Rischio-contagio, il Trivulzio aveva il protocollo sbagliato

Che il Pio Albergo Trivulzio, in qualità di residenza sanitaria assistenziale, dovesse avere un Documento di valutazione del rischio (Dvr) biologico, era previsto e richiesto dalle norme. Parliamo di un documento che prevede regole, procedure e responsabilità, per prevenire i rischi del contagio, la morte o la malattia, sia dei dipendenti, sia dei pazienti. Dispone quindi sia le procedure che ciascun dipendente deve essere in condizioni di osservare, sia la tecnologia e la strumentazione necessaria, per operare in condizioni di sicurezza.

Il Fatto è grado di rivelare che il 21 febbraio scorso, nel momento in cui esplode ufficialmente la pandemia, la rsa milanese è sprovvista di un protocollo adeguato. E non si tratta di un dettaglio da poco. Non è solo una questione burocratica. È noto alla comunità scientifica che – come scrive per esempio la Fondazione San Matteo di Pavia nel 2017 – gli “anziani hanno una aumentata suscettibilità alle malattie infettive” e che “il rischio di eventi epidemici nelle rsa è elevato”. Ribadiamo: rischio di eventi epidemici. Il ruolo di un documento come il Dvr sul rischio biologico è quindi cruciale.

Il 2 agosto 2017 il Pio Albergo Trivulzio affida a un’azienda esterna l’aggiornamento (tra gli altri) del Dvr in questione. Il 22 gennaio 2020 il rischio epidemia per Covid 19 è ufficiale: il governo emana la prima direttiva. Il Pio Albergo Trivulzio è coperto almeno per le procedure sul rischio biologico ante Covid -19?

La risposta è nell’atto firmato il 3 febbraio 2020 dal direttore generale Giuseppe Calicchio. Il quale boccia gli aggiornamenti sui Dvr presentati nel 2019. Sarà un caso, ma dell’inadeguatezza dei Dvr, incluso quello biologico, si accorge quando la pandemia è ormai alle porte. “I dvr dei rischi specifici”, scrive, “non risultano esaustivi”. Il motivo: “Non sono comprensivi di tutti i rischi presenti all’interno delle strutture aziendali, come ad esempio il rischio biologico”. “Considerando le attività svolte presso questa Azienda”, continua Calicchio, è tra i dvr che “in termini apodittici” devono “ritenersi particolarmente significativi”. E quindi: l’epidemia sta per colpire, il governo ha già emanato le prime disposizioni, ma il Pio Albergo Trivulzio non ha un protocollo adeguato neanche per il rischio biologico in condizioni normali. Figurarsi per il Covid – 19. Eppure è richiesto dalla legge. E che sia necessario, per una rsa, è un fatto che lo stesso Calicchia ritiene inconfutabile. Interpellata dal Fatto, la rsa milanese spiega che adesso il documento aggiornato c’è. È stato redatto il 4 marzo. E quindi in piena emergenza Covid-19. Approvato il giorno successivo, ultima revisione il 10 aprile. I motivi delle revisioni: “La continua evoluzione normativa e di indirizzo, da parte delle istituzioni, in merito alla gestione dell’emergenza. La necessità di condividere le misure di prevenzione e protezione, messe in atto con rappresentanze sindacali, per raccoglierne eventuali osservazioni o proposte. La scelta della direzione – conclude il Pio Albergo Trivulzio – è stata da subito quella di affrontare questa emergenza con la massima trasparenza e collaborazione di tutte le figure individuate dal decreto legislativo 81 del 2008 e coinvolte nella garanzia della salute e sicurezza dei lavoratori”.

Quanto alla trasparenza, va segnalato che il nuovo Dvr non è online. Abbiamo chiesto di poterne leggere una copia. Inutilmente. E così abbiamo rivolto all’azienda 3 ulteriori domande. Cosa prevede il dvr nel concreto? È pienamente operativo? Come è stato possibile mantenere l’accreditamento in assenza di un documento aggiornato? Il Pio Albergo Trivulzio non ha risposto. Nessuna risposta dall’assessore regionale al Welfare della Lombardia, Giulio Gallera, al quale abbiamo chiesto se la Regione abbia verificato l’aggiornamento del Dvr sul rischio biologico.

Il Pio Albergo Trivulzio assicura che il documento esiste dal 5 marzo. Ma è necessario del tempo per mettere a punto le prassi operative: oggi è pienamente applicato?

A partire dall’8 marzo, quindi appena 72 ore dopo l’approvazione del Dvr, la struttura è aperta all’accoglienza di pazienti, non positivi al Covid-19, che giungono da altri ospedali.

A oggi nella struttura si contano 190 decessi. La rilevazione della temperatura corporea all’ingresso, per i dipendenti, inizia il 22 marzo. Bisogna aspettare il 28 marzo per l’arrivo di circa 15mila mascherine. Il giorno successivo si segnalano due dipendenti positivi. Inizia l’elenco degli ospiti con sintomi in osservazione. Il primo aprile si segnalano i primi decessi per sospetto Covid-19. Il 16 aprile la Protezione Civile consegna circa 15mila mascherine, 6mila visiere, i primi camici idrorepellenti. I 5mila camici monouso arriveranno il 21 aprile. E dal 17 s’è iniziato a utilizzare i tamponi. La procura di Milano, con l’ausilio della Guardia di Finanza, ha avviato un’inchiesta per omicidio colposo ed epidemia colposa. Il direttore generale Calicchio è indagato anche per violazione della legge 231: prevede una corretta predisposizione del modello organizzativo e degli annessi Dvr.

Scontro Lombardia-Lazio sul virus nelle Rsa

I 1.625 decessi nelle Rsa lombarde sulle 3.045 totali, il numero dei tamponi fatti e, soprattutto, la delibera emanata dalla Regione l’8 marzo scorso che ha dato la possibilità alle residenze sanitarie per anziani, su base volontaria, di ospitare pazienti Covid dimessi dagli ospedali, per “liberare rapidamente i posti letto degli ospedali per acuti”. Il governatore Attilio Fontana prova a smarcarsi, almeno a favore di telecamera, dalle inchieste delle procure che dovranno accertare eventuali errori nella gestione dell’emergenza tra cui quella del Pio Albergo Trivulzio di Milano. E per farlo. Fontana la butta in politica attaccando il governatore Nicola Zingaretti. “Anche il Lazio ha assunto decisioni che hanno aperto le porte delle Rsa al coronavirus. Ma al governatore non è stato fatto alcun tipo di contestazione”, accusa Fontana dai microfoni di Radio Padania ieri mattina.

