Vera Gemma: “Pulisco casa, cucino e il sesso è un problema”

Soffusa. Quasi eterea, con accenni sociologici. È Vera Gemma, protagonista di Pechino Express. “Sono stata a letto tutto il giorno. Non ho voglia di niente; forse è il tempo”.

Reagisca.

Comunque il lavoro di “madre” è il più faticoso al mondo.

Che c’entra?

Perché ora ho la sveglia: devo fare lezione online con mio figlio.

Com’è la sua giornata?

Piazzo un film, poi leggo, magari lascio la televisione accesa e vedo pubblicità che passano davanti.

È una nuova versione di “Blade Runner?”

(Ride e le esce la voce di Roy Batty) …e pure gigantografie di cinesi; (ricambia tono) in questo periodo subisco le immagini.


Pulizie?

Eccome!

Cosa?

Raccolgo anche le briciole di pane, altrimenti arrivano le formiche. E io detesto.

Esercizi fisici?

Ho passato varie fasi.

La prima.

Volevo dimagrire, obiettivo: uscire dalla quarantena più figa di tutte; quindi esercizi e tutorial ogni giorno.

La seconda.

È scattata in me la frase: “In fondo non stai ingrassando”.

Trucco e parrucco.

Sempre sbrigata da sola, potrei reinventarmi parrucchiera o estetista.

Vezzo?

Metto sempre il profumo, e neanche so perché, né per chi.

Naike Rivelli ha lanciato dubbi sulla realtà a “Pechino Express”.

Ma se alla fine eravamo stravolti! Distrutti! Forse ne parla male perché a lei non è andata così bene.

Come va il sesso?

Ecco, lo sapevo, ora mi devo sfogare.

Che succede?

L’argomento sesso è un bel problema. Mai passato un periodo di astinenza del genere. È insopportabile.

@A_Ferrucci

Mes, usciamo dai sensi di colpa e ricordiamo Atene. Come fa Conte

Quel che più sconcerta, nelle discussioni italiane sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes), è lo sconcerto di molti commentatori, confortati dall’appoggio che ricevono da buona parte del Partito democratico. Possibile che Conte sia così sprovveduto o ideologico – si chiedono costoro – da respingere l’offerta di aiuti senza condizioni? Il governo Conte deve essersi ammattito, se insiste nel giudicare “inadeguata” l’assistenza del Mes e se pensa di poter ottenere quel che Germania e Olanda non concederanno, e tanto meno a noi peccatori: una messa in comune del debito nell’eurozona, attraverso l’emissione di eurobond. Ammattito due volte: perché resiste a qualcosa che può solo avvantaggiarci, e perché non si è accorto come il Mes sia mutato rispetto ai tempi in cui l’Unione, rappresentata nella Trojka da Commissione e Banca centrale, e affiancata dal Fondo Monetario, aiutò la Grecia a distruggere il proprio Stato sociale. Chi accusa Conte di riaccendere lo scontro fra chi vuole più Europa e chi ne vuole di meno dà evidentemente per scontato che Mes sia sinonimo di buona Unione, e non-Mes sia sinonimo di non-Europa e sovranismo.

Nulla di più lontano dalla realtà, se si perde un po’ di tempo a leggere i comunicati europei, a usare le parole con un minimo di precisione, e a osservare quel che accade fuori casa. Vero è che le condizioni per accedere agli aiuti del Mes diminuiscono – lo shock Coronavirus non è stavolta asimmetrico ma colpisce simmetricamente tutti gli Stati – ma non per questo scompaiono. Il Report approvato dall’eurogruppo in vista del vertice Ue di giovedì prossimo parla di “condizioni standard per tutti”, definite in anticipo dagli organi del Mes, e di aiuti temporanei legati solo alle spese sanitarie. La formula è vaga sull’accesso ai prestiti ma si fa più concreta sul dopo-Covid (quando verrà alla luce l’aumento del debito cui si è sobbarcato il paese richiedente). Finita l’emergenza, quest’ultimo dovrà “restare fedele all’impegno di rafforzare i fondamentali economici e finanziari, coerentemente con il quadro di coordinamento economico-fiscale e di sorveglianza dell’Unione”. Niente di nuovo in Occidente, dopo il Covid-19.

L’assistenza “senza condizioni” del Mes non è peraltro prevista dai Trattati dell’Unione, così come modificati il 25 marzo 2011 da una decisione del Consiglio europeo (quando al governo c’era Berlusconi, ha opportunamente ricordato Conte). Fu allora che l’articolo 136 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione venne corredato di un’aggiunta rilevante: “Gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un Meccanismo di stabilità (…). La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria (…) sarà soggetta a una rigorosa condizionalità”. Anche se giovedì si giungesse a un’intesa sul Mes che soddisfi l’Italia, i paesi contrari agli eurobond potranno sempre – in un secondo momento – appellarsi a quest’articolo.

