Dal renziano al big del marketing, chi c’è dietro

Se tutto andrà come previsto dall’ordinanza del commissario all’emergenza, Domenico Arcuri, la trimurti che darà vita alla app “Immuni” avrà, se non guadagni visto che si parla di una cessione a titolo gratuito, un enorme potere: miliardi di dati, e dei più sensibili e “preziosi”, su milioni di persone verranno veicolati dalla loro creatura digitale (e certo gestiti, almeno si spera, nel rispetto delle leggi sulla privacy).

È dunque utile chiedersi: chi sono? Le tre aziende coinvolte sono Bending Spoons (il cucchiaio da piegare di Matrix), che realizza l’infrastruttura, il Centro Medico Sant’Agostino di Luca Foresti (una rete di poliambulatori che lavora anche sulla digitalizzazione dei processi ospedalieri) e il colosso dell’e-marketing Jakala, guidato da Matteo de Brabant. Tutte società basate a Milano.

Partiamo da Bending Spoons: fondata da quattro ragazzi italiani nel 2013 – Francesco Patarnello, Luca Ferrari, Matteo Danieli e Luca Querella – sviluppa applicazioni che hanno avuto decine di milioni di download e, secondo una classifica del Sole 24 Ore di qualche tempo fa, è una delle prime venti aziende al mondo in questo settore. Alla fine del 2019 aveva circa 130 dipendenti, quasi tutti a tempo indeterminato e il fatturato era previsto più che raddoppiare rispetto al 2018 (90 milioni rispetto ai 37,5 certificati dall’ultimo bilancio disponibile). Numeri che hanno attirato gli interessi degli investitori: a luglio 2019 sono entrati col 5,7% nella compagine proprietaria – fino ad allora costituita dai fondatori e da alcuni dipendenti di Bending Spoons – tre società, vale a dire H14 di Barbara, Eleonora e Luigi Berlusconi, Nuo Capital dalla famiglia Pao Cheng di Hong Kong e StarTip (veicolo di Tamburi Investments Partners spa).

Curiosamente la H14 dei figli di secondo letto di Silvio Berlusconi la troviamo con una piccola quota anche nel capitale di Jakala insieme a Equity Club (Mediobanca e Ferraresi), alla holding dei Marzotto e altri: il fatturato prodotto dagli oltre 500 dipendenti, d’altronde, è ricco (250 milioni la stima per il 2019, anno in cui la società ha aperto il suo nuovo quartier generale milanese nel costoso edificio “Mellerio-Velasca”).

Forse è il nome più interessante della trimurti perché pare il meno necessario: Bending Spoons disegna app, il Sant’Agostino lavora sui dati medici, Jakala invece si occupa di marketing, comunicazione, eventi ed e-business. Il suo portafoglio clienti – tra banche, multinazionali pubbliche e private e marchi importanti del made in Italy – è impressionante e, in vista dei milioni dei dati di cui sopra, anche un po’ inquietante.

Il fondatore – Jakala, il coccodrillo del Libro della Giungla, era il suo nome scout – è Matteo de Brabant, assurto agli onori delle cronache nel 2016 per aver organizzato a casa sua, dopo quella di Davide Serra a Londra, una cena elettorale per Beppe Sala, allora candidato sindaco.

Particolare un po’ sgradevole, la sua Jakala Events aveva fatto qualche lavoretto per Expo 2015 del commissario Sala prima di essere venduta per 25 milioni alla Uvet (che lavorò invece molto all’Esposizione universale). L’ultimo nome è quello di Luca Foresti che guida la rete di poliambulatori “Centro medico Sant’Agostino” a Milano ed è vicino a Matteo Renzi: nel 2013, quando il fiorentino si preparava a giubilare Enrico Letta, partecipò alla Leopolda.

“Immuni” ci traccerà: come funziona e cosa ancora manca

Quanti nodi, ancora, questa applicazione che dovrà monitorare gli italiani nella fase 2 e avvisarli se sono entrati in contatto con un contagiato (forse, come vedremo). Il principale è che Immuni (progetto dell’azienda Bending Spoons, che giovedì ha sottoscritto un contratto di licenza gratuita con il commissario straordinario Arcuri) funzionerà solo se scaricata da almeno il 60% degli italiani. Convincerli non sarà facile: un bel fardello per il ministero della Sanità che ha molte incognite davanti a sé, dal server che ospiterà i dati alla pubblicazione delle specifiche della app, fino alla distanza e ai tempi minimi ‘di contatto’ per ritenersi a rischio. Ma andiamo con ordine.

Come funziona. La app che è stata analizzata e poi selezionata dal gruppo di esperti della task force del ministero dell’Innovazione funziona così: su base volontaria, si scarica la applicazione sullo smartphone. Per registrarsi non si devono inserire né nome né cognome né altri dati personali. Si chiede il consenso dell’utente. Il soggetto è identificato con una serie di numeri casuale. La app attiverà il segnale bluetooth (in modalità low energy) e da quel momento, ogni volta che entra in contatto con altri bluetooth attivati dalle app di altri smartphone, registra quei codici, che restano nel dispositivo con indicazione di ora e distanza. Il ministero della Salute dovrà stabilire quali siano distanza e tempi “critici”: per il momento ancora non c’è indicazione. Fin qui, un sistema silente in tasca.

