“Il modello lombardo un bluff Napoli, invece, è responsabile”

Riaprire, quando, dove e come. Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, terza città d’Italia, va controcorrente.

Per riaprire c’è bisogno di una voce autorevole a livello nazionale. Basta con questa distonia tra Stato e alcune Regioni. C’è bisogno che il comitato tecnico scientifico supporti le decisioni autonome della politica e che ci facciano capire in tempi brevi quando può iniziare la fase 2. Per Napoli la data può essere il 4 maggio. Ma a tre condizioni: che fino al 3 maggio si stia in casa, continuino a essere confortevoli i dati sanitari, l’apertura sia graduale e si preservi il diritto alla salute con distanziamento sociale, mascherine e precauzioni varie.

Chiusi in casa, Napoli come si sta comportando?

Con responsabilità. La solita narrazione della Napoli indisciplinata e lazzarona, è offensiva. Per primi abbiamo chiuso scuole e cantieri e sanificato gli uffici pubblici. Disciplina dei cittadini e scelte del Comune, sono gli elementi che hanno frenato il contagio. Ad oggi abbiamo poco più di 800 casi e meno decessi rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.

Come riaprire la città?

Abbiamo dato già dei segnali alle attività produttive: niente tasse per tutto il 2020, nel prossimo futuro bisogna andare per strada, ma in maniera disseminata. Non più concentrazioni. Più spazi pubblici da utilizzare, iniziative distribuite sul territorio, più bici, pedonalizzazione, riscoperta degli spazi naturali.

Il presidente De Luca minaccia il lanciafiamme, la chiusura dei confini e vieta la consegna di pizze e cibo da asporto.

In Campania abbiamo dovuto subire delle ordinanze che sfiorano il sadismo istituzionale. Per quale motivo vieti la consegna a casa del cibo? Dal punto di vista sanitario è controproducente, da quello economico è un colpo durissimo a migliaia di lavoratori. È una misura punitiva e senza senso.

La chiusura costa 47 miliardi al mese all’Italia, 10 al Sud, a quanto ammonta la perdita per Napoli?

Siamo in piena epidemia sociale ed economica. Con le reti civiche e sociali, stiamo scongiurando che diventi conflitto sociale e contagio criminale. Ma per una città che vive anche dell’economia del giorno, è una mazzata tremenda. Però Napoli ha una capacità di resilienza e rigenerazione come poche. O napulitan fa sicc ma nun more, dice un nostro proverbio.

Il virus ci ha messo ko…

Il Paese è dentro una recessione da post seconda guerra mondiale perché negli ultimi anni la sanità pubblica è stata smantellata. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, con medici e infermieri che hanno pagato costi altissimi. Sono dati da guerra.

Sta pensando al Nord, alla Lombardia?

No, parto dalla Campania. Qui è iniziata l’epidemia con 334 posti di terapia intensiva per tutte le patologie, per legge ne avremmo dovuti avere 1.500, arriviamo a maggio a 500 posti, il resto sono chiacchiere e propaganda. C’è stata una riduzione selvaggia di ospedali, pronto soccorso, medici, infermieri. Questa è la regione che ha fatto meno tamponi. Se la battaglia si sta vincendo è solo grazie al rigore dei cittadini e al sacrificio del personale sanitario. La Lombardia? I dati ci dicono che il modello era un bluff. Ma questo è il momento dell’unità nazionale e io non sopporto i pregiudizi, neppure quelli contro il Nord. Questo virus è come la livella di Totò, ci mette tutti sullo stesso piano, ma non accettiamo più il “partiamo prima noi perché siamo il modello d’Italia”. Se è emergenza nazionale perché lo Stato continua a consentire questa balcanizzazione delle ordinanze e degli interventi? È il momento di rivedere l’architrave ordinamentale del nostro Paese. Il servizio sanitario deve essere pubblico e nazionale. Deve investire sulla prevenzione, sui medici. Il nemico ci ha preso alle spalle perché eravamo indifesi, senza argine.

Dopo saremo migliori?

La crisi ci impone di rivedere radicalmente il modello di sviluppo. Siamo in una economia di guerra, lo Stato deve trasmettere autorevolezza, coraggio e visione del futuro. Fare investimenti, snellire le burocrazie, immettere liquidità. L’Europa deve battere moneta e indebitarsi, il governo deve avere più coraggio. Non possiamo affidare la cura del dopo a chi ci ha ridotti così.

I dati sui morti ci sono. È ora di metterli a disposizione di tutti

I dati sulla diffusione dell’epidemia mostrano una frenata nella sua diffusione che però continua a persistere più a lungo di quanto sperato. Per programmare una “fase 2” è dunque di cruciale importanza capire i motivi di questo rallentamento. Ci sono vari fattori che vanno considerati. L’andamento che osserviamo su scala nazionale è dovuto alla somma degli andamenti di diverse Regioni e anzi di diversi gruppi di Comuni in ogni Regione. L’epidemia si è sviluppata in ognuno in tempi diversi. Dunque, il dato nazionale è una somma incoerente di andamenti eterogenei e già questo rende difficile una previsione anche su scala regionale. Inoltre, la rete su cui l’epidemia si sviluppa è complessa: pochi siti (persone o luoghi) sono molto connessi e tanti siti sono poco connessi. Queste reti sono inclini alla diffusione e alla persistenza delle infezioni qualunque sia il tasso di diffusione. In questa situazione avere dei dati affidabili che mostrano come l’epidemia si sviluppa è la chiave per poter predisporre le misure adeguate al suo contenimento e programmare un eventuale rilassamento delle misure fin qui adottate a tappeto sul territorio nazionale. I dati al momento sono un punto dolente e non danno una rappresentazione adeguatamente precisa della situazione da poter suggerire misure ad hoc per i diversi territori. Eppure, dei dati migliori sono sicuramente disponibili ma al momento non sono pubblici.

