finanze e le politiche del Movimento, il partito che ha vinto le ultime elezioni, che dispone del maggior numero di deputati e senatori in Parlamento, che da azionista di maggioranza del governo ha maneggiato, senza arrecarne danno, il destino professionale di Descalzi. Negli anni all’opposizione, per le sue vicende giudiziarie, i Cinque Stelle hanno spesso invocato le dimissioni dell’ad di Eni o un intervento degli allora governi di centrosinistra. A un certo punto hanno smesso, ma la posizione di Descalzi, secondo i canoni pentastellati, s’è aggravata: imputato per corruzione internazionale nel processo per le tangenti da oltre un miliardo di dollari pagate in Nigeria; inquisito per gli affari della moglie in conflitto di interessi proprio con l’Eni; vertice di un’azienda finita in inquietanti trame e finti complotti per fermare i magistrati di Milano.

Il contatto di febbraio non era il primo, tra Descalzi e Casaleggio, riferiscono qualificate fonti, c’è un rapporto che dura almeno da un paio di anni, dalla vigilia del voto del 4 marzo 2018 alla vigilia delle nomine di Stato, e ha attraversato la formazione del governo gialloverde e poi del successivo giallorosa. Eni sostiene di non aver rintracciato altri appuntamenti in agenda, Casaleggio non commenta né il più recente né il resto.

Il colloquio di febbraio precede la visita di Descalzi, avvenuta a metà del mese negli uffici di Palazzo Chigi, al sottosegretario Riccardo Fraccaro, uomo di fiducia di Luigi Di Maio e assoluto protagonista della tornata di nomine di Stato. Chigi concede una cornice istituzionale che Casaleggio non può rivendicare. Il sottosegretario Fraccaro, in quella precisa circostanza, in qualche modo ha persuaso Descalzi della bontà delle scelte dei Cinque Stelle. Coloro che lo volevano sulla forca non rappresentavano più un pericolo. I duri e puri del Movimento, in rivolta contro Descalzi, capitanati da Alessandro Di Battista, hanno protestato con estremo ritardo.

Quando hanno iniziato a farsi sentire, cinque giorni fa, era già tutto stabilito e consumato. Inclusa la pantomima. I Cinque Stelle non hanno avanzato mai agli alleati di governo una proposta alternativa a Descalzi né l’argomento è stato sollevato mai nelle feroci riunioni per spartirsi ogni singola poltrona di ogni singolo cda. Fraccaro ha apposto un sigillo, a partita finita, con la copertura interna di Di Maio, del reggente Vito Crimi e della lunga filiera di pentastellati, per esempio il viceministro Stefano Buffagni, che al governo ha stretto legami con l’Eni. Come è accaduto a Casaleggio. Il supercomputer di Eni svolge 52 milioni di miliardi di operazioni matematiche in un secondo. Più o meno la stessa velocità con cui il Movimento ha cambiato opinione su Descalzi.

Ecco chi c’è dietro il business dei posti letto per anziani

Gli esperti la chiamano “economia d’argento”, perifrasi consolatoria che indica il business costruito sugli anziani. L’Italia, che nel 2017 era il secondo Paese più âgée del mondo dopo il Giappone con il 29,4% della popolazione oltre i 60 anni, 17,43 milioni di persone, nel 2050 ne avrà 22,2 milioni, il 40,3%. Secondo una ricerca di Pio De Gregorio di Ubi Banca, nel 2035 gli anziani non autosufficienti in Italia saranno circa 560mila e la domanda di posti letto nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) crescerà tra le 206mila e le 341mila unità che richiederanno un investimento tra 14,4 e 23,8 miliardi. Il settore fa gola perché le Rsa sono un investimento “assicurato” e assai redditizio. Ecco perché, anche se a oggi valgono solo un quinto dell’offerta complessiva, i gruppi privati stanno investendo grandi somme sia per creare nuove strutture che per acquistare concorrenti: i principali player sono Kos del gruppo Cir (De Benedetti), Tosinvest (Angelucci), Sereni Orizzonti della famiglia friulana Blasoni, ma dalla Francia sono già arrivati i giganti quotati Korian e Orpea.

Da circa 15 anni l’Europa e il Canada hanno seguito gli Usa nella privatizzazione delle case per anziani. I governi hanno incoraggiato gli operatori privati attraverso i meccanismi di accreditamento. In Italia a fine 2017 nelle Rsa e Rsd (residenze per disabili) operavano 1.271 imprese, 702 delle quali private e profit, ma i quattro quinti del settore sono gestiti da istituzioni pubbliche e Onlus. L’offerta dei privati profit però è in costante crescita, trainata da rette mensili medie molto più alte di quelle del non profit poiché contengono la quota alberghiera. La retta sanitaria a copertura pubblica, che “pesa” tra il 30 e il 50% della retta totale, varia a livello regionale e vale dai 29 ai 64 euro al giorno.

