L’Africa in crisi e la pandemia del debito con i paesi forti

Nel “discorso ai francesi” del 13 aprile, Emmanuel Macron ha pronunciato questa frase: “Dobbiamo aiutare i nostri vicini d’Africa sul piano economico cancellando in modo massiccio i loro debiti”. Poi, in un’intervista alla radio Rfi, ha fatto marcia indietro e parlato solo di moratoria: “Il G20 deve agire in favore di una moratoria dei debiti dell’Africa – ha detto Macron -. Moratoria che, per la prima volta, implichi anche i membri del club di Parigi, la Cina, la Russia, le economie del Golfo e i principali donatori multilaterali”. Il presidente francese non è stato il primo a sollevare la questione del debito dei paesi in via di sviluppo. Nelle ultime settimane ha anzi rappresentato una delle principali preoccupazioni per gli Stati interessati, gli economisti e le Ong, per il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale. Più di 200 organizzazioni nel mondo hanno chiesto di “cancellare tutti i pagamenti del debito estero nel 2020” per aiutare i paesi in via di sviluppo nella crisi del Covid-19.

In Africa il virus è stato identificato finora in 52 paesi su 55. Al 14 aprile sono stati segnalati più di 15 mila casi (erano 600 al 19 marzo) e 800 morti. Da dati ufficiali i paesi più colpiti sono Sudafrica, Egitto, Algeria, Marocco e Camerun. Ma l’urgenza è la stessa per tutti: trovare un modo per farsi carico dei malati e per affrontare il disastro economico legato alla pandemia. La sfida è immensa. Molti di questi paesi sono già economicamente in crisi, poiché risentono degli effetti del calo dei prezzi e del volume delle esportazioni di materie prime. Il prezzo del cacao è sceso del 12%, quello del cotone del 22%, quello del rame del 21%. Il crollo dei prezzi del petrolio, più del 50%, è un grave colpo per i paesi produttori. Le risorse legate al turismo precipitano. Il continente subisce anche i danni dei flussi in uscita di capitali. I numeri sono senza precedenti: gli investitori hanno già ritirato 83 miliardi di dollari dai paesi emergenti per riportarli nei paesi ricchi. “Questa pandemia avrà ripercussioni economiche notevoli in Africa subsahariana”, prevede il Fmi. Stando ai calcoli della società di consulenza strategica americana McKinsey, la crescita del Pil del continente potrebbe perdere da 3 a 8 punti percentuali. Secondo la Commissione dell’Unione Africana, circa 20 milioni di posti di lavoro sono a rischio. Per mitigare lo shock, la Nigeria e l’Etiopia hanno iniettato denaro nelle loro economie. Altri paesi, come il Burkina Faso e la Costa d’Avorio, hanno rinviato gli oneri fiscali delle imprese. La Tunisia ha sospeso il pagamento dei crediti bancari per le famiglie più modeste e creato un fondo di sostegno alle aziende. Ma il margine di manovra per alcuni paesi è minimo. Il Benin ha già comunicato di non avere le risorse per gestire un lockdown né il dopo crisi. “Non avendo la sovranità monetaria, molti stati africani non possono scavare nel loro deficit come fanno i paesi ricchi – osserva l’economista senegalese Ndongo Samba Sylla – Devono quindi rivedere il proprio bilancio e sperare nei prestiti dalla comunità internazionale”. Di qui i numerosi appelli a sospendere i pagamenti ai creditori. È l’opzione “più immediata per permettere ai paesi africani di conservare liquidità”, ha detto Tim Jones della British Jubilee Debt Campaign. Il debito incide pesantemente sui bilanci nazionali: negli ultimi anni diversi paesi hanno contratto debiti importanti, e a volte in modo incauto, in particolare emettendo degli “eurobond”. Il debito in Africa subsahariana è passato da 236 miliardi di dollari nel 2008 a 583 miliardi nel 2018, secondo la Banca mondiale. Il debito pubblico medio è cresciuto dal 40% al 59% del Pil. Per alcuni Stati i pagamenti a servizio del debito rappresentano più del 25% dei rispettivi introiti (42% per l’Angola, 39,1% per il Ghana). La grande maggioranza dei paesi spende più per il debito che per la sanità. Il Camerun, per esempio, spende il 23,8% delle sue entrate a servizio del debito e 6,9% per la sanità, secondo la Jubilee Debt Campaign. Quest’anno il continente dovrebbe pagare 44 miliardi di dollari di interessi ai suoi creditori esteri. “I partner per lo sviluppo dovranno prendere in considerazione un alleggerimento del debito e una sospensione dei pagamenti degli interessi su un periodo da due a tre anni”, hanno affermato i ministri delle finanze africani, per i quali serve un piano di rilancio da 100 miliardi di euro, di cui 44 miliardi per la riduzione del debito. Il loro appello è sostenuto dalla Conferenza delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo (Unctad) che chiede “il gelo immediato dei pagamenti del debito sovrano” dei paesi in via di sviluppo. “La cancellazione del debito senza condizioni sarebbe la soluzione ideale. Ma i creditori si opporranno”, afferma Ndongo Samba Sylla. Il debito dell’Africa è attualmente detenuto per circa il 35% da istituzioni multilaterali come il Fmi, per il 20% dalla Cina e per il 32% da privati, tra cui banche, società di commercio di materie prime e società di gestione degli attivi. Nel 2018, il 55% dei pagamenti di interessi esterni era dovuto a creditori privati, il 28% ai bilaterali e il 17% ai multilaterali, secondo la Jubilee Debt Campaign. Negli anni ‘90 e 2000 la situazione era diversa, poiché il debito era principalmente pubblico e dovuto ai paesi occidentali e alle istituzioni finanziarie internazionali. “Date le difficoltà dei paesi più avanzati e del profilo diverso dei creditori degli ultimi dieci anni, è improbabile che i creditori privati rinuncino a recuperare i loro crediti. La priorità degli occidentali – analizza l’economista camerunese Eugène Nyambal, ex dirigente del Fmi – è proteggere le loro istituzioni finanziarie, i loro mercati finanziari, il settore privato”. La cancellazione del debito appare difficile da realizzare per la Banca Mondiale, che ha accesso ai mercati finanziari. Ecco perché la moratoria sul pagamento del debito pubblico estero appare a questo stadio la soluzione più probabile. I paesi del G20 potrebbero annunciare un accordo in questo senso nelle prossime ore (l’accordo “per una sospensione temporanea dei pagamenti a servizio del debito per i paesi più poveri”, è stato del resto siglato il 15 aprile scorso dai ministri delle Finanze del G20, a cui ha aderito anche il Club di Parigi. Il G20 ha invitato a partecipare a questa operazione anche altri creditori privati. Lo stop dei pagamenti inizierà il primo maggio e riguarda 76 paesi, di cui 40 d’Africa subsahariana, ndt.).

Non essendo disposti a cancellare i debiti, il Fmi e la Banca mondiale hanno scelto la stessa soluzione e lanciato un appello il 25 marzo a “tutti i creditori bilaterali ufficiali di sospendere i rimborsi del debito reclamati” ai paesi a basso reddito “che chiedono una proroga”. Il Fmi ha potenziato un fondo fiduciario che dovrebbe consentire agli Stati più poveri di rimborsare parte dei loro debiti. Un fondo che non è costituito a partire dal suo capitale, ma è alimentato dai doni dei paesi ricchi. Il denaro che il Fmi ha raccolto negli ultimi giorni per alimentare quel fondo gli ha permesso di annunciare il 13 aprile, in pompa magna, la concessione a 25 paesi, di cui 19 africani, di uno sgravio del debito per sei mesi per un totale di 215 milioni di dollari. Una misura che di fatto non gli costa nulla e che è stata ritenuta insufficiente dalle Ong e dagli economisti. “Il Fmi ha riserve per 27 miliardi di dollari e 135 miliardi di dollari in oro. Può permettersi di annullare altri debiti ed è il momento di farlo”, ha insistito la Jubilee Debt Compaign.

