“Via D’Amelio strage di Stato”. Dirlo non diffama nessuno

Via D’Amelio, una “strage di Stato”: l’urlo di denuncia che Salvatore Borsellino ripete da 15 anni adesso compare “sdoganato” nell’ordinanza del gip di Catania, Stefano Montoneri, che ha archiviato la querela avanzata dal procuratore di Caltanissetta Amedeo Bertone (e dal figlio Vittorio) nei confronti dell’avvocato Fabio Repici, difensore del fratello del magistrato ucciso in via D’Amelio, accusato di avere utilizzato nel corso della sua arringa al quater espressioni ingiuriose nei confronti del magistrato e dell’ufficio di procura.

Tra queste una frase del legale “via D’Amelio è stata una strage anche di apparati dello Stato” pronunciata il 13 gennaio 2017, oggi ritenuta, come tutte le altre, dentro i confini del corretto esercizio del diritto di difesa.

Dopo avere premesso che ‘‘il processo Borsellino quater si innesta in un travagliato iter processuale ancora lontano dalla definitiva conclusione e riguarda una delle pagine più buie della storia del nostro Paese”, il gip ripercorre le tappe dell’inchiesta risoltasi in un clamoroso flop investigativo scrivendo: “Rimane oscuro in modo inquietante perché uomini delle istituzioni abbiano consapevolmente e scientemente indotto una persona estranea ai fatti (Scarantino, ndr) ad accusare innocenti e ad autoaccusarsi. È questo il problema angosciante dei motivi e dei mandanti del depistaggio che, a sua volta, coinvolge altri aspetti rimasti oscuri della strage di via D’Amelio’’.

E arriva al punto: “Quando si affronta il depistaggio delle indagini su via D’Amelio le parole pesano come macigni – scrive il gip – in questa sede va solo fatto cenno alla distinzione semantica che corre tra dire che via D’Amelio è una strage di Stato e dire che è stata commessa da ‘uomini deviati delle istituzioni’. In realtà non vi è alcuna differenza. Gli Stati, secondo gli studi della migliore antropologia sociale, non esistono come entità autonome, rappresentando piuttosto finzioni sociali. Le istituzioni non possono che operare attraverso gli uomini’’.

Nell’ordinanza il giudice Montoneri cita come ulteriore esempio che le critiche di Repici non possono dirsi “gratuite” il “dato di fatto” che nel depistaggio sono coinvolti (come artefici e come vittime) coloro che quelle indagini hanno svolto, sottolineando un’altra importante distinzione lessicale, questa volta esistente: “Basti menzionare – scrive il gip – quanto osservato circa l’iniziativa definita in sentenza come ‘decisamente irrituale’ (ma in realtà da qualificarsi, più correttamente in lingua italiana, come illecita in quanto contraria a norme di legge) del procuratore Tinebra che già nella serata del 20 luglio 1992 chiese a (Contrada) di collaborare alle indagini sulle stragi sebbene egli non rivestisse la qualità di ufficiale di polizia giudiziaria e nonostante la normativa vigente precludesse al personale dei servizi di informazione e sicurezza di intrattenere rapporti diretti con la magistratura”.

Per il gip, infine, le parole di Repici – compreso il suo stupore espresso in udienza su come mai, visto che uomini dello Stato, come Calogero Mannino, vennero a sapere di essere potenziali vittime della ritorsione mafiosa, “nessuno si è ancora interrogato su come sia stato possibile che lo Stato, una parte dello Stato, abbia saputo della delibera presa dal cuore pulsante di Cosa Nostra” – non sono né ingiuriose né oltraggiose. Ma anche se lo fossero state, conclude l’ordinanza, il reato di calunnia non sarebbe stato configurabile: per essere tale, “occorre che le parole oltraggiose siano rivolte a un soggetto presente”. E quel giorno, in udienza, il pubblico ministero non c’era.

Tecnici addio, fate largo al predicatore

È finita l’epoca degli spread, bond, btp, bot e i due Mario, Monti e Draghi. La pandemia ha inaugurato una stagione di esotismi e volti nuovi. Ora siamo alle prese con il lockdown, la task force, il Mes e gli eurobond. È la volta di Borrelli, Brusaferro, Ricciardi, Burioni e Colao. Nessuno si aspettava, però, che avremmo beneficiato anche di una guida spirituale alternativa a quella di Papa Francesco. Nella top ten delle personalità di spicco dell’era Covid-19 c’è nientepopodimeno che il guru di Donald Trump. Direttamente dalla Carolina del Nord su La7 ogni sera va in onda Franklin Graham, il reverendo evangelista tra i più famosi degli States.

Dopo l’apertura in sole 36 ore di due ospedali da campo, uno a Central Park (New York) e l’altro a Cremona, i samaritani a stelle e strisce si sono guadagnati la simpatia dell’opinione pubblica per l’accoglienza offerta ai medici italiani tra applausi e cartelloni con su scritto: “Dio vi ama”, “Siate forti e coraggiosi”, “Good morning eroi”. Così, in pochi giorni, il predicatore americano, presidente e ceo della Billy Graham Evangelistic Association e della Samaritan’s Purse, un’organizzazione internazionale di soccorso cristiano, ha conquistato pure il grande schermo. Senza ricorrere a forestierismi. Nessun “God bless you”. Né la versione al maschile di Sister act.

