Gli onorevoli Trombetta

Va detto con dolore, ma va detto: il miglior modo per salvare il buon nome del Parlamento, che è e deve restare il centro della democrazia, è quello di mostrarlo il meno possibile. Quando, come ieri, le tv ne trasmettono le sedute, il rischio è che chi vede e sente parlare i parlamentari, anche se animato dalla più fervida passione costituzionale, si domandi a che diavolo servano. Raramente avevamo assistito come ieri, prima alla Camera e poi al Senato, a uno spot più devastante contro la democrazia parlamentare. Salvo rare eccezioni, una catena di interventi miseri, sciatti, retorici, propagandistici, quasi sempre avulsi dall’ora drammatica che stiamo vivendo e asincroni rispetto alle urgenze della gente, mai come ora allergica agli autospot, alle bandierine e alle chiacchiere vuote. Quando poi ha preso la parola l’autorevole leghista Bagnai, che ha fatto a pezzi il Mes inaugurato dal terzo governo B. con dentro la Lega e ha descritto l’Italia di oggi come un plumbeo regime autoritario a mezzadria fra “la dittatura del proletariato” e “la dittatura della scienza”, è apparso alle sue spalle Totò che, dal wagon lit, lo sbeffeggiava come l’onorevole Cosimo Trombetta: “Ah, lei sta in Parlamento? E la lasciano parlare?… Onorevole lei? Ma mi faccia il piacere!”.

Una gaglioffata eguagliata dagli adepti della setta dell’Innominabile, che invocavano addirittura il “Mes senza condizionalità”, con la stessa credibilità con cui Totò vendeva la fontana di Trevi, visto che al momento nessuno conosce le condizionalità del cosiddetto nuovo Mes. In tanta scempiaggine, è mancato purtroppo il contributo dell’italovivo Rosato, che però si era già superato l’altro giorno, ricordando gli attacchi ricevuti da Renzi a fine marzo, quando chiese “ora e subito” la fine del lockdown: “Noi non siamo molto amati dai commentatori, era tutto un diluvio di assalti alla baionetta. Nei giornali di oggi invece tutti parlano di come riaprire, ma nessuno cita la proposta di Renzi”. Cioè: se il governo allenterà la quarantena dal 4 maggio, cinque settimane dopo la data indicata dall’Innominabile, è perché l’Innominabile voleva farlo cinque settimane prima. Se non avesse parlato lui, Conte si sarebbe scordato 60 milioni di italiani chiusi in casa per sempre. La tesi implica che Iv abbia depositato alla Siae la fine del lockdown. E non vorremmo che avesse pure il copyright sui solstizi e gli equinozi. Altrimenti il 21 giugno l’estate dovrà chiedere a Iv il permesso per iniziare. E salterà su Rosato a leccare lo Statista di Rignano che l’aveva previsto in tempi non sospetti. Anzi, se fosse stato per Lui, saremmo già a Ferragosto.

Ed O’Brien omaggia la Natura (e Gabo)

Doveva succedere prima o poi. Anche il chitarrista Ed O’Brien esordisce con un progetto solista come già accaduto per altri componenti dei Radiohead. Ma niente colonne sonore o suoni alternativi, è un disco fatto e finito, con innesti originali e una maturità disarmante, con una poetica e una sensibilità degna di George Harrison (e del suo ruolo nei Beatles). Earth è un omaggio alla natura ed è di una bellezza rarefatta e lascerà il segno. Ed ci ha lavorato dal 2012 e si è ispirato alle teorie dell’astronomo Carl Sagan. I riferimenti sono da cercare nelle scampagnate di Damon Albarn e i suoi studi dei suoni africani, la curiosità di Beck ma, soprattutto, il manifesto-suite 45:33 dei Lcd Soundsystem, nel quale sono diluiti elementi di chill out, cantautorato e musica elettronica di altissima qualità. È sufficiente ascoltare Brasil – il singolo dell’album, magari vedendone il videoclip distopico, per capire la profondità e il “mestiere” di Ed – grazie anche alla supervisione di Flood – capace di passare da un arpeggio a una linea di synth degna di Brian Eno, con l’aggiunta del sodale Colin Greenwood al basso. Shangri-La ha un testo pieno di immagini oniriche e riferimenti allo sciamanesimo: è il luogo-Prometeo ipotizzato dal romanzo di James Hilton Orizzonte perduto, pubblicato nel 1933, nel quale si evoca un luogo in Tibet chiamato Shambala, dove era assente l’odio, l’invidia e l’avidità. Il brano per certi versi si riallaccia alle atmosfere di Kid A, la voce di Ed ricorda uno dei due Tears For Fears, Curt Smith oltre a quella del già citato ex Beatle.

Ascoltando l’acustica Cloak Of The Night subito dopo l’elettronica e struggente Olympik colpisce l’equilibrio tra questi due estremi. “L’ultima cosa di cui ha bisogno il mondo è un album di merda fatto da me” racconta Ed, “I Radiohead sono in gran parte i testi e le canzoni di Thom, io ho un ruolo di supporto. Ho composto brani e ho trovato ispirazione vivendo con la mia famiglia in Brasile, un paese che per me è l’antitesi da dove provengo, Oxford. Lì sono uscito dalla mia pelle, ho trovato me stesso e ho cercato di ispirarmi al realismo magico di Gabriel Garcia Márquez”.