“È un attacco nei miei confronti in quanto rappresentante di una certa parte politica. Si sta facendo quel fuoco incrociato che è sempre stato fatto quando c’è un rappresentante del centrodestra”, aggiunge. Accuse che Zingaretti respinge subito, spiegando che la sua delibera è diversa da quella lombarda. Ma ormai la miccia è stata accesa e la querelle finisce per animare la domenica pomeriggio e, soprattutto, i due fronti politici della Lega e del Pd. “Nessuna promiscuità tra positivi e negativi nelle Rsa del Lazio, nessuna facilità nel contagio, nessun caso Lombardia nel Lazio. Anzi l’opposto di quanto sembra essere stato fatto in Lombardia”, replica Zingaretti che invita Fontana “prima di accusare” a informarsi “bene” definendo quella della delibera sulle Rsa una “bufala”. Il riferimento è agli articoli di Libero e il Giornale che hanno riportato la notizia. “Alcuni giornali – spiega il governatore Zingaretti – prendendo spunto da una richiesta di disponibilità fatta alle Rsa del territorio dalla Regione Lazio per creare strutture esclusivamente Covid, vorrebbero far credere al lettore che, al pari della Lombardia, il Lazio avrebbe facilitato il contagio nelle residenze dedicate agli anziani. È totalmente falso”.

Insomma, l’avviso pubblicato dalla Regione Lazio sarebbe servito solo per individuare le Rsa disponibili a diventare centri Covid. “L’opposto di quanto sembra essere stato fatto in Lombardia”, sottolinea ancora Zingaretti. Una girandola di accuse che trasforma la Lombardia nel nuovo terreno di battaglia tra maggioranza e opposizioni che si accende sulla questione “commissariamento”.

È il capo politico M5s Vito Crimi ad averne parlato apertamente: “Se oggi è ancora prematuro chiederlo, più avanti non lo sarà. Non lasceremo cadere quanto accaduto nel dimenticatoio”. “Avrei pensato che ci sarebbe stato un po’ più di buon gusto, aspettare almeno fino alla fine della tempesta”, replica in tarda serata Fontana che ormai si sente “sotto attacco” e torna a difendersi dalle critiche per quanto detto sulla delibera per mettere nelle Rsa malati di coronavirus: “Lombardia e Lazio partono dalla stessa ratio: isolare i pazienti Covid. Le parole di Zingaretti sono state inopportune e di cattivo gusto”. Intanto le inchieste sulle Rsa vanno avanti.

Piemonte, Cirio si arrende: l’ex ministro Fazio in aiuto

La resa di Cirio. Qualcuno a Torino l’ha già battezzata così; e se anche parlare di “resa” ad altri potrà sembrare eccessivo, di certo la task force che la Giunta regionale del Piemonte si appresta a nominare oggi assomiglia molto a un giro di vite nella gestione dell’emergenza Covid-19 (che in Piemonte da giorni picchia più che in qualsiasi altra regione italiana) e a una specie di autocommissariamento.

Il gruppo di esperti che da oggi affiancherà l’assessorato alla Sanità e la giunta infatti, oltre ad essere presieduto dall’ex ministro della Sanità Ferruccio Fazio, vede tra i suoi membri anche due figure che in questi mesi non hanno risparmiato critiche anche aspre: l’infettivologo Giovanni Di Perri, responsabile delle Malattie infettive dell’Ospedale Amedeo di Savoia di Torino – il “professor Galli torinese” la cui esclusione dal tavolo di crisi era parsa a molti inspiegabile – e il presidente dell’Ordine dei Medici di Torino Guido Giustetto, medici che da tempo puntano aspramente il dito contro la gestione politica dell’epidemia in Piemonte.

Insomma, tra il caos dei tamponi, l’epidemia dilagata nelle Rsa, le mail dei medici di famiglia sui primi contagi andate perdute e i cortesi dinieghi all’invio di medici dalla Protezione civile, è evidente che non tutto è andato per il verso migliore. Ed è la stessa Regione a riconoscerlo, dal momento che la task force sarà incaricata prima di tutto di “analizzare e certificare le carenze strutturali che l’emergenza coronavirus ha messo in luce nel sistema sanitario piemontese”. “Non sono un commissario e non sono stato in caricato di fare alcuna inchiesta – precisa Ferruccio Fazio, ex direttore di medicina nucleare e radioterapia del San Raffaele di Milano e oggi sindaco di Garessio (Cuneo) città in cui, dato certo non trascurabile, la locale Rsa è stata protetta dall’epidemia –. Sarà un lavoro propositivo con l’obiettivo di portare proposte alla giunta regionale per migliorare il rapporto tra ospedali e territorio in Piemonte”. Detto in soldoni, tentare di ricostruire la rete di assistenza sanitaria territoriale la cui disgregazione, in Piemonte e non solo, si è dimostrata una sciagura per la salute pubblica: “La Regione ha recepito le nostre osservazioni – dichiara Guido Giustetto – va ricostruita la medicina territoriale, l’investimento massiccio sugli ospedali ha mostrato i suoi limiti. Purtroppo questa pandemia durerà e altre si riprenderanno, dobbiamo pensare alla fase 2”.

La fase 2, appunto. Su questo la Regione si giocherà il credito rimasto. Sul tavolo di Fazio, infatti, arriveranno infatti i primi nodi legati all’ipotesi di una probabile recrudescenza del contagio in autunno, a partire dal futuro dell’ospedale da campo delle ex Ogr (Officine grandi riparazioni) che oggi accoglierà i primi malati e che dovrà servire da struttura di “alleggerimento”, ossia accogliere i pazienti lievi o in via guarigione senza spedirli a casa o, peggio, in una Rsa.

La task force, inoltre, ha sicuramente una valenza politica non trascurabile: Fazio infatti, sarebbe una vittoria di Forza Italia sulla Lega, che uscirebbe ridimensionata nel gioco locale degli equilibri politici. Come ridimensionato – se non commissariato – esce l’assessore (leghista) alla sanità Luigi Icardi.

E del Piemonte si è occupata anche Report. Questa sera, ore 21:20 su Rai Tre, l’inchiesta di Emanuele Bellano con la collaborazione di Greta Orsi mostrerà cosa non ha funzionato nella gestione del territorio, dalla questione rsa al “caso” delle segnalazioni dei casi sospetti al Sisp andate perse. Ma soprattutto mostrerà le immagini dell’Ospedale di Alessandria in cui si vede il bar interno in cui i clienti consumano ai tavolini senza rispettare la distanza di sicurezza o quelle del nuovo pronto soccorso Covid dell’ospedale Cardinal Massaia di Asti in cui la separazione con il gabbiotto infermieri (zona non Covid) è stata realizzata con buste di plastica a chiusura delle feritoie alla base delle lastre di vetro. La modifica di quest’area del pronto soccorso non è stata inserita nel Documento di Valutazione del Rischio, il rapporto previsto per legge ogni volta che vengono fatte modifiche a un luogo di lavoro.

Conte e l’opzione veto: “Mes screditato, la Ue si salva coi nuovi bond”

Presidente, molti italiani trovano che il suo Paese sia stato lasciato solo all’inizio della crisi dai suoi vicini, dai suoi partner storici in Europa e ne sono irritati. A ragione ?

È innegabile che l’Italia si sia trovata sola. Anche Ursula von der Leyen la vede così, a nome dell’Ue si è scusata per questo al Parlamento europeo. Ho molto apprezzato questo gesto.

(…) Sono risorti tra Germania e Italia vecchi luoghi comuni e cattiverie. Lei questo come se lo spiega ?