Il sermone del pastore del Tycoon è in italiano. “Salve, sono Franklin Graham – dice con tono impostato al pubblico, mentre focalizza lo sguardo sulla camera – forse la paura si è impadronita anche del tuo cuore ma desidero che tu sappia che Dio ti ama e conosce tutto della tua vita”. Pochi istanti ed ecco la preghiera da formulare per sconfiggere la pandemia: “Dio, io sono un peccatore. Mi pento dei miei peccati”. Chissà se l’abbia pronunciata anche Donald Trump per convincere l’80 per cento degli evangelici americani a votarlo nel 2016. In cambio lui gli ha concesso giudici e leggi ad hoc.

Franklin Graham, figlio del predicatore Billy Graham, era presente alla celebrazione del suo insediamento come 45° presidente degli Stati Uniti d’America. A sancire la legittimità del ruolo assunto dal Tycoon – secondo Graham – ci sarebbe addirittura la garanzia divina. “C’era Dio dietro le ultime elezioni”, ha dichiarato alla stampa americana. Qualche problemino, invece, era sorto con Barack Obama. “È nato musulmano – aveva detto alla Cnn – suo padre era musulmano e gli ha dato un nome musulmano”. Del resto era stato proprio Graham, dopo l’11 settembre 2001, a definire l’Islam “una religione malvagia”.

Due anni dopo infatti sostenne la guerra in Iraq, dove pure si recò per offrire il suo caritatevole sostegno. Graham è finito alla ribalta anche nel 2011, quando interpretò lo tsunami e il terremoto in Giappone come l’arrivo di Armageddon. Tra i suoi bersagli preferiti non manca la comunità Lgbt. Infatti in questi giorni a New York il nostro reverendo è alle prese con la polemica sulle presunte discriminazioni nei confronti dei pazienti omosessuali positivi al coronavirus. Oh-my-God!

Miniature e mascherine fatte in casa: “Noi meglio di Fendi”

Visto che dobbiamo “stare a casa”, chi vuole condividere la sua vita in quarantena può farlo sulle pagine del Fatto. Mai come oggi sentiamo l’esigenza di “farci compagnia” sia pur a distanza. Come i giovani che, nel Decameron di Giovanni Boccaccio, si riunirono per raccontarsi novelle durante la peste di Firenze. Inviateci foto e raccontateci cosa fate all’indirizzo lettere@ilfattoquotidiano.it. Ci sentiremo tutti meno soli.

 

Isolato per due mesi lontano dai miei cari

Sono a casa da più di un mese in malattia e ora sono in osservazione, fino all’1 maggio. Quindi in questo periodo ho rispolverato la mia vecchia passione, e comprato pure alcuni pezzi e della pittura per miniature. Purtroppo non sono bravissimo, ma almeno passo il tempo e penso meno a quello che poteva succedermi se il problema si fosse aggravato, dato che vivo da solo a Bergamo e i miei stanno a Catania.
Gianluca Seminara

 

Tra i nostri piccoli rituali di felicità c’è “Il Fatto”

Caro Fatto, tu non lo sai, ma noi ti dobbiamo tanto.

È da quando il mostro invisibile ha cominciato a circolare che, rinchiusi nella nostra abitazione, a San Felice a Cancello, ci siamo aggrappati ai piccoli rituali di felicità, così amiamo chiamarli, che ci accompagnano durante la giornata e ci aiutano a “salvarci”, in qualche modo. E tu, insieme all’odore del caffè al mattino, alle note di una canzone, agli aromi della cucina, alle sensazioni di un libro, al muso del nostro cane, sei uno di questi. Ci hai fatto ridere, piangere, incazzare, discutere, conoscere e perché no, amare. Più che Covid per noi è Co(ndi)vid, e per questo grazie!
Ivana e Luigi

 

Impara l’arte… ed ecco i nostri lavori a tombolo

Maurizio Di Fazio sul Fatto scrive che le mascherine oltreché protezione sono “oggetto da sfilata” con sponsor impensabili prima del coronavirus. Ma poiché ognuno di noi, divenuti casalinghi per decreto, ha bisogno di elaborare, ecco la foto del mio lavoro a tombolo, pezzi unici lavorati a mano. Una mascherina a “farfalla” da gran gala. L’arte, imparata e messa da parte (come dice il proverbio) quando facevo l’istituto statale d’arte, 50 e più anni fa!

