Il Piccolo Premier

In tempi di clausura, ci si diverte come si può, anche con vecchi e nuovi giochi di società. Nel nostro ambiente è molto in voga il Piccolo Premier, ultimo della serie Piccolo Chimico, Dolce Forno ecc., ma meno pericoloso. Funziona così: ogni giorno si inventa che il governo cade, o è già morto ma ce lo tengono nascosto, e se ne fabbrica uno nuovo col pongo, il Das, il Lego o il Meccano. E tutti giù a ridere. Il Conte-2 doveva cadere ancor prima di nascere. Sul Def, l’Ilva, l’Alitalia, la prescrizione, l’Emilia, la tosse della pulce Innominabile. “Conte è il premier colibrì che batte le ali 70 volte al secondo solo per restare fermo. Ma la strategia dell’immobilismo rischia di portare alla crisi” (Damilano, l’Espresso, 2.2). “Dalla prescrizione all’Ilva, il mese orribile di Conte” (Stampa, 4.2). Del resto il governo è “senz’anima”, “senza idee”, “orfano” (Repubblica), “senza identità” (Repubblica-Espresso). “Conte come Schettino”, “Capolinea Conte”, anzi “Conte mira al Colle” (Giornale, 13, 14 e 16.2). “Conte faccia le valigie: ormai è finito” (Feltri, Libero, 12.2). Ma niente, non cadeva.

Poi arriva il Covid e “Conte fa più paura del virus” (Belpietro, Verità, 10.2), anzi “Il virus è Conte” (Giornale, 25.2). Ci vuole un bel governo di larghe intese, lo dicono anche i due cazzari Matteo. E qui il gioco passa alla fase2: rovesciato in premier, se ne fa un altro. Anzi, spunta. “Spunta l’ipotesi Cottarelli” (Giornale, 11.3). “Spunta la carta Bertolaso” (Corriere, 9.3), che ben meritò sul G8 e sul terremoto, oltrechè nei centri massaggi e nei tribunali. Oggi “supercommissario”, domani chissà. Piace ai due cazzari Matteo, a B., ma soprattutto a Farina-Betulla (Libero, 10.3): “Serve un capo con poteri eccezionali: l’ideale è Bertolaso”. A Capezzone: “Pronto il commissario per Giuseppi” (Verità, 10.3). A Paolo Guzzanti (Verità, 10.3): “È il nostro Cincinnato: salvaci tu!”. E a Marcello Sorgi, su La Stampa (10.3): “Bertolaso o Gianni De Gennaro, personaggi forti, abili, sperimentati” (De Gennaro soprattutto al G8 di Genova). Meraviglioso il Sole 24 ore: “Supercommissario, Conte frena ma apre” (11.3). Dunque “Conte ha il timer: debellato il virus dovrà sloggiare” (Mario Giordano, Verità, 3.3). “Il governo non dà garanzie di solidità e piena consapevolezza… inadeguato… confuso… impacciato”, ergo urge “un proconsole anti-virus, un commissario con pieni poteri, un ‘uomo forte’” purchessia (Stefano Folli, Repubblica, 10.3). Poi Bertolaso arriva, ma solo alla corte di Fontana&Gallera. E, a parte contagiarsi e mandare in quarantena collaboratori e passanti, fa poco o nulla (il mega-ospedale in Fiera per ben 10 pazienti).