Tra gli operatori italiani delle Rsa svetta Kos del gruppo Cir con il marchio “Anni Azzurri”. Gestisce 77 strutture in 10 regioni italiane, in Gran Bretagna e in India per oltre 7.300 posti letto: 48 Rsa, 12 centri di riabilitazione, 11 comunità terapeutiche psichiatriche, quattro cliniche psichiatriche, due ospedali, 24 sedi centri diagnostici e terapeutici, 23 centri ambulatoriali. Kos dà lavoro a oltre 6.400 persone, fattura 550 milioni e ha acquisito da poco la tedesca Charleston (48 Rsa, 4.200 posti, 3.800 dipendenti). I dati della Tosinvest della famiglia Angelucci, che conta alcune decine di Rsa col marchio San Raffaele, non sono noti a livello consolidato perché schermati dietro una holding lussemburghesi. Sereni Orizzonti (il cui fondatore Massimo Blasoni, arrestato a ottobre e tornato libero a gennaio, è accusato di truffa aggravata al Ssn proprio un’inchiesta sulle Rsa) tra Italia, Germania e Spagna ha 80 strutture con 5.600 posti letto e fattura 200 milioni (+150% in quattro anni), sta realizzando una ventina di nuove Rsa per 2.400 posti in cinque regioni con un investimento di 180 milioni e punta 30 milioni per acquisizioni in Ue.

Tra gli operatori esteri, dopo la fusione dell’agosto 2016 con la Aetas del gruppo Definancements, oggi il gruppo francese Korian in Italia conta 44 Rsa con circa 4.800 posti letto, otto centri diurni, 110 appartamenti per anziani con 200 posti letto, 12 case di cura riabilitative per 1.200 posti letto, tre servizi post acuzie, 19 centri ambulatoriali e diagnostici, tre comunità psichiatriche (65 posti), tre centri residenziali per disabili (200 posti) e due hospice. Il gruppo nel 2019 nel mondo aveva oltre 82.600 posti letto in 600 strutture, ricavi per 3,6 miliardi (+8,3% annuo), un utile netto di 136 milioni (+10,4%), con 353 milioni investiti nell’acquisto di 20 strutture e un portafoglio immobiliare di oltre 2 miliardi. Grazie alle acquisizioni, in Italia i suoi ricavi sono cresciuti del 9,3% e i clienti sono aumentati del 150% in tre anni. L’altro gigante è la francese Orpea, primo operatore mondiale con 96.577 posti letto autorizzati in 950 strutture di 14 Paesi tra Europa, Cina e Brasile. In Italia possiede 18 strutture, 1.980 posti letto e 1.422 collaboratori tra Rsa e cliniche di riabilitazione in Piemonte, Lombardia, Liguria, Veneto e Sardegna. A livello consolidato nel 2019 ha realizzato un fatturato di 3,74 miliardi (+9,4%) e un utile netto di 245,9 milioni (+11,6%). Ha da poco acquisito le olandesi September e Allerzorg e la tedesca Axion con un portafoglio immobiliare da oltre 6 miliardi.

Proprio gli immobili delle Rsa, grazie agli affitti garantiti da rette sostenute dal settore pubblico, ingolosiscono la finanza che dal 2006 vi ha investito un miliardo. In Italia una ventina di Sgr e Sicaf hanno in portafoglio strutture sanitarie, tra cui 50 Rsa per circa 5.600 posti letto inserite in 21 fondi immobiliari. Secondo Il Sole 24 Ore a comprare c’è la Zaffiro del gruppo Mittel che ha preso sei immobili di Rsa già operative e punta ad acquisti per 120 milioni nei prossimi anni. Il Fondo innovazione salute di Cattolica Assicurazioni, gestito da Savills Investment Management, punta a comprare 10 Rsa per 800 posti letto investendo 150 milioni. Ream Sgr (fondi Geras) sta facendo acquisizioni e ha 1.300 posti letto di Rsa in portafoglio. Il motivo è semplice: l’affitto di immobili alle Rsa genera rendimenti medi lordi annuali tra il 6 e il 7,5% l’anno.

“Le protezioni se le procurino i medici”

La responsabilità di fornire mascherine e tamponi ai sanitari che stanno lottando contro il coronavirus spetta quasi a tutti – Asl, ministero dell’Interno, comuni – tranne che alla Regione Piemonte, l’ente a capo dell’Unità di crisi che gestisce l’emergenza sanitaria. Lo ha stabilito ieri un’ordinanza del Tribunale civile di Torino, che di fatto “assolve” la giunta Cirio, scaricando il problema dell’assenza dei “dispositivi di sicurezza individuali” e degli agognati e quasi introvabili tamponi su una pluralità di altri enti, definiti “datori di lavoro”, a partire dalle Asl.

L’ordinanza rigetta un ricorso del Codacons, che aveva chiesto al giudice di ordinare alla giunta Cirio “misure urgenti a tutela della collettività, come mascherine e tamponi, da distribuire in primis al personale sanitario”. È evidente, spiegano dal Codacons, che per tutelare i cittadini si debbano proteggere in primo luogo medici, infermieri e operatori, che potrebbero diventare, altrimenti, degli untori. Per il giudice però il Codacons non è legittimato a fare una richiesta simile, che, in ogni caso, non andrebbe rivolta alla Regione, non essendo quest’ultima “datore di lavoro” dei medici. Anzi, spetterebbe ai sanitari il diritto-dovere di azionare la “legittima pretesa giuridica a ricevere dal proprio datore di lavoro – scrive il giudice nell’ordinanza – le protezioni idonee e adeguate a tutelare ex art. 2087 del codice civile la propria salute”.