Un altro punto a favore della scommessa di Conte: la sua intransigenza sul Mes ha dato forza ai paesi che chiedono un’Unione attrezzata per il disastro economico scatenato dal Covid. Disastro non paragonabile a nessun altro disastro recente o non recente. Che i meccanismi europei nella loro totalità vadano reinventati è opinione che si sta diffondendo, non solo a Sud: la lettera di nove governi in favore degli eurobond, diramata il 25 marzo, è firmata anche da Belgio, Lussemburgo, Irlanda. Si diffonde, anche, la consapevolezza che tali meccanismi poggiano su dottrine neo-liberiste che lungo gli anni, in nome di uno Stato dimagrito, hanno divorato servizi pubblici, spesa sanitaria, ricerca, e affidato al mercato globalizzato la produzione di dispositivi sanitari di prima necessità (medicine, mascherine, ventilatori). “Lo smantellamento del sistema sanitario pubblico ha trasformato questo virus in una catastrofe senza precedenti nella storia dell’umanità e in una minaccia per l’insieme dei nostri sistemi economici” (Gaël Giraud, Civiltà cattolica II, 2020).

Non stupisce dunque che il ricorso al Mes sia ormai inviso in molti paesi dell’Unione, e non è escluso che Spagna e Francia giocheranno al rialzo, giovedì, scommettendo come Conte sul massimo che potranno ottenere, nella speranza di ottenere almeno qualcosa di concreto. Il Premier spagnolo Pedro Sánchez ha appena proposto un Fondo di Ricostruzione (1,5 trilioni di euro, pari all’1% del Pil europeo) che sia agganciato al bilancio europeo e aiuti i paesi in difficoltà con trasferimenti di risorse (“grants”) anziché con prestiti destinati ad aumentare il loro debito pubblico. Di questo “debito perpetuo” si pagherebbero solo gli interessi.

In parallelo con la Spagna sembra muoversi anche Macron, in un’intervista al Financial Times del 16 aprile in cui afferma che l’Italia non va abbandonata e che “gli Stati membri non hanno altra scelta se non quella di istituire un fondo per la ripresa post Covid pari a 400 miliardi di euro”, capace di emettere debito comune, garantito congiuntamente e basato sui bisogni degli Stati anziché sulla grandezza delle loro economie. “Se non lo faremo i populisti vinceranno: in Italia, Spagna, forse in Francia”. “Sarebbe un errore storico ripetere che ‘i peccatori debbono pagare’, come si fece come nel primo dopoguerra”, conclude Macron, evocando il “fatale, colossale errore della Francia che in quegli anni reclamò riparazioni dalla Germania, scatenando reazioni populiste e il successivo disastro”.

Quell’errore non si ripeté nel 1945 ma può ripetersi oggi, con la Germania che oggi colpevolizza gli indebitati (in tedesco Schuld definisce sia il debito che la colpa) e con l’Olanda che si oppone agli eurobond continuando a profittare dei propri paradisi fiscali: un punto su cui insistono Sánchez e Conte, nell’intervista alla Süddeutsche Zeitung pubblicata ieri su questo giornale. Dopo il ‘45 l’Europa fu ricostruita grazie al Piano Marshall, e al Welfare State predisposto durante la guerra da William Beveridge in Gran Bretagna. Anche allora si fece una scommessa temeraria, giocando al rialzo come promettono oggi Italia, Spagna o Francia.

Può darsi che il vertice di giovedì produca compromessi al ribasso (Macron è volubile). Può darsi che Conte, isolato, non usi il veto. Ma darsi per sconfitti sin da ora vuol dire interiorizzare l’equivalenza debito-colpa (“Chi siamo noi, per rifiutare 37 miliardi?”). Vuol dire non aver capito la natura dell’odierna minaccia, e far finta che il Covid sia una crisi come le altre, padroneggiabile con vecchi fallimentari dispositivi.

Matteo, la libreria e l’orsetto: l’abilità di sbagliare tutto

La capacità di Salvini di sbagliare tutto è nota, ma domenica si è persino superato da Giletti. Noi che ne amiamo ogni gesta, torniamo quindi volentieri a parlare di lui. Analizziamo gli aspetti salienti dell’affascinante intervista, andata in scena dopo che il povero spettatore aveva dovuto sorbirsi pure mezzora di Sgarbi: De Sade era perfido, ma anche Giletti non scherza.

1) Chiamare tutti (no: tutti no) gli intervistatori per nome (“Massimo”, “Barbara”, “Nicola”) è vagamente insopportabile e fa sembrare l’intervista una chiacchierata intima tra amici: okay bimbi, ma allora fatelo in privato.

2) L’unica “libreria” più triste di quella che aveva Salvini alle spalle l’ho vista a casa del Poro Asciugamano nel ‘77.

3) L’orsacchiotto (“Mirta”) che Salvini aveva alla sua destra, mi ha convinto per argomentazioni molto più di Salvini.