Fiona, l’artista della sparizione è tornata tra noi

Un attacco fatto di sole percussioni, elettroniche e analogiche. Poi come se si aprisse un ipotetico sipario, ecco entrare eleganti note di piano e qualche secondo dopo la voce, quel vibrato così inconfondibile nonostante lo si sia potuto ascoltare in cinque dischi nell’arco di quasi venticinque anni.

“Ho atteso molti anni/ ogni impronta che ho lasciato sul sentiero/ mi ha condotta qua”. Nelle battute iniziali di Fetch The Bolt Cutters, nuovo album dopo otto anni di assenza, Fiona Apple sembra fornire una sinossi perfetta di un lavoro che in realtà si offre alla comprensione solo dopo ripetuti ascolti, tanto è tortuoso e denso di informazioni. Il che non significa negarne una vena “pop” che, pur tra mille saliscendi emotivi e giravolte stilistiche, emerge prepotente quando si è riusciti a familiarizzare a sufficienza con questi cinquanta minuti di rara intensità.

Assemblato nel corso degli anni nella sua casa-studio su una spiaggia californiana, il lavoro della Apple è stato accolto da riviste opinion-maker in modo trionfale. Talmente unanime l’ammirazione suscitata da far nascere quasi il sospetto che si attendesse proprio un disco come questo (al momento solo virtuale: per l’uscita fisica si dovranno aspettare svariati mesi) per potersi attaccare, in un periodo di disorientamento e dolore, a un oggetto di conforto in qualche modo universale. Anche fosse, non era certo nei piani dell’artista, che peraltro vive in una auto-imposta quarantena da molto tempo, sorta di Greta Garbo o J.D. Salinger appena un po’ meno radicale nel suo scomparire.

In questi giorni si sta quasi parlando più dei 10 raccolti nelle varie recensioni online che del disco stesso, e questo è sminuente quasi come i paragoni ricorrenti con altre artiste più o meno d’avanguardia, più o meno famose. Di nomi se ne potrebbero snocciolare diversi perché, al di là delle geometrie complicate di diversi brani, Fiona Apple non re-inventa certo la ruota, ma forse mai come in Fetch The Bolt Cutters l’ex ragazza prodigio di Criminal espone in modo totale se stessa. Lo fa attraverso parole sputate con visceralità fuori dal comune, aforismi azzeccati (“il male è una staffetta dove chi si brucia passa la torcia” ripete con tono marziale in Relay) e una formidabile duttilità vocale che va dal gospel futuristico allo scat da jazzista sperimentale passando per l’avvolgente tono confidenziale da songwriter classica toccando tutti i tasti possibili dell’espressività.

Difficile dire se il “tu” a cui spesso la Apple si rivolge, con risentimento o acre ironia, sia qualcuno che ha amato, l’industria musicale, il sistema di valori patriarcale o persino se stessa. “Sono cresciuta nelle scarpe che mi hanno detto di dover indossare/ scarpe che non erano fatte per scalare quella collina/ e io ho bisogno di scalare quella collina”. Ovunque sia quella “hill”, l’impressione è che Fiona sia arrivata finalmente in cima.

Prestato e in scadenza: che fine farà Raffaello?

E pensare che centoventi opere di Raffaello sono arrivate da tutto il mondo: il seducente Autoritratto con amico e il Ritratto di Baldassarre Castiglione dal Louvre di Parigi, Il sogno del cavaliere dalla National Gallery di Londra, La Madonna Tempi dalla Bayerische Staatsgemaldesämmlungen di Monaco di Baviera, La Madonna con il Bambino e San Giovannino dalla National Gallery of Art di Washington, lo studio Testa della Musa Polimnia da un collezionista privato di New York, oltre che l’Autoritratto e Madonna dell’Impannata dagli Uffizi di Firenze; mentre adesso sono tutte chiuse al buio nelle sale delle Scuderie del Quirinale a Roma per l’esposizione in occasione del cinquecentenario della morte del maestro di Urbino. Pensare che la nave più antica del mondo, un vivo scheletro di legno di leccio risalente al V secolo a. C., direttamente dal Museo Archeologico di Gela aveva solcato il mare dei millenni per giungere fino a noi in tutta la sua perturbante maestosità e accogliere i visitatori di Ulisse. L’arte e il mito, ai Musei di San Domenico di Forlì. Che una delicatissima terracotta, Madonna con il bambino di Donatello, d’oltralpe dal Louvre di Parigi era giunta in Italia insieme ad altri capolavori rinascimentali realizzati nello stesso umile materiale direttamente al Museo Diocesano di Padova per A nostra immagine. Sculture in terracotta del Rinascimento. E che la pensierosa e pudica Maddalena penitente o il vespertino Rissa dei musicisti del dimenticato per secoli e poi riscoperto maestro del Seicento francese George La Tour, avevano attraversato l’oceano, rispettivamente dalla National Gallery of Art di Washington la prima e dal Getty Museum di Los Angeles il secondo, per L’Europa della luce a Palazzo Reale a Milano.