Come a dire, dovrebbe essere il singolo medico, infermiere, operatore, ad attivarsi per difendersi. Anche i medici di famiglia, morti a decine in Italia, contagiati a centinaia, che figurano però come “liberi professionisti”, privi anche del cappello giuridico della Asl. Abbandonati negli ambulatori e nelle rsa dall’inizio della pandemia, con mascherine fai da te.

“Viene da chiedersi – dice l’avvocata Tiziana Sorriento del Codacons – come mai, se non spetta alla Regione il compito di fornire le protezioni, la giunta Cirio pubblicizza il fatto di avere speso cinque milioni di euro in mascherine? Comprate peraltro con notevole ritardo, a metà aprile?”. “E se non siamo legittimati noi a tutelare i cittadini – prosegue la legale – perché continuiamo a ricevere centinaia di richieste di aiuto dai parenti degli anziani chiusi nelle Rsa? Non è la Regione a dover istituire un numero verde?”.

Un’altra questione resta poco chiara. Se non spetta alla Regione la responsabilità dei tamponi, perché di fatto li gestisce tramite l’Unità di crisi? E perché, da quando è scoppiata l’emergenza sanitaria, la comunicazione di ogni aspetto di essa è centralizzata dalla giunta regionale? Fino a pochi giorni fa, la dirigente della Asl To5, facente funzioni del capo, mandava a dire: “Noi non possiamo parlare con la stampa. Parla solo la Regione”.

Il giudice ha accolto in pieno la tesi dei legali di quest’ultima, a partire dal professore Vittorio Barosio, che nella memoria scrive: “La Regione non è datore di lavoro e non ha quindi alcun obbligo di fornire i presidi di sicurezza o di eseguire i tamponi ai lavoratori”. L’avvocato ha sottolineato un ruolo dell’ente solo sotto il profilo di “tutore della salute pubblica”. Su questo, ha precisato Barosio, “in questa fase di emergenza sanitaria la Regione ha comunque fornito il proprio supporto agli operatori in prima linea per contrastare l’epidemia e ha concretamente impartito disposizioni e direttive per esortare le Asl a implementare l’utilizzo dei Dpi da parte dei lavoratori da esse dipendenti e per sensibilizzare al riguardo lo stesso personale sanitario attraverso i relativi ordini”.

“Infetti nascosti e 140 morti”. Blitz GdF al Don Gnocchi

Che cosa è successo davvero, da gennaio a oggi, all’Istituto Palazzolo-Don Gnocchi di Milano? Quello che è certo è che sono morti almeno 140 ospiti. Ieri la Guardia di finanza ha perquisito gli uffici della struttura, alla ricerca delle carte che possano spiegare la strage degli anziani avvenuta qui, come al Pio Albergo Trivulzio, come in un altra ventina di Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) finite sotto inchiesta a Milano.

Le pm di Milano Letizia Mocciaro e Michela Bordieri, coordinate dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, hanno mandato la polizia giudiziaria nelle sedi del Don Gnocchi (Palazzolo, Girola e Centro Santa Maria al Castello) a raccogliere documenti, cartacei ed elettronici, contenuti anche in computer e cellulari, per ricostruire le disposizioni impartite all’istituto dalla Regione, ma anche dalla Ats (l’Agenzia di tutela della salute, articolazione territoriale del sistema sanitario). E poi la corrispondenza e le email scambiate tra gli uffici, gli ordini dati al personale e registri, bozze, agende, carte di lavoro, fascicoli personali, cartelle cliniche degli ospiti malati o deceduti e documentazione sui pazienti trasferiti nella struttura, dopo l’ormai nota delibera della Regione che l’8 marzo ha tentato di “alleggerire” gli ospedali mandando pazienti nelle Rsa: un cerino gettato nel pagliaio. E infine: le disposizioni che documentano la distribuzione dei dispositivi di protezione come le mascherine e l’elenco dei tamponi effettuati sugli ospiti e sul personale.

La Procura ha già iscritto nel registro degli indagati, per epidemia e omicidio colposi, il direttore generale Antonio Dennis Troisi, il direttore sanitario Federica Tartarone e il direttore dei servizi medici socio-sanitari Fabrizio Giunco. Indagato anche Papa Wall Ndiaye, presidente della Ampast, la cooperativa di cui fanno parte i lavoratori della struttura. La Fondazione Don Gnocchi ha sempre detto che “sin dal 24 febbraio e per tutta l’evoluzione dell’emergenza” è stata adottata “la massima cautela possibile, attuando le procedure e le misure precauzionali definite da Istituto superiore di sanità e l’Organizzazione mondiale della sanità, anche quelle riguardanti” i dispositivi di protezione. Non ne sono convinti alcuni famigliari degli ospiti e un gruppo di 18 lavoratori dell’istituto che assistiti dal legale Romolo Reboa hanno depositato in Procura un esposto in cui accusano i vertici del Don Gnocchi di avere tenuto “nascosti moltissimi casi di lavoratori contagiati da Covid-19, benché ne fossero a conoscenza almeno dal 10 marzo” e di avere “impedito ai lavoratori l’uso delle mascherine per non spaventare l’utenza”. In risposta, la cooperativa Ampast ha sospeso i lavoratori che hanno firmato l’esposto, cacciati dalla Fondazione Don Gnocchi per aver “espresso, a mezzo stampa e tv, giudizi gravi e calunniosi”.

