Restrizioni se si è senza App Tracciamento

È una app di contact tracing problematica, che nasce in un modo ma arriva in un altro, che dall’essere volontaria potrebbe trasformarsi nella condizione per poter godere di alcune libertà, come quella alla circolazione, con l’obiettivo di spingere il maggior numero possibile di persone a scaricarla (perché sia utile deve raggiungere il 60% degli italiani). L’ipotesi, data ieri come al vaglio della task force di Vittorio Colao e del governo, solleva una riflessione su quali siano i confini tra il diritto alla salute e la libertà di scelta non condizionata. E unisce anche Pd e Forza Italia che chiedono maggiore trasparenza e un confronto in Parlamento.

 

“È uno strumento utile per tutelare la salute pubblica”

Massimo Ciccozzi Epidemiologo molecolare del campus biomedico di Roma

 

“Da epidemiologo, per me prima di ogni cosa vien la salute delle persone. Siamo di fronte a una epidemia globale, bisogna ragionare in modo globale”: per Massimo Ciccozzi, responsabile dell’unità di ricerca in statistica medica ed epidemiologia molecolare del Campus biomedico di Roma, la app è l’alternativa a pratiche sul campo e territoriali che non ci sono più. “Non abbiamo un’epidemiologia di territorio forte quindi trovo sia una alternativa valida, che potrebbe fornire informazioni utili sulle persone: tracciare spostamenti, incontri e mezzi permette di capire meglio cosa accade e scoprire focolai che altrimenti sarebbero passati inosservati o rintracciati tardi”.

Professore, che intende quando dice che manca una epidemiologia di territorio?

Manca il tracciamento dei contatti fatto dall’epidemiologo di campo, quello che va in giro a cercare i singoli casi. In Lombardia non è stato possibile perché l’ondata è stata fortissima, ma non lo si è fatto neanche in Lazio. Lo si faceva tempo fa, poi se n’è persa la pratica. Inoltre costa: tempo e persone. Se invece ragiono in modo globale e mi avvalgo dei sistemi che abbiamo, la app telefonica si rivela importante ed efficace senza costi e persone.

I cittadini dovranno scaricarla però. Che cosa pensa del fatto che la si possa condizionare all’esercizio di alcune libertà?

È fondamentale spiegare alle persone che serve a tutelare la salute pubblica. Poi è una scelta politica renderla obbligatoria o meno. Da epidemiologo, ancora una volta, dico che se serve a preservare la salute delle persone va fatto. Da cittadino mi pongo invece qualche problema in più, ma forse poi mi dico che va bene anche rinunciare a un po’ di privacy. A patto che la app si disattivi alla fine dell’epidemia e che tutto sia in anonimato.

Ed è possibile?

Allo studioso non servono il nome e cognome, serve il contatto: dove, quando e quali.

Salvo in caso di positività…

Certo, in quel caso il discorso cambia e riguarda gli operatori sanitari. Per il resto, avere dati a disposizione è importantissimo.

Perché?

Perché sono informazioni utili per capire le cose e fare ricerca. Se mi è possibile consultare cento sequenze di Rna del Coronavirus potrò arrivare a una conclusione, se invece ne posso consultare mille allora potrò arrivare a un’altra, quasi sicuramente migliore. I grandi numeri forniscono più informazioni dei piccoli e per questo è importante avere database estesi. Certo, senza trascurare tutte le eventuali fonti di contagio, come i cluster Rsa e gli ospedali. Alcune app possono aiutare anche in questo.

Come?

Fornendo ai medici, ad esempio, algoritmi clinici o di laboratorio per le prime diagnosi. Insomma, dobbiamo iniziare a pensare in modo nuovo. Si impara sempre e anche questa epidemia – come le precedenti – ci permetterà di sapere di più.

Virginia Della Sala

 

“Misure eccezionali che vanno discusse in aula alle Camere”

Gaetano Azzariti Giurista, insegna Diritto costituzionale alla Sapienza

 

Il dilemma che ci pone la app Immuni è se il nostro sistema ha abbastanza anticorpi costituzionali da sopportare il sacrificio delle libertà personali. Il professor Gaetano Azzariti prova a risponderci, tra una lezione e l’altra – ovviamente da remoto – ai suoi studenti della Sapienza.

Professore, oggi il tema del dibattito è il tracciamento. Domani saranno le nuove limitazioni alla libertà di circolazione. Tutto questo quanto può durare?

Lo stretto necessario per superare la pandemia. Se c’è un elemento che legittima queste misure straordinarie, limitative delle libertà fondamentali, è la salvaguardia della vita. Lo dice l’articolo 32 della Carta con estrema precisione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Le misure di cui parliamo chiaramente limitano diversi diritti fondamentali. A proposito del tracciamento, la condizione necessaria è che se ne occupi l’organo di rappresentanza popolare. Cioè il Parlamento, dove potranno essere discussi tutti gli aspetti, complessi, della vicenda che chiama in causa dati sensibili dei cittadini. Quale server li processa: uno privato? Come può essere garantito l’anonimato? La app, si dice, è efficace solo se la maggioranza della popolazione la scarica: come può essere volontaria?

Qual è la sua maggiore preoccupazione?

I tempi. Mi spiego: il decreto legge 6 del 23 febbraio aveva un vulnus costituzionale, per fortuna recuperato con il decreto successivo, e cioè non conteneva un termine per le misure. I decreti del presidente del Consiglio, aggiungo, sono uno strappo costituzionale non indifferente e sono possibili solo in ragione dell’emergenza. Il tracing, ci dicono i medici, è uno strumento necessario alla salvaguardia della salute. Ma l’essenziale è che tutte le decisioni che limitano le libertà individuali siano circoscritte da un punto di vista temporale. Nessuna di queste deve costituire un precedente. Dobbiamo salvaguardare la salute, ma al tempo stesso impedire che una situazione straordinaria “contagi” l’ordinaria amministrazione.