4) Dire che la Regione Lombardia non ha colpe e che lui non pensa a litigare fa molto ridere. (Se a dirlo è Salvini, s’intende).

5) Sostenere che “siamo in guerra e bisogna guardare in faccia il nemico” dimostra che i mojito restano in circolo per più tempo del previsto.

5 bis) Oltretutto non si capisce come si possa guardare in faccia un virus. Cosa devi fare? Lo fissi col microscopio? Lo minacci con l’amuchina? Lo terrorizzi con un primo piano di Senaldi? Boh.

6) Pretendere che le inchieste si fermino “finché le persone non smettono di morire” di Covid, dimostra come Salvini conosca la giustizia come Facci conosce i barbieri.

6 bis) Salvini pretenderebbe ovviamente di fermare anche l’inchiesta che lo riguarda a Catania per sequestro di persona. E in ciò c’è forse un atteggiamento vagamente interessato.

7) Salvini ha nuovamente preteso le dimissioni di Ricciardi, “consulente di Conte”, perché reo di aver condiviso su Twitter un video in cui qualche imbecille usava un manichino di Trump come punching-ball. Detto che in questa fase storica non ce ne frega una mazza di quel che condivide Ricciardi, iscritto peraltro ad Azione! (cioè Calenda) e consulente del ministro Speranza (non di Conte), il punto è un altro: se uno dovesse dimettersi per i tweet e post sbagliati, Salvini andrebbe interdetto dal pianeta Terra.

8) Salvini ha detto di non amare la Cina perché non ama “i paesi non democratici”. Fa piacere. Ma fa pure sbellicare, perché a parlare è lo stesso Salvini che difende i sovranisti olandesi (noti amici degli italiani) e ha i poster in camera di Putin e Orban, noti filantropi contemporanei.

9) Salvini ha detto di non pensare ora a un governo Draghi, di cui peraltro parlava non proprio benissimo fino a qualche anno fa, ma quando Giletti gli ha fatto quel nome è parso politicamente eccitato come una nutria erotomane.

10) Salvini ha detto categoricamente che Fontana e Gallera non potevano decretare autonomamente la zona rossa in Val Seriana a inizio marzo. È un falso storico, come ha ammesso lo stesso Gallera (con troppi giorni di ritardo) ad Agorà su RaiTre: “Avremmo potuto farla noi? Ho approfondito ed effettivamente c’è una legge che lo consente”. Quella legge è vecchia di 42 anni ed è la 833/1978, che sancisce la nascita del Sistema Sanitario Nazionale: non proprio una legge sconosciuta e minore. Fontana e Gallera non la conoscevano, e questo è gravissimo. Domenica, da Giletti, anche Salvini è parso non conoscerla. Se è così, ha sbagliato lavoro (lavoro?). Se non è così e fingeva di ignorarla, è persino peggio. Sia come sia, il Cazzaro Verde continua a sbagliarle tutte. I social agonizzano e i sondaggi franano. Daje Matte’!

Lo squilibrio ambientale genera malattie

Il 2020 è l’anno dedicato dall’Onu alla biodiversità. Secondo l’ultimo Rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente circa il 75 per cento dell’ambiente terrestre e oltre il 60 per cento dell’ambiente marino sono gravemente alterati.

La Terra è un macrorganismo vivente in cui tutto si tiene: biologia, ecologia, economia, istituzioni sociali, giuridiche e politiche. La salute di ciascun individuo è interconnessa e dipendente dal buon funzionamento dei cicli vitali del pianeta. Il susseguirsi di malattie nuove e terribili sempre più frequenti e virulente (come Ebola, Hiv, influenza suina e aviaria) sono la conseguenza della alterazione dei delicati equilibri naturali. L’abbattimento e gli incendi delle foreste tropicali, il consumo di suolo vergine, lo sfruttamento minerario, la caccia e il consumo di fauna selvatica, la concentrazione di allevamenti animali, l’agricoltura superintensiva, il sovraffollamento urbano e lo spostamento continuo di merci e persone sono le cause primarie dello scatenamento delle pandemie. Non c’è alcun “nemico invisibile”, tantomeno imprevisto e sconosciuto che ha dichiarato guerra al genere umano. Al contrario è il sistema economico che ha provocato un progressivo deterioramento dei sistemi ecologici.

La sottovalutazione dei fenomeni in atto, l’impreparazione e l’incompetenza delle istituzioni pubbliche a ogni livello – laddove è prevalso il modello neoliberista – hanno indebolito i presidi socio-sanitari con definanziamenti e privatizzazioni. In particolare in Italia abbiamo dovuto constatare un tasso di letalità eccessivo, troppi contagi registrati tra gli operatori sanitari, insufficienza delle attrezzature. Per mascherare questi fallimenti – quasi fossero inevitabili – molti mass-media, politici e persino dirigenti sanitari hanno scelto di raccontare l’impegno per contenere la pandemia da Coronavirus usando una terminologia bellica: “battaglie”, “armi”, “trincee”, “nemico”. Il linguaggio della medicina invece si esprime con parole di cura e di pace, non di guerra. Di salute psicofisica, di sollievo della sofferenza, di rispetto della dignità umana.

