Gli Unni del calcio sono già in fase 3

Al calcio italiano manca solo una cosa, che ci scappi il morto: un calciatore che lasci le penne in campo mentre gioca in condizioni inumane partite insensate, utili solo a riaprire il rubinetto dei soldi dei diritti-tv, che poi è l’unica cosa che davvero sta a cuore ai nostri presidenti. In italia, due mesi dopo il primo morto di Coronavirus (21 febbraio, Adriano Trevisan, Vo’ Euganeo), muoiono ancora 500 persone al giorno, i medici uccisi dal Covid sono 130, i tamponi sono irraggiungibili e le terapie intensive lo sono state fino a ieri e cosa s’inventa il carrozzone del pallone?

S’inventa di portare a termine il campionato di Serie A con calciatori cui sarà chiesto di giocare una partita ogni 3 giorni a giugno-luglio dopo un’inattività durata due mesi, al caldo torrido delle estati italiane, con diversi atleti reduci dal contagio (“Qualcuno pensa davvero che in Serie A solo la Sampdoria abbia avuto 5, 6 o 7 infettati? – ha detto l’uruguaiano Gaston Ramirez –. La verità è che molti club hanno tenuto nascosti i loro contagiati”), con sfide che assumeranno un’importanza vitale per decidere scudetto, qualificazioni e salvezza, sfide affrontate nelle peggiori condizioni sia climatiche che psicologiche in cattedrali nel deserto, con comitive di 60-70 persone che i 20 club ininterrottamente caricheranno su pullman, treni e aerei invadendo hotel e spogliatoi e sottoponendoli obbligatoriamente a un tampone ogni 4 giorni, il che significa 1200-1400 tamponi a volta sottratti alla gente comune, quella lasciata morire in casa senza che nessuno dica bah; il tutto in attesa del primo Rugani-bis che mandi tutto a puttane spedendo in quarantena compagni di squadra e avversari e fermando il carrozzone; e comunque in fretta perché poi c’è l’Uefa con i suoi tornei, e se i campionati finiscono a luglio, ad agosto si possono giocare le coppe e a settembre si torna in campo per la stagione 2020-21.

E guai a chi non si adegua al ricatto della Troika, alias Aleksander Ceferin (Uefa), Andrea Agnelli (Eca) e Lars-Christer Olsson (European League), che in una lettera spedita in data 2 aprile, quando l’Europa viaggiava verso i 50 mila morti, oggi diventati 100 mila – niente di cui preoccuparsi dunque – ha tuonato: “Qualunque decisione di sospendere i campionati nazionali in questo momento sarebbe prematura e non giustificata”, minacciando sanzioni ed esclusioni.

Manca solo che ci scappi il morto, e forse è meglio dirlo prima. Tra l’altro, ancora non si conoscono i danni lasciati nel fisico dal virus. Uno studio dei medici guidati dal prof. Marco Metra, cardiologo degli Spedali Civili di Brescia, pubblicato su Jama Cardiology, mostra come molti infettati abbiano contratto il Covid-19 senza alcuna polmonite ma accusando miocarditi acute con versamento pericardico o insufficienze cardiache. Il prof. Enrico Ammirati, cardiologo del Niguarda, racconta di pazienti affetti da miocardite associata a Covid-19. E il prof. Enrico Castellacci, presidente dei medici italiani di calcio, ha dichiarato che “dalle autopsie effettuate in questa pandemia si è constatato che c’erano cicatrici a livello cardiaco, talvolta danni al cuore, pericarditi”. Danni al cuore. Arrecati da un virus che ha colpito anche i calciatori. E però, chi se ne frega: quel che conta è tornare a giocare. Dio perdona loro.

Le scorciatoie del calcio per tornare in campo

“Prima i calciatori”. Così la Federcalcio spera, pretende, s’illude di far ripartire il campionato. In tempo per concludere una stagione che altrimenti lascerebbe una voragine nei conti dei club. Dunque subito sotto con gli allenamenti, magari in anticipo persino rispetto al 4 maggio. Il pallone italiano cerca una scorciatoia che però passa dalla pretesa di effettuare migliaia di tamponi e test sierologici a tutti i calciatori, in un momento in cui medici e infermieri devono aspettare. Oppure trovate grottesche: partite solo al Centro-Sud, allenamenti a due metri di distanza, giocatori (e dipendenti) sequestrati in ritiro.