Abbiamo impiegato molti anni a liberarci della legge Reale…

Esatto. Tutte le misure straordinarie che modificavano il codice penale e il codice di procedura con una compressione importante delle libertà, assunte nel ’75 per contrastare il terrorismo, sono state mantenute molto a lungo, alcune addirittura sono tutt’ora vigenti. Per esempio quelle relativi alla durata della carcerazione preventiva, che erano state ammesse dalla stessa Consulta a causa dell’emergenza terrorismo, hanno impiegato molto per essere ridotte.

Si parla di un’estate in cui i cittadini resteranno nelle vicinanze delle loro residenze: si può?

L’articolo 16 sancisce che la libertà di circolazione può essere limitata per motivi di sanità e sicurezza, da una legge. E così, al 17, la libertà di riunione. Il numero drammatico dei morti legittima questa situazione: ma appena sarà possibile tutto questo deve, necessariamente, cessare.

Silvia Truzzi

“Il 4 maggio è troppo presto. Il test del governo è inadatto”

Il test nazionale ideato dal Governo non è utile per riaprire il 4 maggio. Meglio i test pungidito. Parola di Massimo Galli, che aggiunge: “Io non ho nessun conflitto di interessi”.

Scade giovedì la gara del Commissario Domenico Arcuri sul test nazionale per trovare gli anticorpi del coronavirus nel sangue di 150 mila italiani. Il bando prevede solo i test con prelievo da laboratorio che viaggiano su macchine Clisa o Elisa. Esclusi i test rapidi, bollati in tv come “inaffidabili”. Il professor Massimo Galli ordinario alla Statale e infettivologo al Sacco di Milano non la pensa così.

Professor Galli sono stati esclusi dalla gara i test rapidi in favore dei test di laboratorio. La Diasorin sembra in pole position. Lei che ne pensa?

Se lo scopo è mettere in condizione le imprese di ripartire vedo almeno due problemi: non abbiamo un’organizzazione per fare a breve termine la veni-puntura a tutti i lavoratori e non abbiamo nessun test sierologico la cui positività che garantisca l’assenza di virus nei secreti del malato. Quindi a tutti i positivi dovremmo fare il tampone. Il prelievo in laboratorio allungherà i tempi rispetto al pungidito.

Dicono che i test rapidi non siano affidabili.

In parte è vero che peccano in sensibilità e specificità rispetto ai Clia o Elisa, però bisogna vedere qual è lo scopo. Chiariamolo una volta per tutte: non si possono mettere in poche settimane milioni di italiani in fila per la puntura del braccio per poi portare il campione in laboratorio. Mentre, a livello aziendale, mi convince di più l’idea di fare lo screening con pungidito. Molte aziende si stanno organizzando già. Qui stiamo parlando di riaprire il 4 maggio, una data a gravissimo rischio che lo diventa dieci volte di più se non mettiamo in campo misure su base aziendale. Lo dice un medico pubblico.

Il 4 maggio è troppo presto?

In alcune regioni possiamo non allontanarci di molto dalla data del 4 maggio. Non in altre.

Oggi (ieri, ndr) ci sono 735 nuovi casi in Lombardia e 2.256 in Italia. Si può riaprire davvero?

Abbiamo avuto un’epidemia simile a quella di Wuhan e dobbiamo essere prudenti. Però dopo un periodo lungo di chiusura in casa se ti organizzi in modo da far rientrare le persone in sicurezza, scaglionando per fasce d’età, orari, applicando il distanziamento con mascherine e guanti, se riusciamo a programmare insomma si può parlare di riapertura.

Lei pensa sia necessario aprire con differenze di date tra regione e regione?

Forse sarebbe opportuno in qualche regione differenziare per area geografica. Prima però bisogna avere il coraggio di predisporre indagini serie senza “aspettare Godot”.

E si torna ai test. Quali farebbe lei?

I test rapidi – se non aspettiamo altro tempo a ordinarli – sono disponibili subito e costano 5 euro, al massimo 10. I test Elisa o Clia costano 5 volte tanto e non sono ancora a disposizione. Bisogna dire basta a questo atteggiamento di discredito immotivato in generale del test rapido. Bisogna distinguere e non fare proposte insostenibili dal punto di vista economico e dei tempi.

Il bando del Commissario prevede solo il test dell’anticorpo IgG, quello che si sviluppa più avanti. Non quello dell’IgM che insorge all’inizio dell’infezione. Non avrebbe più senso cercare anche l’IgM per scoprire qualche asintomatico?

Certo che avrebbe senso. Così si cerca solo chi ha già avuto nel passato l’infezione. Però le devo dire anche che la ricerca dell’IgM è il punto debole dei kit rapidi. Funzionano molto meglio però sulle IgG. Io ritengo si debbano usare più test: il kit rapido su larga scala e poi i tamponi e il prelievo venoso ai positivi al kit. Se devo abbattere un muro e non ho ancora il martello pneumatico comincio con il piccone, dopo avere accertato che abbia il manico e la punta, non aspetto il meglio che è nemico del bene.

Un recente studio danese sostiene che alcuni kit rapidi sono più sensibili degli Elisa. In Italia tutti dicono invece che sono inattendibili

Non è così e ti viene da inferire o da sospettare che ci siano altre ragioni. Io come tanti altri non ho alcun conflitto di interesse.

Il suo Istituto non prende l’un per cento sui kit rapidi che sta consigliando di usare? Il Policlinico San Matteo, lecitamente incasserà royalties sui kit sierologici della Diasorin che ha ideato il team guidato dal professor Baldanti.