Alcuni luoghi comuni mi fanno sorridere, altri non li trovo affatto divertenti. Tra questi quello di uno Stato spendaccione. Negli ultimi 22 anni, ad esclusione del 2009, l’Italia ha registrato un avanzo primario. Questo significa che i governi italiani hanno sempre speso meno di quanto incassato. Il nostro deficit è dovuto alle somme pagate per gli interessi sul debito che abbiamo ereditato dal passato dai tempi della lira. Quindi, non solo lo Stato italiano non è spendaccione, ma rispetta i criteri europei sul deficit. Invece del 2,2% del Pil che era stato concordato, abbiamo realizzato l’1,6%. E onoriamo sempre regolarmente i nostri debiti (…).

Nel Nord si guarda soprattutto all’immensa montagna del debito italiano.

Sì, anche nel dibattito sul contrasto della crisi domina di nuovo questo errore. Si sostiene che gli italiani vogliano solo che altri Stati paghino i propri debiti. È un’insinuazione, più che falsa, sorprendente. La storia, anche quella meno recente, dimostra invece il contrario. (…) Oggi che siamo tutti colpiti da un evento per il quale nessuno possa fare qualcosa, serve prima di tutto solidarietà gli uni con gli altri. (…).

(…) Lei dice che non si stancherà di lottare finché i Partner non accetteranno debiti comuni, dunque gli Eurobond o i Coronabond. Il 23 aprile si riunisce il Consiglio Europeo. Lei è pronto a bloccare tutto col suo veto, se gli Eurobond non passeranno?

Viviamo il più grave shock dal dopoguerra ad oggi, l’Europa deve dare una risposta all’altezza. Alcune decisioni importanti sono state già prese, come l’intervento della Bce, la sospensione del Patto di stabilità, la costituzione di Sure, i fondi di garanzia della Bei.

… questo è già molto, no ?

Sì, ma è ancora troppo poco, se si pensa che abbiamo a che fare con una pandemia che sta mettendo seriamente a rischio il mercato comune. L’Europa si può salvare se pensa in grande (…).

Questo funziona solo con gli Eurobond? Lei sa che le resistenze di alcuni Paesi contro una mutualizzazione dei debiti è molto grande, in Germania, nei Paesi Bassi, in Austria, in Finlandia.

Le nostre economie sono interconnesse. Se un Paese va in difficoltà si crea un effetto domino che va evitato a tutti i costi. Qui serve tutta la potenza di fuoco dell’Unione europea attraverso l’emissione di titoli comuni che consentano a tutti i Paesi di finanziare in maniera equa e adeguata i costi di questa crisi. Non si tratta di mutualizzare il debito passato o futuro, ma solo di finanziare tutti insieme questo sforzo straordinario.

Gli avversari nel Nord temono che questo strumento rimanga.

Non sarà usato un solo euro dei tedeschi per pagare il debito italiano. Questa solidarietà totalmente specifica e temporanea ci rafforzerà enormemente sui mercati(…).

Come farebbero i governi a Berlino e all’Aja a spiegare ai loro cittadini che è il momento di fare gli Eurobond dopo tutti i no degli ultimi anni?

Non posso certo suggerire io ad Angela Merkel o a Mark Rutte, come parlare ai loro cittadini. Non ho titolo per farlo. Posso solo ripetere che il punto di vista deve cambiare. E deve cambiare adesso. Dobbiamo tutti guardare all’Europa da europei, il che è accaduto troppo di rado. Spesso ogni comunità nazionale guarda all’Ue solo dalla propria prospettiva e pensa di essere in credito con l’Europa, di dare più di quanto riceve. Prendiamo ad esempio la questione delle bilance commerciali: la Germania ha da anni un enorme avanzo commerciale e viene per questo criticata perché esso è più elevato rispetto a quanto prevedano le regole dell’Ue. Col suo avanzo l’economia tedesca non fa da locomotiva dell’Europa, bensì da freno. Dobbiamo rafforzare la nostra casa comune rapidamente per poterci confrontare alla pari con le altre potenze economiche mondiali. Perciò quello giusto è uno strumento finanziario comune, ambizioso ed equo.

Se questo non ci fosse, lei porrebbe il veto ?

Sono assolutamente deciso a impegnarmi non solo per il bene del mio Paese, ma per il bene dell’Europa intera.

Sì o no ?

Lascio a lei l’interpretazione.

Un altro strumento per liquidità aggiuntiva è il Mes. In ampie parti della politica italiana è un concetto tossico.

Sì, il Mes ha una cattiva reputazione in Italia. Non abbiamo dimenticato che ai greci nell’ultima crisi finanziaria sono stati imposti sacrifici ben oltre l’accettabile per ottenere crediti. Di qui la mia posizione fondamentalmente scettica.

Anche se fosse per spese mediche e non collegato a condizionalità ? Si tratta comunque di circa 35 miliardi.

Vediamo se la nuova linea di credito nei fatti sarà senza condizioni.

Lei sembra molto scettico. È un europeista convinto ?

Non mi appassiono alle categorie dello spirito. Dico solo che le derive nazionaliste fanno male all’Europa tanto quanto l’europeismo ipocrita, che tutto vuol prendere e nulla vuol dare. Quel che serve oggi all’Europa è un europeismo critico, ma costruttivo. (…). Con Macron la pensiamo allo stesso modo: siamo convinti che è in gioco il progetto europeo (…).

Nei sondaggi, solo il 35% degli italiani ripongono le proprie speranze nell’Ue.

Questo sentimento nasce dal fatto che ci sentiamo abbandonati proprio dai Paesi che traggono vantaggi da questa Unione. Prendiamo l’esempio dei Paesi Bassi, che col loro dumping fiscale attraggono migliaia di multinazionali – che trasferiscono lì la propria sede – ed ottengono un flusso di entrate fiscali massicce, che vengono sottratte ad altri partner dell’Unione: vengono così sottratti agli altri Stati Membri dell’Ue 9 miliardi ogni anno, come riporta un’analisi di Tax Justice Network. (…) Nessuno si deve raffigurare come il migliore della classe, non ci sono migliori della classe (…).

Lei dice che la Storia giudicherà l’operato del governo. Si considera un apripista per altri governi europei? L’hanno copiata in tanti.

Avrei fatto volentieri a meno di questo primato. Ma sono senza dubbio orgoglioso del senso di responsabilità manifestato dagli italiani in questa situazione e della grande risposta che, nel complesso, sta offrendo il nostro sistema sanitario nazionale. Il nostro è diventato un modello di riferimento riconosciuto anche dall’Oms. È vero, alla fine sarà la Storia a giudicarci.

Fase 2: ecco tutte le clausole di salvaguardia per riaprire

Obiettivo: dare il via alla “fase 2” il 4 maggio. Tutte le Regioni in contemporanea, in base a linee guida concordate con il governo e con tutte le cautele del caso. Il solco è tracciato, negli incontri di sabato un’intesa di massima tra Palazzo Chigi e i governatori sulla strategia per affrontare la riapertura del Paese dopo il lockdown da Covid-19 era arrivata, dopo giorni di tira e molla. A parole sembrava archiviata, quindi, anche la richiesta di riaprire con una settimana d’anticipo, il 27 aprile. Poi ieri Luca Zaia ha rimesso tutto in discussione con una diretta Facebook: “Speravo e spero che qualche segnale arrivi anche prima ma immagino che il 4 maggio sia la deadline, oltre la quale ci saranno solo provvedimenti per le riaperture”, ha strappato di nuovo il presidente del Veneto.

