Funeral Party

Siccome per scrivere servono le mani, adotto un paio di accorgimenti per non tenerle impegnate h24 a fare gli scongiuri: guardo meno tv possibile e, appena arriva il Savonarola di turno a ricordarmi che devo morire, la fine del mondo è vicina, è tutto sbagliato e tutto da rifare, metto un film di Totò o di Sordi; non potendo esimermi dalla lettura degli altri giornali, alterno le lugubri apocalissi che invadono ogni pagina, inclusi lo sport e il meteo, con alcuni ritagli di buone notizie che conservo a mo’ di amuleto. Lo studio dell’Imperial College di Londra pubblicato su Lancet, che già il 31 marzo calcolava in 40mila le vite umane salvate in Italia dalle misure del governo (su 60mila in tutt’Europa). Gli elogi dell’Oms e della Ue al governo Conte per la reazione ai primi casi di coronavirus, poi copiata da quasi tutti gli altri. Ranieri Guerra dell’Oms che riconosce al governo italiano, diversamente da molti altri, il merito di seguire gli scienziati. I dati dell’Inps, che dopo il crollo del sito il primo giorno, versa in breve tempo i 600 euro alla gran parte degli aventi diritto, in un Paese sgarrupato che di solito, per queste operazioni, impiega mesi. La ricerca internazionale pubblicata l’altroieri su Condensed Matter, che usa la fisica quantistica per calcolare il fattore di successo dei provvedimenti adottati dai vari Paesi e colloca quelli italiani subito dietro Cina e Sud Corea e davanti al resto del mondo.

Piccole soddisfazioni per chi ha sempre sostenuto che questo fosse il peggior governo possibile a eccezione di tutti gli altri. E che Conte non fosse né Cavour, né De Gasperi, né Churchill, ma neppure il pirlacchione che veniva descritto dal Giornale Unico. Questo non ci impedisce di segnalare gli errori del governo: di comunicazione (scarsa, a dispetto di chi la ritiene eccessiva) e di sostanza (ritardi e sottovalutazioni nella fase iniziale, conflitti d’interessi nei comitati tecnici, nell’App del tracciamento e nei test sierologici, timidezza con le Regioni più sediziose). Ma ci aiuta a restare ancorati alla realtà: quella di un Paese governato, almeno a Roma, da persone perlopiù perbene e con la testa sul collo, che ci hanno evitato la catastrofe (pressoché certa con i cazzari che vogliono la testa di Conte) e accompagnati in poco tempo fuori dall’emergenza (al netto dei dati di Lombardia e Piemonte), con qualche speranza anche per la Fase 2. Di questa realtà oggettiva non c’è traccia nella narrazione politico-giornalistica dominante, improntata al più lugubre Funeral Party. Ti dicono che siamo peggio della Cina, poi si scopre che la Cina s’è scordata qualche decina di migliaia di morti.

Ti dicono che Conte parla troppo, troppo poco, troppo tardi, in diretta Facebook (falso), a reti unificate (falso), non risponde alla stampa, anzi risponde ma replica pure alle opposizioni e non sta bene (se polemizzi con qualcuno, non devi dire con chi, ma solo farlo intuire). Ti dicono che Conte fa tutto da solo e non si fa aiutare dagli esperti; poi nomina comitati di esperti e ti dicono che gli esperti sono troppi, meglio fare tutto da solo. Ti dicono che siamo in ritardo sulla Fase 2, ma non specificano rispetto a quale data, visto che il lockdown finisce tra due settimane. Ti dicono che questo governo non lo vuole nessuno, ma purtroppo l’80% degli italiani apprezza ciò che fa. Allora ti dicono che tanto arriva Draghi (“facciamolo senatore a vita!”, “santo subito!”), o Colao (“ministro!”, “premier!”), o il primo che passa; ma non spiegano quale maggioranza li sosterrebbe, posto che il M5S passerebbe difilato all’opposizione: Pd, Lega e Forza Italia Viva? Boh. Buontemponi e malvissuti che passano la vita alla buvette a fare e disfare governi e accroccare alleanze in base a boiate origliate e flatulenze annusate, senza mai azzeccarne una.

Fosse per Verderami del Corriere, avremmo avuto 10 anni di governo Alfano e ora saremmo in pieno governo Giorgetti. Fosse per Minzolini del Giornale e Folli di Repubblica, avremmo le larghe intese permanenti in saecula saeculorum. Poi c’è il prof. Sabino Incassese, con quella vocina da vecchietto del Far West, che scuote il capino in tv perché, signora mia, non ci sono più le classi dirigenti di una volta, quando Re Giorgio gli piazzava i suoi protetti nei posti giusti. E i cipressetti del club Repubblica-Verano Illustrato-Huffington Post che fanno il giro delle sette tv a dispensare cattivi consigli, avendo esaurito i cattivi esempi. E i giornali di destra, vedovi inconsolabili del Cazzaro Verde e dei suoi cabarettisti lombardi, che ogni giorno annunciano la morte violenta del governo (senza nulla togliere agli altri, stravince Libero: “Feltri: ‘Conte sequestratore, il Quirinale si svegli’”,“‘Conte fuorilegge’. Farina: ‘Ufficiale, il premier è un pericolo pubblico’”, “Vespa: ‘Governo di unità nazionale o rischio secessione. Non vorremmo che quando la rissa finirà, sul campo restasse il cadavere dell’Italia’”). Chi legge e ci casca pensa che il governo abbia le ore contate, anzi i minuti. Come quando tutti davano per certa la procedura d’infrazione Ue contro i gialloverdi, con agognata Apocalisse, poi ci restavano male perché Conte ogni volta la sventava. E allora come oggi si confermava – per citare Flaiano su Cardarelli – il più grande premier italiano morente.