Da una parte è necessario che l’Istituto Nazionale di Statistica (Istat) renda disponibili alla comunità scientifica tutti i dati della mortalità comunale negli ultimi dieci anni: questo per eliminare degli effetti di selezione sia di carattere geografico sia per l’ampiezza dell’anomalia delle morti di quest’anno rispetto agli anni passati. Il valore della mortalità ricavabile dai dati Istat è normalmente superiore, a volte molto superiore, di quello attribuito al Covid-19 dai dati delle Regioni, del ministero della Salute della Protezione Civile. La differenza è interpretata come dovuta ad una sottostima dei decessi dovuti al contagio. Questa interpretazione, pur plausibile, ha però dei controesempi significativi.

Per due casi lombardi, il Comune di Bergamo e quello di Brescia, la differenza dei morti registrati Istat e quelli ufficialmente dovuti a Covid è elevata: a Bergamo è molto più alta del valore aspettato, mentre a Brescia questa, per i dati disponibili del 14,15 e 19 marzo, non mostra particolari anomalie (ma è leggermente superiore il 24 marzo). Essendo i Comuni geograficamente vicini, la differenza della mortalità potrebbe non essere dovuta ad una sottostima del contagio, ma dipendere da fattori contingenti. La stessa analisi estesa ai Comuni presenti nel dataset Istat, che sono solo una parte, mostra una forte disomogeneità geografica del fenomeno. In questo caso si intuisce come avere i dati a livello comunale e per tutti i Comuni potrebbe permettere di trovare le zone geografiche in cui comportamenti diversi si manifestano.

Capire la dinamica dell’epidemia a livello geografico e nella sua evoluzione temporale è di interesse non solo scientifico ma anche per la pianificazione delle misure di intervento più adeguate. Se è semplice capire che il contagio si evolve con le “gambe” delle persone, studiare tale dinamica non è facile e richiede l’incrocio di dataset diversificati (a volte le “gambe” delle persone sono treni ed aerei). Come esempi di quel che si può fare, pur avendo solo a disposizione il dataset Istat, abbiamo cercato di ricostruire l’evoluzione della diffusione dell’epidemia usando come indicatore il giorno del cambio di pendenza della mortalità.

Per esempio, nel caso di Lodi il cambio di pendenza è stimato al 23 febbraio: da lì si può determinare come la vicinanza geografica abbia costituto una correlazione per la diffusione dell’epidemia nei Comuni limitrofi e dunque stimare il ritardo nella propagazione. Se si avessero dati in tempo reale, si potrebbe anche intervenire in maniera più efficace. Come abbiamo notato nelle reti complesse ci sono pochi “hub” con tante connessioni e molti siti con poche connessioni ed i primi sono i più importanti per la diffusione E allora la cosa da fare è innanzitutto, in entrambi i casi, lavorare sugli hub: identificarli e fare in modo di contenerli invece di adottare misure generalizzate. In questo senso i dati della mortalità che potrebbero essere messi a disposizione dall’Istat, insieme ai dati sul Covid a livello comunale, rappresentano i dataset fondamentali per qualsiasi analisi e dunque per la messa a punto di una strategia adeguata e mirata. Perché non sono ancora pubblici?

*Istituto Nazionale di Fisica Nucleare **Centro Ricerche Enrico Fermi

Scontri tra gli scienziati e numeri tenuti nei cassetti

Dice il professor Giuseppe Ippolito dello Spallanzani di Roma che “i dati dovrebbero essere pubblici, dovremmo fare tutto open data. Ci sono fisici che stanno lavorando sull’epidemia ma non hanno i dati”, proprio come scrivono Gaetano Salina e Francesco Sylos Labini in questa pagina a proposito della mortalità. Ora si discute della fase 2, di una ripartenza controllata e differenziata per Regioni. Sarebbe importante conoscere gli indicatori del contagio, l’ormai famoso “R con zero”, su base locale. Ieri l’altro Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità e del Comitato tecnico scientifico (Cts) che si riunisce alla Protezione civile, ha detto che è sceso a 0,8. Alcune fonti qualificate attribuiscono all’Iss un valore inferiore, 0,6. Vuol dire che una persona colpita dal virus ne infetta in media meno di una. Era al 2,96 in Lombardia tra il 17 e il 23 febbraio, nella settimana del cosiddetto “paziente uno” di Codogno (Lodi) che poi in realtà era il “paziente n” perché l’epidemia circolava da tempo. Lo dice uno studio in preprint dall’8 aprile su MedArxiv, firmato tra gli altri dal presidente dell’Istituto superiore di sanità (Iss), professor Sergio Brusaferro e dal direttore delle Malattie infettive dello stesso Iss, professor Giovanni Rezza.