Terrorizzati dal firmare provvedimenti che prevedano date e modalità per chiudere o riaprire, i governatori tirano fuori il petto in favore di telecamera, per poi aspettare che l’indicazione arrivi da Roma. Un po’ come fece, mutatis mutandis, Attilio Fontana nelle ore che avevano preceduto la serrata delle attività produttive comunicata da Palazzo Chigi il 22 marzo: con i contagi in costante aumento, per giorni il governatore lombardo aveva chiesto un provvedimento di chiusura senza muovere un dito per timore di urtare Confindustria (il caso della mancata zona rossa nel bergamasco docet) e poi, poche ore prima che Conte firmasse il Dpcm, aveva tirato fuori un’ordinanza che ricalcava il testo del governo.

Eppure sabato sera in videoconferenza con Conte e i ministri delle Salute Roberto Speranza e degli Affari regionali Francesco Boccia, le delegazioni si erano dette d’accordo sulla necessità di indicazioni valide per tutti in modo da gestire in modo coordinato la ripresa. “Bisogna che siano adottate linee guida nazionali”, aveva detto in serata il presidente dell’Emilia-Romagna, “che fissino regole generali per la riapertura secondo fasi ben precise e graduali”. Per una volta la necessaria unità d’intenti sembrava raggiunta (e dichiarata). Poi, ieri, il nuovo strappo di Zaia.

Il copione si ripete, quindi, mentre i lavori per la delicatissima “fase 2” proseguono. L’orientamento è quello di far riaprire le Regioni tutte insieme, a prescindere dalle singole specificità epidemiologiche. Ogni situazione, tuttavia, verrà tenuta sotto osservazione per monitorare l’andamento dei contagi attraverso l’utilizzo dei test e della app progettata per tracciare i contatti avuti dai positivi, mentre continuerà la messa a punto della risposta sanitaria con il potenziamento dei Covid hospital e della medicina di territorio. L’obiettivo è individuare e circoscrivere il prima possibile gli eventuali nuovi focolai ed evitare che il contagio si diffonda anche nelle aree che finora ne sono rimaste al riparo. E, soprattutto, evitare che la secondo ondata data per possibile dagli esperti porti a un nuovo lockdown nazionale, che risulterebbe devastante per l’economia.

Per questo il governo, la task force per la “fase 2” affidata a Vittorio Colao e il comitato tecnico-scientifico stanno mettendo a punto quelle che a Palazzo Chigi definiscono “clausole di salvaguardia”, che comprendono una serie di parametri tra cui il numero dei contagi registrati, quello dei ricoveri e il totale delle persone che finiscono nelle terapie intensive: nel momento in cui una Regione supera il limite stabilito per uno o più di questi valori sul territorio scatta in automatico la zona rossa. L’idea è far ripartire le attività in cui le aziende italiane potrebbero essere soggette a pratiche sleali da parte delle concorrenti degli altri Paesi Ue anche se le stesse attività non sono tra quelle che finora il governo ha inserito nel novero di quelle “essenziali”. La certezza è che quelle, come bar e ristoranti, in cui è più difficile far rispettare le distanza di sicurezza dovranno aspettare ancora.

I dati della Protezione civile dicono che la frenata dei contagi, anche se lentamente, prosegue, e la pressione sugli ospedali continua a scendere: ieri in terapia intensiva c’erano 2.635 persone, 98 meno di sabato. Ma il numero dei decessi è ancora alto: 433, dopo i 482 delle 24 ore precedenti.

Ma mi faccia il piacere

Stampa satirica.“Travaglio batte Berlusconi sul conflitto d’interessi e prende l’Eni”. “Il Fatto Quotidiano è tornato ad attaccare a testa bassa Claudio Descalzi. Cioè l’amministratore delegato dell’Eni. Ormai però il gioco è scoperto: l’attacco del Fatto non nasce, come tutti immaginano, dalla solita furia giustizialista (Descalzi è indagato), ma stavolta nasce da una più prosaica furia di potere. Il Fatto vuole l’Eni per sé… Il Fatto (che ormai tratta direttamente con il Pd, senza più la mediazione di Di Maio) bastona Descalzi per aumentare la propria forza nella trattativa. Alla fine è disposto a cedere su Descalzi purché gli si permetta di mettere le mani sulla Presidenza con una pedina che è controllata direttamente da Travaglio… Non era mai successa una cosa del genere… Spesso si parla di conflitto di interessi, in particolare da quando Berlusconi è in politica. Lo schieramento populista-giustizialista, che da tempo ormai ha trovato in Travaglio e nel suo giornale la guida politica e morale (una specie di Maotsetung) ha sempre avuto due chiodi fissi: la guerra al conflitto di interessi e la guerra alla lottizzazione. Beh, ora le parti si sono rovesciate. La richiesta da parte di un giornale di avere per sé la Presidenza dell’Eni non si era mai vista. Né nella lunga storia delle lottizzazioni politiche né nella storia dei conflitti di interesse… Un giornale che è espressione del governo, della magistratura e dell’Eni” (Piero Sansonetti, Il Riformista, 18.4). Tutta invidia perché ora faccio benzina gratis.

Facci lei/1. “… come se avrebbe potuto fare una grande zona rossa da sola, senza un esercito” (F.F., Libero, 12.4). Mi sa che Facci, in realtà, si chiama Farebbi.

Facci lei/2. “Adesso basta, spezzo le catene. Martedì me ne vado al mare” (F.F., Libero, 12.4). Mo’ me lo segno.

Facci lei/3. “Sono evaso dai domiciliari e mi sono trovato benissimo. In auto fino a Lecco” (F.F., Libero, 15.4). Più che una destinazione, una vocazione. A proposito, com’era il mare a Lecco?

Troppa grazia. “Si sa che se scrivi sul Fatto hai uno scudo penale tombale” (Alessandro Sallusti, il Giornale, 16.4). Disse quello che, dagli arresti domiciliari, fu graziato da Napolitano.

I Conti non tornano. “Adesso ci interessa di aiutare Conti a non commettere errori” (Silvio Berlusconi, presidente FI, collegato da Nizza con Dimartedì, La7, 14.2). Cominciamo bene.

Dice il saggio. “In un momento di così forte emergenza per l’espandersi dell’epidemia di coronavirus, le parole di Briatore dopo l’ultimo decreto pesano come un macigno” (il Giornale, 23.3). Appeso al collo.

Viale dell’Astrologia. “’La politica non sa guidare l’Italia’. Bonomi lancia subito la sfida. Confindustria, il presidente designato attacca” (La Stampa, 17.4). Ha parlato Churchill.