Ora le pm e la polizia giudiziaria dovranno analizzare il materiale raccolto e stabilire se erano sbagliati gli ordini della Regione e della Ats, o se a sbagliare sono stati i vertici dell’istituto. E se sono vere le denunce dei dipendenti che raccontano di essere stati lasciati senza protezioni e senza protocolli di sicurezza.

Il 16 marzo il Palazzolo, 583 posti letto, apre un reparto Covid per ospitare pazienti positivi, con 36 i posti letto nella sede di Milano e 110 nelle altre sedi. È la risposta alla delibera regionale dell’8 marzo (che promette 150 euro al giorno a persona, il triplo dei rimborsi normali). Ma in quella data, denunciano alcuni operatori sanitari, “il contagio era già diffuso, alcuni colleghi si erano già ammalati”. Si infettano i pazienti, gli ospiti cominciano a morire. “Abbiamo chiesto di accertare se non sarebbe stato meglio aprire il reparto Covid in una terza palazzina isolata già esistente, piuttosto che al piano terra della Palazzina Montini”, dichiara l’avvocato Reboa. “Mi auguro che la Guardia di finanza abbia trovato i protocolli operativi dell’Istituto, il numero dei deceduti e le copie degli avvisi di morte inviati ai Comuni di residenza, dato che ai nostri assistiti o non sono stati inviati o sono stati trasmessi incompleti, senza le pagine in cui sono indicate le cause di morte”.

Il cecchino Anzaldi spara a tutte le ore

Michele Anzaldi è un fenomeno. Si vede dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia: il deputato di Palermo è il campione della comunicazione renziana. Ha la tigna di un Gattuso e gli scarti folli di un George Best. È in grado di dire tutto e il contrario, con un solo punto fermo: se stesso. O al massimo la sua corrente di partito.

Anzaldi si è fatto largo nell’ecosistema politico con piglio militare dentro la commissione vigilanza della Rai. Ha la leggiadria di un cecchino, spara dove gli dice il capo. Il suo è Matteo Renzi. Provate a chiedere ad Antonio Campo dall’Orto: direttore generale della “nuova Rai” made in Leopolda nel 2014, osannato finché ritenuto controllabile, poi diventato nemico pubblico e logorato da Renzaldi al ritmo di una polemica al giorno. Impallinato. Renzi indica, Anzaldi prende la mira. Ma al cecchino Anzaldi va dato atto di questo: non ha abbandonato il suo capitano nel momento del disarmo; mentre Renzi è stato scansato dagli stessi che gli reggevano la coda fino all’altroieri, Anzaldi gli è rimasto accanto pure nella cattiva sorte. Non è poco.

Stare dalla parte di Renzi in questi giorni, per il soldato Anzaldi, significa camminare sulla fune sottile di un partito che vale il 2%, che sta dentro la maggioranza e dentro al governo (con due ministre) e però gioca contro il governo stesso.

È uno sforzo di fantasia che solo un George Best come Anzaldi poteva interpretare con tanta qualità. Ieri il numero 7 di Italia Viva ha mostrato il suo dribbling più bello. Dopo aver interpretato lo sdegno renziano per i videomessaggi di Conte su Facebook a mezzanotte, Anzaldi ha interpretato lo sdegno renziano per i videomessaggi di Conte su Facebook alle sette del mattino. Non c’è contraddizione né orario che tenga: il premier non va bene, parla troppo tardi oppure troppo presto. Inaccettabile. C’è dunque un Anzaldi (il 22 marzo) che vuole andare a dormire tranquillo: “Ancora un’ansiogena diretta Facebook notturna, ancora un discorso alla nazione che interrompe l’ordinaria programmazione tv per un mezzo annuncio, peraltro molto incompleto”. Però c’è pure un Anzaldi (il 21 aprile) che vorrebbe fare colazione con calma: “Che senso ha diffondere un lungo comunicato su Facebook alle 7 del mattino per non dare alcuna notizia concreta sulle riaperture, ma anzi annunciando che forse gli annunci arriveranno nei prossimi giorni?”. Dimentica, il soldato, che capitan Renzi era lo stesso rottamatore rivoluzionario che faceva a pezzi i pigri rituali della vecchia politica, nel 2013, convocando la sua prima segreteria del Pd proprio alle 7 del mattino. Il calcio d’inizio fu alle 6 e 43: allora non era troppo presto.

Ora invece Conte è “surreale”, Conte “non ha coraggio”, i grillini che lo difendono sono “imbarazzanti”. Il cecchino Anzaldi denuncia l’asservimento del servizio pubblico: “Il Tg1 è diventato TgConte, il 60% dello spazio è dato al governo” (lo stesso di cui fa parte il partito di Anzaldi!).

Nei giorni del Coronavirus, insomma, la sua mitragliatrice continua a sparare un colpo al minuto. Un monumento vivente allo spirito di unità nazionale, e alle lunghe vedute comuni di questa strana maggioranza.

Liti e insulti tra esperti nel Comitato. Ippolito: “Siete servi sciocchi”

L’altro giorno nel bunker della Protezione civile, dove si riunisce il Comitato tecnico scientifico, sono volate parole grosse. Si è quasi sfiorata la rissa quando Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani, ha perso le staffe accusando alcuni colleghi, senza giri di parole, di essere “servi sciocchi”. Perché qualcuno aveva avuto da ridire sull’idea che ai 150 mila cittadini che si presenteranno per sottoporsi al test sierologico venga pure chiesto di compilare il test psicologico utile a capire quanto la popolazione sia ancora in grado di sopportare il lockdown.