Questi sono solo alcuni dei capolavori che non abbiamo fatto in tempo a vedere, ora che le mostre sono state tutte annullate in ottemperanza alle restrizioni dell’emergenza sanitaria che ha giustamente reso inaccessibili i musei di tutta Italia già dai primi di marzo. Alcune sono rimaste aperte qualche giorno, hanno accolto gli entusiasti visitatori delle prime ore, altre invece non sono state nemmeno inaugurate. Il problema è, infatti, quello dei prestiti. Rimanendo in attesa della fatidica data del 4 maggio – in cui si capirà se i musei rientreranno nel novero delle attività da riaprire o meno –, a partire da quella data si potrà iniziare a ragionare i contratti con i prestatori (che, però – il mondo dell’arte ci rassicura –, si sono dimostrati solidali, anche perché l’impossibilità di esporli vale per i nostri come per i musei di tutto il mondo). A partire, infatti, dall’elasticità delle cessioni temporanee (se, cioè, data l’eccezionalità della situazione mondiale verrà o meno concessa un’estensione), si capirà se la mostra può essere solo prorogata, se – saltando l’estate – potrà essere rimandata, oppure se verrà semplicemente annullata.

Lo scenario futuro è dunque triplice. Nella peggiore delle ipotesi – se, per esempio, si tratta di un percorso espositivo itinerante che deve essere accolto presso un altro sito – si può parlare già di annullamento. Altre, invece, avendo ricevuto le opere da un solo fondo, si riproporranno tali e quali a ottobre. Per esempio, L’ultimo romantico – la mostra che ricompattava tutta la collezione del musicologo Luigi Magnani (Goya, Canova, Rubens, Morandi, Degas, solo per fare qualche nome) – verrà riproposta tale e quale alla Fondazione Magnani-Rocca di Parma a ottobre.

Lo stesso varrebbe per gli scatti del fotografo di culto del ’900 Jacques Henri Lartigue, raccolti alla Casa dei Tre Oci di Venezia per L’invenzione della felicità, che provengono tutti dalla fondazione dedicata al fotografo e pittore francese. Il medesimo discorso potrebbe valere per Marc Chagall. Anche la mia Russia mi amerà a Palazzo Roverella di Rovigo e per Taddeo di Bartolo (il percorso dedicato al prolifico artista senese, specializzato in polittici, predelle e pale d’altare) alla Galleria Nazionale dell’Umbria a Perugia, poiché si tratta di mostre non itineranti, che coinvolgono prestatori di opere dunque sganciate da futuri impegni.

L’ultimo scenario possibile è quello di un’esposizione a metà, in cui parte delle opere si potranno ammirare e altre saranno già tornate a casa dai legittimi proprietari. Il più grande interrogativo riguarda il destino di Raffaello 1520-1483, che dovrà ridiscutere i contratti con ben 55 prestatori (musei e collezioni private), che intanto aspetta al buio e ha coperto le opere più delicate come i disegni, dato che possono stare solo un certo numero di ore sotto le luci accese. Una rassicurazione arriva dagli Uffizi: le 49 opere in prestito resteranno a Roma.

Pure il virus è sempre colpa degli ebrei Nazi invadono Tik Tok

Nell’era della disinformazione e del Covid-19 quella che segue è l’ultima notizia ma anche una vecchia storia: “Della pandemia hanno colpa gli ebrei”. Del virus e dei suoi morti a ogni latitudine, della conseguente catastrofe sanitaria, sociale ed economica dei Paesi, hanno responsabilità sionisti e israeliani. Mentre funzionano a pieno ritmo le macchine della propaganda governativa di Mosca, Pechino e Washington, i suprematisti bianchi, gli esponenti di estrema destra in Europa e America, gli islamisti dalla Turchia al Medio Oriente, ribadiscono invece in rete di sapere perfettamente di chi è la colpa: degli ebrei.

“Dall’inizio di marzo abbiamo ricevuto allarmanti informazioni sulle accuse agli ebrei, sia come individui che come collettività, di aver causato e diffuso il virus”: quello che è giunto alle orecchie del magnate russo Moshe Kantor, presidente del Congresso ebraico europeo, è un ripetersi di vecchi slogan farneticanti, elaborati da neonazisti, musulmani radicali e ultraconservatori cristiani in ogni parte del mondo.