Il positivo. Le cose cambiano qualora si dovesse riscontrare una positività. A quel punto la app del soggetto entrerebbe in contatto con quella dell’operatore sanitario che, dopo aver chiesto e ottenuto il consenso al paziente, può inviare una notifica (via app) a tutti quei “contatti bluetooth” salvati in precedenza (il lasso di tempo a cui risalire dovrà essere stabilito) per allertarli di essere stati in contatto con un positivo senza però mai fornire elementi che possano far risalire al soggetto, noto solo agli operatori sanitari.

I dati.Il sistema ha avuto l’ok del Garante della Privacy e rispetta le direttive della commissione Ue, così come presentato. Se nella prima fase non sono coinvolti server dove custodire i dati, perché il dialogo è solo tra telefoni e app, in un secondo momento c’è il passaggio attraverso quelli che al momento sono i server in cloud di Bending Spoons (le informazioni restano sempre in sequenza numerica) sui quali però c’è ancora discussione: sempre il ministero dovrà indicare le strutture pubbliche dove gestirli (circola l’ipotesi della in house del Mef, Sogei). Il codice sorgente sarà sotto licenza Mpl2, quindi open source, e sarà pubblicato dal ministero (da stabilire se, come e quando).

Norme e non.Le notifiche partiranno solo su autorizzazione del positivo. Resta fermo il diritto di avere libertà di scelta, altrimenti servirebbe una legge o un Dpcm che imponga l’obbligo della comunicazione. Quello che invece servirà è un dl per la privacy, una legge che stabilisca l’esigenza del trattamento, necessario al funzionamento dell’app e sempre ai sensi del Regolamento Ue. Prima di diffondere il sistema tra i cittadini, resta aperta l’ipotesi della fase di test tra i 4mila dipendenti della Ferrari (Maranello e Modena).

La app lombarda. Ieri, intanto, a tutti quelli che sono in Lombardia è arrivato l’sms della Regione che li sollecitava a scaricare la sua app per monitorare l’insorgere di sintomi. Si chiama “AllertaLoom” e in realtà nasce per gli aggiornamenti su rischi meteo e valanghe. Solo da poco si può compilare un questionario sul proprio stato di salute. Per gli sms, sono stati gli operatori a inoltrare i messaggi a tutti i numeri agganciati alle celle telefoniche (possibile secondo una recente ordinanza e giustificati come sms di pubblica utilità). Il garante della privacy, Antonello Soro, ha già ricevuto diverse segnalazioni e le sta valutando. Anche perché la app era nata per altri scopi. La concorrenza in materia tra Stato e Regioni è un tema aperto.

“Il vero problema non è quando si ritorna, ma come: no a scorciatoie sulla sicurezza”

Giorgio Airaudo, gli imprenditori spingono per riaprire e i governatori di centrodestra del Nord li fiancheggiano in chiave anti-governo. In Piemonte, invece, voi della Fiom avete sottoscritto con Fca l’accordo per il rientro al lavoro, di fatto cancellando gli antichi scontri dell’epoca Marchionne. Quando si dovrà ricominciare?

Il problema è proprio questo: non è una questione di date, ma semmai di come si tornerà al lavoro. In quali condizioni e per ogni lavoratore.

Un modo per dire che non si deve riaprire adesso?

No, un modo per dire agli imprenditori, e magari proprio al nuovo presidente di Confindustria, che non è questo il momento di cercare scorciatoie per il “tutti in fabbrica”, ma semmai mascherine, guanti, sistemi di tracciamento, controlli sanitari, distanziamenti sicuri per chi dovrà tornare in azienda. Va fatto subito e dovrà essere tutto pronto quando gli esperti ci diranno che si può riaprire.

Le sembra che gli industriali su questo fronte siano fermi?

Provi a fare una domanda a un imprenditore qualunque, magari a uno di quelli della media italiana con nemmeno 50 dipendenti: ma voi avete le mascherine? Gli onesti le risponderanno: no, le stiamo cercando.

Che cosa c’è dietro le pressioni degli imprenditori?

Un modo, direi ideologico, di affrontare la questione, quando invece, lo ripeto, si tratta non di decidere quando si riapre, ma di stabilire come si riapre. Credo conti, innanzitutto, qualcosa di molto comprensibile sul piano umano: la paura economica. I grandi gruppi italiani sono rimasti pochi. I piccoli imprenditori, in questa situazione, hanno bisogno di liquidità immediata e di una sosta che non duri ancora a lungo. Poi, penso abbia pesato la battaglia per la guida di Confindustria: non a caso, giorni fa, quattro associazioni regionali del Nord hanno scavalcato quella nazionale per invocare la riapertura.

Tutti ancora a casa, insomma?