Ieri Walter Ricciardi, rappresentante dell’Italia nel board dell’Organizzazione mondiale della Sanità, consulente del ministro della Salute Roberto Speranza e membro del Cts, in un’intervista alla Stampa ha detto che “quell’indice di contagiosità a 0,8 è un dato nazionale, ma se in alcune aree del Sud siamo anche ben al di sotto, in altre del Nord l’indice è sopra l’1”. Di quanto? “Pubblicheremo lunedì con il gruppo dell’Università Cattolica uno studio sulle Regioni”, spiega il professor Ricciardi al Fatto. Il professor Rezza conferma: “In tutta Italia siamo sotto uno, nel Nord è più alto, nel Sud è più basso”, ma più in là non va. È atteso anche un altro studio dell’Iss. Ci dicono che l’Iss ha consegnato i dati al ministero della Salute. L’ufficio stampa del ministero della Salute però non risponde, il viceministro Pierpaolo Sileri dice di non averli ancora ricevuti. Allo Spallanzani non ne sanno nulla: “No, mi dispiace, io stesso avevo chiesto alcuni dati sulla mortalità ma non li ho ancora avuti”, risponde il professor Ippolito, anch’egli nel Cts. “Certo che sarebbe importante conoscere l’indice R0 per regioni. In una situazione come questa i dati dovrebbero essere pubblici”. Ma poi bisognerà anche valutarne la qualità: da molte Regioni i tamponi arrivano senza data, lo stesso Iss riceve cartelle complete solo per una parte dei casi; sarà molto difficile capire chi ha contagiato chi e come.

Nel Cts, intanto, sale la tensione. Sui test sierologici, cioè sulla valutazione delle macchine che mapperanno gli anticorpi degli italiani. Ma anche sulle riaperture e sull’obbligatorietà dei vaccini influenzali.

Il super-test del Commissario non vedrà gli infetti in corso

Dopo un mese d’inerzia il governo batte un colpo sul grande tema dei test del sangue per scovare gli anticorpi del Covid-19. Intanto le regioni hanno comprato milioni di test rapidi e ne hanno già fatti decine di migliaia. Il ministero ha boicottato i test ultra-rapidi ed economici che si fanno in 15 minuti e ha rallentato la scelta di quelli che viaggiano su macchine privandosi dell’unico strumento disponibile (in assenza dei tamponi) per tracciare il contagio.

Ora succedono due fatti a distanza di poche ore: Carlo Rosa, Ceo della società italiana quotata in borsa Diasorin, annuncia venerdì sera che ha ottenuto il marchio CE per la commercializzazione del suo test del sangue Liaison Sars-CoV-2 S1/S2 IgG. Lo stesso giorno il commissario per l’emergenza Domenico Arcuri finalmente pubblica il bando per scegliere i test sierologici agli italiani.

La procedura è semplificata e di massima urgenza. I 150 mila test sierologici saranno utilizzati per il primo screening di massa su scala nazionale per la ricerca degli anticorpi al coronavirus su un campione rappresentativo, per un’analisi epidemiologica utile a scoprire quanti sono, chi sono e cosa fanno i cosiddetti “immuni”, cioè i soggetti entrati in contatto con il Covid e poi guariti. Lo scopo è trovare chi può tornare a lavorare nella fase 2. Dopo potrebbe arrivare “la successiva estensione” per altri 150 mila test. Che poi potrebbe essere esteso a milioni di persone e diventare un trampolino di lancio per altri paesi del mondo, in testa gli Usa.

La maglie del bando sono sufficientemente larghe da consentire la partecipazione di più concorrenti. I kit richiesti devono essere del tipo chemiluminescenza (Clia) o immunoenzimatico (Elisa). La prima tecnica è più automatizzata, sofisticata, potente e costosa. In Italia al momento ci sono solo due società che distribuiscono due test Clia, di fabbricazione cinese. Dal giorno della pubblicazione del bando e dell’annuncio della certificazione CE del suo test, sul mercato c’è anche Diasorin.

A dire il vero, pur nell’indeterminatezza della documentazione disponibile, sembra esserci una differenza tra la Diasorin e le due concorrenti cinesi. Sia Snibe (distribuita dalla Medical System di Genova) sia Yhlo (distribuito dalla torinese Pantec) fanno la ricerca di due anticorpi: le Igm che segnalano l’inizio dell’infezione e le Igg che segnalano poi la risposta che annuncia la possibile immunità.

Da quel che è dato sapere Diasorin si concentra solo sulle Igg. Il bando chiede alle ditte solo la rilevazione degli Igg specifici degli anticorpi “neutralizzanti” al Sars-Cov 2. Potrebbe sembrare pleonastico. Ma non a chi ha ascoltato le interviste rilasciate dal professor Fausto Baldanti del Policlinico San Matteo ideatore del test Diasorin, sul quale il Policlinico San Matteo incasserà l’1% di royalties sulle vendite (su cui pende un esposto della concorrente Technogenetics per violazione delle norme sulla concorrenza). Per Baldanti il ‘plus’ di Diasorin è la capacità di distinguere tra i tanti anticorpi Igg quelli davvero “neutralizzanti”.

I test dovranno essere validati da “laboratori qualificati o agenzie regolatorie operanti a livello nazionale o internazionale”. Non è scritto chiaramente che dovranno essere già omologati CE.

In ogni caso il test dovrà possedere una specificità (margine di errore sui negativi al tampone) non inferiore al 95% e una sensibilità (margine di errore sui positivi al tampone) non inferiore al 90%. Poi c’è il requisito che potrebbe fare la differenza: i test offerti devono essere idonei a un’applicazione su larga scala nazionale (i laboratori accreditati devono essere pronti a usarli subito), per fornire risposte veloci tramite una capacità di processarne almeno 120 all’ora. La graduatoria privilegerà tra i requisiti, oltre ai valori di attendibilità, proprio la praticabilità immediata su vasta scala. Domande entro il 22 aprile, il 29 l’aggiudicazione.

Il test Diasorin gira su macchine Liason XL capaci di processare 170 campioni all’ora. Le cinesi Snibe e YHLO dichiarano 180 test l’ora. Contro le 500 Liaison della Diasorin installate però ci saranno oggi in giro 300 macchine Snibe e una quarantina della YHLO.