Però il gioco continua. “Giorgetti: dopo ci vuole Draghi” (Foglio, 6.3), quello che fino all’altroieri la Lega trattava da usuraio. “I due Matteo al lavoro: un governo a guida Draghi per la ricostruzione” (Messaggero, 27.3). Nell’attesa, “I giallorotti fingono di andare d’accordo, ma Franceschini continua a logorarli” (Giornale, 6.3). Minzolingua spiega sul Giornale (7.4): “il blitz del 2011 di Napolitano insegna: si può fare un governo in due giorni”, che ci vuole. “Conte in affanno, ora anche Mattarella chiude l’ombrello” (il Giornale, 17.4). E quando chiude l’ombrello Mattarella è finita. Di premier su piazza ce n’è da scialare: Cottarelli, Draghi e Franceschini, ma non solo. Libero (17.4): “Colao verso Palazzo Chigi con la benedizione di Trump” (l’ha confidato personalmente The Donald a Feltri dopo una cert’ora). Il Dubbio (17.4): “I dem pensano a Colao”. Ecco, Colao. Non vi piace? Basta chiedere: “Quel tam tam su Panetta. Il Pd si porta avanti con l’alter ego di Draghi” (il Giornale, 17.4). E al governo Panetta non aveva pensato nessuno, anche perché nessuno sa chi sia Panetta. Però “a maggio ci sarà la resa dei Conti. I due scenari: Conte senza Renzi oppure Draghi con Berlusconi” (il Giornale, 14.4.), ma non si esclude Panzironi con Gegia. Intanto però c’è il “mistero di Conte, che sbaglia ma non crolla” (Libero, 20.4). E come si fa? Sorgi garantisce, in base a “una serie di fattori, nessuno dei quali davvero decisivo” (fondi di caffè, viscere di animali, cose così), che “spira un venticello di crisi” (Stampa, 17.4). Il prestigioso Verderami, sul Corriere (15.4), annuncia “la bufera” è dietro l’angolo e poi il “governo Draghi”, visto che nel Pd “Conte viene ormai vissuto come il ‘moderno rappresentante del cadornismo’” (qualunque cosa voglia dire).

Il manager Andrea Guerra, sincero democratico, ha un’ideuzza mica male (Linkiesta, 18.4): “Commissariare il Paese per 24 mesi e riconsegnarlo ai giochi normali della politica dopo due anni”, con un bel governo Draghi “di poche persone brave e competenti”. Il “giurista” Paolo Armaroli ha già la lista (Il Dubbio, 14.4): “Di qui a poco Mattarella potrebbe convocare un terzetto di portenti formato da Amato, Cassese e Draghi e scegliere, dopo l’uscita di scena dei tanti dilettanti allo sbaraglio, il meglio del meglio ai posti di comando. Con un Cassese multiuso, jolly qual è, presidente del Consiglio, ministro dell’Università, dell’Interno, del Tesoro et similia”. Già, perché Cassese non è solo un portento, ma pure un millennial di 85 anni e potrebbe fare tutto lui. Inutile scomodare “poche persone”, quando ne basta una sola.

Il marchio del tempo non è la ruga

C’è sempre una prima volta. Una di quelle volte in cui ti rendi conto che sei grande, che hai finito con le spontaneità dell’infanzia, con le tempeste dell’adolescenza, con la confusione della giovinezza, e magari t’accorgi d’una piega ai lati del labbro, lieve, appena accennata, proprio come quelle che ti cominciano a camminare sulla fronte, non proprio dei solchi, ma indubbiamente le tracce di quelle che saranno le tue future rughe. E t’accorgi che il tuo gusto è cambiato, che stare al passo veloce di questi tempi indaffarati ti fa un po’ di fatica o magari non ti va proprio, perché il tuo tempo lo ami più lento e meditato. Il cuore allora cerca nutrimenti sani, magari in seno alla famiglia, la mente ha bisogno di pause e silenzi, il corpo ti dice “… fermati un po’ dai, e respira!”. Io insegno danza ad alcune bambine piccole e per prima cosa insegno loro a respirare. La mia prima volta è stata con una di loro. Quando l’ho conosciuta era come bloccata; la mamma pretendeva che a otto anni fosse già un’etoile, e io mi sono trovata a doverle insegnare come si salta, come si corre, come ci si rotola per terra. E lei, magari forse per la prima volta, è stata una bambina. Voglio bene a tutte le mie piccole allieve, ma con lei sento un legame tutto speciale. L’altro giorno mi ha chiesto di spiegarle perché i grandi hanno tutti un cerchietto segnato sulla pelle del braccio. “Quale?” le chiedo. “Questo”, e mi indica l’antivaiolo. Le spiego che è un vaccino, una specie di medicina, che ce l’hanno tutti, si fa da bambini, anzi, un tempo era molto più largo ed evidente, che… “Io non ce l’ho”, e mi mostra l’omero liscio. Per la prima volta mi sono sentita appartenere a un tempo precedente. Il tempo d’una terribile malattia ora sconfitta, che ha marcato svariate generazioni e miliardi di omeri.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Tusiani, poeta del Gargano che declamava nel Bronx

Avevo ricevuto da poco una delle sue lettere. Lettere del poeta di quattro lingue altrettanto amate che lui, Joseph Tusiani, novantaduenne, scriveva a mano, con bella e potente calligrafia, attraverso tutta la pagina. La lettera annunciava che stava per arrivarmi il suo più recente lavoro, una raccolta di liriche latine. È arrivato. Si intitola Lux Vicit (in Italia, Edizioni Levante) e l’autore me lo diceva, con l’affettuosità un po’ ironica del celebre e apprezzato latinista che aspettava il mio parere.