I doppiatori si oppongono: in rivolta contro la ripartenza

Doppiatori italiani in rivolta. Perché in questi giorni sono stati richiamati al lavoro, ma molti non si sentono sicuri. E così hanno manifestato il loro disagio con una lettera inviata all’Istituto Superiore di Sanità, oltre che alla Protezione civile, all’Anica e al ministero dei Beni culturali. Tutto il settore delle produzioni cinematografiche (film) e televisive (fiction e serie tv) è fermo e i set sono bloccati, almeno fino al 4 maggio. I doppiatori, invece, sono operativi, perché le aziende di doppiaggio, dopo un primo momento di blocco, possono (e vogliono) ripartire. Tutto, però, nasce da una falla del sistema. Potremmo chiamarlo un “baco” del settore del doppiaggio. Gli attori-doppiatori (circa 2 mila in Italia, ma in costante aumento visto l’afflusso mensile delle serie tv internazionali sulle varie piattaforme) hanno un codice Ateco del gruppo R (attività artistiche, sportive e d’intrattenimento), che rientra nelle categorie sottoposte al blocco. Le aziende di doppiaggio, invece, hanno un codice del gruppo J, che raggruppa imprese e servizi di comunicazione e informazione, autorizzate a lavorare. Far parte di due filiere diverse, una ferma e l’altra no, ha provocato un corto circuito, che in qualche modo è stato risolto dal ministero dello Sviluppo economico.

Sollecitato dalle varie categorie, a partire dall’Anad (Associazione nazionale attori doppiatori), l’8 aprile il Mise ha stabilito che i doppiatori possono lavorare. E così alcune aziende hanno ripreso l’attività. A questo punto, però, molti doppiatori si sono ribellati. “Noi non facciamo informazione bensì doppiaggio. Tutti i nostri colleghi che lavorano nel teatro, nel cinema e in tv sono fermi. Perché noi no?”, hanno scritto nella missiva all’ISS.

Le criticità manifestate sono diverse. Il fatto che si lavori in più persone in sale insonorizzate, quindi chiuse e senza finestre. L’impossibilità di indossare mascherine davanti ai microfoni (oltretutto utilizzati da più persone nella stessa giornata). Il problema del distanziamento sociale, di difficile applicazione: in una sala doppiaggio, oltre agli attori, ci sono fonici, assistenti, “dialoghisti”, ecc… Inoltre il lavoro non si svolge in un unico luogo, ma ci si sposta in stabilimenti diversi, venendo a contatto con un numero elevato di persone. Tra i doppiatori, poi, ci sono anche persone anziane, a volte ultraottantenni, oppure minori. “Chiediamo un parere all’ISS affinché ci venga indicata una tempistica per tornare a svolgere il nostro lavoro che tenga conto delle criticità indicate, nonché le misure da adottare per prevenire ogni possibile rischio”, scrivono i doppiatori. Perché l’autorizzazione del Mise, che ha competenze su problematiche economiche, “è importante, ma non basta, vogliamo anche un vostro parere”, aggiungono. La risposta, però, non è ancora arrivata. “Il doppiatore non è come lo speaker radiofonico, che in studio è da solo con un tecnico. Per doppiare un film occorrono diverse tipologie di persone nello stesso spazio”, spiega uno loro, che vuole mantenere l’anonimato.

“La sensazione è che il via libera del Mise sia arrivato senza conoscere bene come funziona il nostro lavoro”, aggiungono.

La situazione, come per molti altri settori, è complessa. “Nessuna nostra azienda associata riaprirà se non rispetta tutti gli standard di sicurezza e anche di più. Nessuno vuole mettere a rischio la sicurezza dei lavoratori. Insieme alle associazioni di categoria e ai sindacati, ci stiamo impegnando affinché ci siano condizioni di assoluta sicurezza per tutti”, afferma Ranieri de’ Cinque, presidente della sezione industrie tecniche di Anica. I doppiatori, però, non si sentono sicuri e vogliono garanzie dai medici.

L’ultimo strappo di Paul: mai come John (e Yoko)

Igiornalisti non credevano ai propri occhi. Nella cartella stampa del primo album solista di McCartney c’era un questionario. Paul rispondeva a domande scritte da lui stesso. Un lapidario “No” era la sentenza a interrogativi come “Stai progettando nuovi dischi con i Beatles?”, e “Firmerai altre canzoni con Lennon?”. Glissava, il bassista, sulla “definitività” della pausa: intanto proponeva quel prodotto casalingo, suonato da sé, con l’aiuto di Linda. “Non diventeremo come John e Yoko”, puntualizzava velenosamente. Non gli mancava la batteria di Ringo. Né, sottolineava, c’erano rapporti con Allen Klein, il manager (condiviso con gli Stones) che ora aveva preso le redini dei Fab Four, con scorno di Paul, che avrebbe affidato volentieri gli affari della band ai parenti della moglie.

Era fallita la strategia per rendere più solida la propria leadership, che lo aveva visto diventare un piccolo Cesare all’indomani della morte di Brian Epstein, tre anni prima. Così, quando il 10 aprile 1970 il Daily Mirror sparò quel titolone, “Paul lascia i Beatles”, il dado era tratto. Una settimana più tardi McCartney aveva l’album nei negozi (e recensioni tiepide), ma si lamentava con i reporter che “avevano frainteso” il comunicato. Come fosse, indietro non si tornava: presto avrebbe trascinato gli ex compagni in tribunale. Restò con il cerino in mano, prendendosi la colpa di quell’epocale divorzio, vai a capire se fu ingenuità o megalomania. Perché che i Beatles non fossero più un gruppo era un segreto di Pulcinella. Il primo a sbattere la porta era stato George, quindici mesi prima. Durante le disastrose sessioni per Get back Paul bullizzava Harrison di fronte alle cineprese del regista Michael Lindsay-Hogg (lo storico documentario Let it be verrà ripubblicato con scene inedite a settembre). Il 10 gennaio 1969 George disse: “Ci si vede in giro”. Lennon commentò: “Un’emicrania in meno”, e propose di ingaggiare Eric Clapton, che saggiamente rifiutò. Harrison era in guerra con McCartney, ma anche deluso da John, che puntualmente metteva il veto sulle sue composizioni. E dire che Lennon e Harrison erano stati inseparabili, finché era arrivata Yoko. L’uscita di George si protrasse per giorni, ma il 30 gennaio ’69 c’era anche lui sul tetto della Apple per quel gelido ultimo “concerto” chiuso dalla cinica frase di John: “Grazie a tutti, speriamo di aver superato il provino”. Tennero duro per altri mesi, completando il capolavoro che, di fatto, suggellava il ciclo mitico, Abbey Road, con la copertina scattata in agosto sulle strisce: a sinistra, fuori campo, gli studi dove avevano creato magie insieme, a destra i loro separati destini. Da una parte la leggenda dei 60, dall’altra la paranoia dei 70. Il 20 settembre 1969 fu John a dire addio: l’accordo era che mantenesse il segreto fino all’uscita al cinema di Let it be, nel maggio ’70. Ma in aprile Paul spiazzò la ditta. Alla premiere del film non andò nessuno dei quattro. Ringo fu spedito da McCartney (“un messaggio da noi a te” era scritto sulla busta) ma fu respinto in malo modo. Così, 50 anni fa, hello goodbye a chi aveva rivoluzionato tutto: musica, moda, costumi, spiritualità, tra paradisi artificiali e utopie. La Beatlemania aveva risollevato l’umore dell’America dopo la morte di JFK, ma dopo ci furono i falò dei dischi per la pretesa di essere più famosi di Gesù. Un peso troppo grande da caricarsi sulle spalle per dei ragazzi, come cantavano in Carry that weight. Eppure, nel biennio dopo la rottura, avevano continuato, ciascuno per conto proprio, a dispensare perle. Fantasticando su un immaginario Album Nero potremmo ideare la scaletta del “loro” miglior disco di ogni tempo: con John a regalarci Imagine, Instant Karma, God, Mother, Jealous guy, Working class hero; Paul a rispondere con Uncle Albert/Admiral Halsey, Junk, Maybe I’m amazed, Another day; George pronto con My sweet Lord, Beware of darkness, Wah-Wah, e Ringo puntuale su It don’t come easy. Sì, i Beatles c’erano ancora.