Le ripercussioni del lockdown sull’economia globalizzata porteranno a una crisi senza precedenti. Le pandemie non conoscono differenze di classe, ma si ripercuotono accentuando ancor di più le disuguaglianze e le ingiustizie sociali. Per uscirne non basterà inondare il mondo con una pioggia di denaro “a debito”. Bisognerà che quel denaro serva effettivamente ad avviare una profonda conversione ecologica e solidale degli apparati produttivi e dei comportamenti di consumo.

La salute è un bene comune globale. In quanto esseri umani siamo parte della natura. Esistiamo gli-uni-con-gli-altri, in reciproca connessione. Ognuno di noi dipende dall’aria che respira, dai cibi con cui si nutre, dal tipo di energia che usa per muoversi, riscaldarsi e comunicare, dall’organizzazione sociale in cui è inserito. Siamo parte dell’universo bio-geo-fisico ed energetico.

Sono già passati cinque anni dall’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile dell’Onu e molti dei target intermedi fissati al 2020, nell’ambito dei suoi 17 macro obiettivi, sono stati clamorosamente disattesi. Non possiamo più fingere di non vedere. Speriamo che la Giornata della Terra del 22 aprile possa essere il momento di uscita dall’emergenza e di un di un nuovo inizio dell’impegno per una conversione ecologica integrale della società umana.

Il documento integrale è consultabile su www.comune-info.net ed è stato sottoscritto da centinaia di persone tra cui Alex Zanotelli,
Gianni Tamino, Roberto Mancini, Laura Marchetti, Michele Carducci, Daniela Padoan, Guido Viale, Cristina Simonelli, Francesco Gesualdi, Anna Maria Rivera, Marco Boschini, Ugo Mattei,
Marco Bersani, Marco Deriu

Roma Capitale, certo non del paesaggio

Finalmente si comincia a parlare criticamente di questa Italia scollata, sconnessa, in cui le Regioni si comportano come se fossimo uno Stato Federale alla tedesca o una Confederazione di tipo americano. E invece siamo soltanto uno Stato regionale che però si porta sul gobbo una cosiddetta riforma datata anno 2001 in cui sciaguratamente si è sostituito allo Stato “verticale” uno Stato “orizzontale” in cui tutti sono più o meno allo stesso livello, dallo Stato centrale (?) ai Comuni. E in una situazione mai registrata di lunga e rischiosa emergenza ogni Regione va per conto proprio, coi Comuni frastornati fra decreti del governo, direttive delle Regioni e altro ancora.

Ma il caso più eclatante è quello di Roma. Di che cos’è Capitale in questo marasma, di quale Repubblica, di quale Stato? In verità viene trattata più che altro come capoluogo (se va bene) del Lazio. Specie sul piano della fondamentale pianificazione urbanistica, nonché tutela del patrimonio storico-artistico che ormai riguarda ovviamente il ’900 migliore, quello del Liberty e della stessa architettura razionalista (vedi Foro Italico, Del Debbio, Moretti, Costantini, ecc.).

Già col Piano Casa ereditato dalla Giunta Polverini, e troppo poco modificato, la cosiddetta “rigenerazione” (che poi è un gonfiamento insensato di cubature) aveva investito il quartiere dei Villini e soltanto l’energica protesta di comitati e associazioni e l’intervento, infine, della Soprintendenza per Roma, cioè del ministero per i Beni Culturali, ha evitato lo stravolgimento di una delle zone più ariose e più belle della capitale.

Nei mesi scorsi poi la Soprintendenza ha preso – diamogliene atto – una decisione ancor più coraggiosa: quella di sottoporre a tutela tutta l’asta dal Quartiere Trieste al Nomentano. Ma, nel frattempo, è insorto un conflitto in verità grottesco (com’è del resto tutto il Titolo V della Costituzione “grande riforma” Bassanini & C. ora disconosciuto da tutti, più o meno). Finalmente la Regione Lazio – a ben undici anni dal Codice per il Paesaggio varato dal titolare del MiBACT Francesco Rutelli (governo Prodi II) nel 2008 con la consulenza di Salvatore Settis – ha copianificato coi tecnici del ministero il suo Piano, arrivando quarta dopo Puglia, Toscana e Piemonte. Ma arrivandoci male perché quel Piano definito d’intesa col MiBACT doveva come tale arrivare all’approvazione e all’adozione definitiva.