Siamo in concorrenza con Fendi (190 euro a mascherina) in quanto occorrendo circa 10 ore lavorative e applicando il prezzo delle badanti (10 euro/ora) avremmo un prezzo di 100 euro!
Liviana Morelli

San Lucido, zona rossa col buco (il sindaco non c’è, il prete è via)

C’è un paesino sul mare, di quelli da andarsi a cercare sulla mappa della Calabria, in cui non c’è un sindaco, il parroco è scappato, i pescatori muoiono e l’istituzione della zona rossa è una sorta di esperimento al contrario, in cui più scorrono i giorni e più il contagio si allarga. Ci sono il fallimento della scienza e la poesia triste della morte in una comunità così piccola e sperduta a fare della storia di San Lucido, 6.000 abitanti in provincia di Cosenza, una delle pagine più sorprendenti di questo momento.

A oggi, San Lucido, è la zona rossa più longeva d’Italia. Chiusa da un mese con blocchi di cemento all’ingresso, il 17 marzo nel paese si contavano sei contagiati. Un mese dopo ci sono 52 contagiati, con un incremento di circa il 900% dei casi. Una sorta di “Vo’” al contrario, verrebbe da dire, ma forse è più corretto parlare di una “Diamond Princess” sulla costa calabrese, perché quello che è accaduto in questo paesino non ha precedenti: si è chiuso tutto facendo tamponi a singhiozzo, lasciando intanto che all’interno di famiglie numerose parenti contagiassero altri parenti. Il virus non è uscito di lì, ma lì si è propagato seminando morte e malattia. Insinuandosi nei luoghi familiari dei piccoli paesi, tra persone che si conoscevano, contaminando una comunità indifesa. E invece il 19 febbraio – due giorni prima del paziente 1 di Codogno – un ragazzo rientra a San Lucido dalla Germania. Suo papà Armando è il barbiere del paese. Tutti lo conoscono, tutti vanno da lui per barba, capelli e una chiacchiera, come da cliché su quei racconti dal sud in cui i barbieri sono ancora amici e confessori. Armando inizia a sentirsi poco bene. Il 3 marzo chiude il negozio. Girano le prime voci in paese. Otto giorni dopo è lo stesso Armando a comunicare ai concittadini di trovarsi in ospedale a Cosenza e di essere risultato positivo al Coronavirus. “Anche se sono una vittima di questo contagio, sento il dovere morale di chiedere scusa a tutti voi”, scrive. Suo cugino Gianni, il cui figlio era stato a fare barba e capelli da Armando, si ammala. Pensionato, amante della pesca (i suoi tre figli hanno una pescheria in paese), tutte le mattine Gianni andava a fare colazione al bar del paese con un suo caro amico pescatore, Pino Carbonelli. Che presto inizia ad avere un po’ di febbre. E tra l’11 e il 12 marzo ha la febbre anche Franco Cittadino, pensionato benvoluto e amante del calcio, che il virus se l’è preso chissà come, forse in un bar, dal panettiere, in pescheria. Moriranno tutti e tre, in un reparto di rianimazione, dopo aver lottato alcuni giorni. Morirà in seguito anche M.M., una vedova di 94 anni madre di 12 figli. I primi tamponi confermano altri tre positivi nelle famiglie dei contagiati e il presidente della Regione Calabria Jole Santelli il 17 marzo chiude San Lucido, che con sei contagiati ufficiali diventa zona rossa. Una zona rossa che non ha un sindaco, perché il sindaco, uomo amatissimo che si era messo in testa di trasformare San Lucido in “paese dell’amore”, è morto un anno fa ad appena 44 anni. Il vicesindaco si è dimesso il 4 febbraio. Il commissario subentrato al vicesindaco si dimette a sua volta a metà aprile, quando il virus a San Lucido è ormai dilagato, perché ha timore di contagiare un parente in precarie condizioni di salute. Due giorni fa dunque arriva un nuovo commissario, il dottor Roberto Micucci, vicecapo di Gabinetto della Prefettura di Cosenza. Solo che nel frattempo è scappato anche il parroco di San Lucido, don Maurizio. Il quale se ne è andato a Cosenza dalla famiglia e manda i saluti alla comunità via Facebook, chiarendo che è tornato a San Lucido di sfuggita, giusto per celebrare la preghiera della domenica delle Palme e poi se ne è riscappato a Cosenza, dove farà la sua quarantena, visto che è entrato in zona rossa.

Però “sono tanto vicino alla comunità eh”, ci tiene a far sapere. Insomma, San Lucido si ritrova senza le sue figure di riferimento. Senza Stato, senza chiesa, senza i suoi pescatori, con barriere di cemento all’ingresso.