Per compilare la lista dei 25 paesi beneficiari, il Fmi si è basato esclusivamente sul reddito lordo pro capite e non sulla vulnerabilità del debito, né sull’esposizione a shock esogeni come il calo dei prezzi delle materie prime. D’altro canto le istituzioni finanziarie internazionali spalancano le porte a nuovi prestiti. Il Fmi ha messo a disposizione 50 miliardi di dollari per i paesi a basso reddito e paesi emergenti. Da qualche giorno ha moltiplicato le erogazioni: ha già concesso prestiti a Gabon, Ghana, Madagascar, Ruanda, Senegal, Tunisia, Togo. I beneficiari sono tenuti a attuare delle riforme per “favorire la ripresa”, ha avvertito la Banca mondiale, confermando la sua vocazione liberale. “Il Fmi e la Banca mondiale stanno aumentando il volume del debito”, denuncia Eugène Nyambal. Ciò non deve sorprendere: “Prima della crisi finanziaria del 2008, che ha contribuito a ripristinare la salute finanziaria del Fmi, l’istituzione ha vissuto una crisi senza precedenti quando i paesi emergenti, invece di rivolgersi a lei, hanno contratto prestiti sui mercati finanziari. Ne era seguita una perdita di profitti importante per il Fmi, che fu costretto a licenziare un centinaio di persone. Da allora, il Fondo monetario intarnazionale ha modificato i suoi strumenti per massimizzare il suo volume di prestiti, anche tra i paesi più poveri. È pronto a qualsiasi mossa pur di garantirsi un volume di crediti sufficienti ad assicurarsi, con gli interessi, benefici tali da coprire le sue spese di funzionamento per i prossimi vent’anni”. L’economista confronta l’ammontare della cancellazione del debito annunciata il 13 aprile dal Fmi per 25 paesi, cioè 215 milioni di dollari (8,6 milioni in media a paese), con quello del “credito d’emergenza” concesso lo stesso giorno al Senegal, 442 milioni di dollari che vanno ad incrementare il debito già elevato del paese. Nyambal teme che la priorità attuale, quella di ridurre il debito dei paesi poveri, venga occultata da questo tipo di annunci clamorosi.

Per molti paesi africani e non solo si prepara dunque un futuro di debiti e di piani strutturali lacrime e sangue. Eppure un’alternativa per evitare loro di scavare ancora di più il debito e di ritrovarsi ancora più prigionieri del Fmi esiste: riorganizzare la spesa pubblica e il portafoglio dei debiti già esistenti con i principali finanziatori, per poter riorientare i crediti sulla priorità attuale, la lotta contro il Covid-19.

(traduzione Luana De Micco)

Robot contro il contagio: pronti, ma gli ospedali?

I robot sono pronti a dare una mano nei reparti Covid, ma i medici e gli ospedali sapranno accoglierli? I dubbi sorgono ascoltando Filippo Cavallo, professore di Biorobotica all’Università di Firenze: “Le macchine ci sono, ma certe strutture sanitarie non li vogliono – dice l’esperto -. Medici e infermieri dovrebbero seguire corsi di formazione e gli ospedali andrebbero riorganizzati. Nel pieno dell’emergenza, difficile trovare il tempo”. Comprensibile, eppure il vantaggio è chiaro: i robot riducono il rischio del contagio per il personale sanitario. Perciò sono già in uso nei reparti Covid dell’ospedale di Circolo a Varese, Infermi di Rimini e al Policlinico di Bari. Quanti operatori sanitari avrebbero evitato l’infezione, con l’aiuto delle macchine in corsia? Impossibile dirlo. Di sicuro, i dispositivi danno una mano in molti modi. Il professor Paolo Dario, direttore dell’istituto di biorobotica del Sant’Anna di Pisa, li elenca con dovizia: “I robot bonificano gli ambienti, fanno i test diagnostici sierologici e col tampone, consentono ai medici di visitare e operare a distanza i pazienti contagiati, portano farmaci e cibo in corsia, mettono in contatto audio-video i malati isolati con le loro famiglie”. Il professore pisano ha un dubbio: “Se avessimo investito sulla robotica sanitaria per assistere gli anziani nelle Rsa, probabilmente ci sarebbero state meno carenze”. E forse meno morti.

Non è fantascienza: all’Istituto Sant’Anna, col progetto Robot-Era, 150 persone in età “matura” hanno sperimentato la vita coi robot-badanti, dal 2011 e il 2015. Il professor Franco Stella conosce bene i vantaggi delle macchine. All’ospedale Morgagni-Pierantoni di Forlì ha operato tre pazienti oncologici positivi al Coronavirus, con l’ausilio delle macchine: “I chirurghi del torace sono tra i più esposti al morbo perché interagiscono col polmone dove la carica infettiva è alta. Molti di loro infatti sono stati contagiati, quanti ancora non si sa”.

All’ospedale di Forlì, i robot aiutavano il personale anche prima della pandemia. Il nosocomio infatti è tra le strutture sanitarie migliori al mondo, secondo la rivista statunitense Newsweek. Al Morgagni, ad esempio, tutti i pazienti hanno un braccialetto digitale e la macchina “legge” la loro storia clinica attraverso un codice a barre. I robot già consegnavano cibo e farmaci ai pazienti. Ora, nei reparti Covid, i “fattorini-elettronici” sono ancora più utili. Nell’ospedale romagnolo, le macchine sterilizzano pure i camici indossati sotto gli “scafandri” anti-contagio. Franco Stella insegna all’università di Bologna e dirige la chirurgia toracica dell’Ausl Romagna. Non nega i benefici della robotica in corsia, ma nutre gli stessi dubbi del professor Fillippo Cavallo: “Anche all’ospedale Pompidou di Parigi usano i dispositivi per assistere i pazienti Covid a distanza, ma temo sia un progetto buono per il futuro – avvisa il professore – Ora, con la pandemia in corso, difficile formare il personale e riorganizzare il lavoro”. Peccato, perché al Sant’Anna di Pisa la tecnologia è pronta, o quasi. “Ora ci sono 4 robot pronti all’uso (con le dovute modifiche), ma per assemblarne uno nuovo serve circa un mese”.

L’Istituto sanitario Monasterio di Pisa farà una bonifica grazie ai robot del Sant’Anna. Uno arriverà direttamente da Wuhan, entro un paio di settimane. Gli altri sono dei “robot-badanti” modificati con poco sforzo: “Basta aggiungere una lampada a luce ultravioletta e un sistema di spray disinfettante – dice Filippo Cavallo –, la tecnologia è pronta”. Problema: mancano i committenti e i soldi per fare i test. Prima che il robot arrivi in corsia una squadra di tecnici (almeno 4-5 addetti) deve controllare ogni dettaglio. Poi gli esperti di robotica devono entrare nei reparti Covid per insegnare a medici e infermieri, sul campo, ad usare la tecnologia. Il rischio del contagio aumenta il costo di test e corsi di formazione. Sempre che gli ospedali trovino il tempo, in piena pandemia. Paolo Dario guarda avanti con un auspicio: “Ho vissuto la Sars nel 2003, il Covid 19 serva da lezione per la prossima pandemia: bisogna investire prima e dare ai robot la stessa priorità di farmaci e vaccini. Come la formica che fa scorta per l’inverno”.