Tutti i test da noi impiegati finora sono frutto di donazioni. Non c’è stata la spesa di un euro se non da parte dei donatori che ovviamente ringrazio per questo e non abbiamo intenzione di incassare un centesimo.

La ricerca pubblica finanziata dai privati non è una novità. Però Baldanti, critico sui kit rapidi, era anche il coordinatore del gruppo di lavoro in Regione e membro del gruppo a Roma…

Fausto Baldanti io lo stimo molto. Gli sviluppi dei risultati della sua ricerca – per altro importanti e dei quali va legittimamente fiero – l’hanno messo al di là delle sue intenzioni in una situazione di oggettivo conflitto di interessi, ma ciò non toglie che lui sia e resti un ottimo e serio professionista e uno scienziato di valore.

“L’ultimo guappo” Walter Ricciardi, il consulente messo a freno dall’Oms

“Non piangere papà”, recita un giovanissimo e capellone Walter Ricciardi nella parte del figlio morente per accoltellamento del cattivo di turno, quando l’Oms era un punto lontano del suo futuro. Mario Merola gli tiene la testa tra le mani e implora: “No, no, figlio mio, io tengo sul ‘a te…”.

Su un motoscafo da contrabbandieri al largo di Mergellina ecco la scena clou di “L’ultimo guappo”, 1978, genere “sceneggiata napoletana”, dialoghi tagliati con l’accetta intorno a valori semplici e discutibili, il guappo buono che protegge i deboli, sì al contrabbando che dà da mangiare, no alla droga che uccide i giovani e no alla camorra cattiva che la spaccia.

Tra il 1978 e 1979 tre film di questo filone – “L’ultimo guappo”, “Mammasantissima” e “Napoli… la camorra sfida, la città risponde” – realizzarono incassi da capogiro e divennero fenomeni di costume. Il merito fu di una scombiccherata, geniale e irripetibile combinazione fissa di ingredienti: il produttore Ciro Ippolito, il regista Alfonso Brescia, l’attore Mario Merola, il re della sceneggiata strappalacrime. Ai tre potremmo aggiungerne un quarto: Ricciardi, anche lui sempre presente, specializzato nella parte del figlio di Merola. Che fa quasi sempre una brutta fine. In “L’ultimo guappo”, Merola ne trascina il cadavere nel locale dove i suoi assassini stanno festeggiando, per ammazzarli e poi fuggire ferito in Grecia. Molto pulp. In “Napoli… la camorra sfida, la città risponde”, Ricciardi recita il coraggioso figlio di una vittima del racket che di nascosto pedina i camorristi per fotografarli durante le estorsioni. Le foto faranno scattare gli arresti, ma la camorra si vendicherà drogandolo fino a ridurlo alla pazzia.

La controvendetta di papà Merola, tra sparatorie in trattoria e inseguimenti nei sotterranei del locale, sarà uno sterminio. L’ultimo a morire è il mandante, sventrato con un crocifisso di legno. Molto, molto pulp.

Ora Ricciardi è calvo, medico, e consulente del ministro della Salute, recentemente ridimensionato dal vice direttore Oms Ranieri Guerra (“Ricciardi non ha niente a che fare con l’Oms”) e costretto a chiarire: “Ne sono membro italiano del comitato esecutivo”. Polemica che ha indotto qualcuno a chiedere la testa di Ricciardi, quella che Merola teneva tra le mani.

Quella nomina di Rezza (Iss) nel consorzio di mister vaccino

In questi giorni si parla molto del vaccino contro il Covid-19 che sta mettendo a punto una partnership tra l’azienda italiana Advent e lo Jenner Institute della Oxford University. Già da fine aprile in Inghilterra partiranno i test sull’uomo su 550 volontari sani. La premessa è dunque d’obbligo: la priorità è trovare un vaccino efficace e in tempi brevi, ma si spera garantendo sicurezza alle persone sane. L’italiana Advent, coinvolta nel progetto, è una società fondata nel 2010 e controllata al cento per cento dalla Irmb Spa, azienda di Pomezia che si occupa di ricerca per nuovi farmaci e di cui è presidente del Cda Piero di Lorenzo, imprenditore con un passato da produttore televisivo.

Del vaccino, una voce autorevole come Giovanni Rezza, direttore del Dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità (Iss), rispondendo a una domanda durante la conferenza stampa della Protezione Civile del 13 aprile, ha detto: è un “candidato promettente”. Per Rezza la Irbm però non è un nome nuovo. Il 30 marzo scorso è stato nominato vice presidente del Consiglio di amministrazione del Cnccs, Collezione nazionale di composti chimici. Si tratta di un consorzio pubblico-privato costituito nel 2010 dal Cnr, Consiglio Nazionale delle Ricerche (che detiene il 20 per cento delle quote), dall’Iss (10 per cento), mentre il restante 70 per cento è della Irbm.

La Advent, società di proprietà della Irbm

“Non ho alcun conflitto di interessi – spiega Rezza al Fatto –. Il Cnccs non è il consorzio che produce il vettore del vaccino, ma è Advent che è una società credo legata a Irbm ma che non fa parte del consorzio”. Quella di marzo scorso non è la prima carica di Rezza nel Cnccs. Era già successo nel 2010 quando fu nominato presidente del consiglio di amministrazione, carica cessata due anni dopo. E nel consorzio, in passato, nel 2016 (carica cessata nel 2019), è stato nominato vicepresidente del Cda anche un altro nome importante dell’Iss, ossia Walter Gualtiero Ricciardi, oggi consulente scientifico del ministro della Salute per Covid e dal 2014 al 2018 presidente dell’Iss.