In realtà non è già così e non è tutto legale. In Piemonte ci sono circa 8mila richieste di autocertificazione per riaprire. Di fatto, le prefetture si limitano ad accertare, a tavolino e a livello fiscale, che le aziende effettuino davvero le produzioni del codice Ateco dichiarato. Ma nessun controllo a tappeto riguarda invece il rispetto dei limiti di sicurezza sottoscritti nel protocollo tra governo, imprese e sindacati. In provincia di Torino, su 2mila autocertificazioni, solo in cento casi c’è stata un’ispezione della Finanza e in 30 casi sono state verbalizzate violazioni. E se chiediamo di avere dati e riferimenti sulle autocertificazioni ai prefetti, la risposta è sempre negativa.

Per cosa vi servirebbero?

Per monitorare le realtà nelle quali il sindacato non è presente. Per fare una mappa dei contagi sul luogo di lavoro, per esempio: un elemento essenziale per ottenere il risarcimento dall’Inail. Ecco, chi vuole riaprire, prima dovrebbe occuparsi di organizzare questioni come questa. Il controllo della legalità, poi, sul posto di lavoro è altrettanto importante.

Consigli ai fan della Fase 2?

Non avere fretta e inserire tutto in un accordo nazionale. Facciamo un esempio: le mascherine. Dove possono trovarle i piccoli imprenditori che non hanno contatti internazionali? In nessun posto. Stabiliamo allora che sarà compito di Confindustria o dello Stato o delle aziende capo-commessa della filiera produttiva per cui lavorano aiutarli a trovare una soluzione. Il tempo della presunzione imprenditoriale, dopo il Coronavirus, non ha più senso.

“Abbiamo 14 giorni per organizzare bene la fase 2 del 4 maggio”

“Si può riaprire, al di là dei codici aziendali, in base alle capacità di seguire le regole, di osservare la distanza tra i dipendenti e tra coloro che accedono, alla presenza di mascherine, guanti e disinfettanti, alla sicurezza anche di mense, bagni, eccetera. Bisogna attivare i controlli dei medici nelle aziende in cui ci sono, per le piccole attività dovranno provvedere le Asl. Serviranno la App di tracciamento che è avviata, trasporti pubblici sicuri perché non affollati, ampia disponibilità di tamponi e percorsi differenziati per chi fosse contagiato. Servono formazione e informazione, per tutti”, dice Pierpaolo Sileri, chirurgo e viceministro della Salute.

Usciremo per fasce d’età? Giovani e vecchi a casa?

Le scuole riapriranno a settembre, tenere a casa gli anziani a me non sembra necessario. Anche perché gli anziani, in molti casi, sono i nonni che si occuperanno dei bambini che non andranno a scuola mentre i genitori torneranno a lavorare.

Abbiamo già migliaia di imprese che lavorano in deroga senza che le Prefetture abbiano potuto vagliare le domande. Se bisogna fare tutti questi controlli si può pensare di riaprire presto?

Abbiamo già riaperto le librerie. Dobbiamo ridurre il rischio di nuovi contagi che riempirebbero di nuovo le terapie intensive. Userei i 14 giorni fino al 4 maggio per questa complessa fase organizzativa.

Pensate anche di riaprire altri locali pubblici?

Dipende dal tipo di locale. Il Comitato tecnico scientifico sta valutando i rischi, distinguendo per classi di rischio. Per ultimi cinema e teatri. Ma tante aziende anche piccole possono riprendere.

In alcuni Paesi la distanza è due metri, in altri un metro e mezzo. Da noi basta uno?

Un metro è proprio il minimo. Con la mascherina va bene. Senza, meglio un metro e 80.

L’ultimo dato è 3.500 contagi con 65 mila tamponi, cioè molti. E 575 morti. Non sono troppi per riaprire?

Ho consigliato io di fare la conferenza stampa sui dati solo due volte a settimana. I dati vanno spiegati. Oggi questi tamponi sono di una settimana fa, dipende dalle Regioni, bisognerebbe metterci la data. Se ne fanno di più perché ora c’è disponibilità di tamponi e reagenti. Ma molti positivi trovati oggi erano a casa senza tampone e hanno aumentato i contagi intrafamiliari. Aspetto i dati dell’Istituto superiore per vedere se sono prevalentemente intrafamiliari, come mi pare parlando con i medici e come conferma il forte calo delle terapie intensive. Scende ancora troppo lentamente il numero dei morti, ma anche lì aspettiamo l’Istituto: chi muore oggi può essersi infettato due-tre settimane fa. E il problema delle Rsa appesantisce il numero dei morti.

Non bisognerà anche accelerare i test sierologici per vedere chi ha gli anticorpi?

Alcune Regioni hanno iniziato, ma non sappiamo ancora quanto durano gli anticorpi e quindi l’immunità. A chi risulta negativo bisogna fare comunque il tampone. Serve un test unico, mi auguro che il Comitato tecnico-scientifico trovi una posizione comune.

Attendiamo come unica speranza il vaccino, ma i no vax si sono già scatenati contro l’eventuale obbligatorietà.

Qui non parliamo di un certo numero di vaccini obbligatori, dell’esclusione scolastica a cui anch’io sono contrario. Dell’immunità di gregge non sappiamo nulla. Quando il vaccino ci sarà, se non lo fa una quota importante della popolazione potrebbe essere obbligatorio. Se poi ci sono alternative lo diranno alle famiglie dei morti.