Oltre alla tecnica CLIA è ammessa anche quella più antica, economica e manuale detta ELISA. Il presidente della Confindustria Dispositivi Diagnostici, Massimiliano Boggetti è amministratore della Diesse Diagnostica di Siena, scelta dalla Regione Toscana per la sua campagna di test. “Sono deluso dal metodo usato per fare questa gara. Ancora una volta si fa un grande bando unico che privilegia grandi operatori e svantaggia la media e piccola impresa italiana. Non siamo stati consultati come associazione di categoria e il Governo ha scelto una strada diversa”. Anche la Euroimmun tedesca usa tecnica ELISA e sostiene di arrivare a 170 test all’ora.

La sensazione è che, vista la richiesta del parco macchine molto esteso da subito, Diasorin sia in pole position. Snibe e YHLO sapevano di non avere quest’arma ma puntavano molto sulla capacità di trovare le Igm, escluse dal bando. Una scelta che sorprende Paola Catani, direttore di Medical Systems, che commercializza il kit Snibe denominato Maglumi. “Questa è la prima volta che vengono trascurate le IgM in una ricerca anticorpale. Secondo la nostra esperienza, i risultati più affidabili si ottengono con l’unione dei due test. Interpretiamo questa gara come un esperimento preliminare e che, come prevede lo stesso capitolato, non crediamo che sia diretto alla individuazione di un unico fornitore ma a quella delle diverse aziende che propongono test di qualità”. Le Igm si vedono di solito dopo 9 giorni dall’infezione, prima delle Igg. I soggetti asintomatici potrebbe ricevere dai test del Governo un verdetto secco: ‘caro cittadino non sei immune perché non hai Igg’ ma non riceverebbero una seconda informazione cruciale: ‘sei nella prima fase dell’infezione, perché hai le Igm”. Qualcuno lo ha spiegato al commissario Arcuri?

“Caro fornitore, anticipami il 20% e manterremo in futuro il rapporto”

Uno sconto pari al 20% sul fatturato del 2019 da anticipare con un bonifico. In tal caso “ci sentiamo di potervi confermare la nostra partnership e il vostro ruolo nel nostro panel fornitori anche per il prossimo futuro”. Altrimenti, chissà. La lettera e una serie di telefonate arrivate nei giorni scorsi dal Piemonte stanno creando il panico tra gli imprenditori del settore tessile di Prato che aspettano la riapertura dopo il lockdown. Il paradosso è che la richiesta di sconto arriva dai colossi mondiali della moda nei confronti di piccole aziende che su quella fornitura impostano il proprio fatturato annuale. La lettera con la richiesta di anticipo, pubblicata per primo sul blog pratese Targettopoli, è stata inviata lo scorso 30 marzo dalla Miroglio Fashion di Alba, il gioiellino del gruppo Miroglio con i suoi 500 milioni di fatturato annui e tornata in cima alle cronache per la conversione dell’attività: produrrà 600 mila mascherine per la Regione Piemonte a carico della famiglia Miroglio.

Eppure, in tempi di ordini rinviati o annullati e difficoltà nella riscossione dei crediti, il ceo di Miroglio Group Alberto Racca ha chiesto uno sconto alle piccole aziende pratesi. “In questo contesto riteniamo opportuno avviare un discorso di filiera – si legge nella lettera di cui Il Fatto è entrato in possesso – dove tutta la filiera della moda concorre a sostenersi vicendevolmente”. Quindi, la richiesta: “Per questo, così come noi stiamo accordando ai nostri clienti ogni tipo di supporto economico per aiutarli, ci aspettiamo che la nostra filiera possa fare altrettanto con noi; vi contattiamo quindi, da un lato per chiedervi una piccola contribuzione economica legata alla situazione contingente, dall’altro per confermarvi che non abbiamo alcuna intenzione di fermarci di fronte a queste difficoltà”. Quella che la Miroglio chiama piccola “contribution” si trova nell’allegato alla lettera che indica precisamente il valore in euro, pari a circa il 20% del fatturato del 2019. Non proprio bruscolini, soprattutto per aziende di piccole dimensioni.

E chi non volesse “aiutare” il colosso della moda? Nella sua lettera Racca lancia un avvertimento nemmeno tanto velato: “Concordemente all’adesione della richiesta – si legge – ci sentiamo di potervi confermare la nostra partnership e il vostro ruolo strategico nel nostro panel fornitori anche per il prossimo futuro”.

Una richiesta che di volontario ha ben poco e per questo in grado di preoccupare gli imprenditori del distretto tessile di Prato che conta 2.800 aziende e più di 20 mila dipendenti: “Questa lettera ha dell’incredibile – dice un imprenditore del settore al Fatto dietro la richiesta di anonimato – Dovremmo versare un lauto acconto con bonifico in un momento in cui il coronavirus ci ha messo in ginocchio cancellando buona parte del fatturato del 2020”. Dall’azienda fanno sapere che l’accordo si è attestato tra il “3 e il 5% perché è quello che ci stanno chiedendo i nostri clienti”.

La richiesta della Miroglio Fashion non sarebbe l’unica pervenuta negli ultimi giorni agli imprenditori pratesi: nelle chat interne si parla anche di un altro colosso che per telefono avrebbe richiesto uno sconto pari a circa il 10%.

Per questo è arrivata anche la presa di posizione netta di Confindustria Toscana Nord che parla di “comportamenti commerciali opportunistici e scorretti” in un momento “così grave con il settore moda inattivo e i pesanti problemi di liquidità che investono le aziende”. “Comportarsi così è moralmente sbagliato ed estremamente miope – attacca il presidente Giulio Grossi – Chi fa parte della filiera moda italiana e locale è un anello di un sistema che potrà salvarsi solo se saprà collaborare, riconoscendo le esigenze degli altri segmenti produttivi”.