Lo diceva in quel suo modo autorevole, che chiedeva attenzione, lui , italiano emigrato da Napoli a New York; già docente in tre diverse grandi università degli Stati Uniti e presidente della Società dei Poeti Americani, dei poeti che scrivono in latino. Aveva avuto i maggiori premi letterari di quel Paese. Il volume, come dicevo, è arrivato. Ma è arrivata, quasi nello stesso tempo, la notizia della sua morte. Una vita straordinaria si è conclusa con la pubblicazione delle sue poesie in latino, che lo ha ancora una volta segnalato come il personaggio eccezionale della cultura americana.

Chi è stato Joseph Tusiani, e perchè non ha nel nostro Paese la stessa visibilità e prestigio che ha avuto in America? Provo a ricordare come ci siamo conosciuti. Sapevo il suo nome e avevo letto del suo strano internazionalismo: apparteneva a San Marco in Lamis, nel Gargano (e scriveva con passione in quel dialetto). Ma apparteneva anche ai complicati e misteriosi territori intorno a Manhattan, dove insieme ai quartieri delle gang e delle vite perdute , ci sono i colleges e le grandi università. Uscivo da un’aula della Fordham University, nel Bronx, dopo una conferenza, e ho sentito una voce profonda e potente percorre i corridoi, passare dalle finestre, arrivare a risuonare in giardino. Ai poeti che amano leggere (tutti i poeti della Beat Generation lo facevano) occorre una voce. Mi hanno detto che quella voce, calda, piena, unica, apparteneva a un poeta in residence e ne ho saputo il nome italiano. Sono andato a sedermi nella sua aula ed è cominciato un rapporto che non è finito mai: il poeta emigrante che non è mai emigrato e usa il suo dialetto, il poeta venuto da lontano che presiede la società dei poeti americani, il latinista che compone in latino, lo straniero che è star della lingua e della letteratura angloamericana.

Il nostro stare insieme (io volevo ascoltare la sua voce) è cominciato nel Bronx, dove sua madre portava a tavola indimenticabili biscotti. Poi all’Istituto Italiano di Cultura, di cui io, allora, ero direttore e dove volevo sentir leggere i suoi versi. E questo capolavoro di scambio di culture dal Gargano all’America, dall’inglese al latino, dall’italiano del giovane dottorando napoletano alla docenza in inglese ammirata e onorata dai suoi colleghi americani. Non ero più a New York quando lui è andato a vivere a Manhattan, ma le sue lettere e i nuovi libri mi informavano. Adesso ho in mano Lux Vicit e la storia continua.

L’Unione europea è vicina al crollo e il mito del progresso è solo un bluff

Il legno dell’umanità storto è, ritorto rimane, e l’Unione sovietica crolla. Il materialismo scientifico non raddrizza le gambe ai cani, la granitica Cortina di ferro frana con le patrie del socialismo reale alla deriva – il marxismo-leninismo non ce la fa più – e svanisce il paradiso dei lavoratori volenterosi progettisti del progresso si adoperano per una luminosa meta, la storia però non termina, piuttosto si ripete e così – in questi frangenti, nel mondo libero – anche l’Unione Europea, figlia di una chimera transnazionale, col Coronavirus che fa tabula rasa su tutto sembra replicare l’atmosfera immediatamente precedente a un crollo.