Doppia elle. “Gallera: ‘Disgustato dallo sciacallaggio politico’” (il Giornale, 17.4). Deve aver trovato finalmente uno specchio.

Wanted. “Fuorilegge: Conte è un pericolo pubblico. ‘Governa con atti illegittimi’. Cassese: si è dato poteri che la Costituzione non gli attribuisce. Ma nessuno lo fa notare” (Renato Farina, Libero, 17.4). Meno male che c’è Betulla.

Cattiva lettura. “Cercasi leader capaci di decidere” (La Lettura-Corriere della sera, 12.4). E cercansi conoscitori della lingua italiana.

Zero vale zero. “Troppo spesso in questi anni abbiamo ragionato con la logica dell’uno vale uno, che punisce la competenza, e con il criterio della mediocrità, che punisce le eccellenze. E le eccellenze sono per definizione poche. A giudicare da quel che vediamo, pochissime” (Aldo Cazzullo, Corriere della sera, 17.4). E, a giudicare da quel che leggiamo, nessuna.

A funerali avvenuti. “Nessuno si aspettava inchieste e perquisizioni con i morti ancora in corsia. Possiamo almeno aspettare che l’epidemia sia finita e che i pazienti e i medici abbiano finito di morire prima di mandare ispezioni nelle case di riposo?” (Matteo Salvini, segretario Lega, Rtl 102.5, 17.4). Giusto, qualcuno respira ancora: aspettiamo che siano tutti morti.

I titoli della settimana. “Ecco il piano del governo per riaprire ogni attività” (Libero, pag.1, 14.4). “Conte ci vuole semireclusi fino a marzo 2021” (Libero, pag.3, 14.4). Di nuovo bevuto pesante, da quelle parti, eh?

“L’Italia del Sorpasso”, quella capace di rinascere (anche grazie al cinema)

Quegli adorabili cialtroni, spontanei evasori di colpe, irresistibili seduttori devoti alla furbizia così abile ad aggirare ostacoli e responsabilità. C’era una volta l’Italia del Sorpasso, immunizzata dal Secondo dopoguerra e – suo malgrado – capace di irridere alle sfide e godersi il boom economico dei primi anni ’60 a tutta velocità. Ma prima che quel Bruno Cortona prendesse vita dallo sguardo di Dino Risi, il Paese era ancora intento a curare i postumi bellici, esperienza che sembrava aver azzerato tutto tranne le speranze. Ed proprio su queste, e sulla spinta a ripartire con coraggio, che Paolo Mieli ha rintracciato parallelismi con le afflizioni del presente, quel passaggio dalla fase di emergenza sanitaria (fase 1) a quella di faticosa ricostruzione socio-economica (fase 2) a cui serve – con tutte le differenze del caso – un atteggiamento simile ai nostri concittadini del Dopoguerra. Per questo Mieli ha deciso di mettere a disposizione su YouTube “pensando soprattutto a facilitare la visione dei più giovani” L’Italia del sorpasso, un documentario ideato con la regista Greta Salve per la produzione di Orizzonti TV.

È lo stesso Mieli a raccontare il percorso di quella delicata transizione che ha portato gli italiani dall’oscurità della guerra alla luce del boom, un periodo di sotterranea mutazione intuita soprattutto dal cinema. Perché, appunto, fra il Neorealismo e Il sorpasso c’è Pane, amore e fantasia di Comencini, c’è Bellissima di Visconti, c’è l’ibridazione degli anni ’50, con i primi vagiti della commedia all’italiana, genere principe della rinascita nell’immaginario collettivo tricolore. “La consapevolezza del boom – ricorda Mieli – è arrivata proprio grazie al cinema”. Il giornalista e la regista hanno invocato i contributi di quattro “voci” di cinema e letteratura: Alessandro Gassman, Paolo Virzì, Giovanni e Sandro Veronesi. Tutti concordi nel sostenere che quello spirito (e concentrato di talenti) non tornerà più, ma non sarebbe male prenderlo a modello.

Lucho, Gassman e me: amicizia e letteratura, le due facce della Luna

Il 4 ottobre 1996, verso le sette di sera, il Teatro Politeama Rossetti di Trieste presentò un evento straordinario: il ritorno sulle scene di Vittorio Gassman dopo una lunga depressione che lo aveva tenuto lontano dai palcoscenici per diversi anni. Quella sera, all’inaugurazione, avrebbe declamato una decina di celebri monologhi, fra cui uno sollecitato personalmente da lui e scritto per l’occasione da Luis Sepúlveda. Per questo motivo, il Politeama invitò Sepúlveda e cinque suoi amici ad assistere all’evento: gli scrittori José Manuel Fajardo e Antonio Sarabia, il fotografo Daniel Mordzinski, il suo editore italiano Luigi Brioschi e il sottoscritto, il più giovane e inesperto. In quegli anni, dopo la pubblicazione di Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, Patagonia express. Appunti dal sud del mondo, Un nome da torero e Il mondo alla fine del mondo, Luis era lo scrittore latinoamericano più letto in Europa, con milioni di copie vendute in tutte le lingue. La sua personalità carismatica e il suo buonumore, insieme al successo letterario, facevano sì che i suoi lettori avrebbero desiderato non solo leggerlo, ma anche poterlo invitare nelle loro case, ogni giorno per tutta la vita.

La serata di Trieste fu una vera apoteosi, anche perché Gassman e la direzione del teatro vollero che l’evento si svolgesse il 4 ottobre, in coincidenza con il compleanno di Luis. Perciò, prima dell’inizio, un riflettore lo illuminò e il pubblico, in piedi, gli tributò un applauso fragoroso intonando Happy birthday to You.

Il suo impressionante successo era cominciato un po’ prima in Francia, quando Anne-Marie Métailié, proprietaria delle Editions Métailié, aveva deciso di scommettere sul romanzo di un cileno sconosciuto che aveva vinto in Spagna il premio Tigre Juan, nel 1988, ma che era stato pubblicato nel 1990 senza suscitare grandi ripercussioni.

L’edizione francese de Il vecchio che leggeva romanzi d’amore uscì nel 1992, e da subito il libro cominciò a essere letto in modo entusiastico. E ben presto arrivò al primo posto nelle vendite. Un anno dopo, nel 1993, l’editore italiano Luigi Brioschi lo pubblicò per la casa editrice Guanda e il successo si ripeté, mentre la ristampa spagnola di Tusquets scalava la lista dei best seller. Poi fu la volta del Portogallo, grazie all’editore Manuel Valente, delle edizioni Asa, e da lì il resto dell’Europa. Erano gli anni Novanta, e un autore proveniente dall’America Latina tornava a dominare la scena con milioni di lettori.

In quegli anni Luis visse una sorta di boom latinoamericano in solitudine, ma volle condividerlo immediatamente con colleghi e amici.

Le mie prime traduzioni e il contatto diretto con i suoi editori furono una prova della sua oceanica generosità. E, come me, molti altri scrittori si videro pubblicare i loro romanzi con le sue prefazioni, o all’interno di collane che lui dirigeva, come José Manuel Fajardo, Hernán Rivera Letelier o Antonio Sarabia, fra i tanti. Inoltre, si unì a scrittori con un percorso parallelo al suo, come Paco Ignacio Taibo II o Leonardo Padura, mettendo sempre la sua enorme celebrità al servizio di tutti.