Se rispetto all’anno precedente nel 2019 sono aumentati del 18% gli attacchi violenti contro i membri della comunità ebraica, negli ultimi mesi, insieme al Covid-19, è diventato più virulento l’antisemitismo, ha denunciato il Centro ricerche Kantor dell’Università di Tel Aviv, nell’ultimo report che ha reso pubblico ieri, alla vigilia della Giornata della Shoah celebrata oggi in Israele. Tacciati come untori già all’epoca della Morte nera, la peste medievale, e dell’influenza spagnola a inizio Novecento, gli ebrei mirano oggi a “indebolire l’economia del mondo e facilitarne il controllo attraverso il virus”. Per soldi: i sionisti “hanno alimentato il focolaio epidemico per poi immettere sul mercato un vaccino da commercializzare per ottenere profitti”. Secondo le teorie della cospirazione il Covid-19 è stato malignamente elaborato in un laboratorio del tycoon ebreo George Soros o, più certamente, in reconditi uffici del Mossad, i servizi segreti israeliani, al lavoro per creare una potente bio-arma. Dietro gli schermi delle tv ad Ankara molti turchi ascoltano che gli ebrei avrebbero inventato e diffuso il Corona “per modellare il mondo a loro piacimento e neutralizzare il resto della popolazione”, come chiosa un ex colonnello dell’esercito, Coskun Basbug, sul canale A-Haber, di proprietà della famiglia del presidente Erdogan.

Il virus è una piaga creata dagli ebrei, ma è anche il suo opposto: è un’arma di Dio per sterminarli. Il contagio ha uno scopo divino tra stelle, strisce e croci americane: per il pastore di estrema destra Rick Wiles è il Signore stesso che diffonde il Corona nelle sinagoghe per “punire chi si è opposto a suo figlio”.

Rintracciati, esclusi e vietati da Facebook, Twitter e Youtube, piattaforme che hanno deciso di chiudere uno dopo l’altro quasi tutti i loro account, i neonazisti di ogni parallelo hanno trovato il loro ultimo rifugio su Tik Tok, dove non ci sono più solo ragazzini che ballano e cantano. “Ammazza un negro” o “Tutti gli ebrei devono morire”: sull’app ci sono anche membri dell’Atomwaffen, neonazisti americani già al centro di inchieste per omicidi, che inneggiano alla guerra razziale. Tra l’emoticon di una croce e una foglia – simile a quella che è al centro della sua bandiera canadese – lancia messaggi sul virus dal suo account la speaker suprematista Faith Goldy, come fa Jim Dowson, il leader inglese della destra di Britain First. Su altre chat e siti di estrema destra la foto della stella di Davide gialla ha una scritta nera al centro: holocough, crasi in lingua inglese di olocausto e tosse, cioè malattia e virus, un hashtag che spesso si accompagna a teorie sul “nuovo ordine mondiale”. La congiura ebraica è declinata in infinite variazioni e ipotesi irreali sul web, con alcune eloquenti prove di cecità. L’ultima versione sul Covid-19 diffusa dai ragazzi che vorrebbero il mondo tutto bianco e che rendono il web molto oscuro contraddice tutte le altre teorie che gli stessi suprematisti hanno messo in circolo: il virus in realtà non esiste, è una falsa notizia e loro sanno per certo chi l’ha messa in giro.

Air France ignora il contagio. Voli pieni e poche protezioni

Il volo Air France Parigi-Nizza è completo. A bordo sembra un giorno qualunque: i passeggeri si stringono nell’esiguo corridoio centrale per riporre le valige nelle cappelliere e poi si siedono l’uno accanto all’altro. Ma le immagini, diffuse ieri da LCI, sono state girate non un giorno qualunque, ma sabato scorso, in piena epidemia di Covid-19. La maggior parte delle persone non indossa la mascherina. La distanza di un metro non è rispettata.

Ed è polemica sulla compagnia francese, costretta a giustificarsi anche per un altro volo, un Parigi-Marsiglia partito sempre sabato quasi completo, come ha denunciato una giornalista di France Tv che era a bordo e ha postato una foto su Twitter: “La distanza era rispettata nella fila per l’imbarco, ma dentro si è tutti seduti vicini”. Secondo lei a terra non c’è stato inoltre nessun controllo delle autocertificazioni. A LCI un pilota Air France denuncia anonimamente: “Non ci fanno il tampone anche se lavoriamo in tanti in spazi ristretti”. I sindacati chiedono test sistematici per personale e passeggeri: “È scandaloso che non ci siano mascherine per tutti e che si continui a lavorare in condizioni normali”, denuncia Vincent Salles, della Cgt Air France. Come se il virus non ci fosse. Dopo la polemica, Air France ha spiegato che i suoi aerei partono per lo più pieni solo a metà, ma che di voli per Nizza e Marsiglia ce n’è uno solo al giorno. Inoltre spiegano che “l’aria della cabina viene cambiata ogni tre minuti” con filtri potenti come quelli delle sale operatorie. Ieri anche in Francia è stata superata la soglia simbolica dei 20 mila morti (20.265, 547 in 24 ore). Un dramma si sta consumando nelle case di riposo, dove i morti sono ormai 7.752. Un ricovero per anziani di Mars-la-Tour, in Lorena, nelle regioni dell’est afflitte dall’epidemia, ha perso quasi la metà dei suoi residenti, 22 su 51. “Il Covid-19 ha ucciso più di ogni altra epidemia stagionale e più dell’episodio di grande caldo del 2003, che aveva provocato la morte di 19.500 persone”, ha detto ieri Jérôme Salomon, direttore generale della Sanità. A Parigi, dove “tracce infime” di virus sono state trovate nella rete di distribuzione idrica non potabile, il comune ha rassicurato i parigini: non ci sono rischi a bere l’acqua del rubinetto. Per pulire le strade si usa l’acqua potabile.