Le varie task force erano partite in gennaio, ma quando a febbraio ci si è accorti dell’epidemia non si era pensato ancora agli ospedali. Ora c’è una commissione per riaprire e il Comitato tecnico scientifico frena.

Giusto che la scienza dica quali sono i rischi e poi la politica decida.

Ma lei, che è anche medico, va al Comitato?

No, ma sono in contatto con un nostro rappresentante.

È normale che non esista un elenco completo dei membri di questo comitato i cui verbali sono secretati? Il viceministro accede ai verbali?

Eravamo partiti a gennaio con task force al ministero, dopo il decreto che ha dichiarato l’emergenza il comitato ha proseguito con la Protezione civile. I verbali secretati? Ho avuto qualche difficoltà in passato anch’io, ma ora non più.

È caos sulle riaperture, tutto rinviato a dopo il 27 aprile

Nel weekend – nonostante il profluvio di task force, cabine di regia e comitati vari – non sarà deciso nulla quanto a nuove riaperture. Il governo e gli altri attori coinvolti lavorano alla fase 2, ma al momento non hanno preso alcuna decisione neanche su singoli settori: il panico che una nuova ondata di contagi segua la riapertura, che agita soprattutto il ministro della Salute Roberto Speranza, ferma qualunque passo avanti e questo timore ha due nomi, Lombardia e Piemonte. Pure le preoccupazioni dei sindacati – che vedono l’indecisione dei vari livelli di governo e l’incapacità a garantire i presidi sanitari necessari a riprendere il lavoro – contribuiscono allo stallo: è l’esecutivo, però, che dovrebbe indicare una linea, ma resta in attesa dei pareri di tecnici più o meno competenti. Tradotto: quanti speravano di poter iniziare a riaprire le fabbriche (la moda, i mobilifici, la meccanica e altri) dovranno pazientare probabilmente fino alla settimana che inizia il 27 di aprile, mentre per i negozi non sono previsti anticipi e – dando per scontate le regole di distanziamento sociale – è comunque probabile che ci siano scaglionamenti anche dopo il 4 maggio.

Intanto continuano a riunirsi, rigorosamente in video-conferenza, i vari attori chiamati a immaginare la “fase 2”: gli esperti guidati da Vittorio Colao dovrebbero consegnare un documento al governo proprio durante il weekend in un’apposita riunione con Giuseppe Conte; ieri il Comitato tecnico-scientifico ha discusso i testi di Inail e ministero dei Trasporti sulla mobilità; oggi si riunirà la cabina di regia politica che comprende il presidente lombardo Attilio Fontana, che dopo le clausure “cinesi” ora sponsorizza il suo fantomatico piano per la riapertura detto “delle quattro D” (“solo uno slogan” l’hanno liquidato i sindacati dopo un incontro in Regione). Il Viminale, che gestisce con le Prefetture le aperture in deroga (circa 112mila le richieste fino a Pasqua), invece, entrerà in azione in una fase successiva, quella dei controlli.

Alle pressioni di chi vuol riaprire, Confindustria in testa, l’esecutivo risponde che bisogna aspettare soprattutto il documento dell’Inail sulle “categorie di rischio”. Peccato che quel documento sia disponibile da una settimana e sia stato addirittura allegato al verbale del Comitato tecnico-scientifico del 9 aprile (Il Fatto ha potuto leggerlo), cui è seguita la decisione di prolungare il lockdown fino a maggio: si sa quali categorie sono più a rischio, quali sono i consigli organizzativi, quelli igienici, il modo in cui trattare i casi di positività e la rete medica necessaria a farlo. L’ultimo testo mancante, quello sui trasporti, è arrivato ieri.

Si tratta adesso di decidere chi deve fare cosa e in che data, magari dando il tempo alle parti sociali di elaborare protocolli di settore sul genere di quello generale in vigore anche ora. E, certo, servirebbe anche fornire mascherine, guanti e gli altri dispositivi di protezione necessari in numero assai maggiore di adesso (problema: al momento non ce ne sono a sufficienza) ed elaborare una strategia sensata per il trasporto pubblico. La comunicazione istituzionale, peraltro, non aiuta: mentre Walter Ricciardi (Oms) avverte che “è importante non accelerare le riaperture: in caso contrario la seconda ondata rischiamo di subirla prima dell’estate”, il capo del partito di maggioranza relativa, il grillino Vito Crimi, butta lì che “è impossibile oggi dire che il 4 maggio è una data sicura”.

In questo caos al governo rischiano di scappare le regioni, specie quelle governate dalla Lega, che puntano tutto sulla “fase 2”. La Lombardia, per ora, fa solo delle gran chiacchiere. La cabina di regia regionale riunita ieri con politica e parti sociali è finita con la lapide dei sindacati: “Non abbiamo ascoltato una sola proposta che si possa onestamente definire concreta”. Il presidente Attilio Fontana parla di “nuova normalità”, ma non pare sicurissimo: “Se la scienza ci dirà di stare chiusi staremo chiusi, ma non possiamo farci trovare impreparati: se ci fossero le condizioni, noi il 4 di maggio dobbiamo essere pronti per aprire”. Caso diverso quello del Veneto, che ha meno contagi e s’è mosso meglio nella mappatura della popolazione: il governatore Luca Zaia ha allentato alcune delle prescrizioni in vigore (tipo il limite di 200 metri da casa per le attività motorie) e sostenuto che “se dipendesse da me riaprirei tutto il 4 maggio con gradualità e senso di responsabilità”. Il punto è tutto qui: le regioni possono inasprire i Dpcm del governo, non violarli rendendoli meno stringenti. È a Roma che si decide.