Ben poco può il progetto Erasmus, l’Eden di stelle in circolo su bandiera blu non ha neppure quell’internazionalismo che comunque – quando si dice il dispetto del destino, con la Cina – per interposta potenza asiatica domina lo scacchiere mondiale. I sinologi sapranno dirci quanto di Karl Marx sopravviva nel Partito Comunista di Pechino, l’Ideologia Tedesca va ben oltre la critica alla “società degli straccioni”, fonda il materialismo storico e liquida, con l’hegelismo, anche Max Stirner. L’autore de L’Unico e la sua proprietà è, infatti, quasi un antesignano dell’Europa dei carini. È la dottrina della giustificazione, la “Fenomenologia dell’egoista coerente con se stesso”. Marx – con Friedrich Engels – ne maltratta la millanteria individualistica scovando i capovolgimenti delle equazioni laddove “il denaro come mezzo di scambio dell’uomo” diventa, con Stirner, “il denaro di mio proprio conio, come mezzo di scambio egoista” e “il diritto in generale come diritto dell’uomo” si muta in “diritto di ciò che è giusto per me”.

La rappresentazione tutta carina della società, delle relazioni e della pratica politica, ha pur sempre una riserva mentale. Si ritorce contro di sé, l’umanità, nella costruzione storica “unica”. Immagina di scalare il cielo, l’umanità, seguendo le sorti progressive – sia esso il regno dell’etica o quello dell’economia – ma ogni vera scala ascende e si estranea sempre dall’invadenza del mondo e delle cose.

“Neppure un bombardamento inglese può sulla Cina”, segnalavano Marx ed Engels leggendo l’Unico. Neppure le navi a vapore o i proiettili Shrapnell ancora sconosciuti a Stirner, annotavano ancora gli autori de l’Ideologia Tedesca. E chissà quale potrebbe essere l’analisi del Coronavirus in un’edizione aggiornata se la Cina per Stirner altra forza non ha che l’abitudine: “In Cina tutto è previsto; qualunque cosa possa accadere il cinese sa sempre come contenersi e non ha bisogno di risolversi secondo le circostanze; nessun caso imprevisto può farlo cadere dal cielo della sua tranquillità”. Ogni asola ha il suo bottone e quel che succede a Bruxelles – per tramite di Pechino, con rimbalzo a New York – torna ineluttabilmente all’inciampo stirneriano messo a nudo dai fondatori del comunismo: “sopportare il male per non diventare proprietario del peggio”.

Gli strascichi conseguenti alla crisi da Covid-19 sono globali, travalicano il recinto dei carini, ma il codice è interamente “occidentale”, il canone è forgiato nel “secolo americano” e siccome è impossibile scappare dalla realtà, con l’Inghilterra che ha tolto il disturbo, con nessuno dei 27 membri dell’Unione Europea che pensi agli altri, tutto il male sopportato per evitare il peggio è un menare per il naso – per dirla con lo stesso Stirner – “la grande maggioranza composta di cervelli naturalmente limitati”. Il legno dell’umanità storto è, e ancora più storto torna a essere.

Morire aspettando i test. “Alcuni medici consigliano ai malati: simulate i sintomi”

Cara Selvaggia, vi scrivo con un profondo sconforto per una situazione sanitaria drammatica che, indubbiamente, accomuna me e i miei cari a moltissimi altri italiani. Una condizione inaccettabile, in uno Stato come il nostro che dovrebbe difendere la salute delle persone.

Le sfortune sono iniziate quando il padre del mio fidanzato, Andrea, si è ammalato ed è stato operato d’urgenza alla vigilia di Natale. Da allora le sue condizioni di salute hanno subito alti e bassi che lo hanno costretto ad entrare e uscire da ospedali e case di cura. Fino all’esplosione del Covid-19 nel nostro Paese. Il 5 marzo alle 23:30 circa siamo stati contattati da un medico dell’ospedale Molinette di Torino: avevano appena scoperto che il vicino di letto di Andrea (il papà del mio ragazzo) era positivo al Covid-19. La storia è finita sui giornali, poiché quest’uomo (con la moglie) non avevano comunicato ai medici di aver avuto contatti con persone positive. Qui inizia la nostra prima quarantena: mia, del mio fidanzato Davide e di suo padre Andrea. Noi due a casa e Andrea in ospedale alle Molinette.