Ma torniamo a Rezza. Per l’epidemiologo, insomma, il punto è che del consorzio Cnccs non ha fa parte la Advent ma la Irbm, che come detto è proprietaria della prima. “Ma anche se fosse – aggiunge Rezza al Fatto –, come dire, io sarei contento di far parte della cordata che fa il vaccino, ma non lo è. (…) Advent produce il vettore, come l’ha prodotto per Oxford per quanto riguarda Ebola. Però lo spike, la proteina di superfice, l’ha ideata Oxford. Non conosco i dettagli, ma credo che sia l’università di Oxford a produrre il vaccino”.

La proprietà del vaccino resta a Londra

Come ribadito sul sito della Oxford University, infatti, Irbm non ha “elaborato” alcun vaccino, ma opera in conto terzi per Oxford, vero detentore del brevetto che include sia il vaccino che la tecnologia per trasportarlo nel dna delle cellule umane, cioè il vettore virale.

Irbm è una delle tre aziende che ha un contratto per produrre una certa quantità del vettore sviluppato da Oxford, un virus di scimmia inattivato che verrà usato per veicolare all’interno dell’organismo un gene in grado di innescare, si spera, il processo di immunizzazione contro Sars-CoV-2. Contattati dal Fatto, dall’ufficio stampa di Oxford Vaccine Group spiegano che “l’adenovirus in questione, denonimato ChAdOx1, è stato sviluppato dall’Oxford’s Jenner Institute,” non da Irbm, che produrrà, per ora, adenovirus solo per la fase di trial clinico. Oxford specifica che “i test sull’uomo verranno condotti da Jenner Institute e dall’Oxofrd Vaccine Group”.

L’incognita delle risposte immunitarie

Sul vaccino è cauto anche lo stesso Rezza. “Io penso che sia un candidato promettente – spiega – perché è una piattaforma già utilizzata, ossia per ebola. Dopodiché ho anche detto però che ci sono altri cinque candidati vaccini in sperimentazione umana che usano diverse piattaforme”. Il punto interrogativo sono le risposte immunitarie al virus. “Speriamo che ci siano vaccini efficaci. Per ora si sa poco sulle risposte immunitarie al virus – continua Rezza –. Compaiono gli anticorpi e abbiamo ancora delle recidive. Allora il dubbio maggiore che viene agli esperti è: gli anticorpi proteggono? Sono sufficienti? C’è l’immunità cellulare che può aiutare?”.

Prima di chiudere la telefonata però l’epidemiologo ribadisce: “Non ne ho di particolari conflitti di interessi. L’unico interesse degli italiani, qualora si mettesse a punto un vaccino efficace, è quello di non essere gli ultimi ad averne dosi. Bisogna vedere se i vaccini saranno efficaci e tra quanto tempo saranno disponibili”.

La Cgil: “5.000 le vittime e la Regione le nasconde”

Molte domande e poche (o nessuna) risposta. “La Regione rimpalla sulle Ats, che a loro volta rimpallano sui dirigenti delle Rsa: intanto noi, siamo ancora in attesa di sapere ufficialmente dall’azienda sanitaria quanti anziani sono morti nelle nostre case di riposo”. Augusta Passera è la segretaria dello Spi-Cgil di Bergamo (sindacato pensionati), che poi conti se li è fatti da solo: 1.326 decessi, in base a una ricognizione che ha riguardato tutte le Rsa di città e provincia. “Da quasi due mesi le case di riposo non possono più accettare nuovi degenti dal territorio – prosegue Passera –, ci sono posti letto vuoti e personale in esubero. Almeno vorremmo un piano per tornare alla normalità: niente. L’Ats fa da palo alla Regione”.

È così a Bergamo. Ma è così, secondo la segreteria regionale dello Spi, anche nel resto della Lombardia. Il sindacato da settimane raccoglie dati. Dalla stampa locale, dai propri referenti sul territorio. “Perché le aziende sanitarie ci riferiscono che hanno ricevuto l’ordine dalla Regione di non dirci nulla, di non fornirci i numeri sui decessi e nemmeno sugli ospiti che manifestano sintomi riconducibili al virus: così li abbiamo raccolti noi”, dice il segretario regionale Valerio Zanolla. Il risultato è agghiacciante. Lo Spi ha censito 349 strutture su oltre 700, contando quasi 5 mila morti: 4.995 per l’esattezza – di cui 1.100 solo nel Milanese – in attesa dell’aggiornamento dei dati dell’Istituto superiore della Sanità sui decessi nelle case di riposo. Numeri che fanno impallidire. Mentre le associazioni lombarde delle case di riposo denunciano, ancora una volta, le criticità da parte di Regione Lombardia nella gestione delle Rsa.

Il caos sui tamponi. Le direttive arrivate dalle Ats sui tamponi sono contraddittorie e confuse. Fino ad arrivare, scrivono in una lettera alla Regione, “a comunicare ai gestori la necessità di acquistare a spese proprie i tamponi necessari e a prendere accordi con i singoli laboratori per l’effettuazione dell’analisi”. Conclusione di fronte alla quali le associazioni chiedono i tamponi per tutti i degenti e per tutto il personale delle Rsa, compreso quello oggi in quarantena (e che potrebbe quindi rientrare al lavoro, ma non può farlo) a carico del servizio sanitario.

Carenza Dpi e personale. “Servono 15 milioni al mese di dispositivi di protezione individuale”. E, in più, c’è la drastica riduzione del personale a cui far fronte, tra assenze per malattia, quarantena e trasferimento negli ospedali in seguito ai bandi per selezionare operatori per l’emergenza.

La Centrale Unica Trasferimenti. Le associazioni lombarde delle case di riposo denunciano come non funzioni adeguatamente. In varie occasioni, proseguono, “sono stati inviati in struttura ospiti Covid negativi (e come tali sono stati accettati dalle residenze) senonché immediatamente si sono rivelati Covid positivi, senza che poi le Ats provvedessero alla necessaria ospedalizzazione”. Un episodio simile è stato anche raccontato dal Fatto pochi giorni fa. Riguarda Maria Felicia Pinto, 78 anni, trasferita dall’ospedale Niguarda (dove era ricoverata per una pancreatite emorragica grave) all’istituto Palazzolo, e morta dopo aver presumibilmente contratto anche il virus, come ha denunciato la figlia.