Quella sera, a Trieste, dopo l’evento, mentre festeggiavamo il suo compleanno a una cena in cui tutti indossavamo lo smoking eccetto Gassman (motivo per cui tutti sembravamo i suoi guardaspalle), Luis, o Lucho, come lo abbiamo sempre chiamato, fece un brindisi affermando che per lui l’amicizia e la letteratura erano la stessa cosa, le due facce della stessa luna. E lo ribadì più tardi quando, vedendo che i bar di Trieste non avevano consuetudini latinoamericane e chiudevano presto, dovemmo riunirci in una camera d’albergo e portare ciascuno le scorte del proprio minibar (un’idea dell’ambasciatore cileno, presente all’evento) per brindare ancora ai tanti libri letti e amati.

È stata una bella epoca, intensa e gioviale, durante la quale Lucho ha animato e promosso una letteratura impegnata sul piano sociale e ambientale, gioiosa e ispirata alla giustizia, per i diritti dell’uomo, l’amore e la libertà. Un’epoca di rose e fiori durante la quale ebbero un’importanza cruciale i suoi editori in Francia, Italia, Portogallo e Spagna, e soprattutto sua moglie, Carmen Yáñez, poetessa in prima fila nella lotta per i diritti umani.

Anche il suo libro Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare ebbe milioni di lettori e fu adattato per il cinema. Per me contiene un episodio che è un ritratto a tutto tondo del Lucho che ho conosciuto e tanto amato: quando la gabbianella del porto di Amburgo scopre di non essere un gatto, crede che i gatti del porto la disprezzino perché non è uguale a loro. Ma il gatto leader, quello che in seguito le insegnerà a volare, le dice: “È proprio il contrario: è perché sei diversa da noi che ti amiamo tanto”.

Lucho è stato uno scrittore baciato dalla fortuna, e un amico eccezionale, diverso da tutti gli altri. E forse è per questo che lo amavamo tanto. Per l’eternità.

 

*Copyright El País Pubblicato per gentile concessione dell’autore e di El País Traduzione di Raul Schenardi

“Curzi a volte metteva paura. E con la direzione del Tg1…”

Le minacce non le teme, le inquadra come possibili conseguenze del lavoro; la fatica nemmeno, le piace la redazione, ama le inchieste, ama varcare i cancelli della Rai “e subito ti provano la temperatura”. Ma il gossip, no. Con Federica Sciarelli se si vuole ottenere una tregua rispetto a un costante fluire di parole, basta pronunciare “gossip” o porre domande sulla vita privata e scatta un deciso e ripetuto silenzio (“sono molto riservata, e quando sono apparsa, non per il lavoro, mi ha infastidito”).

Da pochi giorni, insieme a Ercole Rocchetti, Veronica Briganti e Marina Borrometi, ha pubblicato Trappole d’amore: un libro che non lascia respiro, prende allo stomaco, avvolge l’animo di malinconia e riflessione, ed è basato su alcune delle storie (vere) affrontate da Chi l’ha visto?; sono tutte vittime di truffe online, sono persone sedotte, ammaliate, umiliate, depredate nei sentimenti e nel portafogli da gruppi criminali con sede in Africa e organizzati scientificamente. E c’è chi poi si è ucciso.

Vere “Trappole d’amore”.

La tecnica è pazzesca: ho acquistato i libri che servono alla loro formazione, e sono dedicati alle strategie per far innamorare.

Come sono organizzati?

Hanno vari livelli: iniziano i ragazzini, sono loro a inviare le richieste di amicizia sui social; poi quando il soggetto abbocca, entra in gioco un team più esperto e preparato a concludere le truffe.

Iper strutturati.

Per vacanza sono andata in Kenya, e lì ho capito il meccanismo: un tempo esisteva il turismo sessuale maschile, un processo molto basic, con l’uomo grasso e sudato, vicino a una donna giovane.

Mentre oggi?

Vedi situazioni incredibili con donne occidentali accompagnate dai cosiddetti beach boys: questi promettono amore eterno, ma seducono e spillano soldi.

Ci è capitata in mezzo?

In aeroporto c’era un ragazzo africano abbracciato a un’europea. Entrambi piangevano. Disperati. Ma quando lei è partita l’ho ritrovato all’uscita in cerca di una nuova turista appena atterrata.

C’è un livello culturale di chi subisce?

È trasversale; c’è una psicologa che dopo aver scoperto la truffa è partita per la Nigeria spinta da un ragionamento: “Va bene, chi mi ha contattata non è un soldato americano, vedovo e con figli, comunque mi sono innamorata di lui”.

E…

Lo ha trovato e portato in Italia; ma lei è riuscita a ribaltare la questione, mentre le storie finiscono male.

In quante le scrivono?

È un continuo, tutti i giorni riceviamo segnalazioni o persone che ci inviano foto accompagnate dal messaggio: “Per favore, mi fate capire se è una truffa o meno?”

Mettete il bollino.

Marina Borrometi ha il compito di verificare e rispondere; in alcuni casi andiamo a cercare i soggetti che subiscono il furto del profilo e gli spieghiamo la situazione.

Tipo?

È successo a Maurizio Aiello (uno dei protagonisti di Un posto al sole): le sue foto sono state utilizzate in Francia.

E Aiello?

Alcune donne francesi lo hanno chiamato perché desideravano conoscerlo.

Macchine da guerra, i clan.

È una truffa che a loro costa pochissimo, per organizzarla basta un computer, Internet e un po’ di tempo a disposizione. E di tempo ne hanno tanto; (silenzio) mi rendo conto che noi di Chi l’ha visto? siamo un osservatorio sulla società.

Mantenete il contatto.

Questo filo con gli spettatori ci consente di capire cosa accade; (cambia tono di voce) chi scompare in questi giorni, in realtà, si è quasi sempre suicidato.

Siete una comunità.

Attualmente ci contattano per le tanti morti strane tra gli anziani…

È perennemente immersa nelle sue storie.

Quando lavoravo nella redazione politica del Tg3 gli argomenti erano certamente più allegri di Chi l’ha visto?; il problema è che se dai il tuo aiuto a un familiare, non è che poi giri le spalle e attacchi il telefono; recentemente, a causa di un dramma, una collega della redazione è stata un’ora al cellulare per ascoltare lo sfogo di una donna appena colpita da un lutto.

Situazione tosta.

(Tono semiserio) Ogni tanto, a fine stagione, chiedo di cambiare perché è un programma tosto e noi siamo delle spugne; in realtà ci credo fino in fondo.

Riesce a non portarsi tutto ciò a casa?

Siamo sempre connessi, con il lockdown si lavora più di prima.

L’hanno descritta come una mamma apprensiva.

Non è vero! È che quando mi intervistano alla fine piazzano sempre una domanda su mio figlio, e da lì esce un titolo forzato e frasi nelle quali neanche mi ritrovo.