E l’armata restò sola sulla trincea Covid-19

“Inizialmente alcuni di noi sono stati catapultati all’interno di ospedali stracolmi di pazienti Covid-19, come molti dei nostri colleghi civili, senza neanche i dispositivi di protezione personale”. È il grido di allarme di uno dei medici militari coinvolti (che come i colleghi preferisce restare anonimo) nell’arruolamento straordinario dovuto al coronavirus. Un grido che si perde insieme a quelli dei suoi compagni di comando in forze nell’Esercito Italiano. Militari scesi in campo per blindare le zone rosse del contagio, giorno e notte al fianco di polizia e carabinieri. Ma anche medici e infermieri della forza armata, che con poco preavviso e soprattutto poca preparazione, si sono ritrovati in prima linea. “Tutto ciò senza contare che, ‘in tempi di pace’, le nostre mansioni sono spesso legate alla medicina legale e a semplici esami di routine sul personale delle caserme. Quindi siamo del tutto impreparati di fronte a un’emergenza simile” continua il medico.

La battaglia contro un nemico sconosciuto e invisibile è ancor più difficile da affrontare per chi non ha nessun tipo di protezione. “Ci svegliamo ogni mattina nelle camerate di caserme vetuste, assembrati con gli altri del reparto, condividendo gli stessi servizi igienici. E se è il tuo turno di guardia devi anche fare l’alzabandiera la mattina”, racconta un militare di servizio sul territorio dietro anonimato. “Preghiamo di non essere stati contagiati, indossiamo la mimetica e scendiamo sul campo di battaglia. Alcuni di noi si sono dovuti comprare personalmente i dispositivi di protezione e a volte siamo costretti a toglierli in quanto non ‘omogenei con il vestiario con cui ci si presenta in pubblico’. Per di più al momento non ci è dato sapere neanche quanti colleghi sono stati colpiti dal Covid-19” racconta il militare.

Nelle caserme non vengono fatti i tamponi. Gli unici a farli sono gli infermieri quando lasciano la struttura dove sono stati impiegati. L’approntamento di militare si aggira intorno alle 40 mila unità per garantire il turnover. C’è poi il rischio di trasmissione del virus dagli altri colleghi delle forze armate. A causa della maggiore esposizione, tra carabinieri e polizia i contagiati sono rispettivamente almeno 540 e circa 340. “Gli agenti delle forze dell’ordine possono tornare a casa a fine turno e quindi vengono a contatto anche con le loro famiglie. Un giorno quindi li trovi in servizio con te e il giorno dopo sono ricoverati perché la moglie è risultata positiva al Covid-19. Ritornare nella camerate con questi pericoli è un rischio grande” spiega il soldato.

Ragazzi, donne, padri e madri al servizio della patria. Vittime di un sistema, quello dell’Esercito Italiano, incrinato da tempo. “Dal 2009 ad oggi ci sono stati tagli importati alla sanità militare. Tali che, alla scoppiare di questa crisi sanitaria, sono emerse tutte le carenze organizzative e professionali del nostro settore”, spiega Antonio Gentile, responsabile dell’Unità Professioni Sanitarie Forze Armate e di Polizia di Assodipro. “In senso pratico, per esempio, come Esercito abbiamo predisposto da inizio crisi solo tre ospedali da campo: a Piacenza con terapia intensiva non utilizzata, a Crema con l’impiego di medici cubani. Poi quello di Jesi coperto per l’aspetto sanitario dalla Marina che non ha personale che lavora negli ospedali e il nuovo hub al Celio, ancora in corso d’opera. In Spagna sono stati montati 16 ospedali da campo nel giro di poche settime”.

I medici militari chiamati per l’emergenza sono circa 130, mentre gli infermieri arrivano alle 200 unità. Numeri tutto sommato considerevoli se confrontati all’impoverimento che hanno subito le risorse a disposizione della sanità militare. Basti pensare che dal 2010 ad oggi, su 9 ospedali militari distribuiti in tutto il Paese resta completamente attivo solo il Policlinico del Celio a Roma. “Alcune nostre colleghe sono risultate positive al tampone, e nel giro di poche ore hanno scoperto cosa questo può significare quando si fa parte dell’Esercito”, aggiunge un’infermiera militare impiegata in Lombardia. “Ci hanno invitato a fare un’assicurazione a spese nostre contro la contaminazione da coronavirus. Questa tutela però dovrebbe farla il Ministero, come è successo per i colleghi della polizia. In aggiunta, ci sono infermieri militari che ancora non sono in possesso dei requisiti previsti dalla vigente normativa per poter esercitare regolarmente la professione, che potremmo considerare quasi abusivi”, conclude la donna.

Tra gli oltre 4 mila infermieri positivi al Covid-19, inoltre, ve sono una quindicina accertati del reparto militare, privi di protezione assicurativa. Una protezione che manca nonostante, a fine 2018, la direttiva dello Stato Maggiore dell’Esercito in merito ai “provvedimenti urgenti inerenti al personale della Sanità Militare dell’Esercito”, regole da applicare per rendere il comparto sanitario uno strumento più capace. Così come è stato ignorato dai vertici militari il documento di metà 2019 con cui la Corte dei Conti riporta l’inadeguatezza dell’Igesan (l’Ispettorato generale della sanità militare) nel gestire la sanità militare e invita ad “assumere nuove e più efficaci misure sia organizzative che normative”.

I vertici dello Stato Maggiore dell’Esercito, interpellati dal Fatto, assicurano sulla fornitura dei dispositivi di protezione per il personale in azione. Promettendo, invece, di verificare per quanto riguarda lo stato in cui versano attualmente le caserme.

Quanto a disponibilità e reclutamento: l’arruolamento dei medici-militari per un anno sarà diretto, nessun concorso ma con procedura straordinaria d’urgenza. Misura sacrosanta che, vista la cifra attuale di personale sanitario militare in corsia, lascia comunque fuori una parte cospicua delle circa 3 mila unità, tra infermieri e medici, a disposizione. “Sono stati assunti civili e medici stranieri, quando molti di noi, pronti e volenterosi a scendere in campo, sono costretti a un incomprensibile ‘riposo domiciliare a causa di forze maggiore’. In altre parole, gli operatori militari che non sono stati spediti in corsia, sono stati sospesi dal servizio. Non possiamo neppure dare un contributo alla Protezione Civile o agli altri enti in azione”, puntualizza Gentile.

In questi ultimi giorni, inoltre, in commissione Difesa ha fatto capolinea una norma “salva comandanti”. La norma, non approvata, prevedeva che, in caso di utilizzo del personale militare nell’emergenza coronavirus, i comandati vengano scaricati da eventuali responsabilità penali future. “Una proposta che si è bloccata in commissione Difesa e non è detto che non possa essere ripresentata in futuro. Le valutazioni per un eventuale scudo penale vengono fatte su danni reali, come nel caso dell’uranio impoverito dei proiettili e l’insorgenza di tumori tra i soldati italiani nei vari teatri di guerra. A fine emergenza sanitaria, quindi, penso che una norma salva dirigenti verrà riproposta nuovamente” chiosa Giuseppe Pesciaioli, segretario del Silme, il sindacato italiano lavoratori militari Esercito.

Quando B. cacciò Fini: “Così cominciò l’ascesa di Salvini”

“Perché, sennò che fai, mi cacci?”. Tra due giorni saranno passati 10 anni dal giorno in cui nel centrodestra italiano tutto cambiò. La mattina dello scontro feroce, la resa dei conti finale tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Che in quel modo rispose, alzandosi in piedi e col dito puntato, quando l’allora premier, alla direzione nazionale del Pdl il 22 aprile 2010, lo esortò a dimettersi dallo scranno di Montecitorio.