Bonaccini non ci ha mandato i malati. Ma in Emilia è morto il 4% degli ospiti

Per dare idea dell’impatto del Covid-19 sulle Rsa in Emilia-Romagna basta guardare i numeri: ieri sono morte 60 persone, di cui 21 in residenze per anziani. È l 35 per cento. Otto solo in provincia di Reggio Emilia. Un dato confermato anche dall’ultimo report dell’Istituto Superiore di Sanità che piazza la città emiliana al secondo posto dopo Bergamo per la mortalità fra gli ospiti delle strutture: su 76 decessi avvenuti in 8 Rsa più del 97% aveva mostrato sintomi relativi al Coronavirus. Al questionario ha risposto il 10,2% delle Rsa emiliano-romagnole, in tutto 348 tra pubbliche e convenzionate. Da inizio epidemia secondo la Regione la componente dei contagi rilevata rappresenta il 7% di quelli avvenuti, dal 1° aprile ad oggi l’incidenza sul totale ha raggiunto il 15%. Secondo il commissario regionale ad acta Sergio Venturi “questo quadro dà certezza di quanto sapevamo, stiamo lavorando perché nelle strutture residenziali per anziani c’è l’oggettiva necessità di mettere in campo misure di isolamento e potenziamento delle attività”.

A oggi i deceduti sono 2.903, a grande distanza dalla Lombardia con più di 11 mila vittime. A differenza di Attilio Fontana, il dem Stefano Bonaccini non ha mandato pazienti malati Covid-19 nelle Rsa, anzi gli ospiti infetti sono stati ospedalizzati. A oggi però non è dato sapere quanti degli ospedalizzati provenienti dalle strutture residenziali siano deceduti in ospedale. Secondo il report dell’Iss il numero dei decessi totali nelle Rsa emiliano-romagnole è stato, al 14 aprile, di 520: di questi 58 sono risultati positivi (confermati da tampone) e 242 avevano manifestato sintomi simil-influenzali per un totale di 300 morti “possibili” per Coronavirus. La mortalità è al 4%, molto alta e seconda sola alla Lombardia (6,7%) e alla provincia autonoma di Trento (6,9%). Anche la magistratura si muove. La Procura di Forlì ha aperto un fascicolo per omicidio colposo, senza indagati, su tre morti nella casa di riposo Zangheri. Tra le ipotesi che i malati fossero “privi di congrue procedure di prevenzione del contagio”. A Piacenza c’è unindagine sulle cliniche Piacenza e Sant’Antonio dopo che alcune inchieste giornalistiche avevano ipotizzato la presenza di contagiati prima che emergesse il cosiddetto paziente uno a Codogno (Lodi).

L’epidemia frena. “È certo, il contagio non è sceso al Sud”

Il coronavirus, almeno a livello di grandi numeri, si è fermato al Nord. Ne è certo il sempre cauto professor Franco Locatelli, che ieri ha utilizzato parole nette: “Essere riusciti a impedire la diffusione del contagio nelle Regioni del centro-sud è un dato ormai solidamente corroborato dall’evidenza dei numeri – ha affermato il presidente del Consiglio superiore di sanità nel punto stampa delle 18 –. Anche oggi ben 13 tra Regioni e Province autonome hanno un numero di decessi inferiore a due cifre, addirittura due Regioni senza casi fatali”.

L’evidenza dei numeri dice che i casi totali di Covid-19 in Italia sono saliti a 172.434: i nuovi contagi comunicati ieri dal coordinatore operativo Angelo Borrelli sono stati 3.493. Una crescita del 2,07% sul giorno precedente: un dato tutto sommato positivo, poiché inferiore alla media registrata questa settimana che è stata del 2,25%. Se si sottraggono dal totale dei contagiati le persone decedute e quelle dimesse o considerate guarite, imalati attuali sono 106.962, in crescita di sole 355 unità: giovedì erano stati 1.189 in più. È l’incremento più basso dal 2 marzo: quel giorno erano stati 258. Intanto però le persone morte dopo aver contratto il coronavirus sono aumentate di 575 unità (in aumento rispetto alle 525 comunicate dalla Protezione civile giovedì) e hanno portato il conteggio totale a quota 22.745. E però c’è anche un altro record, stavolta positivo: 65.705 tamponi registrati. Tocca, poi, quota 42.727 il totale dei guariti: +2.563 (2.072 quelli di giovedì).