Qual è la verità?

In questi anni ho affrontato storie terribili come nel caso di Federico Aldrovandi: quando parli con sua madre, e ti racconta la notte della tragedia, lei che chiamava il figlio e il figlio non rispondeva perché già morto, sono immagini forti che ti restano dentro e si tramutano in cicatrici.

Quindi?

A mio figlio raccomando: “Esci tranquillo, ma se fai tardi manda un messaggio, così se mi sveglio non mi agito”.

Non è ansiosa.

A tredici anni avevo già il motorino.

E andava alle manifestazioni.

Frequentavo una scuola definita “rossa”, ed ero in classe con Giorgiana Masi (uccisa il 12 maggio 1977): la sua morte ci ha segnati per sempre e in quel periodo, ogni settimana, veniva organizzata una manifestazione; (sorride) sono scesa talmente tante volte in piazza per Valpreda, che mi avrebbe dovuto omaggiare di un monumento.

Però…

Era interessante, era un modo di discutere, di stare in mezzo agli altri, di aprire la mente; anni fa incontro la mia professoressa di Lettere del liceo, ero convinta che mi avrebbe attaccato, della serie “non ne potevo più di voi”; al contrario mi ha sorriso: “Bei tempi i vostri, adesso gli studenti hanno la testa piegata sul cellulare, non ti guardano, non protestano. È un piattume”.

Era rappresentante d’istituto?

Non c’erano quei ruoli.

Però secchiona.

Diplomata con 60.

È arrivata seconda al concorso Rai.

Avevo vent’anni e partecipai al bando per l’avviamento alla carriera giornalistica; con me altri diecimila partecipanti.

Chi è il primo?

Dario Laruffa del Tg2, ogni volta che lo incontro gli ricordo il primato; comunque allora era complicato entrare in Rai, utilizzavano solo la chiamata diretta, con la politica che lottizzava, e noi del concorso rappresentavamo qualcosa di anomalo, contrastavamo la spartizione. (sorride)

Che succede?

Anche nei concorsi conta la fortuna: nel questionario mi capitò una domanda dedicata all’hockey su prato, e credo di essere stata l’unica a rispondere: giocavo a hockey.

Come è finita la storia del concorso?

Per un anno ho lavorato in varie redazioni, anche a Napoli, Firenze e al Tg1 dove ho conosciuto un Enrico Mentana praticante; lo stipendio era di 250 mila lire al mese, nonostante le trasferte…

E allora?

Dopo un anno gli altri borsisti hanno organizzato una lotta per l’assunzione e insieme al sindacato; io nel frattempo mi sentivo offesa dal trattamento ricevuto, e mi iscrissi a un concorso per il Senato: mi presero all’ufficio delle informazioni parlamentari.

Altro mondo.

Eravamo obbligati a mantenere un certo decoro: a un collega decurtarono metà dello stipendio perché aveva osato non indossare i calzini; un altro, tutti i giorni, era obbligato a togliere l’orecchino; mentre io sono sempre stata una un po’ scapestrata. Comunque sono rimasta quattro anni e, appena assunta hanno tentato lo scherzo del “Sarchiapone selvatico”.

Cioè?

Ti chiamavano dalla stanza accanto e chiedevano: “In quale anno è stato presentato il disegno di legge sul Sarchiapone selvatico?” Per fortuna avevo visto in televisione lo sketch di Walter Chiari e non ci sono cascata. Da lì sono salita nella scala dei valori.

Quei quattro anni…

Esperienza bellissima, e siccome dovevo dare informazioni parlamentari, mi sono impossessata di tutti i meccanismi; al mio piano c’era il Gruppo misto e allora era presente solo Umberto Bossi.

Diventata amica?

No, ero una dipendente.

E poi?

Dopo 4 anni il ricorso con i sindacati si è sbloccato, come la possibile assunzione.

Lei, subito.

Alt! Al Senato guadagnavo benissimo: 15 mensilità, stavamo chiedendo la sedicesima, quindi benefit, aiuti sul mutuo, e poi mio padre, da avvocato dello Stato, ripeteva: “Ma che sei matta, vuoi lasciare un posto del genere per il giornalismo?”.

Soluzione?

Uno dei borsisti, Angelo Figorilli, mio amico e già entrato in Rai, aveva capito che non mi conveniva, però mi voleva bene e conosceva la mia psicologia, così rispetto ai guadagni mi sparò una cifra approssimativa.

Perfetto.

Poi gli domandavo: “Quante ferie hai? Al Senato sono 40 giorni l’anno”. E lui: “All’incirca così”, e ancora un’altra serie di balle; quando mi è arrivato il primo stipendio, a momenti svenivo, e l’ho richiamato: “Che mi hai detto!!!”. E lui: “Altrimenti non saresti entrata”.

In famiglia?

Tutti contro di me, non solo mio padre; il massimo fu quando andai all’ufficio del personale del Senato: “Buongiorno, mi devo licenziare. Come si fa?”. “Non lo sappiamo, non si è mai licenziato nessuno”.

Esordio al Tg3.

Ero timida, terrorizzata, avevo paura di affrontare un mestiere importante, però mi misero nella redazione del Politico e mi ritrovai con una competenza pazzesca, ero dentro ai lavori parlamentari.

A Tele Kabul tra i nipoti di Stalin.

Mi reputo fortunata: avevo Sandro Curzi come direttore e Corradino Mineo caporedattore centrale. Mi hanno insegnato tutto. E per noi del Tg3 non era semplice lavorare.

Emarginati?

Ci consideravano solamente dei comunisti, mentre c’erano anche democristiani e liberali, poi uscì un articolo su il Popolo che ci derubricava a nipotini di Stalin e mi offesi; mentre Tele Kabul è opera di Giuliana Ferrara al congresso socialista, con noi relegati in uno scantinato.

Appunto, emarginati.

Ci trattavano come l’ultimo dei Tg, ma noi eravamo combattivi, con Curzi che ci spediva nelle piazze, parlavamo di mafia, di morti bianche, di argomenti che nessun telegiornale affrontava.

Com’era un rimprovero di Curzi?

Metteva paura, e anche Mineo non era male; (ride) un anno mi prendo un mese di ferie, destinazione India, ed esattamente in quel periodo scoppia la guerra in Iraq.

Dolore.

Quando mia sorella mi viene a prendere in aeroporto, mi inquadra la situazione: “Adesso ti piazzeranno a incollare i francobolli, i tuoi colleghi sono tutti i giorni in diretta”.

E invece?

Arrivo prestissimo in redazione, consapevole dell’incazzatura di Curzi, ma in India gli avevo preso un pareo con sopra tutte falce e martello; appena lo vedo gli do subito il dono. Lui lo prende e cambia d’umore.

Furba.

Non ho mai totalmente rinunciato alla mia vita per il lavoro; Sandro è stato veramente un maestro, è lui ad aver ideato la rassegna stampa e tutte le sere a mezzanotte chiamavo i giornali e mi segnavo i titoli a penna.

Falce e martello l’affascinavano?