Ad Andrea intanto vengono fatti due tamponi, negativi, e i medici delle Molinette decidono di mandarlo a casa. I dottori quindi organizzano il trasferimento di Andrea a casa, a Vinovo, senza interpellare il figlio, anch’egli in quarantena. Lui viene informato dal padre, solo a cosa fatta. I medici avevano lasciato che Andrea tornasse a casa da solo, in taxi, contravvenendo a tutte le regole sulla quarantena e mettendo a rischio il tassista e i suoi clienti. A loro dire Andrea andava dimesso e noi non potevamo andare a prenderlo perché eravamo in quarantena. Andrea è arrivato a casa sua il 18 marzo, giorno in cui si è ricongiunto a sua moglie Anna, malata di depressione da quasi 20 anni: tempo trascorso chiusa in casa, col marito e la sua badante Rosy. Da quando Andrea è tornato a casa dall’ospedale, più volte Davide è dovuto andare a trovarli sia per portare la spesa e le medicine sia per assisterli durante i giorni liberi della badante. Il 21 di marzo sua madre Anna ha iniziato a stare male.

Il giorno successivo i sanitari dell’ambulanza che Davide aveva chiamato l’hanno visitata e ne hanno consigliato il ricovero. Ma Anna, malata di depressione, ha rifiutato categoricamente di andare in ospedale; i sanitari si sono detti con le mani legate, poiché non abilitati ad effettuare il Tso. Il giorno seguente Davide torna a casa con me ad Asti, sua madre Anna però peggiora e chiamiamo nuovamente un’ambulanza. Questa volta Anna è così debilitata e spaventata da essere pronta a lasciare la sua casa per farsi curare. È già pronta con le valigie quando viene visitata dal medico che si presenta in casa. La dottoressa afferma che Anna non ha nessun problema ai polmoni, e che secondo lei non è infetta. Anna non viene quindi ricoverata. La notte tra venerdì 3 aprile e sabato 4 aprile le condizioni di Anna peggiorano ulteriormente e inizia ad avere grossi problemi respiratori, tanto da iniziare a rantolare. Chiamiamo immediatamente l’ambulanza e Anna viene finalmente ricoverata. Positiva. Anna è morta domenica 5 aprile. Il figlio Davide non l’ha potuta vedere. Domenica 5 aprile ha inizio la nostra seconda quarantena, questa volta siamo quattro: oltre a Davide, Andrea e me, c’è anche Rosy, la badante.

La domanda ora a cui è imperativo dare una risposta è: chi ha infettato Anna? Anna non esce di casa da vent’anni per cui gli indiziati sono suo marito, la badante e il figlio Davide. Solo che qui né Davide né la badante hanno fatto il tampone e rischiano di infettare Andrea, che se si ammalasse forse non sopravviverebbe. L’Asl di Nichelino, intanto, ha contattato la badante e Andrea solo una volta, mentre l’Asl di Asti ha sentito un paio di volte Davide. Davide ha iniziato a richiedere tamponi a chiunque fosse in grado di contattare, ma la risposta è sempre stata la stessa: no. In mancanza di seri sintomi non c’è nessuna possibilità di ricevere un tampone. Medici e infermieri amici hanno iniziato a consigliarci di fingere i sintomi, di mentire con lo scopo di entrare nella lista di coloro che possono accedere al test, ma che non hanno comunque la certezza di ottenerlo. È possibile che sia necessario mentire per poter difendere la salute del proprio padre? È possibile che sia necessario arrivare a un punto di non ritorno, come è successo ad Anna, prima di agire? È normale essere messi in una situazione di totale impotenza di fronte alla possibile malattia e la conseguente morte del proprio padre? Le telefonate che possiamo fare sono finite, ecco perché ora le scrivo. Abbiamo bisogno di aiuto e sembrerebbe che non ci siano vie ufficiali per ottenerlo. È necessario che quelle i pochi fortunati risparmiati da questa disgrazia vengano a sapere che cosa significa sentirsi impotenti e abbandonati dalla città, dalla sanità e dallo Stato. Vi ringrazio per qualunque aiuto sarete in grado di darmi.
Alessia

 

Cara Alessia, in Piemonte, in Lombardia, in Emilia Romagna e in molte altre regioni italiane, il destino di troppi cittadini è stato questo: morire in attesa di un tampone, morire perché i sintomi non erano abbastanza gravi, morire perché non sono stati fatti tamponi a parenti asintomatici, che hanno contagiato le persone più fragili del nucleo familiare. Continuo a pubblicare lettere come questa perché altre narrazioni propagandistiche o falsamente rassicuranti sono inaccettabili. Più delle mancanze stesse.