“Gianfranco, se vuoi fare politica, noi ti accogliamo a braccia aperte: dimettiti, vieni a farla nel partito e non da presidente della Camera!”, gli disse a brutto muso Berlusconi, risalito sul palco per controreplicare all’intervento di oltre un’ora dell’ex leader di An. “Sei stato tu stesso, giorni fa, a dirmi di esserti pentito di aver fondato il Pdl e di voler fare un gruppo autonomo..!”, aveva rivelato poco prima il premier, avvelenato per il lungo elenco di “criticità” dispiegate da Fini sul palco: la mancanza di democrazia interna del partito padronale, l’appiattimento sulla Lega, la giustizia ad personam. “Non dobbiamo mai dare nemmeno l’impressione di voler garantire sacche d’impunità. E a volte quest’impressione c’è, Silvio!”, affermò Fini, che portò ad esempio le pressioni berlusconiane per approvare la prescrizione breve, “dove avremmo spazzato via 600 mila processi”. Fu lì che Berlusconi diventò livido: nessuno mai aveva osato tanto, toccandolo sul tasto che gli stava più a cuore, la lotta “alla magistratura politicizzata”. E decise di contrattaccare, subito, seguendo l’istinto di chi era stato punto sul vivo.

Quel giorno di aprile lo scontro era nell’aria. B. tentò di annacquarlo facendo parlare un po’ tutti. “Non ricordavo tanti fondatori del Pdl…”, esordì sorridendo l’ex leader di An quando finalmente salì sul palco dell’Auditorium della Conciliazione, nome che non fu di buon auspicio. “Si veniva da mesi di tensioni continue. I due non si parlavano più e, quando lo facevano, litigavano, specie sui temi di legalità e giustizia”, ricorda Fabio Granata, uno dei fedelissimi finiani, oggi assessore a Siracusa. Dopo lo scontro, lo sconcerto più grande fu dei cronisti “retroscenisti” che da mesi, nei loro articoli, raccontavano quel dissidio latente e quel giorno, dove tutto andò in scena, non avevano di che scrivere. In sala, invece, si ricorda il volto terreo di Verdini, l’imbarazzo del “traditore” La Russa, il viso paonazzo di Paolo Bonaiuti, portavoce di B., seduto in platea al fianco di Fini (chissà perché). Che il Pdl fosse tutto col premier trovò conferma nei decibel: boati liberatori per Berlusconi, timidi applausi e mugugni per Fini. “Eravamo tutti scossi, a cominciare da lui, che non è un freddo. Lo scontro era prevedibile, ma non così violento. Mi colpì, subito dopo, vedere quanto eravamo in pochi. Era un generale senza esercito…”, ricorda Roberto Menia, ora entrato in Fdi (da poco ha pubblicato il libro 10 febbraio, dalle foibe all’esodo). Poi tutto precipitò. Il 29 luglio Fini fu espulso dal partito e il 4 agosto nacquero i gruppi di Futuro e Libertà (copyright Luca Barbareschi), con 34 deputati e 10 senatori. Tra loro, Carmelo Briguglio, Italo Bocchino, Flavia Perina, Benedetto Della Vedova.

Il 5 settembre, alla Festa Tricolore di Mirabello, nacque ufficialmente Fli, come 3ª gamba del centrodestra. Poi, il 7 novembre, a Bastia Umbra il momento più esaltante della stagione finiana, quando molti credettero davvero alla possibilità di un centrodestra deberlusconizzato: davanti a 15 mila persone Fini annunciò l’uscita dal governo. Una cavalcata anche troppo repentina, che si infranse il 14 dicembre, sui 4 voti di vantaggio di Berlusconi nella mozione di sfiducia alla Camera presentata da Fli col centrosinistra. “In un mese ci sfilarono 11 dei nostri…”, rammenta Granata. Poi tutto si sfarinò: la casa di Montecarlo e il governo Monti fecero il resto, e nel 2013 Fli prese lo 0,47%. “Credevamo davvero nella possibilità di una destra europea, moderna, laica, di governo”, racconta Filippo Rossi, intellettuale di riferimento, fondatore del festival Caffeina e oggi autore di Manifesto per una buona destra. “L’errore di Fini fu forse quello di non aspettare, ma quello di Berlusconi fu di ‘uccidere’ Fini”, aggiunge Rossi. Che poi conclude così: “Era una battaglia densa di contenuti, che andava fatta. E il fallimento di quel progetto ha portato al dominio di una destra lepenista e populista, com’è oggi quella di Salvini e Meloni. Sì, oggi si sente la mancanza di una figura alla Gianfranco Fini…”.

Per ripartire non serve il partito unico del cemento

Come coronavirus: o come cemento? Vuoi vedere che – dopo aver toccato con mano cosa potrebbero essere le nostre città, il nostro Paese, il nostro pianeta se solo allentassimo un poco la morsa del dominio (dis)umano – la nostra prima reazione sarà rovesciare su quella povera natura appena risvegliata una colata di cemento? Una delle pessime conseguenze della pessima metafora del “siamo in guerra” è che immaginiamo una ripartenza come quella dei Trenta Gloriosi: i tre decenni che andarono dal 1945 al 1973, splendidi per l’economia e letali per l’ambiente. Possibile non essere capaci di immaginare una ricostruzione che non sia all’insegna del mattone? Perché nessuno, in queste settimane, ha proposto di ritirare su l’economia nazionale con un mega-piano neokeynesiano di messa in sicurezza del suolo italiano? Sanare il dissesto idrogeologico, sradicare il cemento abusivo, manutenere corsi d’acqua, litorali e boschi. E poi l’enorme capitolo della prevenzione antisismica. Tutti capitoli di spesa per i quali non c’erano mai soldi. Come per la ricerca: oggi tutti si chiedono perché non riusciamo ad avere pronto un vaccino, ma pochissimi ricordano che solo pochi mesi fa si è dimesso il ministro della ricerca, Lorenzo Fioramonti, proprio perché i soldi per la ricerca non c’erano.

E invece niente: cemento, cemento, e ancora cemento. In Sardegna, in piena emergenza, la giunta regionale approva (e dieci giorni dopo ritira, travolta dalle critiche) la costruzione di un resort di 8.340 metri cubi sul mare, accanto a un nuraghe. “Dovevamo aspettarcelo – ha commentato Sandro Roggio – Il sentimento della destra sarda (più edilizia = più turisti) era esibito in campagna elettorale. E incoraggiato dallo smarrimento del centrosinistra isolano a guida Pd, in gran parte ostile alle norme di tutela paesaggistica del 2006, e fautore di norme (un po’ meno peggio?) che hanno aperto la strada al sempre peggio”. Questo è il punto: di fronte alla speculazione edilizia non c’è destra e non c’è sinistra, c’è il partito unico del cemento. Anche la Toscana un tempo rossa appare oggi color grigio cemento. Il 23 marzo, già in piena pandemia, la Regione pubblica il progetto per un mega-impianto eolico sul crinale dell’Appennino, tra Vicchio e Dicomano, in Mugello: inizia quindi il conto alla rovescia di 60 giorni in cui cittadini e associazioni ambientaliste, tutti reclusi in quarantena, dovrebbero presentare le osservazioni. Di fronte all’indisponibilità del governo regionale a incontrarli, i comitati dei cittadini hanno scritto: “Possiamo solo sperare che abbiate preso visione dei tanti documenti che dimostrano, dati alla mano, che questo tipo di impianti non risolvono nemmeno in minima parte la difficoltà energetica del paese, e anzi, sottraggono risorse e finanze pubbliche che potrebbero essere investite per migliorare la qualità di vita di un territorio già provato e disagiato come il nostro”. Destino vuole che proprio a Dicomano sia la Rsa su cui la Procura di Firenze ha aperto nelle ultime ore un’inchiesta per i 15 anziani morti per coronavirus: quasi ci volesse ricordare che ben altra è la cura di cui abbiamo bisogno. Non nuovo cemento sui crinali, ma nuova umanità nell’accudimento dei più fragili.