Da settimane il mondo del calcio spinge e briga per tornare in campo. Claudio Lotito interpella virologi e parla da scienziato, il presidente della Figc Gabriele Gravina si batte per trovare la soluzione. C’è anche qualcuno che rema contro: i patron messi male in classifica, come Urbano Cairo, che sul punto ha litigato pure con i suoi giornalisti della Gazzetta dello Sport. Il n.1 del Coni, Giovanni Malagò, che non perde occasione per attaccare il pallone. Nell’emergenza ognuno gioca la sua partita. Intanto la FederCalcio ha riunito una commissione di professori, per stilare un testo che dovrebbe dettare le linee guida agli addetti ai lavori e convincere il governo.

Il piano sarebbe concludere il campionato a giugno e luglio. Prima, però, bisogna allenarsi, e per farlo le squadre devono diventare ambienti sterili, a prova di virus. Bisognerà controllare tutti a tappeto. Non solo i giocatori, anche tecnici, fisioterapisti, magazzinieri, chiunque entri a contatto col gruppo: parliamo di almeno 50-70 persone per club. Il protocollo prevede per tutti uno “screening iniziale” con due tamponi e un test sierologico a testa, per escludere contagi, capire chi sono gli eventuali positivi e chi i guariti già immuni. È quello che vorrebbero fare tutti gli ambienti di lavoro. Peccato che i kit in questo momento siano quasi introvabili e vadano poi analizzati. Il calcio ha bisogno di almeno 2 mila tamponi in 3 giorni. E le diagnosi dovranno essere eseguite solo dai laboratori di riferimento regionali, che si contano sulle dita di una mano: c’è il rischio di intasarli per il pallone e sarebbe difficile da spiegare al Paese.

Ammesso che si riesca a creare questo ambiente a contagio zero, poi si riuscirà a mantenerlo? I contatti con l’esterno si possono ridurre, non azzerare: ci saranno sempre fornitori, trasporti, pulizie. E il vero problema sono i movimenti dei membri del gruppo: per assicurarsi che non si infettino, l’unica soluzione è che non escano dal ritiro. Mai, nemmeno per una passeggiata, in questo caso non c’è codice di comportamento che tenga. Praticamente un sequestro di persona collettivo, per almeno 2-3 settimane, poi si vedrà. L’alternativa sarebbe ripetere i controlli dopo ogni uscita, ma così il numero dei tamponi aumenterebbe in modo esponenziale. E in caso di infortuni? Ospedali e cliniche dovrebbero mettersi a disposizione per accogliere i calciatori in “massima sicurezza”.

Insomma, la Figc ha pensato a un protocollo con una serie di prescrizioni improbabili (allenamenti a due metri di distanza, ingressi negli spogliatoi a scaglioni, centri di allenamento blindati) e troppe variabili. I medici dubitano, specie quelli delle categorie inferiori. La Serie C ha già alzato bandiera bianca, non riprenderà, la Serie B è a rischio: bene che vada, così giocherà la Serie A. Cioè i più ricchi. I presidenti smaniano, il governo tentenna: il ministro Spadafora mercoledì dovrà dire la sua. I tifosi aspettano: a loro manca il calcio, ma pure tutto il resto.

“Io, prof all’antica. Così ho imparato a fare lezione online”

Dico la verità: quando il mio Ateneo, dando mostra di un’efficienza davvero notevole e alla faccia di tutti quelli che si ostinano a sottovalutare la forza e la qualità delle università pubbliche italiane, ha allestito, in pochi giorni, un sistema che consente di fare lezioni online ho pensato subito che si trattasse di un’iniziativa encomiabile, ma ho anche sentito un brivido risalire lungo la schiena. Come la stragrande maggioranza dei colleghi (anche di tanti che non lo confesserebbero mai), mi sono sentito lanciato a tutta velocità verso un territorio ignoto, dove tutta la “sapienza pastorale” di governo dell’aula costruita in venti e più anni di carriera è sembrata essere diventata improvvisamente inutile e superflua. Al posto dell’aula avrei avuto, e per chissà quanto tempo, il monitor di un computer. E un amico e collega maliziosetto aveva aumentato la mia agitazione.