 

Stati Uniti
Washington Post contro Trump: “L’Oms lo avvisò del pericolo”

Chi di Oms ferisce, di Oms perisce: la Casa Bianca ricevette tempestivi allarmi sulla pericolosità del Coronavirus dall’Organizzazione mondiale della Sanità, ma li ignorò; salvo poi rivalersi sull’Oms, tagliando i fondi, perché terrebbe bordone alla Cina e avrebbe tardato a dare l’allarme. La versione del presidente Donald Trump è smentita proprio da funzionari statunitensi dell’Oms, che sarebbero stati, secondo il Washington Post, in costante contatto con i vertici sanitari dell’Amministrazione Usa fin dal profilarsi del contagio. In queste ore, Trump colleziona smacchi: la Nord Corea lo sconfessa, negando che Kim Jong-Un gli abbia scritto di recente “una bella lettera”, come lui aveva detto sabato; e Cnn e altre tv nazionali cessano di dare per intero il briefing sull’andamento dell’epidemia, perché è propaganda politica. Ma Trump insiste a vantare progressi e successi e torna ad avallare le proteste anti-lockdown, corteggiando, come fece nel 2016, il voto anti-establishment. Per la Johns Hopkins University i decessi da Covid superano i 41 mila e i contagi sono oltre 760 mila. La media è sopra i duemila al giorno da una settimana.

 

Spagna
I morti scendono sotto i 400 Sono 30 mila i sanitari malati

Da un lato le buone notizie: i morti per Covid-19 in Spagna scendono ancora andando sotto i 400, mentre si assesta per la seconda settimana il plateau dei contagiati e aumentano i guariti, 80 mila. Dall’altro lato, le cattive notizie: secondo il Banco di Spagna il Pil – già crollato del 4,7% tra gennaio e marzo – continuerà a scendere fino al -13%. Come se non bastasse, la Banca prevede una ripresa lenta, probabilmente la più lenta d’Europa e le imprese ferme avvertono che non reggeranno il pagamento dei salari per 6 mesi. Intanto il Tribunale supremo su petizione dei sindacati dei medici ordina al governo Sánchez di fare rapporto ogni 15 giorni sulle misure adottate per la protezione del personale sanitario. Sono in tutto 30 mila infatti i sanitari infettatisi negli ospedali iberici. La politica prosegue i suoi colloqui per il “patto della Moncloa” per la ricostruzione del Paese post-epidemia. Nonostante l’appello del premier socialista che ha rispolverato il termine “transizione” come dopo la dittatura invocando l’unità nazionale, il leader del Pp Pablo Casado ha voluto sostituire l’accordo con una commissione parlamentare dove far pesare il suo veto.

 

Regno Unito
Pandemia, anche i giornali conservatori contro Johnson

Secondo YouGov, i Tories sarebbero al 53% delle intenzioni di voto. Ma dopo settimane di deferenza perfino i media “amici” presentano al governo il conto dei suoi errori; sabato il Financial Times, con una ricostruzione del tentativo fallimentare di produrre ventilatori Made in UK, domenica il Sunday Times con un articolo di condanna dei processi decisionali e della presunta negligenza di Johnson, in vacanza invece che a cinque riunioni cruciali del comitato di emergenza Cobra. Il ministero della Salute ha risposto con una lunga replica. Non ci sono precedenti, segno che il governo prende sul serio l’offensiva del quotidiano conservatore e del suo proprietario Rupert Murdoch. Ieri all’attacco è andato anche il Daily Telegraph, principale alleato mediatico di Boris Johnson, che scrive di un numero di decessi molto più alto di quello ufficiale, ieri arrivato a 16.506. Sotto pressione, il governo è spaccato sul lockdown: i ministri economici vogliono riaprire, quello della Salute e lo stesso Johnson, convalescente, resistono spaventati dal rischio di una seconda ondata.
Sabrina Provenzani

 

Israele
Netanyahu-Gantz, un governo anti epidemia e premier a turno

Dopo una serie di informazioni contrastanti sull’esito degli incontri fra il premier uscente Benjamin Netanyahu e Benny Gantz, leader del partito Blu e Bianco, ieri i due leader hanno trovato una intesa; confermata la carica di primo ministro in alternanza, il primo mandato di 18 mesi sarà per Bibi. “Abbiamo impedito una quarta tornata elettorale. Difenderemo la democrazia. Combatteremo il coronavirus e avremo cura dei cittadini di Israele”: questo il messaggio su Twitter di Gantz. Uno dei punti dell’accordo, secondo indiscrezioni, prevede che dall’1 luglio Israele porti avanti l’annessione dei Territori Occupati in Cisgiordania. Le trattative andavano avanti dal 2 marzo, dopo la terza elezione in undici mesi. Netanyahu è in attesa di un processo dove risponderà di tre capi d’accusa per corruzione; l’inizio del dibattimento è stato rinviato al 24 maggio a causa dell’emergenza per l’epidemia. Un premier che sia sotto processo non piace all’opposizione, che ieri ha depositato una proposta di legge che vieta a una persona formalmente incriminata di svolgere il ruolo di primo ministro.