Ecco chi e come può riaprire: il rapporto dell’Inail sui pericoli

La base per progettare la riapertura graduale delle attività sospese, ora richiesta a gran voce pure dai presidenti di Regione, è già nelle mani del governo dal 9 aprile. È la data in cui il Comitato tecnico-scientifico ha ricevuto e allegato al suo verbale il documento tecnico dell’Inail, l’istituto pubblico che assicura gli infortuni sul lavoro, “sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione”. Quello che volgarmente viene chiamato “valutazione delle categorie di rischio”.

La politica insomma – sentiti gli altri tecnici (medici su tutti) e le parti sociali – ha la possibilità di decidere cosa riaprire anche prima del 4 maggio e quali indicazioni fornire a imprese e territori: al momento, però, non paiono esserci certezze, anche perché la stessa Inail raccomanda che il complesso delle sue proposte “venga coerentemente inserito in tutte le politiche di contrasto all’epidemia in corso con particolare riferimento al contact-tracing”, che però al momento è un tasto dolente della programmazione governativa tanto quanto i test epidemiologici sulla popolazione.

Intanto i numeri. Teoricamente “l’insieme dei settori attualmente non sospesi comprende 2,3 milioni di imprese (il 51,2% del totale)” e “un’occupazione di 15,6 milioni di lavoratori (66,7% del totale), mentre i sospesi ammontano a circa 7,8 milioni (33,3%)”. Il numero di chi, però, esce di casa per andare a lavorare è più basso: circa il 25% dei 23,5 milioni di occupati totali, vale a dire poco meno di sei milioni di persone. Riaprire significa, dunque, che in un certo numero di settimane/mesi si troveranno a doversi muovere da casa fino al lavoro all’ingrosso 17 milioni di lavoratori tra quelli sospesi e quelli in smart working: già si sa, ad esempio, che un settore “pesante” come la scuola riaprirà solo a settembre e anche gli spettacoli dal vivo saranno vietati ancora per un bel po’. Anche al netto di questi settori, comunque, si parla di milioni e milioni di persone che tornano a spostarsi: oltre al tracing, dunque, serve un piano per la mobilità (anche qui il documento tecnico esiste, ma il lavoro pratico con le varie municipalizzate non è cominciato).

Le indicazioni del documento sono varie e partono da un’analisi di rischio per i singoli settori produttivi che tiene conto di tre variabili: “Esposizione” e cioè la probabilità di venire in contatto con fonti di contagio mentre si lavora (massima, ad esempio, nel settore sanitario); “Prossimità”, cioè la possibilità che il tipo di lavoro non consenta un sufficiente distanziamento (può capitare in alcune fabbriche); “Aggregazione” ovvero la possibilità che il lavoro preveda il contatto con soggetti terzi (la ristorazione, ad esempio). Ovviamente il modello è più complesso di così, ma quel che salta all’occhio leggendo i risultati in ottica riapertura è che molti dei settori aperti, a partire dalla sanità ma anche i corrieri che consegnano la merce, sono attività considerate ad “alto rischio”, mentre in generale la manifattura, in cui molti settori sono chiusi, è in genere a rischio “basso” o “medio-basso”: paradossalmente, insomma, sul lavoro i 2,8 milioni di operai sospesi nell’industria o gli 800mila e dispari delle costruzioni correrebbero meno rischi di quelli di Amazon, che invece corrono qua e là.

Certo, oltre al tempestivo tracciamento-isolamento dei positivi e a trasporti pubblici sicuri (“raccomandabile l’uso di mascherine per tutti” oltre a un numero adeguato di passeggeri per vettura), vanno garantite condizioni di sicurezza anche sui luoghi di lavoro. Ovviamente è consigliato di continuare con lo smart-working dove si può, quanto al resto le raccomandazione sono di tre tipi: 1) organizzative, per mantenere il distanziamento sul luogo di lavoro e alle mense, negli spogliatoi o all’ingresso; 2) di prevenzione e protezione, in cui rientrano l’informazione ai lavoratori sui comportamenti corretti, la sanificazione e pulizia continua degli ambienti, la fornitura di mascherine, guanti eccetera; 3) le misure specifiche anti-contagio, in cui un ruolo centrale hanno la figura del “medico competente” e dei responsabili della sicurezza sul lavoro (la proposta, dove non c’è il medico, è coinvolgere le Asl e gli stessi uffici territoriali Inail), che dovrebbero individuare subito i “positivi”, isolarne e tracciarne i contatti in azienda insieme alle Usca (unità speciali di continuità assistenziale).

Ci sono altre misure possibili per ridurre i rischi: una tutela rafforzata che arriva fino alla non idoneità temporanea al lavoro per chi soffre di particolari patologie (cardiovascolari ad esempio) o sopra una certa soglia d’età (Inail ipotizza addirittura i 55 anni); “nelle aree maggiormente colpite potranno essere considerate misure aggiuntive specifiche come l’esecuzione del tampone per tutti i lavoratori” (ammesso, come ammette lo stesso istituto, che si possa).

La politica, insomma, ha gli strumenti per decidere e/o preparare la riapertura delle attività per evitare, parafrasando l’Ignazio Silone del terremoto del 1915, di morire nel dopo-guerra anche più che in guerra.