Mi disse che il passaggio sarebbe stato ancora più complicato in virtù del fatto che io sono un professore “vecchio stile”, abituato a far lezione a braccio, senza ausili di sorta (slides o altro). Con queste premesse, sono arrivato piuttosto teso al primo giorno da professore online. Ho dormito male la notte precedente e ho sentito il bisogno di ricorrere alla pratica, da docente alle prime armi, di appuntarmi su un quadernetto i concetti che avrei dovuto affrontare, gli esempi che avrei dovuto menzionare, quello che insomma generalmente ho ben chiaro nella mente quando entro in classe. Il terrore è stato quello di rimanere improvvisamente afono, di non sapere come proseguire, di incantarmi, di finir preda di qualche inattesa paralisi del logos.

È poi venuto il momento di iniziare. Per una buona mezzoretta mi sono sentito in effetti innaturale, legnoso, didascalico, un po’ noioso, poi ho avuto magicamente l’impressione di prendere il volo e di tornare ad essere il prof se non altro appassionato e innamorato di quel che studia e spiega ai suoi studenti che penso di essere. Ed è andata sempre meglio. Giorno dopo giorno, i timori si sono fatti più esigui, le lezioni sono divenute più fluide e compatte. Anche i ragazzi sono cambiati. All’inizio comunicavano solo per chat. Dicevano che era più comodo così. Poi hanno iniziato a parlare, talvolta addirittura, quando le nostre povere connessioni in questi giorni sovraccariche di dati lo hanno consentito, ad apparire in video. Pian piano le nostre interazioni sono diventate più umane, avvicinandosi alla forma e alla consistenza che avevano nelle due settimane di corso prima della quarantena. E così Paolo ha iniziato a fare il Paolo, Greta la Greta, Francesco il Francesco. Ad un certo punto, abbiamo persino iniziato a parlare della tragedia che stiamo vivendo. Molti di noi, me incluso, abitano a Bergamo e quasi tutti in Lombardia o comunque nel Nord Italia. All’inizio, ho pensato che non fosse opportuno parlarne troppo, dal momento che questa già invade quasi ogni interstizio delle nostre giornate e poi perché non volevo che a questi ragazzi fosse sottratta la possibilità di apprendere i contenuti della disciplina che insegno, di prepararsi come si conviene al futuro. Ad un certo momento però quello che ormai da quasi due mesi ossessiona le nostre vite ha fatto capolino anche nei nostri incontri telematici: abbiamo iniziato a parlare delle responsabilità che ci attendono una volta finita l’emergenza, di quello che essa ci rivela della nostra vita associata, dei doveri che ci impone, delle piaghe che ci lascerà. Abbiamo iniziato anche a chiederci come stiamo, di che umore siamo.

Qualche settimana fa il corso più strano della mia vita è finito. Per più di metà è stato online. Vista la situazione, mi sembra che abbia comunque funzionato. E che ne sia valsa la pena. A patto però di poterci, come ci siamo ripromessi, un giorno ritrovare, per riprenderci in qualche forma quel che la quarantena ci ha sottratto. E proseguire, questa volta non più a distanza, la conversazione sul nostro futuro.

Le escort ai tempi del Covid-19: “Anche il sesso diventa virtuale”

Un crocifisso. Lui, dall’altra parte dello schermo, urla come un maiale. Lei grida ripetutamente il suo nome: deve credere che la stia soddisfacendo. Potrebbe essere la scena di un film porno ma non siamo su un set cinematografico. Questa è realtà, o meglio, realtà virtuale, quella immune al Covid 19. Già, perché, in mancanza di contatto fisico, anche il mondo delle escort sta ripiegando sull’online. Lina ha 19 anni, chattiamo su Instagram, il suo nick è vogliosadisesso19 (550 follower). Poi c’è Alice: “Si eccitano con i piedi sporchi, io devo camminare scalza per qualche giorno e poi mando le foto”. Sono due sex instagrammer, le nuove protagoniste del mercato del sesso virtuale, esploso più che mai in questo periodo di quarantena. E, se le cam girl guadagnano a percentuale dalla piattaforma sulla quale sono iscritte in base ai minuti delle video chat, le sex instagrammer lavorano in proprio, vendono direttamente ai clienti e, talvolta, devono trattare sul compenso. Sono delle vere e proprie imprenditrici di loro stesse, o meglio, del loro cyber corpo.