Inviate le vostre lettere a:

il Fatto Quotidiano
00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2.
selvaggialucarelli @gmail.com

Care femministe, voglio diventare casalinga full time. Però serve la paga

Quando, dopo alcuni giorni di pandemia, lentamente abbiamo realizzato che no, la signora delle pulizie non sarebbe mai più venuta e che no, neanche la babysitter, ma che sì, avremmo continuato a lavorare come prima e con tutta la famiglia chiusa nell’appartamento, abbiamo pensato: sicuramente moriremo. Se già arrancavamo con gli aiuti, magari poche ore, ma indispensabili per sopravvivere, per certo, credevamo, non ce l’avremmo fatta senza: come essere produttive con 14 pasti a settimana da preparare, più colazioni e merende? E invece, sorpresa: le donne italiane in quarantena hanno imparato che, quanto a multitasking, c’era ancora un territorio inesplorato da conquistare. Fatto di una conciliazione ancora più ardita, ovvero garantire le stesse performance professionali pure coi guanti di gomma (no, non per il contagio, per lavare il water) magari pianificando, un’arte vera e propria, una spesa per un’intera settimana senza rimanere a corto di latte e pane. Insomma, dopo un mese e mezzo di clausura abbiamo capito molte cose: ad esempio, che ci può essere un certo perverso piacere pure nel lavare gli stracci, magari ascoltando la conferenza di Borrelli, e nel tornare ad essere le regine della cucina, roba che fino a poco tempo prima ci avrebbe fatto rabbrividire. La quarantena ci ha rese capaci di essere casalinghe a tempo pieno e lavoratrici full time: praticamente invincibili. Tutto bene, dunque? In realtà molte si sono rese conto che, in fin dei conti, se proprio bisognerà scegliere, fare il lavoretto pasquale con colla e forbici è assai meno stressante di una riunione di lavoro, specie se quel lavoro è pagato due soldi. Tanto che, sì, l’abbiamo pensato in tante, anche chi tra noi lo aveva sempre ritenuto un’aberrazione conservatrice: forse uno stipendio per le casalinghe non sarebbe male. Decisamente rivoluzionario, questo Covid-19.

Mamme recluse in casa con i figli: il sogno indicibile è diventato realtà

Èpiccola, rara, desiderata e a volte cara come una clutch raccomandata da Enzo e Carla in “Ma come ti vesti?”, è entrata nel nostro guardaroba solo da un mese e mezzo e già ci chiediamo come abbiamo potuto farne a meno per tanto tempo. Della mascherina, dico. Che oltre a proteggere dal contagio gli altri o noi o tutti quanti, a seconda del modello e del prezzo, dimezza tempi e costi del makeup (basta truccare gli occhi) e copre meglio di qualunque primer guance collassanti, pori dilatati, rughe labiali e tutto quel che l’uomo, grazie alla natura, dopo i 40 anni può occultare con la barba. Se non l’amiamo già, impariamo ad amarlo, il mini-burqa unisex imposto dall’imam Coronavirus, il cui califfato ormai corrisponde all’orbe terracqueo, perché è l’unico vantaggio pratico che noi donne trarremo dalla pandemia. Già la dottoressa Capua ci dice che le femmine sono state risparmiate dal morbo perché avranno il compito di “ripopolare” il mondo, e se oltre alla scienza ci si metteranno anche la politica e l’economia, che in Italia declinano il Pil solo al maschile, rischiamo di non uscire di casa mai più. Se proprio vorremo, potremo continuare con lo home-working, un occhio al pc, l’altro al bebè, così si potranno tagliare ulteriormente i servizi per la famiglia. Notato come da noi, a differenza che negli altri Paesi, compresa la Francia, dove il morbo fa ancora strage, la riapertura delle scuole dell’infanzia e primarie non sia una priorità? Là si vuole consentire sia alle madri che ai padri di tornare al lavoro, qui le mamme sempre a casa con i bambini sono un segreto sogno collettivo che diventa realtà grazie al coronavirus. Scuole chiuse, nonni decimati o cautelativamente blindati, posti di lavoro ridotti, specie quelli tradizionalmente più “femminili” (commercio, turismo, servizi alla persona), e ci ritroveremo angeli del focolare. Imbavagliati da una mascherina, per giunta.