“La Bce deve poter finanziare direttamente gli Stati dell’Eurozona”

Gentile direttore, vorremmo rispondere alle critiche rivolte da Stefano Feltri sul Fatto del 17 aprile all’appello con cui 101 economisti, fra cui noi, chiedono che le risorse per affrontare l’epidemia in corso provengano dalla Banca centrale europea. Non è necessario entrare in argomenti tecnici, in quanto l’intervento di Feltri contiene due errori logici che inficiano a priori le sue argomentazioni. Il primo errore consiste nell’identificare l’indipendenza di una banca Centrale con il suo astenersi da qualsiasi intervento di politica economica diverso dal mantenimento della stabilità dei prezzi e dalla tutela del sistema dei pagamenti. Non c’è alcuna ragione per cui questa debba essere una regola universale, e infatti non lo è: per esempio, lo statuto della banca centrale americana prescrive che la sua attività sia “orientata ad una condizione di piena occupazione, stabilità dei prezzi e controllo del tasso d’interesse di lungo periodo”. La politica monetaria è uno dei principali strumenti di governo di un’economia, e non vi è motivo per cui i responsabili di essa, in piena autonomia, non debbano avere come obiettivo il sostegno della medesima. Naturalmente lo strumento monetario va usato con attenzione. L’emissione di grandi quantità di moneta è opportuna in periodi di alta deflazione, come l’attuale, e non in periodi di alta inflazione: ma non c’è motivo per cui la politica espansiva debba proseguire una volta domata la deflazione.

Il secondo errore consiste nel denunciare i (presunti) pericoli di un intervento della Bce sul mercato primario dei titoli senza valutare i pericoli delle altre alternative. Senza una politica di neutralizzazione del debito l’Italia si troverà ad avere un rapporto debito/Pil superiore, e probabilmente di molto, al 150%, e data la concorrenza che ci sarà con emissioni di paesi più forti i tassi di interesse saranno insostenibili. A quel punto le alternative saranno tre: una politica di deflazione al confronto della quale l’esperienza della Grecia sarebbe rose e fiori, il default sul debito (o l’uscita dall’euro), o la monetizzazione del medesimo. Ci sembra evidente che la migliore delle alternative è la terza. Feltri quale alternativa preferisce? Se ritiene che sia giusto ridurre le pensioni, smantellare la sanità e l’istruzione e ricorrere a licenziamenti di massa per pagare il debito pubblico farebbe bene a dirlo. Questo è ciò che ha fatto l’ultimo governo democratico della Repubblica di Weimar. Feltri sostiene che il coordinamento della politica monetaria espansiva della Bce con le necessarie misure di politica fiscale espansiva che abbiamo suggerito (e che non consideriamo confinabili alla situazione italiana) avrebbe come conseguenza l’uscita dell’Italia dall’unione monetaria. A nostro avviso invece questo coordinamento è una condizione necessaria per il corretto funzionamento di un’unione monetaria europea.

Cari 101, siete voi a incorrere in errori logici dovuti alle vostre lenti ideologiche. La Bce già agisce per sostenere l’economia. In tempi di deflazione, una banca centrale che persegue la stabilità dei prezzi fa le stesse cose di una che vuole ridurre la disoccupazione: immette liquidità a condizioni vantaggiose per favorire la ripresa. Le differenze si vedono semmai in tempi di inflazione (quando le banche centrali che piacciono a voi, come la Fed, tendono a gonfiare bolle speculative senza sapere poi come gestirle).

Il debito dell’Italia aumenterà comunque, che lo comprino le banche o la Bce. Quello che conta è che il tasso di crescita dell’economia sia maggiore dell’aumento della spesa per interessi. Voi pensate soltanto a come ridurre la spesa per interessi (che, peraltro, sarebbe più bassa con l’uso di strumenti come il Mes, visto che anche in questo contesto c’è uno spread tra Italia e Germania), ma non a come far ripartire la crescita. L’assenza di idee su questo punto alimenta il mio sospetto che la vostra fame di debito nasconda l’incapacità di affrontare i problemi strutturali dell’economia italiana, nel tentativo di preservare un (disastroso) status quo

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Noto poi che non rispondete al punto centrale del mio pezzo: compromettere l’indipendenza della Bce rompendo la barriera del divieto di finanziamento diretto degli Stati significherebbe sottomettere la banca centrale alla politica europea, consegnandola ai veti incrociati degli Stati che già paralizzano l’attività del Consiglio europeo. E la Bce diventerebbe moto meno efficace.

Infine, per favore, evitiamo le caricature (Weimar, Grecia ecc.) Abbiamo tutti a cuore il destino di questo Paese, parliamone seriamente con proposte concrete e fattibili, possibilmente creative e libere dalla polvere dell’ideologia.

Spagna e Francia insistono: “Il fondo Ue o l’euro muore”

Il diavolo, è fatto noto, si nasconde nei dettagli e questo non è mai vero quanto per le istituzioni europee. Almeno una buona notizia per l’Italia, però, c’è: il fronte dei Paesi che spingono per una soluzione condivisa della crisi non si è sfaldato e dunque Giuseppe Conte giovedì dovrebbe poter appoggiarsi a una decina di partner tra cui Spagna e, soprattutto, Francia (anche il fronte del Nord però, va detto, non accenna affatto a cedere).