Ora, nonostante l’importanza per la task force di Vittorio Colao di sondare gli effetti sull’inconscio della quarantena, il test psicologico ha suscitato polemiche anche politiche. E così al Comitato qualcuno ha cominciato a temere che chiedere con quanta frequenza si abbiano pensieri negativi durante la notte o per quanta parte della giornata si resti incollati ai social alle stesse persone che accetteranno di sottoporsi al test sierologico, possa produrre un effetto boomerang. E in buona sostanza, scoraggiare una parte dei 150 mila volontari per l’indagine a campione sulla diffusione dell’infezione da coronavirus in Italia.

Le cronache dal Comitato tecnico scientifico però non si fermano qui. Durante le riunioni è venuto fuori più di un mal di pancia. Sui test sierologici per i quali due degli scienziati devono affiancare il commissario Domenico Arcuri nella valutazione delle offerte che arriveranno oggi. Sulle linee guida della Fase 2. Sull’obbligo del vaccino influenzale per gli over 65. Fino all’abbinamento dei due test a cui Ippolito, a nome del Comitato, avrebbe dato il via libera con piena soddisfazione di Colao e del suo team, dove ci sono anche sociologi chiamati a valutare l’impatto presumibile delle misure della Fase 2 su una popolazione che deve fare i conti con il rischio del contagio ma pure con lo stress accumulato. “Ma chi ti ha autorizzato a dire che vanno tenuti insieme?”, è stata l’accusa a Ippolito. Che non ci ha visto più e ha pronunciato la frase sui servi sciocchi che ha mandato il sangue agli occhi, per esempio, ad Agostino Miozzo, uno dei dirigenti più alti della Protezione civile che coordina il tavolo del Comitato, che si è sentito offeso non tanto per sé ma in quanto “padrone di casa”. Miozzo non è uno che le manda a dire e quindi si è accesa una mezza rissa a cui è seguita una telefonata di riappacificazione con Ippolito. Che peraltro è sulle sue stesse posizioni rispetto ad alcuni protagonismi degli esimi scienziati del Cts, talvolta presenti in tv più che alle riunioni quotidiane al Dipartimento. “Fanno apparizioni come la Madonna di Fatima”, ha detto qualcuno del Comitato.

Nell’ultima riunione della scorsa settimana Miozzo ha fatto il pelo a chi marca visita al Dipartimento, salvo poi partecipare a qualunque trasmissione televisiva. Non ha fatto nomi, ma a Giovanni Rezza, direttore Malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità, sono fischiate le orecchie. Non è un componente ufficiale del Comitato tecnico scientifico: dovrebbe sostituire il suo capo Silvio Brusaferro (che dell’Iss è presidente) quando quest’ultimo non può. Però a volte ci vanno anche insieme e Rezza, nell’immaginario collettivo, è a tutti gli effetti membro del Comitato, benché nessuno gli abbia chiesto di firmare la dichiarazione sull’assenza di conflitti di interessi sottoscritta dagli altri.

Anche il canale privilegiato di Brusaferro con Giuseppe Conte ha creato qualche malessere: a lui il premier si era rivolto immediatamente per avere un supplemento di parere quando si trattava di decidere se chiudere Nembro e Alzano nella Bergamasca, salvo poi sollecitare il Comitato e infine “chiudere” tutta la Lombardia.

Il clima è sereno, ma qualche malumore ogni tanto c’è. Ad alcuni non è piaciuto che Roberto Bernabei si sia già sbilanciato per opporsi al prolungamento del lockdown per gli anziani. L’unico su cui non si profferisce verbo è Franco Locatelli, trattato col rispetto dell’eminenza in odore di Nobel.

Orari, trasporti e uscite. Le regole della Fase 2

Ancor prima di presentarsi in Parlamento, alle 7.30 del mattino, Giuseppe Conte ha deciso di affidare a Facebook un messaggio per rassicurare gli italiani. Teme che la tenuta sociale del lockdown abbia toccato livelli critici. È preoccupato dalla polemica sulle infinite task force. Vuole mettere un freno all’interventismo delle Regioni e al pressing di Confindustria. Così ha dato una scadenza: entro il fine settimana illustrerà “i dettagli” della fase 2, le decisioni della politica rispetto ai pro e contro che scienziati ed esperti hanno messo sul tavolo di Palazzo Chigi. Venerdì è il giorno scelto. Perché viene dopo il Consiglio europeo che domani vedrà Conte impegnato a tentare di ottenere il supporto dell’Ue alla crisi italiana. E perché viene prima di una festa nazionale, il 25 aprile, mai così evocativa come quest’anno: la Liberazione, chissà se anche dalla “guerra” – come impropriamente qualcuno la chiama – contro il coronavirus. La verità, però, è che a tre giorni dalla scadenza la maggior parte delle misure è ancora in discussione. Perfino il ragionamento sulla “regionalizzazione” dell’allentamento partirà il 4 maggio.