Invece no. Qualche consigliere della stessa maggioranza Pd ha pensato bene di renderlo meno incisivo, sul piano delle distanze dalla battigia, del rispetto delle distanze nei centri storici e dei Prg vigenti, escludendo in pratica dal Piano il centro storico di Roma (sin qui vincolato a macchia di leopardo, incredibile) “sito Unesco abbandonato alla speculazione”, ha commentato per LeU, Stefano Fassina. Approvato nonostante le critiche taglienti del M5S, in particolare per bocca di Valentina Corrado: “Non c’è mai fine al peggio. Il Piano smentisce persino se stesso recuperando il Piano Casa”.

Nei giorni scorsi il ministero – diamone atto al ministro Franceschini – ha annunciato che si opporrà a tali disastrose modifiche presso la Corte Costituzionale al fine di ripristinare il Piano nella versione concordata con la Regione.

Tutti dicono di voler salvare il Bel Paese, ma le maggioranze si ingegnano a peggiorarlo, sfregiarlo, manometterlo, imbruttirlo. Nel 1985, avendo constatato che le Regioni non davano pratica attuazione alla delega su ambiente e paesaggio, il governo Craxi prese l’iniziativa di una legge illuminata, la legge Galasso, dal nome del suo proponente, il sottosegretario ai Beni Culturali. Essa venne approvata – pensate – quasi all’unanimità. E con essa il territorio italiano venne per fortuna coperto dai vincoli della vecchia legge del 1938, la n. 1497 e della Galasso (legge n. 431) per quasi la metà. Nel 2008 il Codice per il Paesaggio, ma siamo a 4 Piani E a Regioni che si ribellano alla co-pianificazione già approvata.

Roma col suo enorme patrimonio storico-artistico-paesaggistico può subire questa situazione? No, non può. Per le emergenze in atto ci vuole una incisiva e decisiva Conferenza Stato-Regioni in cui governo e ministeri diano precise direttive. Roma ha bisogno di un regime speciale: la Città-Stato di Berlino dove Land e Comune decentrato coincidono; la Greater London il modello forse più applicabile; le Grand Paris; la stessa Madrid. Il rapporto Campidoglio-Municipi è inceppato. Roma metropolitana è una creatura burocratica, di carta. Ci vuol altro insomma per una capitale che subisce tutte le bizzarrie politiche e i provincialismi possibili. Roma la cui popolazione supera quella di Marche, Umbria e Molise messe assieme. Roma in cui due Municipi hanno più abitanti della Basilicata. Ma si può continuare così?

Mail box

 

“Il calcio deve ripartire” “Per ora no, altre le priorità”

Gentile Padellaro, spero fortemente che il calcio riparta, ma non lo condivido. Una contraddizione che poggia su una forte necessità di distrazione (che il pallone garantisce ai tifosi come noi) contrapposta al buon senso, che, invece, riporta l’attenzione ai problemi sanitari. Insomma vorrei ma al contempo non vorrei.

Gianluca Caporlingua

 

Dottor Padellaro, faccio parte di quella schiera di persone al quale il calcio è del tutto indifferente, anzi mi sta un po’ sulle palle per l’immorale quantità di soldi. Trovo assurdo che il problema più grave sia quello di far ripartire il calcio. È il momento della pazienza, ma anche della massima attenzione. Ci sarà il tempo di tornare a tifare e farvi appassionare dai milionari/analfabeti, ma per il momento è meglio aspettare.

Lorenzo Iezzi

 

Gentilissimo Padellaro, alla domanda sulla ripartenza del calcio, mi auguro solo che, quando avverrà, nessuno venga dimenticato a terra, senza panen. Poiché è verosimile che per un po’ si giochi senza spettatori, come l’8 marzo per Juventus-Inter, ritengo giusto ricordarle che in quella partita, purtroppo, non sono stati ammessi i fotoreporter freelance.

Emilia Abelli

 

Mi infastidisce che con tutti i problemi che ci sono, il mondo del calcio voglia tornare in campo. Gli interessi economici sono evidenti. Aggiungo un elemento: la carenza di manodopera nei campi per la raccolta (ad esempio) di pomodori. Quindi, se ci sono persone che scalpitano per tornare in campo, prego, si accomodino: scendano nei campi di pomodori, ce n’è tanto bisogno; farebbero un servizio alla collettività, non solo alla squadra di appartenenza.

Costantino

Nei prossimi giorni Antonio Padellaro risponderà alle vostre lettere.

 

Sono un neo-abbonato: che piacere leggervi sempre

Per anni non mi sono abbonato, ma percepivo che stavo perdendo il meglio. Sicché alla fine ho ceduto e mi sono abbonato, incredibilmente avete aggiunto alla vostra offerta Luttazzi… avete vinto voi! Alla prossima riunione di redazione partecipo anch’io.

Stefano Pallaroni

Caro Stefano, benvenuto. Ti aspettiamo (spero presto) in redazione.