“Addio baci e balli sul set: faremo film in costume”

Prima la speranza: “Poter ricominciare a girare a fine giugno, inizio luglio”. Poi la realtà: “Oggi ognuno dice la sua, ma in Anica stiamo lavorando a un protocollo condiviso, e lo troveremo”. Quindi il problema: “Il set è un cantiere, con una tipicità: gli attori. Non potranno indossare protezioni, né mantenere la distanza, non sempre almeno: che si fa?”.

Si sta come di primavera sulle bozze d’accordo i produttori, e Angelo Barbagallo non fa eccezione: il suo è un ritorno al futuro, una sospensione tra i primi due film che ha messo in piedi, Notte italiana (Carlo Mazzacurati, 1987) e Domani accadrà (Daniele Luchetti, 1988). Confida “nel controllo preventivo e quotidiano, negli screening e nei monitoraggi”, vorrebbe tornare in ufficio e predisporre le lavorazioni, però lo sa: “Una scena in discoteca non la potremo girare”. Non più, “non fino al vaccino, temo”. E quando si ribatterà il ciak? “Film in costume o nel futuro, perché non si può pensare all’oggi senza le mascherine. Del resto, non fa strano vedere qui e ora cose registrate in studio? Che sia angoscia o inverosimiglianza sembra tutto finto”.

L’avvenire accoglierà forse drammi dell’incomunicabilità alla Michelangelo Antonioni, Barbagallo mette le mani, pardon, gli occhi avanti: “Ho rivisto L’avventura, mi è piaciuto”, e l’istantanea è lucida: “Non solo i comportamenti, cambieranno i nostri desideri. La voglia di contenuto del pubblico è enorme, ma prima dobbiamo ritrovare la sintonia”. E ancora non basta: “Non la messa funebre, ma pregare sì, dobbiamo: l’esercizio cinematografico ha ricevuto un colpo tremendo, serve un miracolo”. Tutto il resto è Buster Keaton: “Da The Boat a Go West lo consiglio spassionatamente: comicità e fisicità, al confronto chi fa parkour sembra un dilettante. È perfetto, Keaton: ha in faccia l’espressione che oggi abbiamo tutti”.

Capitano coraggioso e pluripremiato (Mery per sempre, Ultrà, La scorta), Claudio Bonivento guarda agli ultimi: “Far sopravvivere gli elettricisti, le maestranze, gli attori da due pose e una fiction ogni tre mesi”. “Teniamoci chi c’è, fanno il possibile”: i politici non li tocca, Bonivento, ma “gli avvocati e i notai che hanno chiesto l’indennità di 600 euro sì: chi può rinunci in favore di chi ne ha davvero bisogno”. Perché il quadro clinico è compromesso, e su più fronti: i cinema, “ammesso di non avere paura e tornarci, ve l’immaginate una coda dall’Eden (in Prati, ndr) a Piazza del Popolo per rispettare la distanza di sicurezza?”; le assicurazioni, “oggi chi assicura un film?”; i set, “va bene il presidio medico, ma se alle otto del mattino il macchinista preso per quel giorno risulta positivo… tutti in quarantena?”; i costi, “prendiamo una casa in cui girare, andrà sanificata prima e dopo, con tempi e danari aggiuntivi”; le sceneggiature, “baci e abbracci ce li scordiamo?”. Per il regista di A mano disarmata “il Coronavirus ha fatto esplodere le magagne che già c’erano, ma considerare come fa Aldo Cazzullo sul Corsera cinema e spettacolo figli di un dio minore è drasticamente sbagliato: parliamo di trecentomila addetti e altrettante famiglie, ovvero un milione di persone. Al 20 maggio manca un’eternità, e chi non ce la fa a mangiare?”.

In carnet un paio di fortunati esordi (Il più grande sogno di Michele Vannucci, Sole di Carlo Sironi), Giovanni Pompili ha due film in stand-by: una coproduzione polacca e una spagnola, Alcarràs di Carla Simón, la regista del bellissimo Estate 1993. Le location previste sono a cinquanta chilometri dal focolaio di Lleida, e Pompili al di là di tutto, “set sigillato, controlli medici, misurazioni termiche”, ne fa “una questione etica, un dilemma morale: fra tre mesi posso chiedere a vecchi e bambini di venire a girare?”.

Se dalla famiglia, dove ha fatto una serata Blues Brothers con i bambini, desume che “per ora l’unico modo di tornare al cinema sarà come esperienza e non come visione”, l’agognato contenuto audiovisivo non dovrà solo scontrarsi con ostacoli pratici, le assicurazioni che non coprono la pandemia, ma anche idee incerte: “Produzioni ferme, tutti sviluppano tantissimo, sì, ma cosa? Che prodotto, quali storie, la gente avrà voglia di ritrovarsi il Covid-19 anche sullo schermo?”.