Regioni e attività che restano a rischio

Conte ha più volte ribadito la necessità di una cornice unitaria alla ripartenza. Ma ieri ha chiarito che bisognerà “tenere conto delle peculiarità territoriali”: i dati elaborati dalla task force – il calendario con cui il “contagio zero” arriverà nelle diverse aree del Paese – continuano a interrogare l’esecutivo. Il lavoro fatto finora da Colao ha fissato delle “clausole di salvaguardia” (contagi, ricoveri, posti disponibili nelle terapie intensive) superate le quali verranno ripristinate le zone rosse. Ma ancora non è escluso che le prossime settimane vedano ripartenze “scaglionate” a seconda della diffusione del virus. Di certo accadrà per i settori produttivi: la tabella elaborata dall’Inail divide i diversi comparti economici in base al livello di “esposizione”, “prossimità” e “aggregazione” e stabilisce di conseguenza un indice di rischio più o meno elevato. Sarà in base a queste categorie che verranno riaperti i vari settori.

Orari e trasporti: tutto da rifare

Stabiliti i protocolli di sicurezza da mantenere nelle fabbriche e negli uffici (distanza e mascherine su tutti), il vero nodo resta con quali mezzi di trasporto si raggiunge il posto di lavoro. Dato per scontato un aumento dell’uso delle auto private, c’è da ripensare il sistema di autobus, metro e ferrovie. Se sarà possibile nelle stazioni e alle fermate realizzare misure di distanziamento (percorsi segnati a terra), tutto questo non sarà possibile sui mezzi. Ieri, in collegamento video con il Corriere, il presidente dell’Asstra Andrea Gibelli ha chiarito il punto di vista delle 150 aziende di trasporto pubblico locale che rappresenta: “Mezzi in più non ci saranno e soprattutto non cambieranno: il distanziamento che si può applicare a terra, non può avvenire a bordo. Pretendere si pratichi il metro di distanza ‘giuridico’ determinerebbe una capienza ridotta al 20-30 per cento: sarebbe la catastrofe economica delle aziende”. Tutti concordano nel dire che non devono più esistere “orari di punta” e per farlo bisogna cambiare gli orari di negozi e uffici, almeno nei prossimi quattro mesi in cui le scuole saranno chiuse (a proposito, solo ieri il Miur ha istituito la sua task force per la ripartenza). L’idea al vaglio è quella di indicare delle fasce orarie di apertura a seconda delle diverse categorie del terziario e del commercio. Per dire, c’è chi apre dalle 11 alle 21 e chi dalle 8 alle 17 o dalle 10 alle 19.

Il ritorno di corsette e passeggiate (ma in 2)

Quello su cui sembrano tutti concordare è che comunque, dal 4 maggio, restare a casa non sarà più un obbligo. Verrà fissato però un limite massimo di assembramento in 2 persone, non si potrà sostare in gruppo per strada. Ma la prossimità con l’abitazione non è più essenziale. Ancora in discussione la questione delle fasce d’età. L’obiettivo è “proteggere” le categorie deboli, ovvero gli over65.

La app “Immuni” e il monito di Arcuri

In attesa del vaccino, il tracciamento dei contagi resta l’unico metodo per scongiurare nuovi focolai. Ieri Conte ha chiarito che l’applicazione Immuni “sarà su base volontaria” e “chi non vorrà scaricarla non subirà limitazione nei movimenti”. Una precisazione necessaria: ancora ieri il commissario Arcuri aveva spiegato che senza una mappatura dei contatti bisognerà “continuare a sopportare i sacrifici di queste settimane”.

A Bruxelles i 5Stelle evocano la scissione. A Roma i giallorosa difendono il premier

Un dibattito fatto di trincee opposte, quello in Parlamento. La fotografia di una situazione “fossilizzata”, con un centrodestra che è tutto un (reciproco) distinguersi e una maggioranza che resta insieme più per necessità che per convinzione. Al centro, ancora una volta, la trattativa in Europa. Per dirla con Emma Bonino, che interviene per prima a Palazzo Madama, c’è una “guerra contro il Mes” (che lei definisce “ideologica e insensata”) mentre “bisogna invece negoziare sui tassi e sui tempi della restituzione. Ci sono 1.500 miliardi disponibili subito per la ripresa, è una falsità che la Ue ci ha lasciati soli”,

Pd e IvDopo aver ascoltato Giuseppe Conte, il Pd è sostanzialmente soddisfatto. La linea viene considerata omogenea a quella dem. Lo dice a Palazzo Madama, il capogruppo, Andrea Marcucci: “Ci auguriamo il Mes sia fonte di credito e garanzia elevata, senza condizionamento e con tempi di restituzione molto lunghi”. Graziano Delrio alla Camera rincara. Sullo sfondo, l’idea di ribattezzarlo, il Mes. E a Montecitorio Maria Elena Boschi esprime “pieno sostegno” a Conte sul negoziato. Ribadendo la necessità del Mes.

M5SIn Parlamento i grillini devono tenersi in equilibrio tra due totem non esattamente sovrapponibili: massimo sostegno a Conte, no al Mes. Così i due capogruppo, Gianluca Perilli in Senato e Davide Crippa, ribadiscono l’appoggio al premier e condannano il fondo salva Stati, ma senza strafare. “È molto difficile che si arrivi a un Mes leggero senza condizionalità, per me è una trappola” scandisce Perilli. “Il Mes che abbiamo conosciuto è inadeguato per affrontare una crisi come questa” afferma Crippa.