“Regole uguali per tutti” Il governo frena le Regioni

Le “quattro D” della Lombardia, il decalogo della Toscana, la fase 2 che in Veneto è già cominciata, la Campania pronta a chiudere i confini. A ogni governatore la sua ripartenza, almeno nelle dirette Facebook e sui giornali. Poi ieri, davanti agli schermi dei computer in videocollegamento, hanno tutti convenuto – chi più, chi meno controvoglia – che non è il momento delle “fughe in avanti” e che “si procede insieme”.

È l’obiettivo che il governo ha sin dall’inizio: misure “coordinate e omogenee” su tutto il territorio nazionale per evitare discriminazioni, concorrenza sleale e anche le rivendicazioni delle Regioni eventualmente penalizzate. Ed è quello che ieri il premier Giuseppe Conte ha ribadito anche nel confronto con Vittorio Colao, alcuni membri della sua task force e due rappresentanti del comitato tecnico-scientifico, che pure continuano a raccomandare prudenza e gradualità. Anche a loro Conte, accompagnato dai capidelegazione Dario Franceschini e Alfonso Bonafede e dal sottosegretario Riccardo Fraccaro, ha ribadito il modello dei “criteri nazionali uniformi”, così come stabilito negli ultimi decreti del presidente del Consiglio. Quello in vigore scade il 3 maggio e sul tavolo non ci sono anticipazioni, al netto di qualche settore del manifatturiero, secondo la logica delle “filiere” che ha ormai di fatto superato lo schema dei codici Ateco, mai rigido nemmeno all’inizio. Come al solito, infatti, va ricordato che molte aziende operative lo sono già: tutte quelle con i codici Ateco autorizzati e le 120 mila in deroga, a cui da domani andranno ad aggiungersi altri colossi come Fincantieri (la Fiom ha già proclamato uno sciopero, però), Gucci, Electrolux e Whirlpool che hanno siglato con i lavoratori accordi per riprendere la produzione in sicurezza.

Resta incessante il pressing di Confindustria, che ancora ieri ha ribadito che il 59 per cento delle imprese ha problemi di gestione, a cominciare dalla mancanza di liquidità. Non è un caso che il sindacato dei bancari ieri abbia espresso la sua preoccupazione per la giornata di domani, quando gli sportelli riapriranno e si “potrebbe generare tensione fra i clienti che si recheranno nelle filiali, sfociando in fenomeni di violenza che già sono stati registrati”. Si riferiscono ai clienti che chiedono lumi sul fondo di garanzia e sugli anticipi degli ammortizzatori sociali, visto che – ammettono gli stessi sindacati – “alcune banche non hanno predisposto le circolari interne né hanno modificato le procedure per poter accogliere le richieste da parte della clientela.”

È questo il Paese che si avvia al cinquantesimo giorno di lockdown. Per altre due settimane almeno, le regole rimarranno le stesse, al netto di un possibile allungamento della distanza delle corsette, che potranno estendersi a 500 metri da casa. Poca roba, visto che del futuro non c’è certezza: la relazione della task force guidata da Colao – quella che dovrebbe indicare soluzioni pratiche alla convivenza con il virus – è ancora in fase di stesura e non sembra di imminente pubblicazione. Fino all’ultimo, la questione chiave resterà il “controllo della risalita”: i dati diffusi ieri dalla Protezione civile parlano di 2733 ricoverati (79 in meno del giorno prima) e di 482 decessi, mentre i guariti aumentano di 2.200 unità. Con oltre 61mila tamponi fatti, resta comunque un incremento di 809 positivi. La ripresa “delle attività industriali, della logistica e dei trasporti”, ha ricordato ancora ieri palazzo Chigi, deve tener conto della “curva epidemiologica” per evitare “che si tornino ad affrontare situazioni di sovraccarico delle strutture ospedaliere”.

Salvate il soldato Attilio: Fontana agita la Lega

La Lombardia per la Lega è la linea del fronte. Quello dei contagi, certo, ma anche quello politico. Le difficoltà di Attilio Fontana – inchiodato ai molti errori di gestione della sua Giunta (Rsa, l’ospedale in Fiera fermo a 10 pazienti) e alle falle emerse nel modello sanitario regionale (eccessiva ospedalizzazione, mancanza di presidi territoriali) – rischiano di bruciare la narrativa del “partito della buona amministrazione” che è il contrappeso necessario alla postura “estremista” di Matteo Salvini.

Il Veneto d’altra parte, uscito bene dalla prima fase dell’emergenza Covid-19, è il regno del principale avversario interno del leader, Luca Zaia: non si presta a questo fine. E dunque, “salvate il soldato Fontana” è la nuova priorità: a questo fine in Regione è sbarcato da qualche giorno anche Matteo Pandini, giornalista e portavoce di Salvini a partire dall’avventura al Viminale.

Il suo arrivo – ha scritto ieri nelle pagine milanesi del Corriere della Sera Lorenzo Cremonesi, cronista di solito ben informato sulle vicende della Lega – risale a qualche giorno fa e ha avuto due conseguenze: l’addio dell’assessore Giulio Gallera (di Forza Italia) alla ribalta nazionale e gli attacchi coordinati a Beppe Sala sulla questione dei test sierologici a cui il sindaco di Milano vorrebbe sottoporre gli autisti Atm.

L’interessato, com’è giusto, nega: “Non ho incarichi, né contratti: la scelta di interrompere la conferenza stampa giornaliera di Gallera, a quanto ne so, è stata condivisa all’interno della Giunta anche perché, fortunatamente, la situazione migliora. Ogni tanto, non lo nego, gironzolo in Regione e do una mano, ma c’è già uno staff a cui non ho nulla da insegnare e poi, continuando a seguire Salvini, non avrei comunque tempo di far altro…”.