“Mi definisco una escort 2.0 – dice Lina – Credo che nell’era digitale tutti ormai possano avere ciò che vogliono, internet è alla portata di tutti, anche di una escort e questo virus ci dà la possibilità di intraprendere nuove strade”. Lei, in realtà, fa questo lavoro da quasi un anno ma, nell’ultimo mese, i suoi guadagni sono triplicati arrivando quasi a 3000 euro. Le piace? “Non molto, dipende da chi trovo ma lo faccio perché sono soldi facili anche se vorrei smettere appena ne avrò la possibilità. Mi piacerebbe studiare filosofia, insegnare al liceo o fare la ricercatrice. E vorrei avere un ragazzo”. Lina vende foto e video ma evita persone che le sembrano poco raccomandabili o particolarmente morbose: “E ce ne sono tante” dice. “Un tipo, in particolare, da quando è cominciata la quarantena, ogni mattina mi manda il buongiorno con il suo pene, chiedendomi di vederci: mi fa un po’ paura”.

Ogni sex instagrammer ha un suo tariffario ma c’è una sorta di cartello, i prezzi sono molto simili: 4 euro per una sola foto, 10 per tre fino ad arrivare a 20 euro per dieci foto. Un video costa circa 25 euro “ma cambia molto in base alle richieste” dice Monia (nome di fantasia). Lei è sposata e ha due figli. Ha sempre messo post un po’ sexy (“sono un’esibizionista” confessa) ed ha cominciato a ricevere messaggi di uomini che le chiedono foto in privato. “Lavoravo part time in un centro di estetica e parrucchieri, adesso sono a casa senza soldi e ho deciso di cominciare a vendere. Mi chiudo in bagno e faccio le foto”. Monia chiede il pagamento anticipato; per questione di anonimato ha deciso di usare solo paysafecard, una carta prepagata che non richiede dati personali, conto corrente o carta di credito. Funziona così: si fa una ricarica dal tabaccaio e si riceve un codice pin composto da 16 cifre. Il cliente le manda la foto del pin e, con quel codice, lei può fare acquisti on line.

Il prezzo e la sorpresa della lunga passeggiata per le strade di Milano

Hai obbedito rigorosamente ai precetti che ti sono stati pubblicamente trasmessi per quasi due mesi? Hai dato retta ai parenti che li rafforzavano? Per 35 giorni non hai letteralmente messo piede fuori casa, se non sul balcone, accettando che qualcuno, per proteggerti, ti ordinasse la spesa a casa? Hai voluto per prudenza la mascherina a tenuta stagna e muso appuntito, che crea personaggi da fumetti ma tiene tutti al sicuro? Ecco allora che cosa può succederti se per una ragione importante, istituzionale diciamo, decidi di uscire di casa e andare in un posto a tre chilometri da casa tua. La prima decisione riguarda il come. Tutti ti dicono i mezzi pubblici no. Sono semivuoti ma in realtà non sai chi ci entra, chi ha toccato prima le cose che toccherai tu. Taxi allora? Ma anche quelli, che ne sai del tassista e di chi è salito prima di te? Vai a piedi, ti conviene, con questo sole. E in effetti dopo tanta immobilità deve essere bello camminare al sole. Poi qualcuno d’improvviso ti inchioda in casa al telefono (come faccio, se esco, a parlare con la mascherina?), facendoti perdere minuti preziosi.

Esci veloce e ti rendi conto che non sei più abituato a fare più di dieci, quindici metri a piedi. Finalmente, ti dici. Ma è come quando esci dopo una malattia. Per gradi, dovresti andare. Invece così c’è un effetto spaesamento che arriva un po’ alla volta. La mascherina lo accentua. Provi pudore immaginando la faccia che hai, ma soprattutto la sorpresa (te lo dovevi aspettare, accidenti) che con quel modello addosso ti manca l’ossigeno. Togliersela un po’? No, è vietato, ce l’hanno tutti, anche se magari più leggera. E che saranno mai 3 chilometri con la mascherina? Niente, avanti così, rifiaterò a destinazione. Mettici l’effetto antistaminico (ma sei raffreddato? no, è l’allergia, devo rispondere 10 volte al giorno al telefono). E mettici il digiuno, la lezione a distanza è iniziata molto presto.