Continua a diminuire la pressione sugli ospedali. Ieri i ricoveri in terapia intensiva sono scesi a 2.812 (-124). Di questi, 971 sono in Lombardia, 61 in meno rispetto a ieri. Ai primi del mese superavano i 4 mila. Dei 106.962 malati complessivi, 25.786 sono ricoverati (1.107 in meno) e 78.364 sono quelli in isolamento domiciliare, ha comunicato ieri Borrelli alle 18. Un appuntamento che dalla prossima settimana cambierà: “Continueremo a veicolare i dati sul sito – ha annunciato il capo della Protezione civile – ma terremo un punto stampa due volte a settimana”.

L’attenzione rimane puntata sulle Rsa. Secondo l’apposito l’Istituto Superiore di Sanità, i decessi avvenuti nelle strutture dal 1° febbraio al 15 aprile sono stati fra 6mila e 7mila. Il 40% dei deceduti aveva avuto i sintomi ma “è difficile distinguere fra influenza e Covid-19”, ha spiegato Graziano Onder, del Centro cardiovascolare e dell’invecchiamento dell’Iss. I decessi corrispondono a circa il 7% del numero complessivo degli anziani residenti nelle Rsa, calcolato in oltre 80 mila. Di questi, la maggior parte si trova al Nord e solo un migliaio è risultato positivo al tampone.

Il Settentrione, sempre quello, continua apreoccupare. Secondo il secondo aggiornamento di uno studio pubblicato dal consigliere regionale del Pd Samuele Astuti, in Lombardia tra il 23 febbraio e il 4 marzo si sono verificati 21.400 decessi contro una media di 8.400 degli ultimi 5 anni: il 160% in più. Tradotto: “Il numero dei decessi riconducibili al Covid-19 è molto più elevato” di quanto non emerga dai dati ufficiali .

“In camera con il virus fino al 15 aprile”

Un esposto in Procura per sequestrare il Pio Albergo Trivulzio e salvare chi è ancora vivo. Come la nipote della signora Lisa. Un’ospite di 90 anni che fino all’altro ieri divideva la camera di una sospetta malata di Covid. Stando alla mail, allegata nell’esposto depositato ieri alla Procura di Milano, questo accadeva fino al 15 aprile scorso. “Com’è possibile – scrive la signora Lisa, nipote della donna – che la nonna rimanga in camera con una paziente sospetta Covid? Perché tenerla lì e aumentare il rischio?”. La struttura risponde che “da ieri” la nonna “non condivide la camera con la signora isolata”. La risposta è il 16 aprile. Due giorni fa.

Nell’esposto depositato dagli avvocati Luca Santamaria e Luigi Santangelo, che assistono Alessandro Azzoni, figlio di un’altra signora, si allega un comunicato dei dipendenti della Rsa milanese: “Siamo stati lasciati soli, senza direttive che prevedessero protocolli aziendali diagnostico terapeutici, senza Dpi fino al 23 marzo”. Azzoni ha chiesto ieri alla Procura di Milano di sequestrare il Pio Albergo Trivulzio perché “vi è il fondato timore che le condotte negligenti siano tuttora in corso e vi sia il concreto pericolo che il perdurare di tale situazione possa comportare per altri degenti, inclusa la madre del sottoscritto, conseguenze irrimediabili”. La mamma di Alessandro Azzoni è una donna malata di Alzheimer ricoverata da oltre due anni al Pio Albergo Trivulzio. Il figlio dal 29 febbraio non può farle visita, quando l’ha vista per l’ultima volta l’ha lasciata in “buono stato di salute”. Dal 10 marzo rifiutano di passargliela al telefono. Il 25 marzo viene avvertito che la donna ha la febbre a 38. Gli chiedono se possono legarla al letto: “La contenzione, mi spiegano, era necessaria perché vi era il rischio che mia madre, deambulando, potesse infettare il resto del reparto. Alla mia richiesta in ordine alla natura della malattia che l’affliggeva, il dottore riferiva che non erano stato effettuati tamponi”.

A quel punto il signor Azzoni chiede che le venga fatto un tampone e sia isolata, per evitare il contatto con gli altri degenti. Risposta negativa ad entrambe le richieste. “L’unico canale di informazione – si legge nell’esposto – certo era il bollettino giornaliero della struttura, che riferiva un numero crescente di casi ‘critici’”. Giorni dopo viene informato che la temperatura corporea è scesa, che è probabile che sua madre abbia contratto il virus in forma lieve. Il 13 aprile riesce a parlare con un infermiere che però gli dà tutta un’altra versione: il reparto è “un inferno”, su 20 degenti ne sono morti 6, la signora è allettata da una settimana con una saturazione dell’ossigeno del 90% e, da tempo, ha smesso di bere, mangiare e parlare.

Il medico qualche ora dopo – si legge sempre nell’esposto – gli racconta di non avere i diari clinici e, solo dopo una lunga insistenza, accetta di fare una flebo alla donna. Il 16 aprile, dagli esami del sangue, risulterà disidratata e denutrita. A Milano la maxi-indagine sui morti per Covid nelle Rsa vede al momento quattro indagati e diverse strutture nel mirino. Tra queste c’è il Pio Albergo Trivulzio (Pat), individuato dalla Regione come centrale unica di smistamento di malati Covid nelle varie struttura. Qui la GdF ha sequestrato diverso materiale. Si indaga anche sulle responsabilità della Regione e in particolare sulla delibera dell’8 marzo che indicava la necessità di accogliere pazienti Covid. Ieri in Procura si è lavorato sui documenti. Gli inquirenti hanno suddiviso in tre aree le verifiche sulle cartelle: quelle dei decessi, quelle dei nuovi ingressi di pazienti, quelle degli anziani più gravi curati nella struttura senza essere portati nei pronti soccorso, come prevedevano le indicazioni regionali.