Gli esempi si potrebbero moltiplicare, perché non solo il virus ferma le betoniere, ma rischia appunto di farle girare più veloci. Di fronte al crollo del ponte di Aulla, Matteo Renzi non invoca la manutenzione, o la ricerca delle responsabilità, ma il suo chiodo fisso, lo Sblocca Italia: “Se non ci mettiamo SUBITO a lavorare sui cantieri con il piano Shock – presentato ormai da molti mesi – ogni anno andrà peggio. E se non lo facciamo in questa fase di crisi vuol dire che ci vogliamo del male. Apriamo questi benedetti cantieri, subito”. Le bozze che girano di quel piano sono davvero da schock: ambientale. Vi si legge, per esempio: “In ogni caso tutti i commissari di cui al presente decreto possono anche esercitare, qualora ne ricorrano le condizioni di urgenza e necessità, i seguenti poteri: in caso di motivato dissenso espresso da un’amministrazione preposta alla tutela ambientale paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, la decisione … è rimessa alla decisione del Commissario che si pronuncia entro 15 giorni, previa intesa con la Regione o le Regioni interessate”. È il sogno proibito condiviso dai due Mattei (Renzi e Salvini), e da loro più volte esplicitamente ammesso: ridurre al silenzio le soprintendenze, cioè l’esausta magistratura del nostro territorio. Potrebbe mai passare una legge del genere in questo Parlamento? L’intervista concessa, due settimane fa, a questo giornale dal viceministro alle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri non lascia molti dubbi. All’obiezione: “Voi del M5S siete sempre stati contrari alle grandi opere, e ora volete facilitarle”, lo sventurato rispose: “Di fronte ad un contesto politico e ad un quadro economico totalmente diverso da qualche anno fa, è necessario cambiare l’agenda politica. La priorità adesso è creare lavoro, usando soldi pronti ma fermi”. Come dire che ora non possiamo permetterci il lusso di mantenere gli impegni, di rispettare gli ideali, grazie ai quali si è arrivati al potere.

Dobbiamo continuare a seppellirci vivi nel degrado “che qualcuno, neanche a dirlo, / vorrebbe ulteriormente perpetrare con la solita /accoppiata di cemento e asfalto: / con quel grigio da modernariato, / unico colore che il potere /riesce a immaginare” . Sono versi di Franco Marcoaldi: drammaticamente più lucidi di ogni analisi politica.

Epidemia, l’emergenza mafia e l’informazione inquinata

Le mafie sono pronte a cavalcare il disagio sociale provocato dalla pandemia. È l’allarme che circola in questi giorni, rilanciato da editorialisti e trasmissioni televisive. Il rischio c’è, è reale, ma viene amplificato in modo irresponsabile. Cui prodest? Giova a quei settori del sistema di potere che vogliono mano libera nel “dopo”, come sempre è stato nelle fasi ricostruttive seguite a grandi tragedie nazionali. Ed è tutta acqua che fa girare vorticosamente le pale del mulino della destra, compresi leghisti, sovranisti e adoratori di Orban. Che per il momento hanno affidato il lavoro sporco ad altri. Gruppi che si muovo agilmente sul web e sui social, che amplificano notizie su fatti “parziali” fino a farli diventare virali, e oggetto di analisi da parte di pigri editorialisti e commentatori tv, spade da brandire nello scontro politico da parte dei vari Salvini e Meloni. Siamo oltre l’uso delle fake news. Siamo all’information disorder, l’inquinamento delle informazioni, analizzato dagli studiosi Claire Warder e Hossein Derakshan. La strategia è quella di trasformare la protesta sociale, possibile in un Paese squassato dalle conseguenze del virus, in emergenza criminale.

È già questa la realtà del Paese piegato dalla quarantena? La risposta è un secco no, pronunciabile ad una sola condizione: saper distinguere e saper spiegare bene la realtà vera, non quella pompata dai media, e farlo ad alta voce. Gli audio che circolano sul web su presunti mafiosi che a Palermo organizzano l’assalto ai moderni forni (i supermarket), non nascondono piani eversivi di Cosa Nostra. “Sono sciacalli”, ha detto Leoluca Orlando. Al servizio di chi e di quali progetti è facile capirlo. Un “guappo di cartone” che a Pozzuoli esce per strada al grido “se non mangiamo uccidiamo la gente”, non è la camorra, ma un suo sottoprodotto. La signora di Benevento che minaccia di “accidere” il sindaco Mastella e promette 5mila uomini pronti al saccheggio, è sintomo di altro. Non certo di piani eversivi organizzati “dalle mafie”, come se esistesse una unica cabina di regia per organizzazioni che sono diverse per natura e sistema d’interessi. Non vi è, se non nei piani (questi sì reali) di “bestie” da tastiera, alcuna evidenza investigativa o giudiziaria che vada in questa direzione. Ma voi ve lo immaginate un narcotrafficante di Africo, pronto a capeggiare la rivolta del pane? Cioè ad esporsi per una cosa che non porta guadagni? La mafia ha altri problemi, innanzitutto lo stop del mercato della droga. Pochi giorni fa a Gioia Tauro sono stati sequestrati 500 chili di cocaina stoccata in campagna da un narcos. Soldi (non so calcolare quanti) fermi perché il consumo è fermo, la gente non esce e le piazze di spaccio sono senza clientela. Le mafie sopportano l’oggi e aspettano pazientemente il dopo. Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, lo ha spiegato bene: “La ‘ndrangheta punta ad acquisire le aziende in crisi”. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, in un articolo sul nostro giornale, ha fatto una analisi lucidissima. La ‘ndrangheta sta attuando “una strategia conservativa, di “operosità silente”, l’obiettivo dei boss per il dopo è quello di “individuare i settori produttivi più appetibili, in cui immettere gli enormi capitali sporchi di cui” dispongono. Per capirci, dopo il terremoto che colpì Irpinia e Basilicata nel 1980, la camorra puntò alla ricostruzione, ai 64mila miliardi di lire investiti, stabilì accordi con le grandi imprese che calarono dal Nord. Diventò camorra spa con la complicità di parte della politica. Certo, anche in quella tragedia ci furono gli assalti ai camion degli aiuti, ma quella era la parte folkloristica dell’agire criminale, esaltarla servì solo a non farci vedere cosa accadde “dopo”.

Il disagio c’è, provocherà tensioni, ma criminalizzare la protesta sociale è una operazione rischiosa per la tenuta del Paese. Bisogna intervenire. Il governo lo sta facendo al meglio immettendo liquidità nelle famiglie e aiutando le fasce più deboli. È poco, è tanto? Certo, si può fare di più e meglio, ma anche qui la forza è saper distinguere. Ci sono città, come Napoli e Palermo, che da secoli “vivono in strada”. Qui la sopravvivenza è spesso affidata a lavori al limite della legalità. Ma il venditore di calzini e il parcheggiatore abusivo non li possiamo scambiare per dei boss. Se li mettiamo sullo stesso piano facciamo un grande favore alle mafie. Il lavoro in nero non è un tutto indistinto. L’operaio che si spacca la schiena in un cantiere senza garanzie non è la stessa cosa del suo datore di lavoro, in nero pure lui. Le partite Iva non sono un “popolo”. Dentro ci trovi il giovane costretto a farsi sfruttare, ma anche l’evasore fiscale e contributivo. L’avvocato con uno studio in una piccola realtà, e che oggi è allo stremo, non è paragonabile al grande avvocato con studio associato ai Parioli. Distinguere serve anche ad aiutare seriamente chi è in difficoltà, e a non favorire la coesione in blocchi omogenei di bisogni diversi e confliggenti. Distinguere è l’arte raffinata dei leader, ma è anche un dovere per chi ha la responsabilità di fare informazione e di orientare l’opinione pubblica.