M. Trav.

 

Dobbiamo diventare cittadini migliori e altruisti

Le criticità sanitarie ed economiche sono il risultato di una politica devota al mercato e all’Europa che ha sacrificato ingenti risorse da destinare alle cure. Mi chiedo se, alla fine di questo drammatico passaggio, non sarà il caso di rimettere in discussione la relazione umana e centrare l’attenzione sul lavoro, garantendolo possibilmente a tutti con quella giusta remunerazione che consenta una vita dignitosa. A scuola si dovrebbe investire su concetti quali bene comune, solidarietà, condivisione, misura, proporzione e quindi bellezza, che, come diceva Dostoevskij, “salverà il mondo”.

Diego Merigo

 

DIRITTO DI REPLICA

Egregio Direttore, in riferimento all’articolo pubblicato domenica, sono doverose alcune precisazioni. Miroglio è un’azienda con opera da 70 anni, conta quasi 5.000 dipendenti, un fatturato di 577 milioni di euro nel 2018 e negli ultimi anni ha continuato a operare in condizioni di difficoltà con responsabilità verso lavoratori e partner. I nostri 910 negozi sono chiusi dal 9 marzo. Stimiamo una perdita di fatturato di più di 100 milioni di euro per il 2020, senza contare i costi già sostenuti per la produzione dei capi per la stagione in corso. Allo stesso tempo stiamo facendo fronte a numerosissime richieste di aiuti commerciali dai nostri 3.000 clienti multimarca, dando disponibilità a soluzioni condivise e posticipando incassi per decine di milioni di euro. Ai nostri fornitori strategici abbiamo chiesto di aiutarci a sostenere questo momento difficile con uno sconto su merce già ordinata e che non venderemo probabilmente mai. Lo sforzo richiesto è di accordarci uno sconto medio del 4,7% sul totale del fatturato che generano con noi. La maggior parte di loro ha risposto positivamente, anche in considerazione del fatto che Miroglio è tra le pochissime realtà del settore che sta aumentando la quota della produzione in Italia (+ 56% nel 2019 rispetto al 2018). Non abbiamo chiesto in alcun modo contributi in denaro tramite bonifico come riportato erroneamente nel vostro articolo, ma una deduzione in percentuale sui pagamenti futuri. La situazione del settore è molto grave ed è importante evitare inutili e superficiali strumentalizzazioni in un momento in cui sono a rischio decine di migliaia di posti di lavoro nell’intera filiera.

Alberto Racca, Ad Gr. Miroglio

Grazie per la precisazione. La versione dell’azienda secondo cui l’accordo per lo sconto si è attestato tra il “3 e il 5%” era riportata. La vostra lettera parla di una generica “contribution” e nell’allegato si specifica che “sarà gestita attraverso nota di credito con modalità da concordarsi”. Se non sarà un bonifico ma uno sconto sulla merce futura meglio ma la sostanza non cambia. Tant’è che Confindustria Toscana ha criticato la richiesta.

Gia. Sal.

 

I NOSTRI ERRORI

Nel pezzo di sabato ho confuso il reato di calunnia con l’oltraggio a magistrato in udienza, previsto dall’art. 343 del codice penale. Dell’errore mi scuso con gli interessati e con i lettori.

g. l. b.

“Come ci difendiamo nell’attesa?” “Col buon senso e le protezioni individuali”

Gentile Professoressa Gismondo, i bollettini pomeridiani di Borrelli sembrano diventati una commedia degli equivoci. Ho sentito Brusaferro dire che bisogna stare attenti a riaprire perché il 90 per cento della popolazione non è stato contagiato e quindi non c’è immunità di gregge: lo credo bene, siamo tutti o quasi ai domiciliari proprio perché si voleva impedire il contagio! E allora come si fa? Si aspetta un vaccino, campa cavallo, o si riapre rimettendo la gente in libertà con protezioni individuali, controlli sierologici… per permettere un contagio “frenato” e gestibile? La faccenda del vaccino mi sembra dubbia: ecco i famosi contagiati per la seconda volta, ma qualcuno ha verificato se era una seconda infezione o se era invece un problema di tampone falso negativo? Qualcuno ha verificato se questi pazienti erano stati trattati con clorochina o altro? E se no, non può essere che l’immunità sia molto breve, tipo raffreddore per intenderci, e quindi addio vaccino? In questo caso sarebbe meglio concentrarsi sui farmaci. Infine, qualcuno ha mai condotto una indagine sugli stili di vita dei pazienti contagiati, per capire se esistano, oltre ai fattori negativi tipo fumo e inquinamento, fattori protettivi che favoriscano la pauci-sintomaticità o addirittura l’assenza di sintomi?…

Non voglio qui addentrarmi in ipotesi fantascientifiche, tipo la soggettività o meno ai raffreddori, o la coabitazione con animali portatori di Coronavirus, non patogeni per l’essere umano… Grazie per la cortese attenzione.