Le delibere regionali. C’è poi la questione dei pazienti Covid in fase di miglioramento dirottati sulle case di riposo, in base all’ormai famosa delibera di giunta dell’8 marzo scorso. Quanti sono effettivamente? Il 27 marzo la Regione, a precisa domanda del Fatto, rispose che circa il 30% dei pazienti dimessi dagli ospedali perché diventati asintomatici era stato trasferito in case di riposo e hospice. Ieri ha precisato: ci siamo sbagliati, il dato comprendeva anche coloro che erano stati indirizzati in strutture di comunità e verso l’isolamento a domicilio. Sarebbero così ancora solo 147 i pazienti effettivamente convogliati sulle quindici Rsa che hanno deciso di accoglierli perché in possesso dei requisiti richiesti dalla delibera, come la presenza di strutture autonome sul piano strutturale e organizzativo.

Arriva, durissima, sempre su questo punto, una lettera aperta di un gruppo di otto medici della Fondazione Castellini di Melegnano, nel Milanese. Lettera con la quale i geriatri chiedono “dove erano le istituzioni”, quando le case di riposo cercavano mascherine, quando “hanno iniziato a scoppiare i focolai”. E perché mai la Regione, con la delibera 3018 del 30 marzo (che ha stabilito per i pazienti in età avanzata l’opportunità di restare nella Rsa e di non essere ospedalizzati), non ha “pensato di mandarci consulenti infettivologi e fornirci formazione specifica”. Quanto alle rette previste per le case di riposo dovrà essere ridefinito il budget, precisa la Regione. Alla fine la tariffa oscillerà tra i 120 e i 150 euro al giorno per persona. Cifra quest’ultima confermata dalle stesse associazioni delle Rsa.

“Forti pressioni sui medici per portare malati in Fiera”

Michele Usuelli è uno che di terapie intensive se ne intende. È medico – l’unico tra gli eletti nel Consiglio regionale della Lombardia – e fino a due anni fa era il responsabile del servizio trasporti neonatali d’emergenza dell’ospedale Mangiagalli, dove nascono i bambini di Milano. Radicale, appassionato di politica, si è poi candidato nel gruppo +Europa e Radicali del Pirellone. Un paio di giorni fa ha scritto sulla sua pagina Facebook un post allarmato: “Gravissimo: ho ricevuto ormai più d’una segnalazione da medici in cui mi si dice che su richiesta politica regionale, e non per saturazione posti letto nei reparti, vengono fatti trasferimenti di pazienti verso la Fiera. Cari primari e direttori di ospedali: non è più il momento di assecondare supinamente i desideri della Giunta se questi non hanno un razionale clinico. Non siate complici!”.

La denuncia è precisa: per dare un senso all’ospedale-flop della Fiera, i vertici della Regione stanno facendo pressioni sui medici affinché mandino pazienti in terapia intensiva nella cattedrale nel deserto di Fiera Milano. L’ospedale è stato voluto dal duo Attilio Fontana (presidente della Regione) e Giulio Gallera (assessore al Welfare), è costato 21 milioni, è stato annunciato come il super hub della terapia intensiva anti Covid-19 da 600 posti letto, oggi ne ha 53 e ospita dieci pazienti. Per affollare un po’ le corsie, ecco dunque le richieste ai medici milanesi: mandateci qualcuno dei vostri ospiti. Usuelli, interpellato dal Fatto quotidiano, conferma i fatti e rincara la dose: “Ho ricevuto più d’una confidenza, da medici che conosco, appartenenti a più strutture ospedaliere. Tutti mi hanno detto di aver ricevuto richieste, inviti, pressioni, a mandare loro pazienti all’ospedale della Fiera. Io alla Mangiagalli mi occupavo di trasporti d’urgenza di neonati. So che si può fare, che si possono trasportare anche pazienti gravi intubati. Ma è rischioso e si deve fare soltanto quando è proprio necessario”. E non per risolvere i problemi d’immagine d’un ospedale desolatamente vuoto, arrivato clamorosamente fuori tempo massimo, in settimane in cui (per fortuna – e per ora) le terapie intensive degli ospedali si stanno lentamente svuotando.

“Alcuni medici erano terrorizzati”, continua Usuelli. “Dopo la pubblicazione del mio post, mi hanno chiesto di rimuovere alcuni commenti da cui temevano si potesse risalire ai loro nomi. Avevano paura di perdere il posto. Ma è mai possibile che succedano queste cose nella sanità lombarda?”.

Oggi il dottor Usuelli si presenta al Consiglio regionale con 14 interrogazioni. Due sono sull’ospedale della Fiera. “Chiedo che siano specificati i criteri per decidere quali sono i pazienti da trasportare in quella struttura. E chiedo un dibattito pubblico sull’utilizzo futuro dell’ospedale in Fiera e di quello degli Alpini a Bergamo. Mi risulta che in Fiera non abbiano neppure i frigoriferi per conservare le sacche di sangue e di plasma. E che finora abbiano realizzato soltanto 12 radiografie e zero Tac. Tenendo impegnati due radiologi sottratti al Policlinico o ad altri ospedali. Doveva essere affidato a Guido Bertolaso – ti conosco, mascherina! – ma non può diventare lo specchietto per le allodole di una disputa politica della Regione contro la Protezione civile nazionale con accuse e rimpalli di responsabilità irresponsabili. Mettiamo in atto procedure d’ingresso e d’uscita ferree, percorsi codificati. L’obiettivo è il rigido rispetto delle norme di sicurezza, come avvenne nei migliori esempi di gestione dei reparti ebola, e non certo quelli per cui lavorò a suo tempo Bertolaso in Africa. Fontana spieghi come vuole far arrivare in Fiera ossigeno e aria compressa. Altrimenti sono solo chiacchiere e distintivo”.