Sono sempre stata di sinistra, la mia famiglia no, però oggi sorrido alla me quindicenne che credeva nella rivoluzione; adesso credo che se una persona è perbene lo è a prescindere dal voto.

Dal Tg3 a Chi l’ha visto? è diventata fonte di gossip.

Mi ha sempre dato fastidio, e non vado da nessuna parte, nessuna festa, sono riservata.

La fermano spesso?

Mah, normale, come accade a tanti; e poi giro in tuta, con il cane e il mollettone sulla testa.

Niente aperitivi.

Macché! Ripeto: non sono mondana, sono una giornalista.

Minacce?

Le ho messe nel conto; qualcosa è arrivato soprattutto dopo l’inchiesta sulla Banda della Magliana e le interviste ai superstiti di quel clan, tanto da volermi mettere sotto sorveglianza.

Ma…

Ho fatto mia una frase di Nino Mancini (uno degli ex boss della Magliana): “È meglio morire sparati che in ospedale”.

Tempo fa è stata una delle candidate alla direzione del Tg1.

Un sabato, mentre passeggiavo, all’improvviso mi esplode il cellulare di messaggi, ed erano tutti complimenti. Non capivo. Poi una collega mi scrive: “Ma è vero?” E io: “Cosa?” “l’Huffington post titola: ‘È fatta, la Sciarelli direttore del Tg1’”. Io basita. Poi sono andata a pattinare, e nel frattempo ho pensato: vabbè, sto zitta, per due giorni lo faccio credere.

E sono arrivate le raccomandazioni…

(Scoppia a ridere) Qualcuna sì… vabbè, scherzo; però non sono una innamorata del potere, quindi non ho mai brigato per ottenere di più e ritengo il mio mestiere già un privilegio.

Altri suoi colleghi hanno cambiato la loro tipologia di contratto e ottenuto stipendi sopra la media. Lei come è inquadrata?

Sono orgogliosamente dipendente della Rai e non ho neanche l’agente.

Un suo vizio.

Lo sport.

Scaramanzia.

Sono di origine napoletana.

Cattolica?

La mia famiglia sì, io solo rispettosa.

Lei chi è?

Una persona normale.

(Cantano i Mattia Bazar: “Sono una persona normale che fa da sé ma fa per tre. Non rinuncio a lottare. Ma mi piego all’amore, do all’amore tutto quel che ho”).

@A_Ferrucci

Governo “distratto” dal virus: Amazzonia, il saccheggio avanza

I disboscatori della Foresta Amazzonica non sono in isolamento, anzi, approfittano dell’attenzione incentrata sul Covid-19 e del disinteresse istituzionale del governo del presidente Jair Bolsonaro verso il medio ambiente, per agire indisturbati in Brasile. Chi ha deciso di devastare la foresta ha battuto il record nei primi tre mesi dell’anno. A confermare l’inquietante primato sono i rilevamenti satellitari del Deter, il Sistema d’allerta di disboscamento, l’organo integrato con l’Inpe, Istituto Nazionale di ricerche spaziali brasiliano. Il Deter ha constatato in tempo reale che la distruzione della selva pluviale – rispetto all’anno scorso – è aumentata del 52 per cento a gennaio, del 25 per cento febbraio e del 30 per cento a marzo. Pará, Amazonas, Mato Grosso sono gli Stati a Nord del Brasile che hanno ricevuto il maggior numero di avvisi di deforestazione. Sono le aree brasiliane dove si concentrano attività legate all’agro-business e all’allevamento di bestiame, ma dove si è anche iniziato a realizzare importanti vie stradali di collegamento, come la Cuiabá-Santarem e tratti della Transamazonica. L’asfalto facilita l’accesso di coloni che creano dal nulla insediamenti in aree rimaste miracolosamente intatte. “C’è stata una riduzione delle ispezioni – ha affermato Paulo Barreto, ricercatore di Imazon al G1 Globo – incoraggiata dal discorso politico contro la protezione dell’ambiente.

Inoltre, a dicembre 2019, è stata emessa una misura provvisoria che offre maggiori vantaggi agli invasori di terre pubbliche. Pertanto l’aspettativa di lucrare con la deforestazione aumenta e stimola il disboscamento. Inoltre, la politica d’isolamento per il Covid-19 non raggiunge necessariamente le aree rurali e soprattutto le regioni più remote del Paese”. Secondo Barreto, la tendenza all’aumento della devastazione in Amazzonia è in atto sin dall’anno scorso, primo anno del governo Bolsonaro. La deforestazione è quasi raddoppiata, passando da 4.946 chilometri quadrati nel 2018 a 9.167 km2 nel 2019. Gli esperti sostengono che ciò è dovuto, probabilmente, al crescente disboscamento illegale e alla successiva esportazione del legname pregiato, come l’Ipê che può essere venduto anche per 2.500 dollari al metro cubo. Il boom della vendita di legnami pregiati è iniziata da quando le nuove autorità che si occupano di ambiente, sopraggiunte con la nuova gestione presidenziale, hanno permesso d’alleggerire la normativa che vietava la vendita di legname di qualità all’estero, rendendolo legale per l’esportazione. La nuova regolamentazione protegge anche gli importatori stranieri.

La britannica Tradelink, secondo un reportage pubblicato da The Intercept Brasil, sarebbe riuscita a sbloccare container di legname sequestrati negli Usa, Belgio e Danimarca, grazie all’aiuto di Walter Mendes Magalhães, un ex militare in pensione, divenuto super intendente dell’Ibama nel Pará. Magalhães, secondo The Intercept Brasil, ha emesso licenze retroattive per liberare il carico sparso per il mondo. La domanda nazionale e mondiale per il legname stimola l’azione di gruppi criminali ad abbattere specie pregiate d’alberi soprattutto nelle riserve indigene, dove la selva è ancora intatta. Lo smantellamento delle ispezioni, l’assalto degli operai che disboscano freneticamente, implica anche il contagio delle popolazioni indigene e locali e il susseguente avanzamento della pandemia del Covid-19: i garimpeiros i cercatori d’oro, sono divenuti, assieme ai disboscatori, autentici untori del morbo.

L’allerta è contenuta in un dossier pubblicato il 15 aprile dall’Associazione nazionale dei servitori del medio ambiente (Ascema), documento redatto il giorno dopo in cui il presidente Bolsonaro, grande protettore e beniamino di cercatori d’oro e madereiros(disboscatori) ha licenziato il direttore dell’Istituto ambientale dell’Ibama, Olivaldi Azevedo, il quale aveva ordinato una mega operazione per reprimere il traffico illegale di legname e d’oro. Nell’operazione, iniziate il 4 aprile, erano stati distrutti 70 trattori, attrezzature e sequestrate decine d’armi. L’azione era stata realizzata per paralizzare attività illegali in tre terre indigene nel Pará, proteggendo in questo modo circa 1.700 indios dal contagio del coronavirus. E, sul fronte del Covid-19 le notizie sono pessime: 217 morti ieri in un giorno, nel Paese più colpito tra quelli latino-americani. Il bilancio sale a 2.141 morti. Aumentano anche i contagi: nelle ultime 24 ore sono stati 3.257.