Soprattutto, San Lucido, non diventa un interessante esperimento epidemiologico come Vo’. Non è nemmeno la Codogno che minaccia il Nord. È un paesino anonimo, le cui sorti sono appese a tamponi che si fanno in un intervallo di tempo troppo ampio perché si possa agire tempestivamente e avere una mappa dei contagi precisa, così da isolare i positivi. Ed è così che in famiglie in cui ci sono 9, 10, anche 12 figli il virus corre veloce, si trasmette da nuore a suocere, da figli a genitori e in un mese, a San Lucido, si passa da 6 a 52 contagiati, di cui pare una ventina all’interno della stessa famiglia. Nel frattempo, i lutti sconvolgono la comunità, specie quella dei pescatori. Le ceneri del pescatore Gianni sono lasciate di fronte al mare. “Che la brezza ti accarezzi e che i gabbiani ti accompagnino. Buon vento Gianni”, è il messaggio di saluto di chi lo amava. Alessandra Carbonelli, la figlia del pescatore Pino, ricorda con tenerezza suo papà: “Papà era stato sei mesi sulla Amerigo Vespucci, era sopravvissuto al mare, alla depressione, perfino a una coltellata in porto tanti anni fa. Lo ha ucciso il Coronavirus. Prima che lo intubassero sono riuscita a fargli avere del cioccolato e a dirgli che gli volevo bene, ma lui sentiva che non si sarebbe più svegliato”. Nel frattempo, i suoi amici pescatori si prendono cura della sua barca. Ieri, il barbiere è tornato a casa, guarito. Perché si tornerà a pescare alici e a farsi tagliare i capelli da Armando, un giorno, a San Lucido.

In questo paesino eroico in cui gli abitanti, secoli fa, si gettarono in mare vestiti per respingere i corsari.

I medici sardi si ammalano il doppio

Qualcosa non va negli ospedali sardi: il tasso anomalo di contagi fra medici e infermieri nell’Isola. Sono attualmente 255 i contagiati tra gli operatori sanitari, 176 negli ospedali e 40 nelle Rsa. Numeri certamente inferiori in valore assoluto a quelli delle regioni più colpite, ma che in percentuale rivelano come l’85% delle infezioni sia avvenuta in ambito lavorativo.

Il dato del personale sanitario contagiato pesa per il 24% dei casi Covid nell’isola, circa il doppio della media nazionale. Emblematico il caso di Sassari, 134 operatori contagiati e un’inchiesta aperta sulla verifica dei protocolli all’ ospedale SS. Annunziata. Mentre in queste ore monta l’allarme per il Policlinico di Monserrato, uno degli hub ospedalieri più importanti di Cagliari, dove i medici hanno denunciato un focolaio all’interno dell’ospedale e “l’insufficienza delle misure di prevenzione e protezione fin qui poste in essere, che mettono a rischio la salute non solo degli operatori sanitari e dei pazienti, ma dell’intera area metropolitana”.

C’è poi un altro dato significativo, quello dei tamponi: secondo l’ultimo aggiornamento dell’Unità di crisi regionale in Sardegna sono stati eseguiti 13,304 test, con una media di circa tre tamponi giornalieri ogni 10 mila abitanti. Di meno solo in Molise e in Basilicata. Del resto, ad ammettere implicitamente le drammatiche carenze sul fronte degli screening e dei presidi sanitari per gli operatori in prima linea era stato il presidente della Regione Solinas il 4 aprile con il premier Conte: “La Sardegna attende mascherine, tamponi e reagenti”. Le criticità sono queste, m ail governo regionale sembra seguire altre priorità? C’è un invisibile filo conduttore che unisce la Sardegna alla Lombardia: nulla di quanto accade nella sanità sarda sfugge a Milano. E non potrebbe essere diversamente dato che persino il capo di gabinetto del leghistissimo assessore Nieddu, Elia Pantaleoni – con un curriculum da consigliere comunale a Canzo, provincia di Como – proviene dalle fila dei fedelissimi dell’ ex commissario della Lega in Sardegna, Eugenio Zoffili. Il presidente Solinas ha adottato pari pari l’ordinanza del collega Fontana che vietava la riapertura delle librerie nonostante l’apertura del governo, e su questa scelta si addensano polemiche e dubbi non solo sul piano politico, ma anche sotto il profilo giuridico: “Colpisce la reiterata violazione di un’essenziale regola, la prevalenza, sui provvedimenti di ambito locale, dei decreti del presidente del Consiglio”, spiega Gian Giacomo Pisotti, già presidente della Sezione Civile della Corte d’appello di Cagliari. In base al testo del decreto infatti, le regioni possono introdurre “misure ulteriormente restrittive” in base a “specifiche situazioni di aggravamento del rischio sanitario” nel loro territorio, ma “nessuno di tali presupposti ricorre attualmente, né viene comunque menzionato”.

Insomma, il presidente della Regione non concorda con il presidente del Consiglio e decide diversamente a prescindere da specifiche situazioni locali di aggravamento, non indicate, che secondo il magistrato, viola gravemente il principio di legalità e trasparenza.

L’emergenza Covid ha messo in un angolo i malati di cancro

“Il rinvio delle chemioterapie influirà sul decorso, visto che sono metastatica?”. “Ho un sospetto tumore al pancreas, che succede se non posso fare accertamenti?”. “Senza monitoraggio post chemio rischio di aggravarmi?”. “Riuscirò a fare i controlli di follow up?”.