Solo che a un certo punto il passo si fa un po’ pesante. Così decidi di accelerare. Con il risultato che si fa ancora più pesante. Avresti bisogno di un bicchiere d’acqua ma i bar sono tutti chiusi. Per osservare le norme antivirus la testa ti gira, ma per le stesse norme antivirus non puoi prendere la cosa da nulla, un bicchiere d’acqua, che ti rimetterebbe in sesto. Finché barcolli, intuisci che stai finendo a terra. Scegli il danno minore: cadere sul marciapiedi. Uno dei piccoli piloni di acciaio che lo proteggono permette di fermare la camminata che non riesci ad arrestare e di lasciarti scivolare verso terra a mente lucida.

Ora sei lì in una posizione surreale. Angolo piazza Tricolore, circonvallazione interna. Giacca e cravatta, mascherina, seduto a terra con le gambe lunghe, che non sai se avrai la forza di rialzarti. Chiedi a qualcuno di venirti a prendere. Ci metterà 25 minuti. Ma in quei 25 minuti mi si apre il cuore. Tutti si fermano a chiedermi se mi sento male e se possono aiutarmi. Giovani e meno giovani. Con fare premuroso. Nessuno mi riconosce, anche se sono vicino alla mia facoltà (serrata da un mese e mezzo). Un ragazzo quando gli dico che mi stanno venendo a prendere, mi rassicura che resterà lì finché non arriveranno. E lì starà effettivamente un quarto d’ora, poi si scuserà di dovere andar via. Una ragazza si ferma. Mi chiede se ho bisogno di mangiare qualcosa, basta poco, dice, il fornaio è lì vicino. I tassisti in piazza si preoccupano, ogni 2 minuti viene a turno uno di loro verso me a chiedere come sto. Due giovanotti supertatuati si fermano, anche loro chiedono se ho bisogno, se possono aiutarmi. Mi meraviglio commosso per quella solidarietà permanente.

Ma guarda Milano, penso. Realizzo soprattutto una cosa: in pieno Coronavirus, potrei essere infettato e tanti potrebbero scansarmi per paura del “positivo” colto da debolezza improvvisa. E invece tutti si avvicinano, anche un’anziana signora, e questo davvero mi rincuora. Finché costeggiando il marciapiede mi scorge un vigile urbano in servizio. È giovane con una barba leggera. Si ferma. Vuol sapere come sto. Spiego che mi stanno venendo a prendere. Dal posteggio dei taxi vengono a dargli spiegazioni. Decide anche lui di aspettare. Mi chiede se voglio andare al pronto soccorso. Per carità, rispondo. Una sana paura di finire, ubbidendo alle norme antivirus, nelle braccia del virus. Attende l’auto che mi viene a prendere, mi ci accompagna con garbo. E io me ne vado verso il mio bicchiere d’acqua. Contento di vivere in una città così.

Tornerà il prelievo sui conti correnti? Difficile sfuggire a una patrimoniale

Serpeggia fra i risparmiatori il timore di un’imposta patrimoniale. Timore non assurdo. Coi provvedimenti adottati, di contenimento all’epidemia e in aiuto di persone e imprese, il debito pubblico facilmente supererà il 150% del prodotto interno lordo.

È altresì vero che in Italia una tale misura, in sé logica, politicamente è tabù. In Germania invece se ne parla senza ritrosie, malgrado la situazione molto migliore dei conti pubblici.

Fatto sta che molti temono, per cominciare, una riedizione del prelievo dello 0,6% su conti e libretti deciso da Giuliano Amato nel 1992. Fomentano tale timore i venditori di trappole previdenziali e immondizia finanziaria, tornati alla carica per mettere le mani sui risparmi tenuti fermi (e disponibili!) su conti e libretti. D’altronde erano già mesi e mesi che il Corriere della Sera, il Sole 24 Ore, La Stampa ecc. gli davano man forte, spiegando che era da stupidi tenere i soldi sul conto.

Chi invece ha dato retta al Fatto Quotidiano o semplicemente al suo senso critico, può solo rallegrarsi. Adesso non si ritrova con risparmi bloccati in polizze vita o depositi vincolati, né mutilati per le commissioni addebitate e le perdite subite. Tenere soldi sul conto bancario o postale resta un comportamento saggio, ma non pochi temono appunto prelievi forzosi e cercano modi per sfuggirvi. Vediamo quelli più gettonati.