Andrea Arrighi

Gentilissimo signor Arrighi, mi pone tante domande e cercherò sinteticamente di soddisfarle. È stato scelto il distanziamento sociale e questo servirà ad abbassare il numero delle persone contagiate. L’unica possibilità per mantenere e non vanificare i sacrifici finora richiestici sono i sistemi di protezione individuali, quali le mascherine e il lavarsi spesso le mani. Non potremo parlare di immunità di gregge fino a quando non conosceremo come si comporta il nostro sistema immune nei confronti del virus. Non sappiamo se i nostri anticorpi sono protettivi e per quanto tempo si mantengano. Il vaccino, spero arrivi, non sarà pronto prima di 12-18 mesi. Non capisco il suo cenno alla clorochina. Fumo e inquinamento sono sempre fattori negativi in tutte le affezioni respiratorie, ma non tiriamo in ballo gli animali: potremmo suscitare reazioni insensate. Puntiamo solo su ciò che conosciamo. Da comuni mortali non ci resta che difenderci con ciò che abbiamo, buon senso e protezione individuale, unitamente all’igiene che serve sempre.

Maria Rita Gismondo

Altro che pane: le massaie si danno alla metanfetamina

In tutto il mondo, l’epidemia da Coronavirus ha causato nei supermercati una carenza di carta igienica, lievito, filtri di caffè, fiammiferi, tintura di iodio, pastiglie per il raffreddore, barattoli di vetro e fenilacetone. La causa è apparsa evidente a molti, guardando i post degli amici su Instagram: tantissime persone stanno approfittando del maggiore tempo a casa per rivedere con maggior attenzione le cinque stagioni di Breaking Bad, e farsi da soli la metanfetamina. La metanfetamina è uno stupefacente illegale, economico e facile da produrre. Causa riduzione dell’appetito, e una sensazione di benessere talmente intensa da far accettare gli effetti collaterali: confusione, paranoia, comportamenti violenti, danni cerebrali irreversibili, segreteria della Lega Nord. Fu sintetizzata per la prima volta nel 1893 da un chimico giapponese, Nagai Nagayoshi, mentre faceva ricerche sugli effetti psicostimolanti della pizza napoletana. Le proprietà eccitanti della metanfetamina furono notati, però, solo negli anni Trenta, quando il medico Fritz Hauschild ingollò, credendola un lassativo, una pasticca di Pervitin, la droga prodotta nella Germania nazista dopo lo smacco subito alle Olimpiadi di Berlino: gli atleti statunitensi avevano stravinto le gare, infatti, grazie alla benzedrina, che all’epoca non era proibita nelle competizioni sportive (e dovrebbe tornare a non esserlo, se davvero vogliamo rendere più interessante il badminton). Hauschild disintegrò il water con una scoreggia. Oggi, chiunque può imparare a cucinare metanfetamina. Come dice l’assistente di Gus, Victor, nella puntata “Il Taglierino” (quarta stagione), “Basta seguire una ricetta”. Certo, non tutte le massaie sanno come separare gli isomeri, e questo comporta dei rischi, specie se si mettono a improvvisare col bicarbonato; ma in rete esistono tutorial.

Su Snapchat, F.F., una signora di Pescara, spiega: “Come Walt e Jesse nei primi episodi, uso il metodo Nagai. Con alcol e filtri di caffè estraggo la pseudoefedrina da comuni farmaci anti-influenzali. Poi la riduco con acido idroiodico, che ottengo trattando la tintura di iodio col fosforo rosso grattugiato dalle capocchie dei fiammiferi. Il tutto va messo in una pentola e riscaldato diverse volte. Si forma una soluzione viola, da cui rimuovo il solvente con una siringa per dolci. Infine, faccio gorgogliare acido cloridrico nella soluzione, e vualà, cristalli di metanfetamina”. Un’amica la interrompe su Zoom: “Sì, ma i farmaci con pseudo-efedrina ormai non si trovano più da nessuna parte! Come facciamo?” “Anche Walt, nel settimo episodio della prima stagione (“Vendetta”), ha avuto lo stesso problema”, replica F.F. in tono bonario. “Lo risolse con un metodo alternativo, l’amminazione riduttiva del fenilacetone”. “Come i biker della vecchia scuola!”. “Precisamente”. “Eh, ma serve la metilammina!” interviene un’altra amica, che la settimana scorsa ha incendiato la palazzina dove abita usando come catalizzatore, invece dell’amalgama mercuro-alluminio, il diossido di platino, che prende fuoco se esposto all’aria. “La metilammina non è un problema”, la rassicura F.F., dando un’occhiata al ragù. “Si trova sul dark web a tre euro la boccia”.