Infodemia: la pandemia di balle più forte dei contagi

Sulla pandemia si è scatenata una tsunami di informazioni false, manipolate e omissive spesso diffuse ad arte. Il fenomeno non è nuovo ma con la diffusione dei social media è diventato “virale”: è l’infodemia, l’epidemia da disinformazione. Anche l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha rilevato che le fake news “si diffondono più velocemente del virus”. Migliaia di “bufale” sono sparse giorno dopo giorno sul web e talvolta finiscono anche sulle pagine dei giornali, in radio o in televisione. Un lungo elenco di bugie, miti e falsità è disponibile sul sito del ministero della Salute. Il campionario è più lungo del catalogo di Leporello: “Covid19 è stato creato in laboratorio”, “no, l’epidemia l’hanno scatenata i cinesi perché mangiano i topi”, “il virus è stato rubato da spie cinesi in un laboratorio canadese”, “gli Usa hanno sganciato il virus come arma biologica in Cina durante i campionati mondiali militari a Wuhan”, “Covid-19 contiene sequenze simili all’Hiv”, “la pandemia era stata prevista in una simulazione”, “società di Bill Gates hanno brevettato il virus”, “no, Bill Gates ha brevettato il vaccino”, “il virus è curato/prevenuto da (in ordine alfabetico, a scelta): acqua calda, aglio, agrumi, alcolici, antibiotici, argento colloidale, bagni caldi, farsi la barba, gargarismi con la candeggina, lampade Uva, miele, medicina ayurvedica, proteine, tachipirina, vitamina C o D, yoga”, “la pandemia è trasmessa da: acqua del rubinetto, animali domestici, antenne per i cellulari 5G, pane, punture di zanzara, suole, vaccini antinfluenzali, verdure fresche”. Ancora: “I bambini sono immuni”, “gli extracomunitari sono immuni” da cui “i bambini extracomunitari sono immuni”, “se riesco a trattenere il respiro più di 10 secondi sono sano”, “se mi pungo ed esce sangue rosso scuro sono sano”…

Il problema comunque è datato. Già nel 2018 uno studio aveva rilevato che il 40% dei link relativi alla salute pubblicati sui social media conteneva false notizie mediche. Ad agosto 2019, l’Oms ha messo in guardia dalla disinformazione sanitaria sui social media, specie sui gruppi chiusi anti-vaccini. Il fatto è che c’è chi pilota l’infodemia per colpire Paesi, destabilizzare governi, impoverire nazioni. Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), l’organismo del Parlamento che vigila sui servizi segreti, ha segnalato una campagna di disinformazione condotta da “entità statuali esterne” (leggasi Paesi stranieri) contro l’Italia, per ostacolare le misure contro l’epidemia e mettere zizzania tra Paesi europei. Il sottosegretario all’Editoria, Andrea Martella, ha annunciato una task force della presidenza del Consiglio contro l’infodemia. Occasione (giusta) colta al balzo dal virologo Roberto Burioni per cercare di mettere la mordacchia (sbagliata) all’informazione.

Secondo una relazione del gruppo speciale della Ue contro la disinformazione, alcune informazioni false sul coronavirus sono state create da Cina e Russia. Dal gennaio, la Ue ha raccolto oltre 150 esempi di disinformazione pro-Cremlino su Covid19. In Russia alcuni media nazionali pro-Cremlino hanno fatto circolare “notizie” provenienti dall’Italia su bandiere della Ue sugli edifici pubblici sostituite con bandiere russe o sull’inno russo che suona per le strade. Un video pubblicato il 15 marzo su Twitter da Hua Chunying, portavoce del ministero degli Esteri cinese, mostra un collage di filmati pubblicati dal Corriere della Sera sui flashmob organizzati a Roma e Torino il 14 marzo per sostenere il personale degli ospedali italiani, ma nell’audio è stato aggiunto l’inno cinese e, secondo l’autrice del tweet, dai balconi gli italiani avrebbero ringraziato e applaudito la Cina. In questi casi, l’obiettivo è politico: indebolire l’Unione europea o creare cambiamenti politici.

Contro l’infodemia dal 2015 la Ue ha lanciato EUvsDisinfo (la Ue contro la disinformazione), un progetto per rispondere alle campagne di bufale lanciate della Russia contro l’Unione europea, i suoi Stati membri e i Paesi vicini. Grazie all’analisi dei dati e al monitoraggio dei media in 15 lingue, EUvsDisinfo identifica e svela le fake news diffuse da media vicini al Cremlino in tutta la Ue e nei Paesi partner. I casi sono raccolti nel database EUvsDisinfo che a oggi comprende oltre 6.500 informazioni false pro-Russia. Sul sito della Commissione Europea esiste una pagina sulla risposta europea al coronavirus con informazioni affidabili, fatti e debunking delle bufale più comuni. Gli Stati membri stanno condividendo metodi per informare i cittadini sui rischi legati alle notizie false. La Commissione europea e le autorità nazionali hanno chiesto alle piattaforme online di impedire pratiche sleali, come le pagine web di bufale “miracolistiche”, o le truffe con vendite di prodotti inutili. Facebook ha cancellato centinaia di migliaia di post e bollato come inattendibili 40 milioni di contenuti, mettendo a disposizione di oltre 350 milioni di utenti le schede dell’Oms che smontano le fake news.

C’è però anche chi, in buona fede, diffonde informazioni false credendole vere. Se non si è sicuri, esistono molte guide online per verificare se le informazioni siano attendibili: è sempre meglio verificarle da fonti istituzionali ufficiali e certificate.

“Il virus stravolge la Chiesa. L’Europa? Basta egoismi”

“Buongiorno, qui parla don Franco”.

Cardinale?

Mi spiace, mia madre non mi ha chiamato eminenza. Altrimenti avrei detto: buongiorno, qui parla don eminenza.

Allora, ricominciamo: buongiorno, eminenza.

Io mi guardo le mani per capire se ho lavorato abbastanza, non bado all’abito che indosso. Certo la pandemia mi impone di registrare video e messe, però i preferisco la fede vissuta.

Don Franco è il cardinale Francesco Montenegro, siciliano di Messina con origini pugliesi, arcivescovo di Agrigento, la diocesi che abbraccia l’iconica Lampedusa. È un pastore con un gregge, non con una cattedra. Era a fianco di Jorge Mario Bergoglio per il primo viaggio da pontefice, l’otto luglio di sette anni fa. Papa Francesco gettò una corona di fiori nel mare lampedusano, chimera e spesso tomba per migliaia di migranti, lì denunciò l’indifferenza globalizzata e poi pensò, chissà, di consegnare la berretta cardinalizia a don Franco.

Adesso Agrigento e provincia riaprono le Chiese.

Per alcune ore di mattina. I matrimoni se proprio urgenti: il prete, gli sposi e i testimoni. Suonerò le campane più spesso per confermare la nostra presenza.

La serrata ha agitato la Conferenza episcopale italiana e provocato un intervento di papa Francesco.

Io ho sofferto tanto, non ho ordinato di sbarrare gli ingressi con piacere, ma ho agito per il bene comune. Agrigento ha una sanità non molto attrezzata, pochi posti letto negli ospedali. Era mio dovere impedire occasioni di contagio, non esporre la gente al pericolo.

S’è detto: perché nutrire i fumatori con i tabaccai e non lo spirito cristiano con le chiese. E qualcuno ha chiosato: la fede si consegna alla scienza.