Assegni circolari. Alcuni vedono come una soluzione spostare i soldi dal conto ad assegni circolari, ovviamente non trasferibili, da conservare in un posto più o meno sicuro. La cosa è alquanto insulsa. A parte che si tratta pur sempre di moneta bancaria, un’imposta alla Amato potrebbe benissimo applicarsi anche agli assegni già emessi e non ancora incassati.

Oro. A parte il saliscendi delle quotazioni, il costo d’investimento, ovvero quanto uno ci rimette comprando e poi rivendendo oro, arriva al 10% per monete o piccoli lingotti, che è tantissimo. Ma soprattutto c’è un’alternativa che permette di evitare tale costo e la vediamo subito.

Contanti. È del tutto lecito prelevarli e metterli in cassetta di sicurezza o altro posto sicuro. Tesaurizzare banconote di certo proteggerebbe da un crac dello Stato italiano. Invece non è detto che tale soluzione permetta di evitare una patrimoniale. Potrebbe essere troppo tardi, perché l’Italia potrebbe imitare la Germania. Lì la pesante patrimoniale decisa nel 1952 prese a riferimento quanto posseduto a una data anteriore, cioè al 21 giugno 1948. Vanificò così tutti i prelievi, le intestazioni fittizie ecc. che alcuni avevano disposto.

 

La sospensione dell’Rc auto tra risparmio e tante insidie

Per i più, da oltre un mese l’automobile è parcheggiata su strada, forse in garage. Un oggetto del desiderio che non può essere usato in tempi di lockdown, ma la cui polizza assicurativa è stata già pagata obbligatoriamente a caro prezzo, circa 404 euro. Ma come la media di Trilussa, si va dai 226 di Aosta ai 600 euro di Napoli. Eppure il traffico privato si è ridotto dell’80%, così come sono crollati del 60% i sinistri, la maggior voce di spesa del ramo assicurativo. “Se il blocco continuerà – spiega Fabrizio Premuti, presidente di Konsumer – a fronte di incassi lordi mensili di 1,3 miliardi di euro, sono centinaia di milioni i risparmi sulla spesa delle imprese verso i danneggiati”. Basta pensare che negli ultimi 7 anni le società di assicurazione hanno conseguito 9 miliardi di utili solo nell’Rc auto con 50 miliardi di profitti complessivi. Ottimi risultati economici raggiunti grazie a un’assicurazione che dovrebbe, invece, portare a un pareggio tra le entrate (quando pagano gli assicurati) e le uscite (il costo dei sinistri, tra l’altro in leggero calo dello 0,3% nel 2018 sull’anno prima). Insomma, sempre la solita storia che stavolta si ritorce contro le assicurazioni che da anni ripetono che le polizze collegate a 39,5 milioni di automobili costano tanto per colpa dei sinistri fraudolenti. Ma ora che i truffaldini non hanno più scuse, i premi scenderanno sostanzialmente, no? Insomma.

Per risolvere il paradosso è stato approvato un emendamento in Senato che prevede la possibilità di sospendere l’Rc auto fino al 31 luglio, allungando così la durata per un periodo pari ai giorni di interruzione. Una novità che se venisse confermata anche dalla Camera (ma è quasi scontato, visto che mercoledì verrà posta la fiducia) avrà una chiara conseguenza: secondo le simulazioni di Facile.it potrebbe tradursi per un automobilista medio in un potenziale risparmio variabile tra i 40 euro (stop di un mese) e i 150 euro (fino a luglio). Dalle simulazioni emerge che l’operazione potrebbe essere sì vantaggiosa, ma solo per sospensioni di lunga durata, altrimenti il vantaggio potrebbe essere vanificato da eventuali costi di sospensione o riattivazione e con molti rischi da valutare attentamente. Non tutti, infatti, potranno approfittare della norma né avere un beneficio. L’emendamento specifica, infatti, che potranno fare richiesta di sospensione solo coloro che hanno la possibilità di parcheggiare l’auto in un’area privata, come il box, il garage o il posto condominiale. Le vetture parcheggiate su strada, sottolinea Facile.it, non potranno godere della sospensione dell’assicurazione. Ed è importante non sottovalutare le possibili conseguenze: i trasgressori rischiano una sanzione pecuniaria, che può arrivare fino a 3.396 euro, e il sequestro del mezzo. Ma è bene tenere in considerazione che, qualora il veicolo parcheggiato causasse un danno a terzi (basterebbe un freno a mano malfunzionante), la compagnia potrebbe rivalersi sul proprietario del mezzo non assicurato. Inoltre, se la sospensione dovesse riguardare anche le garanzie accessorie, come la copertura furto-incendio, gli atti vandalici o la kasco, in caso di sinistro il proprietario non avrà diritto al rimborso.