Don Pasquale Irolla, il prete-velocista che aspetta ancora l’elezione a parroco

Èstato il prete più gettonato della settimana, per numero di visualizzazioni sul web. Oltre un milione. Si chiama don Pasquale Irolla, poco più che cinquantenne, ed è l’amministratore parrocchiale di San Michele Arcangelo, la chiesa principale di Piano di Sorrento, in provincia di Napoli. Don Pasquale, il giorno di Pasqua, ha fatto gli auguri di corsa. In senso letterale.

Nella celebrazione trasmessa in streaming (e rigorosamente a porte chiuse senza fedeli) il parroco ha infatti rivolto a tutti una Santa Pasqua “frenetica” e subito dopo ha fatto due giri ad alta velocità della basilica, finanche cantando un inno. Un importante sito tradizionalista nordamericano lo ha accusato di essere il solito prete “narcisista” ma in realtà è l’esatto contrario. Se si guarda il video per intero si capisce chiaramente che don Pasquale ha voluto ricordare – tra la gioia della resurrezione e il dolore di questo tempo pandemico – quei discepoli di Gesù che corsero verso il Sepolcro vuoto, come si legge nel Vangelo. Un’esplosione di felicità, nonostante tutto. Non solo. Sacerdote dalla solida struttura teologica e filosofica, don Irolla non è nuovo a “trovate” del genere.

Sono circa dieci anni che nella sua parrocchia, il giorno di Pasqua, inventa un modo per rallegrare la sua comunità: dagli spruzzi collettivi di profumo ai bimbi radunati sull’altare per cantare al ritmo di Jovanotti, “sono un bambino fortunato”. Il successo riscosso questa settimana con la sua corsa ha poi fatto riparlare a livello locale del vulnus che investe la carica di amministratore parrocchiale di don Pasquale.

Nominato pro tempore nel 2006, quando il suo predecessore don Arturo Aiello fu “promosso” vescovo di Teano (oggi è ad Avellino), don Irolla si prepara da 14 anni alle elezioni a parroco, previste dal cosiddetto diritto di patronato, privilegio laico di pochissime parrocchie nel mondo. In Italia sono concentrate soprattutto in costiera sorrentina. Pare che papa Bergoglio voglia sopprimere o quantomeno congelare il diritto di patronato (benché contemplato dal codice di diritto canonico) e così da anni il vescovo di Sorrento impedisce ai fedeli di esprimersi sulla scelta del parroco.

Il pasticcio dei test sierologici: non si farà uno screening. Serve sperimentazione seria

Come sempre, grande confusione. Test sì, test no, scienziati da una parte, decisioni dall’altra, cose dette e non dette. Giornalmente sono contattata da almeno cinque-sei persone (giornalisti o colleghi) che mi chiedono chiarimenti sui famosi test sierologici. A parte lo stupore nel veder partire una gara contro il tempo in pochissimi giorni come se avessimo trovato la soluzione alla pandemia, credo che ci stiamo infilando in un bel pasticcio. Anche ai medici non è chiaro o non è stato spiegato che stiamo entrando in una fase sperimentale e quello che si farà dalla prossima settimana non sarà uno screening sierologico. Benché ci siano state anche buffe comunicazioni di accordi tra enti ospedalieri (smentiti dai direttori generali) ed enti comunali sul controllo di migliaia di dipendenti, resta ancora sul tappeto il significato di questi test e soprattutto il dubbio significato di non ripeterlo nel tempo su ogni soggetto.

Questa prassi potrebbe aiutarci a capire meglio alcuni aspetti immunologici dell’infezione, ma non è neanche presa in considerazione. A oggi nessuno conosce la caratteristica del virus a riguardo dell’immunità. Non sappiamo se chi si è infettato o ammalato resti poi protetto dal rischio di ammalarsi o infettarsi nuovamente. Non sappiamo per quanto tempo gli anticorpi prodotti dal virus restino nel paziente. Il test oggi positivo potrebbe negativizzarsi dopo alcuni giorni. Insomma non conosciamo nessuna delle caratteristiche che possano giustificare l’utilizzo di un test allo scopo per cui è stato prodotto.