Mancano i dati sui morti di 2 Rsa lombarde su 3

Sulla strage dei nonni nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) sarà concluso a breve – ha detto il capo della Protezione civile Angelo Borrelli, nella conferenza stampa di ieri alle 18 – un nuovo studio dell’Istituto superiore di sanità. Nell’ultimo report dell’Iss, aggiornato al 15 aprile, i numeri erano impressionanti: su un campione di 1.082 Rsa in tutta Italia, i decessi registrati, dal 1 febbraio al 15 aprile, sono stati 6.773. Nella sola Lombardia si sono contati 3.045 morti, di cui 1.625 per Covid (166 accertati con tampone e 1.459 con sintomi riconducibili). Ma – ed ecco la sorpresa – a rispondere all’Iss con i dati sui decessi sono state solo 266 strutture lombarde su 677 contattate e 678 censite: una su tre. Significa che i morti, dunque, potrebbero essere molti di più. Forse anche il triplo dei 1.625 rilevati dall’Iss.

“Dalle informazioni non ufficiali che abbiamo raccolto”, scrive in una nota Alessandro Azzoni, portavoce del comitato Giustizia per le vittime del Trivulzio. “sono circa 200 gli anziani al Pio Albergo Trivulzio di Milano deceduti da inizio marzo, su 1.000 degenti: 1 ogni 5. E sono circa 200 sono quelli positivi al coronavirus. Il personale è fortemente sotto organico, quasi 300 operatori sono a casa in malattia. Bisogna intervenire subito per salvare le vite dei nostri genitori e nonni. È in gioco la vita di persone fragili e indifese. E il tempo per salvare i nostri cari è ormai scaduto. C’è un silenzio assordante da parte delle istituzioni, a partire dalla Regione, responsabile della gestione sanitaria”.

Azzoni sarà uno dei testimoni che saranno ascoltati dal pool di magistrati che sta indagando sulle Rsa milanesi. Da ieri, infatti, i magistrati della Procura di Milano, coordinati dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, hanno cominciato a raccogliere le testimonianze degli operatori. “Ci minacciavano se indossavamo le mascherine, perché non dovevamo spaventare i pazienti”, raccontano alcuni infermieri. E ancora. “Stanno continuando a spostare i pazienti da un reparto all’altro, senza aver fatto nemmeno i tamponi”: così racconta un’operatrice sociosanitaria che “da 31 anni” lavora al Trivulzio. “I trasferimenti li fanno la sera di nascosto. Gli anziani continuano a morire, la situazione non è migliorata”.

Un’altra operatrice, attiva al Trivulzio “da 16 anni”, aggiunge: “I reparti sono sguarniti di personale, perché più di 200 dipendenti, tra operatori e infermieri, sono a casa in malattia o in quarantena e due colleghi sono in terapia intensiva”. Da marzo a oggi, racconta, “ci sono stati più di 200 decessi. I tamponi e finalmente le mascherine Ffpp2 per tutti sono arrivati solo dal 16 aprile. Qualche giorno fa hanno spostato in altri reparti i pazienti del Pringè”, il pronto intervento geriatrico per degenti provenienti da altri ospedali. “Non si può mettere la testa sotto la sabbia”, racconta la donna, che è in quarantena e che solo ieri ha potuto fare il tampone. “I nostri colleghi dentro il Trivulzio sono distrutti psicologicamente”.

L’inchiesta sulla strage di anziani ha come primo indagato Giuseppe Calicchio, direttore generale del Pio Albergo Trivulzio, ipotesi di reato epidemia e omicidio colposi. Oltre alla Baggina, sono almeno una dozzina le residenze per anziani su cui i pm stanno cercando di fare chiarezza. Ieri i carabinieri del Nas, il Nucleo antisofisticazione e sanità di Milano, hanno ispezionato l’Istituto Frisia di Merate, in provincia di Lecco, una residenza che fa capo al Trivulzio. Hanno raccolto documenti anche da altre strutture per anziani nelle province di Milano, Monza, Como e Varese.

Alcuni dipendenti raccontano che già da gennaio furono ricoverati nel reparto di degenza geriatrica del Trivulzio pazienti con polmoniti. Potrebbe essere stato il primo avvio del contagio, non rilevato e poi dilagato dentro il Trivulzio e in tante altre Rsa, dopo l’arrivo di pazienti Covid dimessi da altri ospedali perché non più in fase acuta. Quegli arrivi erano la conseguenza delle delibere regionale dell’8 e del 23 marzo che si proponevano di “alleggerire” gli ospedali lombardi. L’assessore Giulio Gallera ripete però da giorni in tv che la Regione non ha mandato alcun paziente Covid al Trivulzio. E che non ci sarebbero stati trasferimenti verso Rsa con reparti già contaminati dal virus.