Altro punto dolente, sollevato da Facile.it: la valutazione dei costi di sospensione o riattivazione. Molte compagnie già oggi offrono ai clienti questa possibilità, ma in alcuni casi l’operazione può avere un costo che potrebbe arrivare fino a 25 euro. Il consiglio è chiaro: prima di fare richiesta di sospensione, vanno verificate le condizioni applicate dalla propria compagnia, soprattutto perché non è automatico che nel pacchetto rientrino le garanzie accessorie. E, forse, non è neanche male visto che se l’auto venisse rubata, la copertura furto-incendio non coprirebbe il danno.

Poi ci sono ancora da chiarire alcuni aspetti tecnici. Non si fa riferimento, ad esempio, a quante volte si potrà sospendere la polizza né se ci sarà un periodo minimo di giorni. Così come non vengono definite modalità e procedure con cui fare richiesta alla compagnia.

Insomma, si tratta di una soluzione parziale che usa uno strumento già esistente e che non rimette i soldi in tasca ai consumatori, calcolando che già dal 10 aprile Unipol ha dato ai suoi 10 milioni di clienti Rc auto un voucher di importo equivalente a un mese di copertura che verrà riconosciuto come sconto al prossimo rinnovo della polizza. Una mossa che di fatto ha spinto l’Ania, l’Associazione delle imprese assicurative, a spiegare che le società “metteranno in campo delle iniziative specifiche, studiate in piena autonomia, per restituire alla collettività il beneficio derivante dal calo della frequenza dei sinistri in questo periodo”. Che non equivale affatto a dire che le compagnie assicurative ripaghino i propri assicurati.

“Salvate i veicoli ecologici”: servono 200 milioni

La transizione verso la mobilità elettrica è un cammino sempre più irto di ostacoli. E la pandemia di Covid 19 ha complicato tutto. Con l’emergenza sanitaria, come si legge nel pezzo d’apertura, gli analisti prevedono un futuro non certo roseo per i veicoli a emissioni zero.

Un macigno, per una mobilità che già fatica di per sè ad attecchire tra i consumatori, complici i costi elevati e le difficoltà logistiche. Per sostenerla, ed evitare che il processo di diffusione nel nostro Paese avviato con fatica venga compromesso, è necesssario l’aiuto delle istituzioni. E quanto sostiene Motus-E, l’associazione pro-mobilità a elettroni che raccoglie costruttori (Fca, gruppo Volkswagen, Nissan, Renault, Tesla, Volvo) ma anche aziende di noleggio a lungo termine (ALD Automotive, Arval), assicurazioni (Allianz) e utilities dell’energia (Enel X, Edison), proponendo un pacchetto di misure che prevedono, oltre a sgravi fiscali, il potenziamento dell’attuale ecobonus su veicoli 100% elettrici e a basse emissioni. Un provvedimento che necessiterebbe, stando ai calcoli dei tecnici di Motus-E, di ulteriori 200 milioni di euro per il 2020, utili ad incentivare l’acquisto di mezzi puliti (per la decarbonizzazione nelle grandi città, ad esempio) anche da parte delle piccole e medie imprese che vogliono ripartire dopo il lockdown. C’è poi il capitolo infrastrutture di ricarica: ne servono di efficienti e con una rete capillare nel Paese, che preveda l’installazione di colonnine sia presso edifici privati che presso aziende ed uffici. Una storia vecchia, che ogni tanto fa bene ricordare.