E che il Pat lavorasse in “coordinamento con l’Unità di crisi” della Regione lo dimostra un documento firmato il 24 marzo dal dg del Pat Giuseppe Colicchio oggi indagato per omicidio colposo. In serata poi un nuovo fascicolo su una Rsa in Brianza è stato aperto dalla Procura di Monza.

Fontana scarica uffici e Rsa. Ma per i Covid pagava triplo

L’operazione scaricabarile sulla famosa delibera dell’8 marzo, con la quale la Regione Lombardia ha disposto il trasferimento dei pazienti Covid in via di miglioramento nella case di riposo, è iniziata. “La delibera è stata proposta dai nostri tecnici – ha detto ieri il presidente della Regione, Attilio Fontana –. I nostri esperti ci hanno riferito che a determinate condizioni, e cioè che esistessero dei reparti assolutamente isolati dal resto della struttura e addetti dedicati esclusivamente ai malati Covid, la cosa si poteva fare”.

I tecnici sono i dirigenti del settore Welfare della Regione, a partire da Luigi Cajazzo, direttore generale: e infatti la proposta di delibera è stata messa sul tavolo della giunta direttamente dall’assessore al Welfare, Giulio Gallera. Poi c’è la questione relativa ai controlli, cioè alla verifica che effettivamente le Rsa che hanno aperto le porte ai malati Covid avessero i requisiti richiesti: tutto in capo alle aziende sanitarie – dice adesso Fontana –, vale a dire alle Ats. In Regione spiegano che il percorso è stato limpido, trasparente, regolare; che la delibera è arrivata, come sempre avviene, dopo una istruttoria tecnica: anche se con l’approvazione scatta contemporaneamente anche un’altra responsabilità, quella tutta politica. Ma tant’è.

Così, mentre procede l’indagine della magistratura, il cerino viene dato in mano ai cosiddetti tecnici, alle aziende sanitarie e, per ultime, alle stesse case di riposo. Sulle quali la Regione indaga con due sue commissioni: una sul Pio Albergo Trivulzio, l’altra sulle stesse Rsa. Alle aziende sanitarie è già stata chiesta una relazione, qualcuna l’ha già inoltrata. Lo hanno fatto quelle che hanno competenza sulle aree dove sono presenti le case di riposo che hanno effettivamente accolto pazienti Covid. Si sa, sono solo 15 su oltre 700 (dati diffusi dalla stessa Regione), delle quali sei nel Bergamasco, tre in provincia di Mantova, due nel Lodigiano, una in provincia di Brescia, una a Milano. Poi ci sono Sondrio, Pavia…

Proprio nel Bergamasco, una delle zone più colpite dal contagio, c’è chi ha aggiornato puntigliosamente i conti della mattanza dei nonni. È la Cgil. “Dal primo marzo alla prima metà di aprile, 1.326 decessi, il 24% del totale degli anziani ospiti”, dice il segretario provinciale Gianni Perecchi –. Abbiamo fatto una ricognizione noi, perché l’Ats di Bergamo i numeri non ce li fornisce”. E dire che fino a pochi giorni fa, ufficialmente, gli anziani morti erano meno della metà: 600. Perecchi è tra quelli che non ci stanno al gioco del rimpallo. Perché se è vero che le case di riposo sono strutture private, come sottolinea la Regione, è anche vero che operano su accreditamento, con un contratto di budget, condizione che le mette anche, inevitabilmente, in una posizione di subalternità. “La Regione ha una funzione di controllo, di sorveglianza e di supporto – prosegue Perecchi –. E ricordo che alle Rsa che a fine febbraio avevano chiuso agli accessi per prudenza, ordinò la riapertura, mandando degli ispettori attraverso l’Ats. Nella nostra provincia le case di riposo di pazienti Covid ne hanno accolti una settantina. L’operazione, voluta per alleggerire gli ospedali, non ha dimostrato nemmeno efficacia”.

Al gioco si sottraggono anche le associazioni delle Rsa, come Uneba, a cui ne fanno capo in Lombardia circa quattrocento: “Fino al 30 marzo la Protezione civile requisiva le mascherine destinate alle case di riposo – dice il presidente Luca Degani -, solo adesso che il dramma è esploso le cose sono cambiate. La verità che si doveva porre fin dall’inizio grande attenzione a queste strutture perché hanno in carico le persone più fragili”. È ancora Degani a ricordare che l’accreditamento da parte della Regione può essere sospeso o revocato. “È già successo”, dice. E quando questo avviene viene meno quel contributo pubblico, da parte del sistema sanitario regionale, che per ogni anziano oscilla tra i 29 e i 49 euro al giorno, a seconda delle patologie.