Io credo in un Dio presente, vicino all’uomo in qualsiasi situazione, però devo rispettare le indicazioni dello Stato, valutare il contesto e proteggere i più fragili. Ciò non significare diventare succubi. Io sono un cristiano e sono un cittadino. La fede non è una bacchetta magica che fa scomparire il buio, è la luce che ci spinge a camminare nel tunnel.

Qualcuno suggeriva le messe per Pasqua.

La nostra fede ha un aspetto comunitario e sacramentale. Ho consigliato ai parrocchiani di mettere il Vangelo al centro della casa come noi in chiesa abbiamo il tabernacolo. Non serve praticare la fede dei gesti, andare a messa con il sentimento di chi paga le tasse, spolverare la coscienza e sentirsi buoni cristiani oppure illusi di aver strappato un pezzettino di Paradiso. Questa pandemia è un’esperienza devastante, si ammassano le macerie attorno a noi, domani saremo chiamati a ricostruire – scriva con la maiuscola, per favore – una nuova Chiesa, una nuova Società, una nuova Europa.

In ordine: una nuova Chiesa.

Il nostro perimetro va allargato, non ristretto. I poveri sono i grandi assenti. Papa Francesco ha spalancato le finestre, a volte patisce la solitudine. Non possiamo tollerare i cristiani che disprezzano gli immigrati, non possiamo accettare la fede dal divano o dai palazzi. Il virus ci ha spinti a lanciare scialuppe di salvataggio, si sono creati legami solidi seppur a distanza, c’è un movimento che si è riacceso. Non sprechiamo un’occasione, non alziamo steccati.

Una nuova Società.

Rimuoviamo la logica del più forte. Abbattiamo i muri, dentro e fuori. Non dobbiamo chiuderci in noi stessi, dormire sereni mentre migliaia di uomini muoiono affogati in acqua e milioni di africani vivono con qualche dollaro in capanne di fango. Ci riguarda da vicino, è una nostra responsabilità. Non possiamo osannare la ricchezza e scordarci la sanità pubblica. Non possiamo escludere gli anziani, i nullatenenti, i disabili. Negli ospedali, dopo stagioni di tagli alle risorse, si è dovuto scegliere chi curare. I vincoli economici hanno sfasciato la sanità universale. Il mondo che ci siamo allestiti, che ha dimenticato la natura e l’essenziale, ci sta cadendo addosso per un virus. Ci sentivamo padroni, ci siamo ritrovati schiavi. Francesco cita l’ecologia integrata, cerchiamo di avere uno sguardo ampio, non di soffermarci sui nostri piedi, ma di muoverli. Quale nazione oggi può avere l’arroganza di gridare “basto a me stessa”?

Una nuova Europa.

Mi sono occupato di migranti per la Cei e sono stato presidente della Caritas, spesso ho dialogato con i funzionari di Bruxelles, sono stato al Parlamento e pure a un Consiglio europeo e mi spiace conservare pessimi ricordi. L’Unione ha sempre seguito la bussola del rigore contabile, non della prosperità sociale. Non ha ridotto le distanze tra nord e sud. Io ho paura che l’acronimo Ue diventi “unione egoismi” e perda la sua utilità e il suo ruolo nella storia. Io chiedo all’Europa di avere coraggio, di essere solidale, di investire nel futuro. L’Europa del denaro è a breve scadenza. La pandemia ci offre la possibilità di rimediare agli errori e va sfruttata con intelligenza. Ho letto che hanno supplicato scusa all’Italia perché abbandonata, il perdono non va negato, ma adesso impediscano che l’Italia vada in frantumi. Sotto l’emergenza sanitaria cova una emergenza sociale di proporzioni immani e io già lo percepisco. Sarà difficile resistere ancora a lungo sigillati in casa. Vedo una vecchia povertà.

Cosa intende?

Le famiglie bussano per il pane, la pasta, l’affitto. La febbre preoccupa, ma i genitori non sanno come sfamare i figli. Agrigento ha un piede in Africa, siamo l’ultimo avamposto d’Europa. Non ci sono fabbriche o industrie da rimettere in moto. Ci sono lavoretti, anche in nero, che non si fanno più, turismo finito, alberghi vuoti, campi incolti.

Un’apocalisse scatenata da un organismo invisibile.

No, saremo migliori.

Ne è sicuro?

La fede è credere che domani spunterà il sole.

Sanità, gli “inutili accordi” delle Regioni col privato

“Le cause principali che ci hanno impedito di reggere all’onda d’urto del coronavirus vanno ricercate nell’abbandono dell’assistenza territoriale e nella privatizzazione della sanità lombarda”. Vittorio Agnoletto, storico medico del lavoro milanese, quando parla dell’emergenza Covid-19 mette nel mirino lo smantellamento della sanità pubblica e il “modello” che ha favorito il sorpasso di quella privata. Basterebbe un dato per inquadrare la situazione: il 40% della spesa sanitaria annua della Lombardia, la regione più colpita dal coronavirus, è destinato a strutture private. E se la pandemia ha fatto riscoprire le fragilità del sistema pubblico – pochi posti letto, carenza di medici e strutture spesso inadeguate– molte regioni italiane si sono dovute appoggiare, a volte con qualche favoritismo di troppo, alla sanità privata che negli anni ha conosciuto una crescita esponenziale. Non c’è solo la Lombardia, come si potrebbe pensare: il fenomeno riguarda tutta la penisola.

Secondo il rapporto annuale della Corte dei Conti, nell’ultimo anno un italiano su due si è rivolto a una struttura privata, senza nemmeno tentare di prenotare nel pubblico e senza distinzioni sociali: il 38% erano cittadini con redditi bassi e il 51% con redditi alti. Così, anche per le disfunzioni del sistema pubblico che spesso non riesce a garantire prestazioni adeguate, la sanità privata si è ingrassata sempre di più: nel 2018, la spesa sanitaria privata è salita a 37,3 miliardi di euro facendo registrare un netto +7,2% rispetto al 2014. Nello stesso periodo, invece, la spesa sanitaria pubblica ha registrato un calo dello 0,3%. Secondo il rapporto Censis pubblicato a settembre relativo al 2018, in cima alla classifica per spesa sanitaria privata c’è la Lombardia con il 48% (26% privata e 22% convenzionata), seguita dal Lazio di Nicola Zingaretti con il 44% e le tre regioni del nord più colpite dal Covid-19: Veneto (41%), Emilia-Romagna (41%) e Piemonte (40%). Chi fa affidamento quasi solo sul Sistema Sanitario Nazionale invece è la Sardegna (69%), la provincia autonoma di Bolzano e l’Umbria al 70%.

Il caso lombardo è il più emblematico. A livello assoluto il 40% della spesa sanitaria corrente è destinato a strutture private ma, secondo lo studio della professoressa Maria Elisa Sartor dell’Università Statale di Milano riportato dal Fatto Quotidiano, nella Lombardia governata dal centrodestra il sorpasso del privato sul pubblico è già avvenuto: in proporzione il primo incamera più risorse del sistema pubblico. Se le strutture sono divise equamente, 99 private e 99 pubbliche, dal 2015 gli incassi per le prestazioni vanno per il 52% ai privati contro il 48% al pubblico, con una forbice che è andata aumentando sempre di più.