Senza Stato le 4 ruote sono vicine al naufragio

Il crollo europeo dell’auto? Ce lo aspettavamo. Le vendite dimezzate a marzo sono una diretta conseguenza dell’emergenza Covid 19, che ha messo i lucchetti ai concessionari di (quasi) tutto il vecchio continente. I quali a dire il vero non se la passavano tanto bene neanche prima: domanda traballante a causa di un canale privati debole, in un clima di generale incertezza. Sapevamo anche che l’Italia sarebbe stato il mercato più colpito, perché nel nostro paese il virus è arrivato prima e ha fatto più danni. Ne usciremo per primi? Non è detto. In Germania ad esempio, dove hanno limitato l’emorragia di immatricolazioni, parecchi dealer riapriranno i battenti proprio questa settimana. Mentre da noi, con ancora poche certezze, sono a rischio 150 mila posti di lavoro. Ma c’è anche un’altra questione, quella della propensione all’acquisto. Difficile infatti che i consumatori, quando si ripartirà, abbiano la stessa disponibilità economica (peraltro non altissima) di prima. Ed è tutto da dimostrare che le risorse residue vengano destinate all’acquisto di un’auto nuova. Magari il mercato di sostituzione in parte riprenderà, ma c’è da considerare che i mesi estivi non sono per tradizione troppo favorevoli alle vendite, così come la fine dell’anno. Serve un intervento dello Stato, che da un lato sostenga il comparto e dall’altro ne assicuri la ripresa: incentivi, non solo per l’elettrificazione ma pure per i motori Euro 6 di nuova generazione, e sgravi fiscali. Solo così si riparte.

Auto elettrica a rischio. Effetto Covid-19, in attesa del 2021

Il mercato globale delle auto elettriche calerà vertiginosamente nei prossimi mesi, scendendo dalle 2,2 milioni di unità del 2019 a 1,3 milioni di quest’anno e flettendo del 43%: lo dice l’agenzia di analisi Wood Mackenzie. Colpa della pandemia da Coronavirus. La stessa che, analisi alla mano, provocherà il tonfo delle vetture a batterie, minacciate anche dalla riduzione del prezzo del petrolio – che renderebbe le motorizzazioni tradizionali ancora più abbordabili e più antieconomico il passaggio all’elettrico, specie per percorrenze annue non elevate – e dall’attendismo della potenziale clientela, dovuto all’incertezza economica.

Wood Mackenzie rileva che la Cina – il più grande mercato del mondo per le auto a zero emissioni – raggiungerà i livelli di domanda fatti registrare nel 2019 solo a novembre 2020 (mentre l’Europa lo farà a dicembre): a fine gennaio, infatti, le vendite di automobili su quel mercato sono diminuite del 21% e dell’80% a febbraio.

Ma le elettriche hanno fatto ancora peggio, scendendo del 54% nel primo mese dell’anno e di oltre il 90% nel secondo. La maggior parte degli acquirenti cinesi di veicoli elettrici approcciano a questa tecnologia per la prima volta e molti rimanderanno il “grande salto” per via dell’incertezza dettata dall’epidemia. Tuttavia, quando l’effetto Covid sarà più contenuto, i consumatori potrebbero tornare a investire in un veicolo a batteria. Negli Stati Uniti, su base annua, è prevista una picchiata del 30%: lì il primo lock-down è iniziato a fine marzo, ma gli effetti si sono già riverberati sulle vendite di automobili, specie quelle elettriche.

Basti pensare che la Gm offre uno sconto di 10 mila dollari sulla sua Chevrolet Bolt e, quasi sicuramente, ci saranno altre promozioni di questo tipo per sostenere una domanda che calerà ulteriormente.

E in Europa? Nel Vecchio continente, a fronte di una riduzione del mercato auto pari al 7%, le vetture elettriche sono cresciute del 121% a gennaio e sono andate forte anche a febbraio. Tali numeri, però, non tengono conto dello tsunami da Coronavirus, che ha pesato molto sul computo di marzo e farà altrettanto su quello di aprile.

Ma su tutto questo, a prescindere dalla geografia e dalla scontistica, continua a incidere pure la grande differenza di prezzo tra auto dotate di motore endotermico e quelle con propulsore a batteria: una differenza che si farà sentire ancor di più in uno scenario mondiale di recessione. Senza contare che, secondo Wood Mackenzie, sul mercato non sono ancora arrivati i modelli più attesi, come la Ford Mustang Mach-E, che non sarà disponibile prima del 2021, la Volkswagen ID.3, in consegna nei prossimi mesi, e la prossima generazione dei modelli elettrici della Gm, che esordirà solo verso la fine del 2021.