Sono alcuni dei dubbi dei malati oncologici (circa 3 milioni e mezzo in Italia) che, in un momento di emergenza sanitaria, stanno vivendo un dramma nel dramma. La paura riguarda soprattutto le visite di controllo rinviate, la mancanza di informazioni sulla continuità del percorso terapeutico, infine il timore di infettarsi, anche se, come scrive F., “il Covid-19 mi fa paura, ma il mio cancro di più, perché non si ferma”. A raccogliere queste testimonianze è stata l’Associazione Codice Viola, molto attiva nell’assistenza dei malati di tumore pancreatico. In queste settimane ha distribuito un questionario a 484 pazienti, i cui risultati non sono affatto rassicuranti.

Le prime visite, anzitutto: appuntamento cancellato nel 37% dei casi, 42% di annullamenti o rinvii per le visite di controllo. Per quanto riguarda le terapie, l’11% dei pazienti si è visto cancellare appuntamenti per le chemioterapie, spesso con messaggi non rassicuranti (“I potenziali vantaggi della chemioterapia in atto non sono tali da giustificare i rischi legati al coronavirus”). In alcuni casi si sono allungati gli intervalli tra una chemio e l’altra. Ma il dato più preoccupante riguarda gli interventi chirurgici, rinviati a data da destinarsi nel 64% dei casi, a volte per mancanza di sangue o anestesisti dirottati altrove. Infine la diagnostica: rinviata o annullata nel 32% dei casi, anche per la chiusura dei centri privati.

La maggior parte di questi pazienti, il 76%, non ha ricevuto alcun supporto telefonico o in videoconferenza, né offerta di soluzioni alternative, tanto che il 40% di questi malati afferma che la crisi avrà ripercussioni negative sulla cura e un 5% teme che la crisi gli impedirà di curarsi del tutto. “Il sistema è stato colto di sorpresa”, spiega Francesca Pesce di Codice Viola. “Alcuni reparti di oncologia sono stati chiusi, altri riconvertiti. Ma il rischio è che la morte per tumore diventi un effetto collaterale grave del coronavirus (i malati di cancro rappresentano il 17% circa delle vittime italiane di coronavirus, ndr). E che si muoia non assistiti, com’è successo a una signora veneta gravissima a cui è stata ridotta l’assistenza domiciliare – altro problema enorme – a una sola volta a settimana”.

Ma esistono indicazioni guida del ministero o delle regioni? Mentre in Gran Bretagna è stata stilata una fredda tabella in cui si gerarchizzano i malati in sei categorie (ultimi coloro che ricevono una terapia con basse chance di successo) il nostro ministero, così come l’Aiom, (Associazione italiana oncologia medica) hanno dato indicazioni generali, ad esempio il rinvio delle visite di follow-up, l’attivazione di percorsi di controllo via mail o telefono, mentre per i pazienti in trattamento “ è opportuno che venga valutato caso per caso l’eventuale rinvio degli accessi al trattamento in base al rapporto tra i rischi, per il singolo e per la collettività, e i benefici”.

Secondo Michele Milella, Direttore del reparto di Oncologia dell’Azienda Ospedaliera di Verona, centro di eccellenza per la cura dei tumori del pancreas, “l’assistenza cambia a seconda delle regioni. Noi abbiamo creato un comitato etico che stabilisca le priorità in ambito oncologico: un conto è un tumore alla tiroide, un altro del pancreas”. Secondo Milella, sono due i dati più evidenti: “C’è stata una riduzione sensibile degli interventi chirurgici e una riduzione del flusso dei pazienti da fuori (ma anche degli accessi inutili), che però abbiamo continuato ad assistere attraverso il contatto con gli oncologi di altre regioni. Aspetti positivi che andranno mantenuti dopo la fine dell’emergenza.”

“Per il dopo emergenza – ancora Francesca Pesce di Codice Viola – chiediamo la creazione di centri di eccellenza regionali per le patologie oncologiche, la pianificazione per la gestione dei ricoveri nelle emergenze e l’utilizzo diffuso delle tecnologie digitali nella comunicazione medico-paziente o i problemi si scaricheranno ancora una volta sulle fasce più deboli della popolazione, tra questi i pazienti oncologici”.

E sempre i malati oncologici chiedono anche che il governo non escluda dal bonus di 600 euro per gli autonomi i professionisti malati percettori di un assegno di invalidità pagato con i contributi. “Una beffa, l’assegno non è una pensione”, conclude Pesce.

Granducato De Luca: “Chiudo i confini”

È la Campania granducato di Vincenzo De Luca, nuovo leader dei neoborbonici napoletani, già simpatizzanti del sindaco indipendentista Luigi de Magistris che voleva stampare moneta autonoma a Napoli. C’è un popolo che sogna di far rimangiare ai rivali del Nord i cori negli stadi “Vesuvio lavali col fuoco”, spera nel ritorno al Regno delle due Sicilie, magari fosse esistito negli ultimi cinquant’anni, quanti scudetti avrebbe vinto il Napoli. E la sfida con la Juventus sarebbe avvenuta solo in Champions League.

Si scherza. Per sdrammatizzare, perché tra l’emergenza Covid-19 e la litania dei morti della conferenza stampa della Protezione Civile (ieri, finalmente, si è deciso di cancellarla), ce n’è bisogno.