Questione non irrilevante, visto che sullo sfondo resta il tema del rimborso previsto dalla Regione come retta giornaliera per ogni paziente Covid degente: 150 euro, più del triplo della tariffa massima prevista. Quanto alle commissioni di indagine, tutte le associazioni hanno chiesto di essere ascoltate. “Una cosa è certa – dice Degani –. C’è stata difficoltà a cogliere il rilievo di luoghi di rischio come le nostre strutture”.

Descalzi ha vinto, i 5 Stelle si saziano con tante poltrone

Con fatica il Pd e i 5S hanno raggiunto un compromesso per le nomine di Stato. Non è stato uno spettacolo gradevole. Fino a ieri sera, per le posizioni più rilevanti, aziende che reggono colonne di prodotto interno lordo, amministratori delegati e presidenti saltavano di qua e di là a seconda dei momenti e dei sotterfugi. Un manager soltanto non ha vacillato mai, ibernato da almeno tre mesi di pantomima politica, soprattutto dei Cinque Stelle: Claudio Descalzi, ad di Eni ormai giunto al terzo mandato, imputato per corruzione internazionale nel processo per la tangente di oltre un miliardo di dollari pagata in Nigeria e indagato per gli affari della moglie in conflitto di interessi con la multinazionale del petrolio. Sin da febbraio non c’erano dubbi, e i 5Stelle, o almeno una loro parte, hanno deciso che non si poteva resistere alle pressioni provenienti da ogni dove e alla protezione del Quirinale e hanno iniziato a lavorare per lo scambio ai vertici del Cane a sei zampe.

Nelle ultime settimane, intuita la portata di una decisione che seppellisce l’antico spirito contro il sistema, il Movimento ha lavorato ancora di più per prendere per la presidenza del gruppo e per cancellare le impronte digitali sull’ad inquisito. A Descalzi era rimasto un unico patema: subire la sostituzione della morbida Emma Marcegaglia, che mai l’ha disturbato, con l’arrivo di un presidente poliziotto, un Gianni De Gennaro o un Luciano Carta. Descalzi l’ha scampata. De Gennaro è in uscita da Leonardo e lascerà il testimone a Carta, il capo dei servizi segreti esteri (Aise), che a sua volta libera una casella assai ambita. Così i Cinque Stelle hanno cercato un candidato diverso, mentre Descalzi avrà smaltito le residue ansie. Il Movimento – in particolare il viceministro Stefano Buffagni – ha proposto Lucia Calvosa, presente in più di un cda da indipendente (fino a oggi anche in Seif, la società che edita il Fatto, ndr). Descalzi ha ottenuto una vittoria totale e i dem hanno accettato poiché concentrati su altro, di più sostanzioso, come la riconferma di Alessandro Profumo (Leonardo), Francesco Starace (Enel) e Matteo Del Fante (Poste).

I Cinque Stelle sono riusciti a espugnare Siena, prendono quella che fu la gloriosa banca Mps con Guido Bastiniani ex Carige. In cda, da presidente, Bastianini avrà a fianco Patrizia Grieco, che ha liberato il posto in Enel per accogliere Michele Crisostomo, l’avvocato in quota Cinque Stelle. A Terna, la società che gestisce la rete elettrica, sempre il Movimento promuove come amministratore delegato Stefano Donnarumma (ex Acea) e innesca un ribaltone alla multiservizi controllata dal comune di Roma: in corsa c’è Aldo Bisio, ad di Vodafone, compagno di Azzurra, cioè genero di Francesco Gaetano Caltagirone, azionista di minoranza del gruppo. Per completare il vertice di Terna, assieme a Donnarumma, c’è il presidente Valentina Bosetti dell’università Bocconi e indicata dal Pd. Doppietta Cinque Stelle in Enav, l’ente nazionale per l’aviazione civile: l’ad è Paolo Simioni, oggi in un’altra multiservizi romana, l’Atac (trasporti) e il presidente Francesca Isgrò (già ad di Poste).

Manca il presidente proprio di Poste, in lizza, non ancora sicura, c’è la professoressa Giusella Dolores Finocchiaro scelta dal premier Giuseppe Conte. I cda non sono ancora completi, le trattative sono allargate ai soci di minoranza del governo, Italia Viva di Matteo Renzi – è furibondo perché l’hanno coinvolto poco e minaccia sfracelli per ottenere qualche altra casella – e la sinistra mista che fa riferimento al ministro Roberto Speranza (LeU).

A parte qualche acuto, le indiscrezioni riportano dei Cda di bassissimo valore, consiglieri recuperati, riciclati, amici di amici. Persino un compagno di classe. Carmine America dalla Farnesina, dove ha preso la scrivania con l’amico Luigi Di Maio, che l’aveva portato con sé al ministero per lo Sviluppo Economico, è destinato a Leonardo. Sempre i Cinque Stelle, seppur con pareri contrari, stanno cercando una sistemazione all’ex ministra della Difesa del governo gialloverde Elisabetta Trenta, come Renzi la cerca per l’ex ministra dello Sviluppo, Federica Guidi e l’ex deputato Ernesto Carbone.