@fpontiggia1

“Nessun protocollo o regola: Wuhan, il P4 è il sito dei misteri”

“Dopo i dubbi della comunità internazionale sulla trasparenza di Pechino nella gestione dell’epidemia di Sars, la Cina chiese la collaborazione della Francia per costruire un laboratorio d’alta sicurezza biologica come quello di Lione. Il dibattito era stato aspro all’epoca. Da un lato si riteneva che la decisione di Pechino fosse legittima. Dall’altro, c’erano molti timori. Si sospettava che la Cina stesse sviluppando un programma di armi biologiche. I servizi segreti temevano che il P4 potesse servire a questo scopo. Era accertato che Pechino progettasse di costruirne altri, mentre ufficialmente quello di Wuhan doveva essere il solo. Inoltre la Francia aveva già finanziato dei laboratori P3 per la Cina, che Pechino disse di aver smarrito. Era molto inquietante. Malgrado ciò, il presidente Chirac, che aveva una politica filo-cinese, firmò un accordo con Pechino nel 2004”. Antoine Izambard, giornalista di Challenge, ha indagato per il suo libro France-Chine: les liaisons dangereuses (2019) sul P4 di Wuhan, un laboratorio con il più alto livello di biosicurezza (BSL-4) nato da una collaborazione franco-cinese siglata nel 2004, dopo la crisi di Sars. Le recenti rivelazioni del Washington Post hanno rilanciato l’ipotesi che il virus del Covid-19 sia potuto “sfuggire” da un laboratorio dell’Istituto di virologia di Wuhan. E i sospetti si sono concentrati soprattutto sul P4, inaugurato solo tredici anni dopo l’intesa franco-cinese, il 23 febbraio 2017, in presenza di Bernard Cazeneuve, allora primo ministro francese: “Il P4 potenzierà le capacità della Cina di condurre ricerche di punta e a reagire efficacemente contro l’apparizione di malattie infettive”, aveva detto. Pechino aveva voluto il P4 di Wuhan su modello del P4 Jean Mérieux-Inserm di Lione. Il governo francese aveva annunciato l’invio di un’équipe di ricercatori per lanciare un programma di ricerca comune. Ma, stando a un’inchiesta di Radio France, la collaborazione tra Parigi e Pechino si è rapidamente arenata. Il progetto di ricerca comune non sarebbe mai partito. “Non ci sono riunioni del Comitato franco-cinese sulle malattie infettive dal 2016”, ha spiegato Alain Mérieux, che aveva co-presieduto il progetto. L’azienda francese di ingegneria Technip non avrebbe voluto dare la sua certificazione. “Il sensibile laboratorio di Wuhan è sfuggito un po’ alla volta al controllo scientifico della Francia”, conclude l’inchiesta. Izambard denuncia al Fatto “l’opacità” con cui la Cina ha sempre gestito il progetto.

Il progetto è nato nel 2013, ma il laboratorio è stato certificato solo nel 2017. Come mai così tanto tempo dopo?

Pechino e Parigi non erano sulla stessa lunghezza d’onda. I cinesi non rispettavano a pieno tutte le regole di sicurezza sanitaria dettate dagli esperti francesi. Vi faccio un esempio. Perché le sale siano perfettamente impermeabili, bisogna costruire dei muri di un certo spessore e con certi materiali. Loro volevano fare in fretta, risparmiare sui materiali. Ci sono state molte tensioni. Il progetto è decollato davvero nel 2010 e il cantiere si è chiuso nel 2015.

Si sa se il laboratorio, una volta ottenute le certificazioni, rispettava di fatto le norme dettate dagli esperti francesi?

Per quanto ne so, i cinesi si sono adeguati a molte regole. Ma la Francia, che ha fornito il suo know-how, non ha avuto alcun potere decisionale. Sono società cinesi quelle che hanno lavorato sul cantiere. Ci sono state negligenze? Non ho elementi per dirlo. Ma diplomatici francesi mi hanno riferito che, nella costruzione del P4, non c’è stata alcuna trasparenza da parte della Cina.

Come mai, malgrado i sospetti, la Francia ha deciso di collaborare con la Cina per il P4?

In principio le intenzioni erano buone. Era piuttosto logico che la Cina potesse servirsi di uno strumento ad alta tecnologia di lotta e di prevenzione delle epidemie, dal momento che diverse epidemie sono partite da lì. Il problema, all’epoca come ora, è lo stesso: la politica sanitaria e biologica della Cina è poco trasparente. Si sa che nel 2017 le autorità cinesi hanno certificato il P4 di Wuhan per la ricerca su tre malattie: Ebola, la febbre emorragica Congo-Crimea e la malattia da virus Nipah. Sono stato a Wuhan nel febbraio 2019, ma il laboratorio non sembrava neanche operativo. Nel 2020 avrebbe dovuto ricevere la certificazione dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Che cosa si fa esattamente nel P4 non si sa. È ovvio che nascano sospetti.

Il virus “razzista”: neri Usa più colpiti perché già malati

La più famosa conduttrice e produttrice afroamericana della tv statunitense, la potentissima Oprah Winfrey, grande amica di Barack e Michelle Obama, da giorni è impegnata in un tour mediatico in veste di ospite. La figlia di una donna delle pulizie – da bambina vittima di bullismo per il colore della pelle e per gli umili natali – assurta a paladina degli oppressi ed emarginati, sta partecipando ai programmi più popolari per spronare gli afroamericani a proteggersi maggiormente dal Coronavirus. Negli Stati Uniti gli afroamericani sono risultati finora le vittime più numerose del Covid-19. “Il coronavirus sta letteralmente devastando la comunità nera negli Stati Uniti”, ha denunciato la conduttrice alle telecamere di Today. “Sta annichilendo, sta uccidendo i nostri cugini, amici, vicini. Per questo bisogna fare tutto il possibile per proteggersi”, ha sottolineato in un altro show.