È Pedro Sánchez quello che ha deciso di giocare più duro nella trattativa con Angela Merkel e i suoi alleati: ieri il governo di Madrid ha fatto circolare il suo “non paper” sulla risposta comune alla crisi, un testo che va dritto al punto dei problemi su cui ci si sta dividendo. Tecnicamente parlando sarebbe un intervento da 1.500 miliardi, finanziato con una emissione di debito comune e perpetua che sovvenzionerebbe i Paesi europei in base a precisi parametri (impatto del Covid-19, calo del Pil, numero dei disoccupati, eccetera). Su queste elargizioni – non prestiti come quelli di Mes, Bei e “Sure” – bisognerebbe pagare solo (pro quota) gli interessi e le somme non rientrerebbero nel conto del debito nazionale: non potrebbero cioè essere usate per imporre austerità finita la prima fase dell’emergenza. Il meccanismo dovrebbe essere pronto per il 1° gennaio 2021 e fino ad allora sarà la Bce – coi suoi programmi Qe e Peep – a intervenire. Solo così “Paesi come Italia o Spagna potranno rimettersi in carreggiata”, altrimenti sarà una catastrofe.

Il piano è più ambizioso, ma simile a quello per istituire un Recovery Fund europeo promosso dalla Francia e ribadito ieri in diverse interviste dal ministro dell’Economia Bruno Le Maire: senza un fondo comune, dice, “c’è il rischio che alcuni paesi come la Germania e i Paesi Bassi si riprendano rapidamente, perché hanno lo spazio fiscale per finanziare la loro ripresa, mentre altri paesi resteranno indietro, correndo il rischio di allargare le divergenze esistenti e portare alla fine del zona euro. Questo è ciò che è in gioco”.

Per questo la Francia ritiene la sua proposta una parte “fondamentale” dell’accordo preliminare raggiunto all’Eurogruppo (e che prevede appunto anche l’ex fondo Salva-Stati, la Banca europee degli investimenti e i prestiti anti-disoccupazione detti “Sure”): per questo Parigi “non accetterà” che il Fondo per la ripresa venga separato dagli altri tre pilastri della risposta europea. Quanto all’Italia, che per ora tiene il punto come gli altri, la scelta è di non presentarsi all’Eurogruppo di dopodomani con una proposta formalizzata come quelle spagnola o francese: il premier Giuseppe Conte appoggerà comunque i piani che conterranno risposte europee alla recessione da Covid-19 e continua a non ritenere percorribile l’opzione Mes.

Problema: se la proposta spagnola è davvero risolutiva, i dettagli di quella francese – il diavolo… – potrebbero riservare sgradite sorprese. La battaglia, però, è solo all’inizio.

Al via i (piccoli) prestiti garantiti: soldi in 72 ore

Alla fine il lunedì nero agli sportelli bancari per le richieste di finanziamento fino a 25 mila euro (coperti al 100% dal fondo di garanzia per le Pmi previste dal decreto Imprese per l’emergenza coronavirus) non c’è stato. Nella prima giornata di presentazione delle domande non si sono registrate quelle reazioni “violente” che i sindacati dei dipendenti delle banche temevano, ma solo rallentamenti nelle operazioni e casi di tensione. Merito anche della task force preparata dal Viminale (la presenza di pattuglie fuori dalle filiali) e alla stessa organizzazione logistica: per entrare in filiale, serve obbligatoriamente l’appuntamento. Insomma, nessuna graduatoria di chi arriva per primo e nessun 1° aprile dell’Inps alle prese con il bonus da 600 euro. Mps ha ricevuto 13 mila richieste per 295 milioni di euro, il Banco Bpm 8.000 richieste, Bnl 5.000 e Intesa SanPaolo oltre 70 mila erogando i primi prestiti.

Per la piena operatività delle richieste, le banche accrediteranno i soldi sui conti correnti nelle prossime 24/72 ore ma solo se le procedura è andata a buon fine. “Risulta che alcuni istituti – spiega il sindacato bancario Fabi – non hanno rispettato le procedure semplificate, chiedendo alla clientela la dichiarazione dei redditi nonostante la norma consenta di autocertificare i propri dati di bilancio”. Un elemento fondamentale per la domanda: imprese e professionisti che chiedono fino a 25 mila euro li otterranno comunque entro il limite del 25% dei ricavi. Tradotto: il prestito pieno si può ottenere solo se si ha un fatturato pari ad almeno 100 mila euro; con 20 mila euro di ricavi si ottengono 5 mila euro. Le condizioni: per due anni si pagano solo interessi e tra 24 mesi la quota capitale.

Fin qui tutto bene, più o meno. È analizzando le altre fasce di prestiti previste dal dl Imprese che i tempi per potere ottenere i soldi si fanno molto incerti, così come resta senza data il pagamento della cassa integrazione in deroga per 2 milioni di lavoratori. Per chi ha necessità di importi fino a 800 mila euro (anche qui c’è una garanzia statale al 90% e vale la regola del 25% dei ricavi), scatta un’istruttoria da parte della banca che allunga a due settimane i tempi di erogazione effettivi.