Da Milano a Prato parola d’ordine “riaprire”

Riaprire, riaprire, riaprire. E farlo in grande stile, a costo di ritirare fuori un evergreen che fa sempre rima con nuovi investimenti pubblici: “un piano Marshall” da tre miliardi in tre anni per far ripartire la Regione Lombardia messa in ginocchio dal Covid-19. Mentre la regione più colpita d’Italia supera quota 66 mila contagi e 12 mila morti, il governatore leghista Attilio Fontana presenta enfaticamente un piano “veramente rivoluzionario” e “tanto straordinario da non avere precedenti dal dopoguerra”: secondo le prime stime, saranno spesi tre miliardi da qui al 2022, di cui 400 milioni per Comuni e Province per opere “immediatamente cantierabili”. Il tutto all’insegna delle famose “5D” (Distanza, Dispositivi, Digitale, Diagnosi, Diritti) con cui la Lombardia spera di riaprire evitando un nuovo picco di contagi. Ma la ripartenza di fabbriche e cantieri è stato il tema centrale anche in altre regioni d’Italia. Ieri è stato il primo giorno di riapertura anche dello stabilimento Fincantieri di Porto Marghera (Venezia): in fabbrica sono tornati 200 lavoratori, meno del 10% degli impiegati totali, scaglionati in due turni tra le 8 e le 8.30. Per farlo però sono state messe in campo anche altre misure di sicurezza come la misurazione della temperatura corporea all’entrata e la sanificazione degli ambienti. Il tutto è stato reso possibile anche perché 700 dipendenti sono in cassa integrazione e altri 70 continuano a lavorare in smart working: dall’azienda fanno sapere che dalla prossima settimana ci sarà un incremento graduale di lavoratori con la fabbrica che sarà a pieno regime tra fine maggio e inizio giugno. Se ieri è stato anche il primo giorno di riapertura del laboratorio di pelletteria di Gucci a Scandicci (Firenze), a Prato invece gli imprenditori del settore tessile hanno inondato la casella di posta elettronica della prefettura e della Presidenza del Consiglio comunicando provocatoriamente la ripartenza da domani (oggi, ndr) senza aspettare il 4 maggio. I 256 imprenditori parlano di un atto di “disobbedienza civile”: “Abbiamo tutte le dotazioni necessarie per riaprire in sicurezza” hanno scritto dopo la protesta di Confindustria Toscana Nord dello scorso fine settimana. Il prefetto di Prato Luciana Volpe ha subito informato la Questura, la Guardia di Finanza e il sindaco Matteo Biffoni: “Aspettiamo di vedere cosa decide il governo, ma dobbiamo riaprire il prima possibile” ha concluso il primo cittadino.

A Vo’ dal 15 gennaio il virus sottotraccia. Il 43% asintomatico

Se il 20 febbraio il comune di Codogno scopre il suo primo paziente Covid, a Vo’ Euganeo in provincia di Padova a quella data già il 3% della popolazione risulta aver contratto la malattia, il che retrodata l’ingresso del virus almeno al 15 gennaio per quanto riguarda il comune veneto e ancora prima, a ridosso dell’Epifania, a livello nazionale. Un dato inedito che viene spiegato nel report condotto dall’équipe del professor Andrea Crisanti, virologo dell’università di Padova assieme ai colleghi della Oxford University e dell’Imperial College di Londra. La ricerca aggiunge altre due novità: la percentuale degli asintomatici e la sostanziale immunità dei bambini al virus. Si tratta del primo studio epidemiologico completo a livello mondiale che ha testato con i tamponi un’intera comunità prima e dopo le misure di lockdown.

Tutto inizia in seguito alla morte del primo paziente Covid in Italia, avvenuta a Vo’ il 21 febbraio. Circa 2.800 abitanti su un totale di 3.000 sono sottoposti al tampone. Due settimane dopo i test vengono ripetuti su un campione di 2.343 cittadini. Il primo dato che avrà di certo un riflesso nazionale è quello sugli asintomatici: risultati in una percentuale del 43%. Una cifra che dovrà essere presa in considerazione in vista della fase due. Al momento, infatti, il numero degli infetti senza sintomi non è calcolato. Vi è di più: secondo il report, sintomatici e asintomatici a Vo’ risultano avere la stessa carica virale che si sviluppa durante i primi giorni dell’infezione. Lo studio ha anche certificato diversi casi in cui il contagio è stato veicolato da persone che ancora non avevano sintomi. Resta di grande rilevanza il dato sui più piccoli. “Nessun bambino coinvolto nello studio – si legge nel report – è risultato positivo, nonostante 13 di loro vivessero in una famiglia con infetti”. L’idea è che i più piccoli possano avere “specifici regolatori dell’immunità”. E questo nonostante “l’84% dei contagi avvenga in famiglia”.

Di certo il dato che colpisce è l’ingresso a metà gennaio di Sars-Cov-2, il cui ceppo al momento non si sa se sia lo stesso di quello di Codogno. Fino a oggi l’ingresso del virus, grazie allo ricerca dell’università Statale di Milano, era collocato al 26 gennaio, dopo un contagio riportato dalla Germania. Ora lo studio di Crisanti si avvicina di più alle ipotesi della ricerca dell’Unità di crisi della Lombardia che fissa i primi casi sospetti al primo gennaio scorso. Quattro giorni prima che il ministero della Salute inviasse la prima nota riguardo a un patogeno cinese dall’eziologia sconosciuta indicando le prime linee guida. “Il contagio – spiega il sindaco di Vo’ Giuliano Martini – è avvenuto in un bar-trattoria che ha anche delle camere dove spesso pernottano commercianti di vino che hanno contatti con la zona di Bergamo e di Lodi”. I tempi tornano drammaticamente indietro mentre i vettori del contagio aumentano.

La ricerca si candida così a essere il modello da seguire nel caso di una seconda ondata di SarsCov2. Dopo i primi test i positivi sono risultati 73, due settimane dopo erano 29, di questi 8 casi sono stati certificati come nuovi con oltre il 50% di asintomatici. Uno di questi ha dimostrato di essersi infettato durante una riunione di famiglia avvenuta quattro giorni prima l’insorgere dei sintomi. Tutti i parenti che al momento non avevano problemi di salute sono risultati positivi. I 73 positivi iniziali sono stati identificati attraverso l’analisi di oltre 120 linee di trasmissione. Qui il risiko dei contatti è stato accurato. “Una volta individuati i positivi – spiega il sindaco – sono stati messi in quarantena con un protocollo severo e le indicazioni di come areare e sanificare i locali, di come gestire i pasti, mentre una volta ogni due giorni l’unità sanitaria li controllava telefonicamente”. Una fotografia ben diversa da quanto visto in Lombardia. “Questo studio – spiega il professor Crisanti – dimostra che il tracciamento dei contatti e le misure di contenimento riducono l’R con zero del 99%”. Inizialmente era del 3%, poi abbassato allo 0,14%. Tanto che durante il lockdown il 67% dei malati è guarito.