Winfrey ha anche parlato delle preoccupazioni per la propria salute dopo la grave polmonite che 6 mesi fa l’ha costretta a una lunga convalescenza da cui non si è ancora del tutto ripresa. Secondo Winfrey (che sta conducendo per Apple una serie di interviste a medici, scienziati, giornalisti e malati) i neri si ammalano di più perché hanno lavori saltuari da svolgere per loro natura fuori casa: “Noi come popolo, come afro-americani, abbiamo un lavoro che non può essere realizzato da remoto”. Un altro motivo è da individuarsi nella cattiva forma fisica causata dalla fatica, ma anche dall’impossibilità di comprare cibo di qualità. L’alimentazione scorretta provoca diabete, ipertensione, problemi cardiovascolari, come lavorare in luoghi malsani provoca altre patologie tra cui l’asma. E sono proprio queste malattie preesistenti a rendere infausto nella maggior parte dei casi l’esito della battaglia contro il Covid-19 . Sullo sfondo c’è la disuguaglianza sistemica che colloca gli afroamericani in cima alla lista delle vittime della pandemia negli Usa. “In questo senso non sta solo devastando la nostra comunità, ma le persone che hanno condizioni preesistenti, come me e infatti io mi sono chiusa in casa e non faccio entrare nessuno: i miei polmoni non sono ancora del tutto guariti”, ha sottolineato. In Italia invece si verifica l’esatto opposto, ma la comunità afroamericana nel nostro Paese è esigua, specialmente se comparata a quella statunitense, e recente.

 

Il piano di Trump
“Mettiamo in moto in tre fasi”. E così inguaia i governatori

Una ripartenza in tre fasi dell’economia: è il piano di Trump per rimettere in moto l’America, che presto avrà fatto 34 mila morti, un terzo appena del cammino di lutti pronosticato dagli esperti. “Tre passi, uno dopo l’altro, non tutti insieme”, dice Trump sostenendo che il picco del contagio è stato superato; tra un passo e l’altro dovranno passare almeno 14 giorni. Frasi scandite nell’ora più buia dell’epidemia: 4.591 decessi in un giorno, quasi il doppio del record precedente di 2.569 morti, secondo il WSJ. La Johns Hopkins University segna oltre 33 mila vittime e oltre i 670 mila contagiati. I crolli dell’economia e dell’occupazione, e l’insofferenza di molti cittadini, inducono il presidente a riaprire l’America il primo maggio, lasciando margini di manovra ai governatori: 29 Stati su 50 potrebbero agire in tempi più serrati. Trump rinuncia ai “pieni poteri” che aveva rivendicato, ma torna a prendersela con la Cina e con Biden e Obama. Andrew Cuomo, il governatore dello Stato di New York, il più colpito, proroga il lockdown delle attività non essenziali al 15 maggio con obbligo di mascherina in pubblico.
Giampiero Gramaglia

 

Regno Unito
Ventilatori, Londra evitò gara Ue Ora li ha inglesi ma fuori norma

Il governo ieri ha annunciato la creazione di una task force per lo sviluppo di un vaccino, con finanziamenti aggiuntivi ai 250 milioni già a disposizione per 21 progetti di ricerca. Ma finora ha sbagliato quasi tutto. 14.576 morti negli ospedali, un numero ancora imprecisato fuori, soprattutto nelle case di riposo e di cura. Il lockdown esteso di almeno 3 settimane, senza una chiara strategia. E ancora: a metà marzo Londra rifiuta di partecipare ai bandi dell’Uw per ventilatori e PPE, dichiarando di non aver visto l’email di invito, una versione sconfessata da Bruxelles. Risultato, i ventilatori made in Uk non sono abbastanza complessi per ottenere l’ok del regolatore. Un direttore sanitario ha dovuto chiedere il numero di una fabbrica di Burberry: non ha più camici protettivi per il personale in prima linea. Il ministero della Salute ha pagato 20 milioni di dollari per 2 milioni di test antigeni comprati da due produttori cinesi prima di scoprire che non funzionano. Fronte sanitario: ai disabili adulti, fisici e mentali, viene chiesto di firmare un documento in cui rinunciano alla rianimazione in caso di ricovero.
Sabrina Provenzani

 

Spagna
Sánchez, la riapertura sarà in due tappe: l’ultima a fine anno
“Ci sono settori dell’economia che non riprenderanno l’attività se non a fine anno”. Ieri, in piena “fase 2” è arrivata la doccia fredda della ministra spagnola del Lavoro, Yolanda Díaz. Altro che riapertura di bar, ristoranti, di luoghi di svago e turismo. “La ripartenza sarà divisa in due tappe”, ha chiarito Díaz. A precederla era stata la ministra dell’Industria, Commercio e Turismo, Reyes Maroto che in un’intervista alla tv pubblica giovedì sera ha parlato di “ripartenza prima del turismo nazionale”, mentre “il ritorno degli 84 milioni di turisti internazionali come nel 2019 è avvolto nell’incertezza”. Anche per il primo, con i 5 milioni di persone che lavoravano nel settore prima della crisi del coronavirus, bisognerà che le strutture rispettino le condizioni per garantire la sicurezza sanitaria. D’altra parte la Spagna, che ha prolungato lo stato di emergenza fino al 26 aprile, ma che ha iniziato già la fase due con la riapertura delle attività non essenziali, non è fuori dal contagio da Covid-19. Ieri i dati parlavano di una risalita degli infetti, 5.200 e di morti, 585. La ragione sarebbe l’aumento dei tamponi, ma non sono numeri da ripresa.

 

Finlandia
Fondi alla Sanità Mondiale, Helsinki ora li raddoppia

Il ministro degli Esteri Pekka Haavisto ha annunciato, quasi in contemporanea con la decisione del presidente americano Trump, di bloccare i fondi all’Organizzazione Mondiale della Sanità, che la Finlandia all’Oms ne concederà di aggiuntivi. Haavisto ha dichiarato all’agenzia Stt che il lavoro dell’Oms è ora più che mai necessario per contrastare il Covid-19, e per lui la decisione di Trump è “una grave battuta d’arresto”. Il governo finlandese ha concordato con l’Oms di ripristinare i finanziamenti ai livelli del 2015, pari a 5,5 milioni di euro. L’anno scorso la quota della Finlandia era stata di 1,9 milioni di euro. Il ministero degli Affari Esteri ha anche concessoå un milione di euro per il piano di emergenza e risposta al Covid-19. Gli Stati Uniti sono stati finora il maggiore finanziatore dell’Oms versando 400 milioni di dollari nel 2019, pari al 22% del totale dei contributi. L’Italia, con un contributo annuo di quasi 8 milioni di dollari, si posiziona al 6° posto preceduta da Francia, Gran Bretagna, Germania e Cina: “I problemi globali possono essere risolti meglio lavorando insieme”, ha commentato la premier Sanna Marin.
Gianfranco Nitti

A maggio non si torna tra i banchi

La ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, ieri lo ha ribadito: tornare a scuola, per quest’anno, non se ne parla. Le lezioni non riprenderanno e ieri sera ha anche firmato l’ordinanza per l’esame di maturità che prevede una commissione di sei membri interni e presidente esterno. La non riapertura renderà effettivo il secondo scenario del decreto sulla scuola, con l’esame limitato al colloquio orale. Intanto, genitori, educatori ed esperti sulla riapertura si dividono mentre il mondo della scuola inizia a interrogarsi su cosa accadrà a settembre e sulla sostenibilità a lungo termine della didattica a distanza.