Non si può cantare vittoria: ecco perché

Grande agitazione per un test sierologico che c’è, ma non sappiamo a che cosa serva. Grande entusiasmo per un vaccino che non c’è e non sappiamo se arriverà mai. Scarsa organizzazione per la fase 2 che pare stia per arrivare, tenendo conto di quel (poco)
che conosciamo oggi di Sars Cov-2. Questo è il momento delle strade parallele che si spera possano presto convergere: ricerca e pratica diagnostico-clinica. Del test ho parlato anche negli Antivirus dei giorni scorsi. Sono molto confortata nel constatare che anche stimati colleghi, quali il prof. Crisanti, confermino quanto sostengo. Ripeto che sta per essere avviata (da domani!) una sperimentazione che, secondo i canoni scientifici, non può essere definita tale. Manca il confronto con la conoscenza (che oggi non abbiamo) della capacità immunogena del virus. Manca il controllo di riferimento (il tampone?). Manca un sereno confronto tra test diversi. Per il vaccino che noi tutti attendiamo, ricordiamo che per un altro virus a RNA (acido ribonucleico), l’HIV, sono a oggi passati più di trent’anni, ma non esiste ancora. Per affrontare la spiacevole convivenza con il virus, dobbiamo arrangiarci con quello che abbiamo in casa: e cioè l’imperfetto ma utile tampone e l’isolamento dei malati. L’attuale vittoria che sentiamo sbandierare tra una dichiarazione e l’altra non è la sconfitta del virus. È solo un abbassamento della pressione sull’organizzazione sanitaria che, siamo sinceri, non era pronta per questa pandemia.

Cortina denuncia la Cina per il contagio

Dopo Donald Trump ora tocca a Gherardo Manaigo. La lista di chi punta l’indice contro la Cina si allunga. Agli Stati Uniti che sparano le loro bordate si aggiunge l’Hotel de la Poste di Cortina. Lo storico albergo ampezzano ha fatto causa al ministero della Sanità della Repubblica Popolare cinese perché, si dice nella citazione presentata ai giudici di Belluno, “non ha tempestivamente segnalato all’Oms lo stato del diffondersi del virus e dei suoi gravi effetti letali a cavallo fra novembre e dicembre 2019… e non ha assunto i necessari provvedimenti di controllo sugli scali aeroportuali in partenza dalla Cina”.

La firma sull’atto è quella dell’avvocato Marco Vignola, pugliese di origini e cortinese d’adozione, che nella valle più famosa delle Dolomiti è noto non solo per le arringhe in tribunale, ma anche per le discese vertiginose sulla pista di bob. Già, a Cortina l’inverno è stato disastroso: le piste erano perfettamente innevate, ma tragicamente deserte. Peggio: a fine marzo qui erano previste le finali della Coppa del Mondo di sci alpino. Sull’Olimpia delle Tofane erano attesi i più grandi campioni. Ma i cancelletti di partenza sono rimasti malinconicamente chiusi. Annullato.

Ai cortinesi e soprattutto agli albergatori, che avevano già registrato il tutto esaurito, non è andata giù. Ma, come ha scritto il Corriere, i gestori dell’hotel de la Poste hanno deciso di non farla passare liscia ai cinesi. E alla fine hanno deciso: “Facciamo causa al governo di Pechino” colpevole di “omissioni” che avrebbero dato via libera all’epidemia. Non parliamo di un albergo qualsiasi: il de la Poste, con il Miramonti e il Cristallo, è uno degli alberghi storici di Cortina. Qui è passato il mondo; da quando, nel 1804, la famiglia Manaigo – oggi tocca ai fratelli Gherardo e Michela – ottenne l’autorizzazione per gestire una delle prime osterie del paese. Intorno, mostrano le prime fotografie, c’erano poche case e il campanile aguzzo di stile veneziano.

Il de la Poste è uno dei simboli del lusso ampezzano. E se al Cristallo pare sia passato addirittura Leone Tolstoj, se al Miramonti hanno girato James Bond (con Roger Moore) qui Paolo Villaggio la sera prendeva l’aperitivo. Per non dire di Vacanze di Natale, film simbolo della ricchezza un po’ sguaiata degli anni ’80. È successo tutto qui. Tra queste stanze lussuose e vecchio stile, oggi malinconicamente deserte. Adesso, si legge nella citazione, la quarantena ha costretto a una “chiusura anticipata dell’hotel nel pieno della stagione sciistica con conseguenze disastrose”. Tra queste “il licenziamento del personale e la disdetta dei contratti di fornitura”. Un disperato gesto di rabbia?

Il combattivo Gherardo è convinto di no. Del resto lui era già in prima fila in altre battaglie, come quella per il contestato recupero dell’aeroporto – accanto al parco naturale – che avrebbe potuto portare in valle i jet di oligarchi e sceicchi. E poi la storia giudiziaria italiana è ricca di episodi clamorosi, come quando in piazzale Clodio, il tribunale di Roma, si dovette presentare niente meno che Michael Jackson. Se allora Albano riuscì a far citare il re della musica rock, chissà che gli albergatori ampezzani non riescano a portare a Belluno i ministri della Repubblica Popolare cinese.