Lento calo di morti e di casi “Contagi sino a fine giugno”

L’incremento giornaliero dei contagi continua a scendere: i dati comunicati ieri dalla Protezione civile dicono che per la prima volta l’aumento dei casi totali è più vicino all’1% che al 2%. Ma la fine dell’epidemia è lontana: secondo uno studio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore lo stop ai nuovi contagi da Covid-19 non arriverà prima della fine di giugno. Per l’Osservatorio nazionale sulla Salute, le ultime due Regioni a toccare quota zero saranno la Lombardia e le Marche.

Mentre il governo, il Comitato tecnico-scientifico e l’apposita task force affidata a Vittorio Colao si confrontano sulle modalità della “fase 2”, l’epidemia che in Italia ha causato oltre 24 mila morti si muove in modo molto diverso da Regione a Regione. Le proiezioni elaborate dall’Osservatorio della Cattolica, coordinato da Walter Ricciardi, mostrano come Umbria, Basilicata e Molise sarebbero le prime Regioni a uscire dall’epidemia: le prime due da oggi e la terza dal 26 potrebbero iniziare a registrare zero nuovi contagi, seguite da Sardegna e Sicilia rispettivamente il 29 e il 30 aprile. Diametralmente opposta la situazione di Lombardia e Marche dove, secondo la ricerca che si basa sui dati diffusi dalla Protezione civile dal 24 febbraio al 17 aprile, non è possibile ipotizzare l’azzeramento dei contagi prima del 28 giugno per la Regione del leghista Attilio Fontana e del 27 per quella guidata dal dem Luca Ceriscioli. Che ieri ha contestato: gli studi interni indicano che “si arriva per l’intera regione allo zero alternato dei casi di Coronavirus tra il 25 e il 30 maggio, cioè un mese prima rispetto alle previsioni” dell’Osservatorio. La fotografia – i cui modelli statistici, si legge, “approssimano l’andamento dei nuovi casi osservati nel tempo” – non cambia: le Regioni procedono a velocità diverse. Per questo, ragiona il direttore scientifico Alessandro Solipaca, “da tecnico, mi sentirei di suggerire di pensare a interventi regione per regione. Alcune indubbiamente usciranno prima” mentre “altre dopo, quindi sarebbe buon senso differenziare”.

Si concentra sulle Regioni anche un altro studio sul cosiddetto R0, ovvero l’indice che mostra il numero medio di individui che vengono contagiati da una persona infetta. All’inizio dell’epidemia, in Lombardia, R0 era tra 2,96 e 4,5 a seconda delle stime. Oggi la media nazionale, secondo uno studio del gruppo guidato da Giuseppe Arbia, ordinario di Statistica economica sempre alla Cattolica, è a quota 1,07. Le Regioni che registrano un valore maggiore di 1 “stanno attraversando una fase crescente di contagi – si legge su CovStat.it–, al contrario un valore minore di 1 indica una fase decrescente”. Secondo la ricerca in 13 Regioni il valore è ancora superiore a 1, quando il 17 aprile il presidente del Consiglio Superiore di Sanità Franco Locatelli spiegava che in Italia ormai l’R0 è ormai “a quota 0,8” e secondo il direttore del dipartimento di malattie infettive dell’Iss Gianni Rezza ormai tutte le aree del Paese sono sotto quota 1. Le stime dell’Iss, secondo fonti del ministero della Salute, oscillano tra lo 0,6 e lo 0,8. “Il nostro dato di ieri era 1,07 – spiega il professor Arbia – Quello che a me non torna è che se il valore fosse inferiore a 1, andando a guardare la curva, dovremmo essere a zero nuovi contagi, e invece ne registriamo di nuovi ogni giorno”. In alcuni casi l’obiettivo è stato quasi raggiunto: “Per Basilicata e Umbria, dove i contagi sono prossimi allo zero, a noi risulta infatti un valore inferiore a 1”, prosegue il docente, illustrando il punto in cui la ricerca coincide con i risultati dello studio di OsservaSalute. Molto più difficili, invece, sono le situazioni del Piemonte (1,23) e del Lazio (1,20) che si attestano ai livelli della Lombardia (1,18). “È possibile che la differenza tra i nostri risultati e quelli dell’Iss dipenda dal fatto che abbiamo utilizzato modelli diversi e ci siamo basati su diversi periodi di infettività – osserva Arbia –. Noi consideriamo i 14 giorni contemplati in letteratura, indicati negli articoli pubblicati su riviste come Science e Nature”.

L’epidemia, intanto, rallenta ma non si ferma. I contagi totali (persone attualmente positive, decedute e dimesse dagli ospedali o considerate guarite) salgono a quota 181.228: sono 2.256 in più, +1,26%, l’incremento più basso dall’inizio dell’emergenza ma i tamponi registrati nelle ultime 24 ore sono stati solo 41 mila contro i 50/60 mila dei giorni scorsi. Stabile il conto delle vittime: 454 in 24 ore, per un totale di 24.114. Per la prima volta il capo della Protezione civile Angelo Borrelli dato il numero effettivo degli italiani sottoposti a tampone: sono stati oltre 943 mila per 1.398.024 test effettuati.