Si scherza, però, partendo da una notizia. Nella consueta diretta Facebook del venerdì, De Luca si è rivolto verso “chi preme per affrettare la ripresa di tutto, ma dobbiamo avere grande senso di responsabilità. Se dovessimo avere corse in avanti in regioni dove c’è il contagio così forte, la Campania chiuderà i suoi confini”. E come? “Faremo una ordinanza per vietare l’ingresso dei cittadini provenienti da quelle regioni nelle quali il contagio è in corso”. Leggasi Lombardia e, in misura minore, Piemonte e Veneto. Parole forti. Sulle quali si è scatenato un dibattito a metà tra la giurisprudenza e la socioantropologia. Tra chi si chiede se al dunque De Luca potrà o meno disporre dei poteri per “chiudere le frontiere”, e chi ragiona su come il virus possa ribaltare la ricostruzione secolare di una contrapposizione tra un nord ricco ed efficiente e un sud povero e cialtronesco.

Dibattito scivoloso. Iniziato più di un mese fa dal sindaco di Napoli De Magistris con una frase durissima: “Se il contagio fosse partito dalla Campania e non dalla Lombardia, il primo decreto sarebbe stato quello di sparare a vista a qualsiasi meridionale”. E allora viva De Luca che non vuole passare per le armi i settentrionali, e si limita a volerli aiutare a casa loro. Suggerendo “grande senso di responsabilità, partendo dai dati concreti: In Lombardia abbiamo registrato circa mille nuovi contagi. Nel Veneto, che sta messo meglio, abbiamo registrato quasi 400 nuovi contagi. Nel Piemonte abbiamo registrato 800 nuovi contagi”. Come dire: stavolta Napoli e la Campania stanno facendo una figura migliore del Nord, i numeri dell’epidemia sono contenuti, si vede la luce in fondo al tunnel nonostante l’area metropolitana di Napoli sia tra le più densamente popolate del mondo e il distanziamento sociale sia faticoso.

De Luca, forte di statistiche con meno di 100 contagiati al giorno su 6 milioni, è convinto che “la Campania potrà uscire dall’emergenza a testa alta a metà maggio”. Ma continuerà lo stop alle pizze a domicilio – consentite nel resto del Paese – fino alla fine del lockdown.

“Non regolo i conti col Nord. Prenotate l’estate in Puglia”

Governatore Michele Emiliano, dal Nord-focolaio tra Attilio Fontana e Luca Zaia si parla di nuova normalità e lockdown concluso. Vincenzo De Luca si dice pronto a chiudere le “frontiere” della Campania. In Puglia lei che fa?

Sono un fan di De Luca, mi mette di buon umore. Ma non si può fare. E non è il momento per regolare i conti con le tante umiliazioni subìte dall’arroganza del Nord.

Governatori leghisti, il cui capo partito è quel Salvini degli indimenticati cori “Napoli-colera”…

Quando le cose vanno male i popoli devono essere uniti. E noi siamo italiani.

1973: colera a Napoli (24 morti) e Bari (3 morti, 9 nel resto della Puglia) e la stampa del Nord che raccontava un Sud sporco e laido. Oggi il Corriere della Sera scrive che “s’afferma da più parti una sottile forma di revanscismo nei confronti della supposta grandeur lombardo-milanese”.

Permane il racconto di un Sud vocato al disastro e di un Nord con Milano prima della classe. Può capitare che chi è vocato al disastro se la cavi, come succede di commettere errori e disastri ai primi della classe. Ma non giudico la Lombardia. Poi è vero: qualche lombardo è ritornato dall’estero contribuendo a innescare il più grande disastro epidemiologico che si possa ricordare in Italia. E noi abbiamo ripreso 30 mila persone che stavano al Nord e siamo riusciti a gestirle. Trovando risposte, devo dire, molto collaborative da chi ha capito che avrebbe dovuto chiudersi in casa senza vedere neppure i familiari e gli amici stretti.

Giusto, meglio non giudicare la gestione lombarda dell’emergenza…

Ci sono anche le questioni strutturali, infatti. Il ruolo della sanità privata da noi è molto meno importante rispetto alla Lombardia, questo è stato un bene per la Puglia. E abbiamo dovuto fare le nozze con i fichi secchi…

Quanto avete speso per ventilatori, mascherine e altri dispositivi di protezione?

Sessanta milioni di euro e abbiamo dovuto far da noi, perché il governo ha mandato tutto in Lombardia e al Nord. Ho avuto un bellissimo scambio di lettere con Ma Xingrui, governatore cinese del Guangdong: tutto avrei pensato in vita mia tranne di dover fronteggiare una pandemia organizzando un ponte aereo con la Cina insieme col prezioso aiuto dell’ambasciata italiana a Pechino. Detto questo, aggiungo che considero Milano la seconda città della Puglia, che siamo orgogliosi di aver inviato in Lombardia decine di medici e infermieri volontari, molti pensionati, per dare una mano.