 

Pro – Antonello Giannelli
“Tutelare la salute collettiva: gli alunni veicolano il virus”

Non c’è alcuna contrapposizione tra scuola in presenza o in assenza, su cosa sia meglio o peggio. Il punto è che bisogna tutelare la salute collettiva. E per farlo è giusto che le scuole non riaprano per la fine dell’anno, così come suggerito dal Comitato Tecnico Scientifico”. Antonello Giannelli è il presidente dell’Associazione nazionale Presidi.
Giannelli, è una scelta per tutelare la salute dei ragazzi?
Non solo. Le scuole sono il principale luogo di diffusione del contagio. La malattia non resta confinata alle classi, ma si sposta con gli alunni. Non si chiude per la paura che si ammalino i ragazzi, che anzi sembrano essere poco colpiti, ma che contagino genitori e nonni. E tutto il personale scolastico.
Una decisione che desta diverse perplessità.
La curva contagi non scende quanto si vorrebbe, i livelli sono ancora troppo elevati. Non è una scelta, ma una decisione dettata dalla necessità di sicurezza in un momento di emergenza, dall’esigenza di tutelare la salute collettiva che è un valore costituzionale superiore agli altri.
Cosa perdono i ragazzi e come interviene la didattica a distanza?
Gli alunni sono svantaggiati nella didattica e nella socialità, nell’assenza di scambio affettivo e di confronto con coetanei e insegnanti: elementi importantissimi per la crescita umana. La didattica a distanza è una necessità, non una scelta. Bisogna essere ben felici di averla. Vent’anni fa gli studenti sarebbero rimasti comunque a casa e non avrebbero potuto avere neanche questo. Certo, non tutti hanno Internet o dispositivi per collegarsi. I fondi arrivati con il Cura Italia hanno aiutato abbastanza, ma si deve fare di più. La scuola certo resta un luogo: gioioso, unico, insostituibile che speriamo di poter riavere presto.
In Cina e a Taiwan si stanno attrezzando con divisori e regole ferree.
Ognuno ha la sua cultura, lì c’è una disciplina collettiva per noi impraticabile. Il distanziamento di questo tipo priva poi la scuola della sua ragion d’essere, del fatto che i ragazzi si possano toccare e abbracciare. A questo punto è meglio farli stare a casa in collegamento con i compagni.
E i genitori in difficoltà?
Sono consapevole che genitori hanno nella scuola una sorta di servizio sociale fondamentale. Chiedere di irrobustire le misure di supporto se si dovesse proseguire nell’emergenza potrebbe essere una soluzione.
La didattica a distanza sostituirà l’istruzione tradizionale?
Chi lo teme, esagera. In tempi normali non ce n’è l’esigenza. Può però diventare un complemento in futuro, come oggi per i bambini affetti da malattie gravi o per non far perdere giorni quando ci si ammala. In ogni caso, questa esperienza ci farà guadagnare in potenziamento della didattica e di capacità di attrarre i ragazzi a studiare senza costringerli o minacciarli con la bocciatura. Lo si vede oggi: se motivato, lo studente si collega, altrimenti no. Siamo comunque di fronte a un cambiamento epocale per tutti i lavori che si possono svolgere da remoto. Chissà quale eredità lascerà questa crisi.
Virginia Della Sala

 

Contro – Anna Di Stasio
“Studiare come riaprire dovrebbe essere una priorità”

Vorrei condividere una riflessione sulla condizione dei più giovani in questo periodo eccezionale. Da un giorno all’altro è calato il distanziamento sociale, ma per tantissimi ragazzi e ragazze forse l’azzeramento sociale per la maggiore difficoltà di accettare l’improvvisa perdita di libertà di movimento e soprattutto di aggregazione. Chi ha potuto ha attivato dispositivi informatici dimostrando avanzate competenze e ha cercato di adeguarsi in fretta. C’è chi ha elogiato la loro capacità di spendere ore e ore rapiti da videogiochi e da altre realtà virtuali, scomparendo senza dar fastidio. Ma non andavano salvati da quella pericolosa forma di isolamento?
Le scuole sono chiuse da quasi due mesi, ma il diritto allo studio è salvo, si continua con la scuola online. E su questa novità si stanno confrontando con il governo le parti del cosiddetto mondo della scuola, docenti, sindacati, famiglie (gli studenti invero hanno poca voce) ma la sensazione è che l’attenzione sia concentrata solo sul tema delle risorse economiche necessarie per la nuova organizzazione. E sullo sforzo richiesto ai docenti.
Meno discusso il tema della ricaduta della privazione scolastica nella vita dei nostri più giovani e silenziosi concittadini. Non si sente il parere di esperti, l’argomento non è tra le priorità nei dibattiti mediatici. Ma la chiusura delle scuole è un evento devastante perché interrompe il ciclo vitale che muove milioni di giovani, li priva di relazioni, confronti, stimoli, di tanta esperienza che la scuola online mai potrebbe sostituire. Tanti addirittura si salvano la vita andando a scuola! Per questo si combatte la dispersione scolastica. Per questo la frequenza della scuola è sempre prevista nei progetti di recupero e rieducazione di giovani a rischio di devianza sociale, come sappiamo bene tutti noi operatori del mondo della giustizia minorile.
Studiare soluzioni per riaprire le scuole dovrebbe essere una priorità per chi sta gestendo questa crisi, come lo è l’attenzione alla sanificazione delle strutture sanitarie o alla gestione delle Rsa. La didattica a distanza dovrebbe rimanere un’esperienza eccezionale e non diventare l’idea ispiratrice di una nuova riforma scolastica! Eppure in Italia se ne sta parlando molto, si sentono dirigenti scolastici auspicare la didattica a distanza per stare “a rischio zero” di contagio anche per il prossimo anno scolastico. A meno di non voler violare tutti insieme i principi di diritto che da mezzo secolo impongono l’obbligo pubblico di tutelare il superiore interesse dei più giovani ad avere assicurate le condizioni per il loro migliore sviluppo psico-fisico, non si può pensare ad altra soluzione che alla restituzione agli studenti delle loro scuole. Perché non siamo in guerra e perché siamo convinti che si può fare con lo sforzo di tutti.
*Magistrato minorile di Roma