Attorno ai capigruppo, eletti che non hanno voglia di guerra. “Conte si sta giocando tutto, e in questa fase dobbiamo aggrapparci a lui” teorizza un big di primo piano. Ma fuori dell’Aula ci sono anche i malumori silenziosi di qualche grillino più “sovranista”, per il Conte sin troppo cauto. Soprattutto, c’è il malumore che trabocca di alcuni europarlamentari, gli stessi che venerdì hanno votato contro la risoluzione sul coronavirus in Parlamento europeo (che citava il Mes) mentre il grosso del gruppo, dieci su 14, si è astenuto. Così ecco Piernicola Pedicini, vicino ad Alessandro Di Battista, che cita la parola finora tabù, scissione: “Non si può dire che questo non possa essere un rischio reale, io e altri miei colleghi siamo venuti a mancare alla regola di uniformarci al voto di maggioranza della nostra delegazione. Ma c’è spaccatura, anche a livello nazionale”. Fa riferimento a sanzioni, anche se il capo politico reggente Vito Crimi per ora ha frenato tutto. Ma non si fida Pedicini, che sabato aveva firmato l’appello di Di Battista contro la riconferma all’Eni di Descalzi. Proprio come l’ex ministra Barbara Lezzi, che sul Corriere.it ribadisce il no al Mes e lamenta: “Con Descalzi il M5S ha derogato a un principio fondante”. Ma in serata Crimi replica: “La scelta finale l’ho assunta io ed è stata quella di anteporre l’interesse nazionale: ora è tempo dell’unità”.

Lega, Fi, FdINel centrodestra gli approcci sono quasi agli antipodi. Da una parte Lega e FdI, con chiusura totale sul Mes e Alberto Bagnai che in Senato arriva a chiedere le dimissioni del premier perché “non esiste Mes senza la Troika”. E dall’altra Forza Italia, che dice invece sì a un Mes senza condizioni, sottolineando, con Mariastella Gelmini, che “FI ha scelto di mettere in quarantena le polemiche, perché da Berlusconi abbiamo imparato l’approccio pragmatico ai problemi e non vogliamo rinunciare a quei 37 miliardi”.

E se per Giorgia Meloni “il governo esautora il Parlamento e lavora, sì, col favore delle tenebre”, per Gelmini “questo è il momento della collaborazione”. Il berlusconismo si allontana sempre di più dalla destra sovranista.

Merkel si scongela e la Germania apre agli Stati del Sud

Il cielo sopra Berlino non è lo stesso di cinque settimane fa, alla vigilia del precedente Consiglio europeo di metà marzo. E non solo per l’arrivo della primavera. Nella Capitale tedesca si inizia a capire che questa volta non basterà una risposta economica, ma servirà una risposta politica alla crisi del Coronavirus.

La posizione del governo tedesco è in un percorso di aggiustamento continuo. Per capirlo basta leggere i report delle conferenze stampa di governo delle ultime settimane. A metà marzo la risposta del portavoce del governo tedesco era monolitica: esiste uno strumento per aiutare gli Stati in difficoltà economica e il suo nome è Mes. Dopo pochi giorni, di fronte alla pioggia di critiche, Berlino ha allargato la prospettiva aprendosi alla soluzione dei tre pilastri: Bei (Banca europea Investimenti), Sure (linea di credito per la cassa integrazione) e Mes, senza dimenticare il Quantitative Easing della Bce.

A seguire è cominciata la discussione sul Mes e le sue condizioni, anche dietro la spinta della nuova dirigenza dei socialdemocratici tedeschi. Tanto che il ministro Spd delle Finanze Olaf Scholz è intervenuto per chiarire: niente Troika o soluzione simil-Grecia. Ieri il passo successivo e l’apertura politica al fondo di ricostruzione europea, il Recovery Fund, che potrebbe emettere emissioni di debito comuni. Il portavoce della Cancelliera Angela Merkel in conferenza stampa ha detto che il fondo “è uno degli obiettivi della videoconferenza del Consiglio europeo e siamo convinti che la progettazione di questo fondo debba essere vista nel contesto dei colloqui sul quadro finanziario pluriennale dell’Ue”. Un’apertura alla mutualizzazione del debito quindi, anche se parziale e in una quota limitata per ciascuno Stato ma che permetterebbe di tranquillizzare l’elettorato dal timore di una “solidarietà dalle conseguenze incalcolabili”, così come sono percepiti gli eurobonds e i coronabonds in Germania.

Secondo fonti bene informate il governo di Berlino sarebbe favorevole all’ipotesi di incardinare questo fondo all’interno della pianificazione del prossimo bilancio comunitario Ue 2021-2027 piuttosto che procedere ad un Fondo creato ad hoc, come proposto dal ministro delle Finanze francese Le Maire. Si tratterebbe di una scelta più comprensibile per l’elettorato tedesco. “La Germania sarà solidale nella cornice degli attuali trattati europei” ha detto l’altro ieri la Cancelliera. Ma è chiaro anche a Merkel che la risposta deve essere eccezionale, vista la gravità delle circostanze. Per questa ragione ha detto che la Ue “nei primi anni dopo la pandemia, dovrà avere opzioni finanziarie completamente diverse”, parole che tradotto dal merkeliano si avvicinano a quella che il premier Conte ha definito una “potenza di fuoco” richiesta alla Ue in un’intervista alla Süddeutsche Zeitung.