L’unica possibilità che abbiamo oggi è quella di fare sperimentazioni serie, che non possono essere condotte lasciando intendere alla gente cose diverse da quelle reali. Ci è stata annunciata una vasta sperimentazione. Ben venga. Qual è il protocollo? Il test che si vuole sperimentare verrà testato rispetto a cosa? Qual è il controllo? Quali sono i dati attesi statisticamente? Oggi l’unico test accreditato è il tampone: eseguiremo milioni di tamponi? Chi ce li fornirà, visto che siamo stati informati dalla ditta produttrice che quelli in produzione non sono sufficienti per l’attuale richiesta? In una sperimentazione, la legge vigente impone che i soggetti che “volontariamente” vi si prestano vengano, a uno a uno, informati e firmino il consenso e la spiegazione dell’indagine. Se questo non viene fatto, o non si tratta di una sperimentazione oppure non è legale la procedura.

Peraltro, visto che circolano voci e pubblicità di laboratori privati che vendono un test sierologico, chiedo se qualcuno stia provvedendo a fermarli. Questi laboratori stanno vendendo “patenti di immunità” false. Non solo è illegale, ma è anche molto pericoloso per la popolazione.

 

Fdi & C: chi ha paura del 25 aprile

Un manipolo di post-fascisti, (tra loro La Russa, Rauti e Santanchè) ha proposto di utilizzare la prossima ricorrenza del 25 Aprile, invece che per celebrare la Resistenza e la Liberazione dal fascismo, per “onorare i morti di tutte le guerre e del Covid-19, cantando non Bella Ciao ma la Canzone del Piave”. Non è la prima volta che i nostalgici del Ventennio cercano di stravolgere il senso del 25 Aprile e, quest’anno, provano a farlo unendo la retorica militaresca alla tragedia del Coronavirus. Per ricordare loro che cosa è stato davvero il 25 aprile del 1945, ripubblichiamo il testo del comunicato con il quale, quattro giorni dopo (il 29 aprile), il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia (CLNAI) si assunse la piena responsabilità della fucilazione di Benito Mussolini e dei suoi gerarchi a Giulino di Mezzegra. Un documento spesso dimenticato e scritto quasi tre anni prima dell’entrata in vigore della nostra Costituzione, ma della quale costituisce, sul piano morale, storico e politico, il primo atto fondativo.

“Il CLNAI dichiara che la fucilazione di Mussolini e complici, da esso ordinata, è la conclusione necessaria di una fase storica che lascia il nostro Paese ancora coperto di macerie materiali e morali, è la conclusione di una lotta insurrezionale che segna per la Patria la premessa della rinascita e della ricostruzione. Il popolo italiano non potrebbe iniziare una vita libera e normale – che il fascismo per venti anni gli ha negato – se il CLNAI non avesse tempestivamente dimostrato la sua ferrea decisione di saper fare suo un giudizio già pronunciato dalla storia.

Solo a prezzo di questo taglio netto con un passato di vergogna e di delitti, il popolo italiano poteva avere l’assicurazione che il CLNAI è deciso a proseguire con fermezza il rinnovamento democratico del Paese. Solo a questo prezzo la necessaria epurazione dei residui fascisti può e deve avvenire, con la conclusione della fase insurrezionale, nelle forme della più stretta legalità.

Dell’esplosione di odio popolare che è trascesa in quest’unica occasione a eccessi comprensibili soltanto nel clima voluto e creato da Mussolini, il fascismo stesso è l’unico responsabile.

Il CLNAI, come ha saputo condurre l’insurrezione, mirabile per disciplina democratica, trasfondendo in tutti gli insorti il senso della responsabilità di questa grande ora storica, e come ha saputo fare, senza esitazioni, giustizia dei responsabili della rovina della Patria, intende che nella nuova epoca che si apre al libero popolo italiano, tali eccessi non abbiano più a ripetersi. Nulla potrebbe giustificarli nel nuovo clima di libertà e di stretta legalità democratica, che il CLNAI è deciso a ristabilire, conclusa ormai la lotta insurrezionale.

Il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia.

Achille Marazza

per la Democrazia Cristiana, Augusto De Gasperi

per la Democrazia Cristiana, Ferruccio Parri

per il Partito d’Azione, Leo Valiani

per il Partito d’Azione, Luigi Longo

per il Partito Comunista Italiano, Emilio Sereni

per il Partito Comunista Italiano, Giustino Arpesani

per il Partito Liberale Italiano, Filippo Jacini

per il Partito Liberale Italiano, Rodolfo Morandi

per il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, Sandro Pertini

per il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria”.