Un altro problema lombardo è stato l’ospedalizzazione di massa…

Noi ancora oggi abbiamo 1.355 malati seguiti a domicilio e solo 661 in ospedale. Questo tipo di risposta è stato parte, facendo gli scongiuri, dei risultati fin qui ottenuti. Ho bloccato a casa, all’inizio attirandomi anche qualche improperio, i medici di base, costringendoli a lavorare al telefono. Per emergenze partono le squadre del 118: piangiamo ancora Nicola, un operatore di Foggia che non c’è più.

Però a Palermo un signore fa la grigliata sul tetto e il Sud ritorna laido.

Rinnovo gli scongiuri e sono orgoglioso del lavoro svolto insieme con due fuoriclasse: l’epidemiologo Pier Luigi Lopalco e il responsabile delle rianimazioni Marco Ranieri. Al Sud siamo abituati a reagire in fretta e con talento. Anche noi abbiamo avuto i nostri problemi in alcune Rsa, i nostri lutti che avremmo dovuto evitare, ma abbiamo fin qui retto. Basta una grigliata sul tetto e il Sud torna bersaglio, vero. Ma non ci importa.

Possiamo già prenotare le vacanze in Puglia?

Sì! Al contrario di quanto sostiene la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, bisogna prenotare: è indispensabile per consentire di organizzare al meglio l’estate sui nostri 900 chilometri di spiagge. Abbiamo la possibilità di mantenere le distanze, di sistemare le masserie più degli alberghi… Lopalco sta scrivendo il piano epidemiologico per la riapertura.

Lopalco passerà l’estate a Bari?

Non si muove.

Elezioni regionali: lunedì il Cdm decide. Luglio? Ottobre?

A ottobre è prevista la seconda ondata della pandemia, forse meglio prima: il mandato popolare serve a legittimare le scelte di chi come me è in scadenza.

Da grande cosa farà?

Sono abbastanza grande. Ma il pugliese in Puglia è l’emozione più bella rispetto a qualsiasi desiderio.

Non corriamo a dare patenti di immunità

Abbiamo chiesto alla direttrice del laboratorio di Microbiologia dell’ospedale Sacco di Milano cosa succede alla sperimentazione dei test concorrenti ora che la Regione impone quelli della Diasorin.

Dottoressa Gismondo, anche voi secondo la determina del direttore generale della Regione Cajazzo, dovrete fare “la ricerca degli anticorpi anti Covid-19 mediante l’utilizzo dei Kit Liaison Sars Cov-2 della ditta Diasorin”, solo quei test…

La comunicazione della Regione di giovedì scorso ci chiede di organizzarci e mi sembra che partiremo con questi test in date diverse. Mi pare che dal 23 partiranno Bergamo, Brescia, Lodi e Cremona. Noi del Sacco penso che partiremo in un secondo momento, mi pare dal 27. Non so se sarà una sperimentazione o un definitivo utilizzo, dobbiamo aspettare lunedì quando si riunirà il gruppo di lavoro sui test in Regione per capire.

A proposito del gruppo di lavoro. Il Fatto ha letto un’email del 28 marzo di Mario Cassani nella quale il direttore della Regione – dopo la vostra riunione del 27 – gira a lei e a una ventina di dirigenti di laboratori lombardi, le indicazioni scritte per voi dal professor Fausto Baldanti, ricordandovi che è lui il coordinatore. Poi Il Fatto ha scritto che otto giorni prima di quell’email Baldanti aveva siglato come responsabile scientifico un contratto con Diasorin per la sperimentazione da parte del San Matteo del test sierologico concorrente a quelli che voi stavate valutando. Proprio il test che ora la Regione vi chiede di usare. Baldanti ha dato le dimissioni dopo il pezzo del Fatto, chi lo sostituisce?

Non c’è stata più nessuna riunione del tavolo tecnico da allora. Anzi, non abbiamo nemmeno una comunicazione ufficiale delle dimissioni di Baldanti. Abbiamo appreso dai media tutto. Quindi spero che alla prossima riunione, lunedì, ci dicano qualcosa.

Il suo laboratorio sta provando una macchina concorrente della Diasorin, la Pantec-Yhlo, è vero?

Noi stiamo provando una serie di altri test nella nostra libertà di ricerca, poi manderemo i risultati al tavolo della Regione, perché una cosa è la ricerca ma per dare referti sanitari ci vuole l’autorizzazione della Regione.

Mentre voi lavorate con altri test è arrivata questa direttiva netta sui test Diasorin

Peraltro noi qui abbiamo già la piattaforma Liaison della Diasorin e quindi appena la Regione ci invierà i test, come è accaduto con i tamponi, inizieremo.

Negli allegati al contratto Diasorin-San Matteo sul test sierologico, quello con le royalties dell’1 per cento sulle vendite, c’è scritto che “l’obiettivo dello studio è determinare le prestazioni diagnostiche del kit Liaison Covid 19 IGG” e che quello studio dura due mesi da marzo. I test chiesti a voi dalla Regione sono una cosa diversa ma sembrano quasi una ricerca allargata

Io ho solo ricevuto questa richiesta, ma finora non ho fatto nemmeno un test Diasorin.