Via da “Casa Vianello”: la Rai senza Raimondo

Centoventi secondi (però abbondanti) in onda all’una passata di notte, casomai ci fosse ancora qualcuno sveglio. Ecco il ricordo dedicato dalla Rai a Raimondo Vianello: due minuti di fervorino di Bruno Vespa rivolto a “un grande amico delle famiglie italiane” mentre sfilavano i titoli di coda di Porta a Porta, più un frammento d’archivio del varietà Stasera niente di nuovo. Scelta azzeccata, questo sì. Anche mercoledì scorso niente di nuovo, a partire da Giorgia Meloni, ma che volete?, in fondo erano solo dieci anni dalla morte. Mediaset, va detto, ha avuto la memoria più lunga del servizio pubblico, Silvio non dimentica Bersani, figuriamoci la sua scuderia, e ha celebrato l’anniversario con due maratone su Cine34 e Mediaset Extra dal cui confronto si è capito perché Vianello abbia voluto chiudere con il cinema, senza mai un ripensamento, per passare alla televisione. Naturale sprezzatura, ma anche consapevolezza del proprio talento. Tanto è modesta la sua filmografia quanto, fin dalla metà degli anni 60, è straordinaria la conduzione degli show, la prova che anche la tv si può fare con stile. Anzi, si deve, se si ha uno stile.

Fin da subito il video è la palestra del gioco delle parti tra Sandra e Raimondo; si tratti di un varietà, di un quiz o di Casa Vianello: non solo la miglior sit-comedy della televisione italiana, ma anche la più italiana. Ci dicono di restare a casa, ma se ce lo dicono Gallera e Fontana qualche dubbio viene. Se invece di restare a casa ce lo suggeriscono le avventure di Sandra Mondaini e Raimondo Vianello, dove si dimostra che fingere di detestarsi significa adorarsi sul serio, possiamo crederci. Rivedendo in azione Raimondo, poi, abbiamo capito perché alla Rai due minuti di benedizione pasquale sono sembrati sufficienti. Il suo humour, la sua ironia, il suo appiombo trasferiti di peso dal salotto di casa ai riflettori sono quanto di più lontano comunicano i politici di moda. E nella tv di oggi niente va più di moda dei politici alla moda.

Gloria Guida: “Seguo lezioni di ginnastica e Johnny ride”

Decisa. Squillante. Cadenzata. Propositiva. Gloria Guida risponde e infila (a raffica) una serie di attività giornaliere da affanno per i più: “Penso alla casa, cucino, poi ginnastica, dolci, pizze e una volta alla settimana esco per la spesa”.

Senza tregua.

La mia palestra ha attivato delle lezioni via web. Fantastico.

Perfetto.

Con mio marito (Johnny Dorelli) che mi guarda, scuote la testa e mi prende per pazza.

Come mai?

Perché la lezione la seguo con il cellulare in mano.

Ma…

Rido, e continuo. E poi uso una vecchia cyclette e ogni giorno faccio le scale del palazzo.

Nient’altro?

(Ride e rilancia) Perché in realtà in casa sto bene, mi mancano solo mia figlia e mia nipote. Loro davvero tanto.

Insomma, cucina molto.

Però sto attenta alle calorie e preparo solo cibo salutare.

Ponderata.

Johnny mangia di tutto, sempre, non protesta e non crea problemi.

Bravo.

Tanto! E mi fa ridere, questo è importante.

Giusto.

Quando c’è il sole salgo in terrazza e mi concedo un po’ di abbronzatura.

Libri da consigliare?

Sto rileggendo The secret (di Rhonda Byrne): mi dà armonia, serenità, è un modo per parlare con l’infinito.

Film?

(Ride di nuovo) In televisione stanno passando anche i miei.

Quali?

La casa stregata e Fico d’india, sono entrambi insieme a Renato Pozzetto.

Li vede?

Sì, perché a quel tempo, sul set, mi sono tanto divertita, e mi ricordano quei momenti

Pulizie?

(Silenzio, quasi stupita) Eh… ma io sono una donna tuttofare.

@A_Ferrucci

All’Italia serve un vero piano B

Giuseppe Conte sta incontrando una fiera opposizione contro i Coronabond. In parte, questa contrarietà è dovuta a un malinteso. Nel Nord Europa questo strumento viene chiamato con il termine Eurobond, che suggerisce l’idea che gli Stati creditori debbano sobbarcarsi la responsabilità dei debiti accumulati dagli Stati del sud negli ultimi decenni.

L’equivoco si può chiarire, ma non per questo i Paesi creditori decideranno di abbracciare felicemente le obbligazioni europee, in qualunque forma. E la ragione non sta nella diversità tra il concetto cattolico e quello protestante di solidarietà.

L’Olanda spende 338 dollari pro capite l’anno in aiuti allo sviluppo e la Finlandia 234; l’Italia 63 dollari e e la Spagna solo 34. Il problema è che sia l’Italia che la Spagna sono due grandi economie e hanno entrambe debiti considerevoli, soprattutto dal punto di vista dei membri più piccoli dell’Ue. Le dimensioni contano, ed è per questo che adesso tutti gli occhi sono puntati su Berlino, il che rende nervosi i politici tedeschi.