Anche il leader leghista peraltro, a quanto risulta al Fatto, gironzola spesso in Regione di questi tempi, probabilmente dando una mano anche lui a salvare il soldato Fontana.

È un fatto, per dire, che dopo il lunedì dell’Angelo la comunicazione del governatore lombardo – inciampato comunque nel poco elegante scaricabarile sui tecnici delle Ats per le morti nelle residenze per anziani – è cambiata di colpo e in modo anche un po’ imbarazzante. Niente più “me l’hanno detto i cinesi”, niente più “troppa gente in giro”, né “le librerie restano chiuse perché sono fonti di contagio” e niente più Gallera in conferenza stampa a dare i numeri, sotto con la riapertura di tutto il possibile dopo il 4 maggio come ha iniziato a dire lo stesso Salvini: positività, ottimismo, lavorare sodo, tutto molto lumbard.

L’unico problema è che la “fase 2” per la Lombardia è davvero rischiosa: sul territorio ci sono ancora molti contagi, ma poca sanità di prossimità e pochissime Usca, le unità speciali di continuità assistenziale che dovranno gestire i positivi e rintracciare i loro contatti.

Anche la strategia delle “Quattro D” (distanza, dispositivi, digitalizzazione e diagnosi) anche detta pomposamente “la via lombarda alla libertà” e alla “nuova normalità”, lanciata in pompa magna in questi ultimi giorni, non pare andare benissimo. Alla fine della cabina di regia regionale di venerdì i sindacati l’hanno seppellita così: “Non abbiamo ascoltato una sola proposta che si possa onestamente definire concreta”. Questo, però, non è un problema di comunicazione.

Il Piemonte gran malato rifiutò i medici da Roma

Va tutto ben madama la marchesa. La voglia di commentare così certe conferenze stampa dell’Unità di crisi della Regione Piemonte era forte, ma certo poco opportuna. Ora però la tentazione è fortissima. È accaduto infatti che, nella Regione dove il contagio cresce più che in ogni altra parte d’Italia (anche ieri + 3,3 contro l’1,9 della Lombardia) l’11 aprile scorso l’ex coordinatore dell’Unità di crisi piemontese (oggi responsabile 118 dell’area della maxi-emergenza) Mario Raviolo abbia gentilmente risposto “no grazie” all’offerta di rinforzi fatta dalla Protezione civile: “Buongiorno – risponde via email Raviolo l’11 aprile al Coordinamento nazionale dell’emergenza –, in relazione a quanto in oggetto (invio Medici nazionali, ndr), nel ringraziare codesto Dipartimento per il prezioso e insostituibile supporto ricevuto dalla scrivente Regione, si segnala che, essendo la fase ospedaliera in lieve remissione, non vi è più necessità di proseguire con l’invio di Medici e Infermieri”.

Parlare di “fase ospedaliera in lieve remissione” che giustifichi il rifiuto di professionalità mediche in aiuto suonare quanto meno paradossale in una Regione che si candida a essere ormai la seconda grande malata Covid d’Italia dopo la Lombardia. Non paradossali, ma sicuramente peggio, devono essere suonate quelle parole all’Anaao Assomed, l’associazione dei medici e dirigenti sanitari piemontesi: “Forse il dottor Raviolo – scrive in una nota la segretaria regionale Chiara Rivetti – ha letto i numeri del Molise, un errore può succedere, per carità. Perché i dati del Piemonte all’11 aprile erano di 490 casi in più e di 78 decessi nelle ultime 24 ore. In molti ospedali del Piemonte, i medici con specialità non equipollenti stanno, con grande abnegazione e spirito di servizio, assistendo i pazienti Covid. Questo per gestire l’iperafflusso e per sostituire i colleghi in quarantena perché contagiati. Molte attività cliniche sono sospese, e i malati con patologie non strettamente urgenti, differenti dal Covid, non hanno le cure che avevano in precedenza anche per la carenza di personale, occupato appunto con i malati di coronavirus”.

Insomma, altro che “fase ospedaliera in lieve remissione”, c’è bisogno di medici (e infermieri) come il pane: “Assurdo dire che non servono medici – dichiara la dottoressa Rivetti – l’ospedale di Verduno (la struttura in provincia di Cuneo adibita a o Covid a fine marzo, ndr) è fermo perché sono ripartiti proprio i medici della Protezione civile. Lunedì (domani, ndr) apre l’ospedale da campo alle Ogr e per fortuna che ci sono i colleghi cubani…”.

Che l’organico sia in sofferenza in realtà lo pensa anche la Regione Piemonte, che infatti ha indetto ieri un nuovo bando, in scadenza domani, “per l’assunzione a tempo determinato di infermieri e collaboratori socio sanitari, con disponibilità a lavorare in reparti strutturati su turni di 24 ore su 24”.

Ma allora perché quella email, Raviolo ha fatto di testa sua? “Assolutamente no – risponde l’interessato – è stata una decisione presa insieme ai medici dell’Unità di crisi e approvata dal commissario straordinario, Vincenzo Coccolo”. Ma allora il Piemonte davvero non ha bisogno di medici? “No – risponde Raviolo – ne abbiamo bisogno eccome. Tuttavia la Protezione civile ci ha offerto 14 chirurghi e un gastroenterologo, sono figure che in questo momento non servono. E infatti la Regione ha segnalato ieri alla Protezione civile che le professionalità mediche di cui si ha maggiore necessità sono anestesia-rianimazione, medicina generale e d’urgenza, pneumologia e infettivologia”. Eppure nella email si parla di “remissione ospedaliera”, non di professionalità sbagliate: “Ho cercato una formula che non urtasse la sensibilità di chi si metteva a disposizione – conclude Raviolo – ovviamente solo dopo essermi consultato con il mio referente a Roma”.