La strada del Recovery fund nel bilancio Ue però è solo all’inizio, ha detto il ministro Scholz domenica. In più la destra della Cdu è poco incline a cedere terreno e non perde occasione per sparare contro l’Italia e i coronabonds, un termine diventato tabù. A questo si aggiungono insidiosi dettagli. Quale sarà la chiave di ripartizione nella distribuzione dei bond? Quale la scadenza dei titoli, quando potranno entrare in vigore? E ancora, se il bilancio arrivasse in dirittura d’arrivo, riuscirebbe a superare lo scoglio dell’unanimità dei 27 governi della Ue? La strada è ancora in salita.

Conte: “Il punto centrale sono i bond, non è il Mes”

Non lo dice dritto, ma lo dice: il Mes è uno “strumento modesto, pensato per crisi diverse”, quindi “resto convinto che all’Italia serva altro”. Cioè i recovery bond, le obbligazioni che andrebbero finanziate da un fondo garantito da tutti i Paesi dell’Unione europea. Attutite da distinguo e appelli “alla cautela”, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ribadisce tutte le sue perplessità sul fondo salva-Stati nell’informativa resa ieri alle Camere, in vista della riunione del Consiglio europeo di domani. Ma senza scandire un no definitivo che a oggi non può permettersi, innanzitutto per evidenti motivi politici, visto che il Pd invoca il Mes e il Movimento lo ritiene “inaccettabile”. E comunque prima “bisognerà leggere l’accordo, capire se il Mes avrà condizionalità e se sarà conveniente agli interessi nazionali” ricorda Conte.

Messaggio troppo cauto per qualche deputato grillino, ma in fondo inevitabile a 48 ore da un delicatissimo Consiglio europeo. “Un incontro che non sarà risolutivo” riconosce il premier, consapevole che lo scenario è molto intricato, e allora meglio precisare subito che giovedì non sarà una partita da dentro o fuori. Però il tempo scarseggia, ricorda: “Il ritardo comprometterebbe il risultato, e noi dobbiamo riparare in fretta l’Europa, la nostra casa comune, perché si vince o si perde tutti assieme”.

Per questo pretende subito segnali: “Farò di tutto perché già il prossimo Consiglio europeo esprima un indirizzo politico chiaro nell’unica direzione ragionevole”. E quel “di tutto” è guarnito da una promessa bellica: “Non accetterò compromessi al ribasso”. Così Conte, nel martedì in cui la Commissione europea decide di prendere tempo, facendo slittare alla prossima settimana “l’esame e il varo di una comunicazione sul recovery fund”, cioè il fondo che dovrebbe emettere i bond. Oggi i commissari, spiegano da Bruxelles, si limiteranno a “un dibattito d’orientamento sulla materia in vista della discussione che si svolgerà al vertice dei capi di Stato e di governo”. Meglio aspettare di capire cosa si diranno domani i vari leader. Nell’attesa Conte deve tenere in piedi la sua maggioranza e non sbilanciarsi troppo al tavolo delle trattative.

Così assicura subito che il governo stanzierà “almeno” altri 50 miliardi per la ripresa. E ripete quanto già detto la scorsa settimana per placare lo scontro tra dem e grillini: “Sul Mes si è alimentato un dibattito che rischia di dividere l’Italia in opposte tifoserie”. Ma non è quello il punto centrale della vicenda, insiste: “Insieme ad altri otto Paesi membri, l’Italia ha lanciato una sfida ambiziosa all’Europa, invitandola a introdurre nuovi strumenti per affrontare e superare al più presto questa crisi”. Strumenti “più consistenti”, come “un recovery fund europeo, che possa finanziare progetti comuni di interesse europeo”: ossia un fondo che “non dovrà avere condizionalità” e che sia “immediatamente disponibile”. Ma come arrivarci? “Ai Paesi Ue che condividono con noi la medesima linea di intervento abbiamo riservatamente anticipato anche una nostra proposta” spiega il premier. E dovrebbe in buona parte coincidere con una proposta citata da Conte in Aula, “un’iniziativa di Ursula von der Leyen che potrebbe avere le caratteristiche conformi agli obiettivi italiani”. Nel dettaglio, la presidente della Commissione Ue propone un recovery fund con obbligazioni emesse dalla Commissione, che andrebbero garantite dal prossimo bilancio pluriennale europeo 2021-2027. Ma l’Italia pensa anche a un fondo che preveda trasferimenti diretti ai Paesi senza nuovo debito, come chiede la Spagna.

Invece il Mes, con i suoi 36 miliardi? “Alcuni Paesi che hanno condiviso la nostra impostazione, come la Spagna, sono interessati a usarlo purché senza condizionalità” ricorda il premier. Quindi “rifiutare la nuova linea di credito significherebbe fare un torto” agli alleati nella partita europea. Ergo, l’Italia non si opporrà al suo inserimento nel pacchetto. Ma quanto a farvi ricorso, quello è tutto un altro discorso: “Il Mes così com’è ora è inadeguato, inaccettabile con le sue condizionalità e imposizioni fiscali”. Quanto alla nuova versione, però, “bisognerà leggere attentamente i dettagli dell’accordo, e solo allora potremo valutare se questa nuova linea di credito pone condizioni e quali, e se il regolamento può essere conforme all’interesse nazionale”.

Comunque,conclude il premier, “l’ultima parola spetterà al Parlamento” e al suo voto, un passaggio per cui non potranno esistere solo i confini della maggioranza. E per Conte è una consolazione.