Il prof. Baldanti sostiene che questo test distingua gli anticorpi IGG killer, davvero immunizzanti, dagli altri, chiamiamoli per comodità ‘fessacchiotti’, perché non uccidono il virus. Si può dare la patente di immunità su questo concetto?

Se il prof. Baldanti ha sostenuto una tesi scientifica, vuol dire che ha fatto le sue valutazioni. In generale però resta una perplessità: non sappiamo quanto tempo tutti gli anticorpi (immunizzanti o non) rimangano nell’organismo. Sarei prudente a parlare di patente di immunità.

Lombardia: Lega e Pd alla guerra sui test sierologici

Ci voleva una polemica tra Pd e Lega per far appassionare finalmente i nostri politici a una questione centrale come i test sugli anticorpi del coronavirus nel sangue degli italiani. Questione che interessa gli italiani per la ripartenza ma anche le società private attratte da uno dei maggiori appalti del settore.

La polemica scocca a Milano e vede schierati da un lato Beppe Sala e il professor Massimo Galli. Al primario infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano, il sindaco del Pd ha dato l’incarico di fare una ricerca sugli anticorpi degli autisti della sua municipalizzata Atm. Stufo di aspettare la Regione che partirà dalle altre province con il test della Diasorin, il sindaco punta sui test – magari meno precisi ma più rapidi – con la puntura del dito. Il centrodestra ha attaccato Sala per un errore di comunicazione (Sala aveva parlato dell’ospedale Sacco mentre Galli opererà sotto il cappello dell’Università) ma il vero tema di fondo è un altro: il test in Regione Lombardia deve essere quello della Diasorin e del Policlinico di Pavia San Matteo.

I kit pungidito e il primario del Sacco di Milano che li usa devono stare lontani dalla partita.

Sullo sfondo c’è il contratto pienamente lecito (svelato dal Fatto) tra la Fondazione pubblica San Matteo e la società piemontese che lascerà royalties dell’uno per cento al Policlinico sulle vendite del test sviluppato dal professor Fausto Baldanti. Il virologo a capo del progetto non prende un euro però era anche il coordinatore del gruppo che deve valutare in Regione i test della concorrenza nonché membro del gruppo di lavoro sul tema al Ministero. Baldanti si è dimesso da entrambi i ruoli dopo la nostra inchiesta ma è rimasto nel comitato scientifico della Regione sul coronavirus.

Dopo avere sonnecchiato per giorni, solo dopo l’attacco a Sala la segretaria del Pd di Milano, Silvia Roggiani, si è svegliata definendo la polemica della Lega “incomprensibile” e “fuori luogo”, anche perché si chiedono “le dimissioni del sindaco Sala”. Piuttosto – continua Roggiani – “la Regione ci dica come mai sta bloccando in ogni modo la sperimentazione e perché l’unico accordo è stato raggiunto con l’azienda Diasorin, attraverso il professor Fausto Baldanti, coordinatore del gruppo di lavoro proprio a Palazzo Lombardia”.

Finalmente il Pd ha scoperto un tema reale: in Lombardia la ricerca del gruppo di lavoro sui test rapidi già in commercio va a rilento mentre una società privata sviluppa con il coordinatore del gruppo di lavoro suddetto un test nuovo. Ieri l’Ad Diasorin Carlo Rosa ha fatto sapere che il suo test ha ottenuto il marchio CE necessario per vendere. E la Regione dal 23 fa partire ventre a terra i laboratori della Lombardia sui test Diasorin. La Pd Silvia Roggiani coglie il tema grazie al Fatto ma poi aggiunge: “Non vogliamo inseguire le torbide polemiche sollevate da qualche giornale su azienda e professore, ma pretendiamo chiarezza”.

Anche se Roggiani non conosce la differenza tra un’inchiesta documentata e una ‘polemica torbida’ anche oggi la aiutiamo a capire qualche cosa che non sa. Per esempio che il 28 marzo il dirigente della Regione Mario Cassani invia una mail con allegato un documento siglato da Ferruccio Baldanti a una ventina di direttori di laboratori pubblici della Lombardia. Cassani ricordava a tutti che Baldanti era il coordinatore del gruppo sui test. Lo stesso Baldanti che aveva firmato, legittimamente, l’accordo con Diasorin appena 8 giorni prima come responsabile scientifico dello studio del test. Non solo: il San Matteo in quei giorni avviava una consultazione di mercato per la fornitura di kit rapidi. Peccato che il 7 aprile la ha annullata “a seguito di necessità di chiarimenti da parte dei tecnici competenti”. Ora l’ultimo atto: il direttore generale Luigi Caiazzo, giovedì ordina a Ast e ospedali di mettersi a disposizione ipotizzando ‘a pieno regime un’operatività sulle 24 ore’ per i test Diasorin disponibili “il 23 aprile” per Bergamo, Brescia, Lodi e Cremona e “il 27 aprile” per le altre. Tutto lecito. Basta che si sappia, senza torbide polemiche.