Si parla, invece, di circa un mese di attesa, e lo dicono i più ottimisti, per i prestiti degli imprenditori che richiederanno fino a 6 milioni di euro, dove è previsto il 25% non dei ricavi ma del fatturato. È, infatti, arrivato solo la scorsa notte l’accordo tra Abi e la Sace,la società controllata da Cassa depositi e prestiti e disegnata come garante per le imprese (la copertura varia a seconda delle dimensioni dell’impresa) che richiedono un prestito con rimborso massimo di 6 anni, un pre-ammortamento di 24 mesi (pagano solo gli interessi) e che, soprattutto, non devono avere avuto sofferenze. Questo è l’ultimo tassello degli aiuti annunciati dal governo due settimane fa: l’erogazione effettiva dei fondi è ancora lontana.

Reddito di emergenza beffa: arriverà a emergenza finita

Il cosiddetto “decreto aprile” andrà probabilmente ribattezzato “decreto maggio”: “Se va bene diamo il via libera giovedì 30 aprile: così, anche se solo formalmente, ci evitiamo una figuraccia”, spiega una fonte di governo. Sarà davvero una sfida sul filo dei minuti visto che il voto parlamentare sulla modifica dei saldi di bilancio, preliminare all’approvazione di una legge che aumenta il deficit, “credo ci sarà tra il 29 e 30 aprile”, ha detto ieri il ministro dei Rapporti col Parlamento, Federico D’Incà. Insomma, quel testo finirà comunque in Gazzetta Ufficiale a maggio.

Di cosa si parla? Del secondo decreto, annunciato in pompa magna da settimane, per alleviare gli effetti di una crisi già gravissima. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ne parlò già il 16 marzo presentando il primo decreto da 25 miliardi, il 20 marzo promise che il testo sarebbe stato pronto “prima della scadenza fiscale di metà aprile”. Da allora, pur spesso evocato dai membri dell’esecutivo, del testo corporeo s’è persa ogni traccia anche se il lavorio dei tecnici del Tesoro – ci assicurano – è matto e disperatissimo (matto al punto, vorremmo dire, che le cifre totali sui giornali variano da 35 a 70 miliardi…).

Ovviamente il ritardo del governo è un problema per tutti i soggetti in difficoltà e per il Paese in generale, ma la cosa che vorremmo sottolineare su tutte comporta un danno che sa di beffa e racconta plasticamente quanto poco la realtà sia stata compresa da un pezzo del potere burocratico-politico. Nel prossimo decreto dovrebbero infatti trovare posto i tre miliardi destinati al cosiddetto “reddito di emergenza” per tutti quelli che non hanno ricevuto finora alcun aiuto: un esercito, secondo le stime dello stesso governo, di 3 milioni di persone tra (ex) lavoratori in nero, disoccupati a cui sono scaduti in questi mesi gli strumenti di sostegno al reddito e le decine di altri casi possibili in una società complessa; a questa platea va aggiunta quella di colf e badanti assunte a ore che in questo momento non stanno lavorando (decine di migliaia).

Il nome dato al provvedimento, d’altra parte, dovrebbe dire qualcosa anche a chi lo sta scrivendo, ma ci troviamo di fronte al paradosso per cui il “reddito di emergenza” sarà probabilmente erogato quando la fase più acuta dell’emergenza sarà passata e i danni pressoché irreparabili (come si paga l’affitto dopo due mesi senza entrate e, presumibilmente, senza risparmi in banca?). Non meno importanti sono le altre misure attese: dal rifinanziamento dei 600 euro per gli autonomi (che dovrebbero diventare 800) a quello del bonus baby sitter o dei congedi parentali; dai soldi “veri” per estendere le garanzie del “decreto liquidità” all’assegno per i figli proposto dalla ministra Elena Bonetti fino a ulteriori misure per le imprese (quelle del turismo, ad esempio). Cose che possono fare la differenza tra vivere e morire di dopo-virus e che pure continuano a essere rimandate lasciando nell’incertezza cittadini e aziende.

Altrettanto paradossale il fatto che uno dei motivi del ritardo – insieme al solito delirio burocratico di un Paese in cui ci sono mille bonus ognuno per una categoria di cittadini – sia che al Tesoro stiano tentando di coordinare il nuovo decreto con le previsioni del Documento di economia e finanza che dovrebbe essere approvato domani: si tratta del quadro triennale dei conti pubblici che i governi sfornano ogni aprile per smentirlo una volta a settembre e una seconda a dicembre e che quest’anno è un esercizio totalmente inutile visto che nessuno può fare previsioni serie su quel che succederà quest’anno o, peggio, i prossimi due.

Non manca, ovviamente, l’attesa – spasmodica. come usa, al ministero dell’Economia – delle decisioni del Consiglio europeo e dell’esito delle interlocuzioni con Bruxelles. Una subalternità culturale e politica che rischia di costare cara agli italiani prima e al governo poi. Non ai grand commis di via XX settembre però.