L’Italia può usare l’argomento della disomogeneità della distribuzione dei profitti all’interno dell’Eurozona, e sottolineare che la sfida rappresentata dal Covid-19 è imparagonabile a quella della crisi dei debiti sovrani. Ma queste argomentazioni non scalfiscono minimamente le riserve degli Stati creditori: il fatto è che qualunque tipo di obbligazioni europee prevede un certo grado di mutualizzazione del debito, e questo non va giù agli elettori di quei Paesi. L’Italia deve dire addio ai coronabond, quindi? La risposta è no, ma poiché non sarà facile convincere gli Stati creditori, Conte ha bisogno di un piano B per assicurarsi che il suo Paese non rovini sotto il peso dei costi economici causati dal Covid-19. Affermare che l’Italia non firmerà alcun accordo che non includa i coronabond può far piacere ai parlamentari 5Stelle, ma serve a poco nella trattativa. È l’Italia ad avere un disperato bisogno dei coronabond, non la Germania o l’Olanda: loro possono anche non fare nulla, e agli italiani non resterà che dar loro la colpa e poi soffrirne le conseguenze. Oppure tirare fuori un piano B credibile.

Per alcuni politici italiani il piano B equivale a dirottare la cooperazione dall’Europa a Stati Uniti, Russia e Cina. Ma gli Usa sono in crisi, la Russia è inaffidabile e non è chiaro se la Cina possa o voglia offrire un aiuto significativo all’Italia, e a quali condizioni. È meglio trasformare l’Italia in un protettorato cinese o tedesco? Per altri, il piano B è uscire dall’Eurozona. A mio avviso, il governo farebbe bene a prepararsi per un simile scenario perché l’Italia potrebbe essere espulsa dall’euro contro la sua volontà. Ma questa non è certo la strada che Conte dovrebbe percorrere. Già una decina di anni fa, quando la proposta è stata avanzata per la prima volta, si prevedeva che il Paese andasse incontro a una fase di notevole (anche se temporanea) difficoltà economica. Oggi, con il Covid-19, sarebbe una scelta suicida.

Un’altra opzione sarebbe rimanere nell’Ue, ma come un attore determinato a bloccare la cooperazione in vari campi finché non verranno adottati i coronabond. La storia dell’Ue dimostra che tirare la corda paga. La Spagna, per esempio, trovava ingiuste le condizioni imposte per la sua ammissione nel 1986 e così, quando finalmente l’ha ottenuta, ha speso gli anni successivi a disfare questi accordi “ingiusti”. Anche Margaret Thatcher ci è andata giù dura con l’Ue, strappando sconti al livello finanziario e molte deroghe dalle leggi europee. Peraltro, l’Italia non sarà l’unico Stato membro che cercherà di ottenere concessioni dal Nord: Portogallo, Spagna e Grecia, e forse anche la Francia, faranno lo stesso. Questo potrebbe aumentare la loro forza di impatto, ma potrebbe anche spaventare ancora di più i Paesi del nord, rendendoli così ancor meno flessibili. Uno scontro frontale potrebbe far sfuggire di mano la situazione, col risultato di rafforzare i politici populisti e portare l’Ue a rischio collasso.

Ecco perché è opportuno prendere in considerazione un’alternativa ai coronabond. L’obiettivo è ottenere risorse consistenti per combattere la crisi del Covid-19, senza le condizioni previste dal Meccanismo europeo di stabilità e senza la messa in comune del debito invisa ai Paesi del Nord Europa. La proposta dovrebbe anche indicare chiaramente dove andare a prendere i fondi, e assicurarsi anche che il famigerato Ecofin (i ministri finanziari dellìUe) e anche il Fondo monetario internazionale restino fuori dalla partita. Infine, questo piano B dovrebbe riuscire a convincere gli Stati creditori che il denaro sarà speso per un progetto da cui anche loro trarranno benefici.

Al momento due proposte di questo tipo sono sul tavolo. La Francia ha proposto un Fondo di solidarietà per aiutare l’Europa a superare la crisi. Il problema di questa proposta è che prevede una forma di coronabond, ma con la differenza che la messa in comune del debito sarebbe temporanea e legata alla ripresa economica dopo la crisi. Finora, gli Stati creditori e la Commissione europea non hanno mostrato grande simpatia per questo piano. D’altra parte, la Commissione ha elaborato un suo “Piano Marshall per l’Europa”, ma il problema è che entrerebbe in azione nel prossimo bilancio dell’Ue, per il 2021-27. Il bilancio europeo è tra l’altro sempre teatro di grandi dibattiti, e la sensazione è che la Commissione stia agendo principalmente nel suo interesse.

Permettetemi quindi di offrire un suggerimento totalmente diverso. Bill Gates aveva scritto già nel 2015 che il rischio maggiore per l’umanità non era la guerra nucleare, ma una pandemia: dovremmo avere più paura dei virus che dei missili. Eppure, negli ultimi decenni abbiamo investito una quantità enorme di risorse nella deterrenza nucleare, ma molto poco in sistemi in grado di fermare una pandemia. Gates non suggeriva di sostituire gli eserciti di soldati con eserciti di epidemiologi, ma di unire le forze (e soprattutto i bilanci) tra medici e soldati per prepararci alla vera guerra. Adesso ci troviamo proprio in mezzo alla guerra di cui parlava, e per vincere dovremmo seguire il suo consiglio. Gli Stati membri dell’Ue hanno tutti un considerevole budget militare e sanitario, ma non sempre spendono il loro denaro in modo intelligente. Se si usasse solo il 10% del bilancio sanitario e militare di ciascun Paese per creare un nuovo fondo, gestito da un Consiglio di sicurezza europeo, ci sarebbe molto meno bisogno dei coronabond per battere il Covid-19 e rimediare alle sue conseguenze economiche. I soldi del fondo di sicurezza andrebbero a coloro che ne hanno più bisogno a seconda del momento, ora sono Italia e Spagna, domani potrebbero essere altri Stati. Ci sarebbe così meno bisogno di ricorrere al debito. E la cosa più importante è che questo nuovo approccio ha le caratteristiche per essere ben accolto dai cittadini tedeschi, che provano sentimenti contrastanti riguardo alle spese militari.

Questo discorso può sembrare eccessivamente ottimistico, ma viviamo tempi turbolenti, che richiedono progetti audaci e innovativi. Le critiche sono le benvenute, ma solo da parte di chi mostri di avere un piano B alternativo a quello proposto. Dieci anni fa, la Grecia ha messo in scena uno scontro politico carico di retorica e di emozioni forti, ma alla fine ha dovuto piegarsi a una effettiva privazione di sovranità. Questo perché le mancava un piano B valido. Se oggi la storia si ripetesse, volendo parafrasare un famoso e famigerato filosofo, non sarebbe più una tragedia, ma una farsa.