Eppure l’emergenza da covid-19 che ha colpito la Lombardia con un totale di 65mila casi positivi e 12mila morti, è ricaduta tutta sulle strutture pubbliche che possono contare su pronto soccorso e reparti di terapie intensive al contrario di quelle private dove questo avviene solo nel 20% dei casi. La professoressa Sartor ha rilevato come, al 29 febbraio 2020, in Lombardia tutte le strutture in prima linea per rispondere all’emergenza da Covid-19 fossero pubbliche – dagli ospedali di Codogno e Casalpusterlengo al Sacco di Milano passando per il Policlinico San Matteo di Pavia fino al Papa Giovanni XXIII di Bergamo – e, fino al 2 di marzo, “la notizia è l’assenza sostanziale nell’emergenza in Lombardia di un ruolo rilevante della sanità privata”. Agnoletto ha lanciato l’accusa a Valori.it: “In questi anni si è lasciato totalmente alla sanità pubblica l’onere dell’emergenza e al privato il profitto determinato dalla cura dei malati cronici”. Un fallimento diventato emblematico con l’Ospedale in Fiera, interamente finanziato dai privati, con una dozzina di posti letto occupati sui 600 previsti. “Fortunatamente non ne abbiamo bisogno” ha detto l’assessore Giulio Gallera tacendo sul fatto che quei 21 milioni di euro sarebbero potuti servire agli ospedali pubblici milanesi dove si continua a morire per il virus.

Durante l’emergenza da Coronavirus però in molte altre regioni sono stati fatti accordi con privati. In Abruzzo, per esempio, il governatore di Fratelli d’Italia Marco Marsilio lo scorso 8 aprile ha firmato un’ordinanza (la numero 28) che regola i rapporti con i privati per “la gestione dell’emergenza covid-19” secondo cui le cliniche non solo saranno pagate per le prestazioni ospedaliere, ma vi saranno riversate tutte le prestazioni che prima dell’emergenza riguardavano gli ospedali pubblici. L’obiettivo è quello di “garantire il celere smaltimento delle liste di attesa medio tempore” ma le opposizioni accusano la giunta di aver stretto l’accordo anche per tutto il 2021 senza prima fare un check nelle strutture pubbliche: “Di principio non sono contraria alla sanità privata – dice al Fatto la capogruppo M5S in consiglio regionale, Sara Marcozzi – ma quello della giunta è un regalone fatto alle cliniche private arrivato senza nemmeno aver fatto un controllo sugli ospedali pubblici che in Abruzzo non sono pieni e non scoppiano”. Una decisione simile è stata presa in Sardegna dove la giunta di centrodestra di Christian Solinas ha individuato tre strutture private – Mater Olbia, Policlinico Sassarese e clinica “Città di Quartu” – come “covid hospital” dove saranno trasferiti i malati dagli ospedali sardi. Eppure anche qui, non è chiaro se prima sia stato fatto un controllo sulle strutture pubbliche, con i Progressisti che hanno presentato un’interrogazione al governatore perché non sarebbe stata fatta “una analisi dei costi, del livello di assistenza e delle possibili alternative fornite dal sistema pubblico”.

In Umbria invece la governatrice della Lega e l’assessore veneto Luca Coletto, che fino a pochi mesi fa elogiavano il sistema lombardo, hanno deciso di coinvolgere le cliniche private solo un mese dopo il primo caso positivo e ad emergenza quasi conclusa (dopo un picco di contagi l’Umbria ha un aumento di uno, due contagi al giorno). L’accordo con le strutture private è arrivato solo venerdì e prevede che soltanto le cliniche potranno destinare i propri posti letto ai pazienti che si trovano ricoverati nelle strutture pubbliche, ma che non risultano contagiati dal Coronavirus. Secondo Tommaso Bori del Pd l’accordo è arrivato “in ritardo” e fatto “male”: “La sanità privata deve essere messa al servizio della salute pubblica, ma al momento non è così” conclude Bori.

Il governatore Rossi censura il Tg2 per i servizi sulle Rsa

Scontro tra la Regione Toscana e il Tg2. I servizi del telegiornale diretto da Gennaro Sangiuliano non sono piaciuti al governatore Enrico Rossi, che se ne lamenta pubblicamente con una lettera inviata ai vertici di Viale Mazzini e alla commissione di Vigilanza Rai. Nel mirino del governatore ci sono 8 servizi giornalistici che il Tg2 ha mandato in onda nell’ultimo paio di settimane sulle morti degli anziani nelle Rsa (residenze sanitarie assistenziali) della regione. Parliamo di un totale di 168 decessi fino a ieri, che hanno fatto balzare la Toscana al quarto posto in Italia per morti in questo tipo di strutture e su cui ora stanno indagando quattro procure: Firenze, Prato, Pistoia e Lucca. In Toscana sono presenti 322 residenze e strutture sociosanitarie per anziani per un totale di 14.730 ospiti. Prima della regione di Rossi, come numero di vittime, ci sono Lombardia, Emilia Romagna e Veneto.

Il governatore, oltre a lamentarsi per l’eccessiva l’attenzione del Tg2, fa notare anche “una dose di superficialità nel confezionamento dei servizi, dalla scelta degli interlocutori alle parole allusive utilizzate, alle tecniche di montaggio fino alla presentazione di dati incompleti o inesatti, a partire dal numero non veritieri dei decessi”. Inoltre, “nessuna richiesta di verifica dei dati, delle fonti e dei fatti esposti è pervenuta ai vertici delle Asl o all’Agenzia d’informazione della giunta regionale”. Tra le righe delle parole di Rossi sembra d’intuire il sospetto che il Tg2 (telegiornale in quota Lega) in qualche modo abbia voluto accendere i riflettori sulla Toscana, regione targata Pd, per sviare almeno in parte’ l’attenzione dalla Lombardia e allentare la morsa intorno al collo del governatore leghista Attilio Fontana.

“Ma quando mai. Questo è un tentativo di censura bello e buono”, afferma il direttore Sangiuliano. “Come Tg2 ci stiamo occupando delle morti degli anziani nei centri di assistenza in tutta Italia, a cominciare dalla Lombardia, cui abbiamo dedicato ben 15 servizi e altri ne dedicheremo. Poi abbiamo fatto servizi anche su Piemonte (3), Sicilia, Puglia, Lazio, Emilia a Veneto. E continueremo a farne, specialmente nelle regioni dove si stanno muovendo anche i magistrati”, aggiunge Sangiuliano. Che ricorda, poi, come dei casi delle Rsa toscane in queste ultime settimane “siano piene le cronache dei giornali, dalla stampa locale a quella nazionale”. In particolare, i servizi del Tg2 hanno posto la loro attenzione, tra le altre, sulla Casa Accoglienza di Comeana, su cui sta indagando la procura di Prato, sulla Casa di Riposo di Ledanice, su quella di Montevarchi e sulla Rsa di San Biagio, sotto inchiesta a Firenze.

Nella diatriba spunta, inoltre, un piccolo giallo. Perché Rossi si lamenta del fatto di non esser mai stato contattato dal Tg2. “Un loro cronista mi ha chiamato da un numero a me sconosciuto e ha brevemente potuto parlare con il mio portavoce senza che si sia mai potuto concretizzare un effettivo diritto di replica”, scrive il governatore. “Gli abbiamo chiesto due interviste, che ci sono sempre state rifiutate, come dimostrano i messaggi in nostro possesso”, ribattono dal Tg2. Dal quale poi si spiega che “le fonti consultate sono sempre state di alto livello”, come, tra gli altri, Giuseppe Nicolosi, procuratore della Repubblica di Prato, e il professor Roberto Biagini, dirigente di Asl Toscana a capo della commissione che, per conto della Regione, sta indagando sulle morti nelle Rsa. E si ribadisce che “i dati citati nei servizi sono sempre stati quelli ufficiali dell’Istituto Superiore di Sanità”. Ora della vicenda sarà chiamato a occuparsi l’ad della tv pubblica Fabrizio Salini e, probabilmente, anche la Vigilanza Rai.