Caso chiuso? Difficile. Il solco tra medici e Regione si sta facendo ogni giorno più profondo. E sono molti i medici che in quest’emergenza lavorano “fuori specialità”. Quelli di cui – anche se per poco – il Piemonte pensa di poter fare a meno.

“Allarme pediatri, dottori di famiglia e guardie mediche”

Un primo risultato lo hanno incassato, dopo la lettera-denuncia con la quale all’inizio di aprile hanno messo in fila i sette errori commessi dalla Regione Lombardia nella gestione dell’emergenza Covid. Guido Marinoni, presidente dell’Ordine dei medici di Bergamo, e Gianluigi Spata, presidente della federazione regionale degli ordini, sono stati chiamati a far parte del comitato tecnico-scientifico che affianca la giunta guidata da Attilio Fontana. L’invito è arrivato direttamente dall’assessore al Welfare Giulio Gallera, dopo un aspro botta e risposta e una inevitabile scia di polemiche. Della serie: dopo lo strappo una ricucitura che è di fatto anche l’implicita ammissione, da parte della Regione, che probabilmente l’elenco delle criticità stilato dai medici ha colto nel segno. “Ben contenti di partecipare”, dice ora Spata, precisando che anche “se a noi non spettano certo le decisioni politiche la medicina territoriale va rivista. Oggi facciamo soprattutto triage telefonico ma dobbiamo riprendere in mano il nostro lavoro, per esempio puntando sulla telemedicina per il monitoraggio dei pazienti: pensiamo naturalmente ai pazienti Covid ma anche a chi ha patologie croniche”.

Tutto risolto? Non proprio. Le doglianze restano lì, sul tavolo del comitato, intorno al quale è stato chiamato a sedere anche un rappresentante degli ordini infermieristici. E si va dalla mancanza di dati sull’esatta diffusione dell’epidemia, legata all’esecuzione di tamponi solo sui pazienti ricoverati (con sottostima del numero dei malati e dei decessi), alla mancanza di dispositivi di protezione individuale per i medici di famiglia. Per arrivare alla quasi totale assenza delle attività di igiene pubblica, a partire dall’isolamento dei contatti e ai tamponi sul territorio. “In fondo qualcosa l’abbiamo ottenuto – dice Marinoni –. La Regione ha emesso una circolare che stabilisce l’esecuzione del tampone per chi, malato e in isolamento domiciliare, deve rientrare al lavoro: senza, non può essere riammesso. Bene. Solo che ci deve essere una dotazione sufficiente di tamponi che adesso non c’è. A Bergamo, per esempio, l’Ats riesce a farne solo 350 al giorno”. L’Istituto zooprofilattico sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna – primo istituto incaricato di fare le analisi dal ministero della Salute all’inizio dell’emergenza – analizza 2.200 campioni al giorno nella sede di Brescia, altri 800 a Pavia, 2.500 dei quali provenienti dalle aziende sanitarie della sola Lombardia. “Le forniture però sono agli sgoccioli – spiegano dall’istituto –. Speriamo di poter chiudere un accordo con una azienda la prossima settimana”. Eppure il test è necessario farli a tutti coloro che, ammalati a casa, finiscono la quarantena, anche per tracciare gli eventuali contatti, osserva Samuele Astuti, consigliere regionale del Pd: “L’assessore Giulio Gallera in commissione Sanità ci ha detto che siamo arrivati a 11mila tamponi al giorno. Sono pochissimi: e questo a cinquanta giorni dall’emergenza. E rammento che appena scattato il contagio tutta l’attenzione della Regione era sui ventilatori, per chi era in ospedale, e non sui tamponi”.

Sul fronte della medicina territoriale, come denunciato dai medici e dalle opposizioni, la Lombardia è debolissima, a causa del forte spostamento dell’attenzione sugli ospedali a scapito del territorio (medici di famiglia, pediatri, guardie mediche). “È mancato del tutto un coordinamento della medicina territoriale, anche come supporto ai sindaci per l’identificazione dei soggetti a rischio perché entrati in contatto con persone Covid”, prosegue Astuti. Quanto alle Usca, le Unità speciali di continuità assistenziale, la Regione è in ritardo anche su questo. Costituite da medici per l’assistenza a domicilio dei pazienti Covid, dovrebbero essere una ogni 50mila abitanti. In Lombardia ce ne dovrebbero essere almeno duecento, mentre fino ad ora ne sono state attivate solo 44. E la scarsa attenzione al territorio, nonostante il lieve allentamento della forte tensione sulle terapie intensive, non autorizza a escludere che la pressione non possa aumentare nuovamente, come ha spiegato al Fatto, pochi giorni fa Antonio Pesenti, primario al policlinico di Milano e coordinatore di tutte le terapie intensive della Lombardia. “Oggi l’unico cambiamento che potrebbe fare la vera differenza sarebbero le dimissioni di Gallera – dice Marco Fumagalli, consigliere regionale dei 5stelle –. Non è riuscito nemmeno a far partire i presidi sanitari socio-territoriali previsti dalla legge di riforma del 2015. Legge sperimentale che peraltro non ha funzionato”. Qualche buona pratica comunque c’è. A Bergamo una cooperativa di medici (Iniziativa medica lombarda, che associa 900 camici bianchi), ha siglato un accordo con l’Ats per fare da tramite tra i contagiati e l’azienda sanitaria per il trasferimento in un hotel Covid.