“Salva Stati” & C., ecco di cosa parliamo

Il compromesso raggiunto ieri all’Europarlamento è quello della creazione di “recovery bond” garantiti dal bilancio Ue e l’esortazione a usare gli oltre 400 miliardi del Mes. Non è passata invece la proposta degli eurobond. Ecco un breve glossario per capire di cosa si parla.

Il Mes. È il Meccanismo europeo di stabilità. È stato istituito nel 2012 dai 19 Paesi dell’euro per sostituire l’ex fondo “Salva Stati” con il compito di prestare fondi o concedere linee di credito in cambio di rigorose condizionalità, cioè la firma di un memorandum in cui lo Stato debitore si impegna a un programma di tagli e riforme strutturali (sul modello della Grecia). L’intesa all’Eurogruppo del 9 aprile prevede l’istituzione di una nuova linea di credito con la sola condizionalità di spendere i soldi (massimo 35 miliardi per l’Italia) per l’emergenza sanitaria. Le condizionalità, però, possono essere inserite anche successivamente dal “Consiglio europeo a maggioranza qualificata”. È successo spesso spesso nella crisi greca. La risoluzione approvata ieri dal Parlamento Ue esorta gli Stati ad attivare il Mes con questa “linea di credito dedicata”, anche se si saprà solo fra due settimane se verranno escluse le condizionalità ex post.

I “recovery bond”. È stata la Francia a proporre un “Recovery fund” per finanziare la ripresa economica dopo la crisi del Covid-19. Uno strumento in grado di finanziarsi grazie alla garanzia di tutti i Paesi e poi spendere direttamente i soldi (evitando prestiti ai singoli Stati membri che fanno crescere il debito pubblico). Per Berlino dovrebbe essere uno strumento legato al bilancio europeo settennale (2021-2027), quindi con risorse limitate e tempi più lunghi. La prima parte del paragrafo 17 della risoluzione va in questa direzione: invita la Commissione a proporre un massiccio pacchetto di investimenti per la ripresa da finanziarie con un bilancio pluriennale potenziato, i fondi e gli strumenti già esistenti e recovery bond garantiti dal bilancio. Questo schema evita una vera condivisione del debito. “L’Europarlamento – si legge – ritiene che tale pacchetto non dovrebbe comportare la mutualizzazione del debito esistente e essere orientato a investimenti futuri”.

Gli eurobond. Sono il vero strumento di debito comune: obbligazioni emesse dalla Commissione Ue o da istituzioni europee che finanziano spese all’interno dell’Unione. Come soluzione temporanea e di scopo nel dibattito pubblico hanno preso il nome di “Coronabond”. I verdi hanno cercato di modificare la risoluzione con un emendamento che prevedeva che “Una quota del debito emessa per contrastare la crisi del covid-19 deve essere mutualizzata”. Fratelli d’Italia si è schierata a favore con Pd e M5s. Iv si è astenuta. Lega e FI hanno votato contro.

Ue: Lega e FI tradiscono l’Italia, il M5S si spacca

L’Italia dei partiti si spacca in tanti pezzi in Europa. Con Pd e Cinque Stelle che si dividono ancora sul Mes, e il Movimento che alla fine si lacera al suo interno. Ma soprattutto con Lega e Forza Italia che votano assieme contro gli eurobond e la mutualizzazione del debito, supine alla linea dei falchi del Nord come Olanda e Germania, i Paesi più ostili alle richieste italiane. È uno scenario figlio di calcoli di bottega e fossati politici, quello che emerge dalla due giorni di votazioni in Parlamento europeo sulla risoluzione sulle misure contro la crisi per il coronavirus, presentata dai Popolari del Ppe e dai Socialisti&Democratici (di cui fa parte il Pd) assieme ai Verdi e a Renew Europe, il gruppo con En Marche! di Macron e l’unico eurodeputato di Italia Viva, Nicola Danti.

E dire che mercoledì scorso, in una videoconferenza con il ministro degli Affari europei Enzo Amendola, tutti i capidelegazione dei partiti a Bruxelles si erano impegnati “a lavorare solo nell’interesse dell’Italia”. Promesse al vento. Così ecco le convulsioni attorno alla risoluzione approvata ieri pomeriggio.

Un testo che prevede il ricorso al Mes, il fondo salva-Stati, chiede investimenti “per un ambizioso quadro finanziario pluriennale” e un fondo di solidarietà da almeno 50 miliardi, e soprattutto obbligazioni garantite dal bilancio della Ue: i cosiddetti recovery bond, strumento dai contorni più vaghi rispetto agli eurobond chiesti dall’Italia e da altri Paesi del Sud. E infatti la risoluzione lo dice: “Tale pacchetto (di interventi) non dovrebbe comportare la mutualizzazione del debito esistente”. E anche se è un atto senza valore vincolante, rappresenta un segnale al Consiglio europeo del prossimo 23 aprile e nel contempo lo specchio di contraddizioni pesanti. Innanzitutto per Lega e Forza Italia, che con il loro no giovedì hanno contribuito in modo decisivo ad affossare un emendamento dei Verdi al testo che voleva introdurre gli eurobond e la mutualizzazione del debito, invocata da Roma: “Una parte sostanziale del debito che sarà emesso per combattere le conseguenze della crisi provocata dalla pandemia deve essere mutualizzato a livello della Ue”. Pd e Cinque Stelle hanno votato a favore, come Fratelli d’Italia, ma non è bastato. E ora il M5S e i dem puntano il dito contro forzisti e leghisti, “traditori dell’Italia”. Il Carroccio risponde condannando gli eurobond: “Sarebbe come consegnare le chiavi di casa alla Germania e alla Troika”. Però dai 5Stelle hanno gioco facile a ricordare recenti dichiarazioni di Matteo Salvini a favore dei bond.

Poi c’è Forza Italia, con Antonio Tajani che di fatto ammette la resa: “Gli eurobond sono purtroppo irrealizzabili: però abbiamo vinto la battaglia sui recovery nel Ppe”. Ma ci sono anche i giallorosa, frantumati. Lo conferma il voto contrario del M5S all’articolo 17 della risoluzione, appoggiato invece dai dem, che prevede l’uso del Mes e i recovery bond, “ma senza la condivisione del debito”, fanno notare i 5Stelle. Ma è nel voto finale che si consuma una frattura nella maggioranza e all’interno dei Cinque Stelle.

Perché mentre il Pd vota a favore della risoluzione, dieci su 14 grillini si astengono. Altri tre, tra cui Ignazio Corrao, votano contro, mentre Eleonora Evi non partecipa. Una spaccatura analoga a quella del novembre scorso, in occasione del voto di fiducia alla neo-presidente della commissione europea, Ursula von der Leyen, quando dieci 5Stelle votarono a favore e quattro contro. Così si spiega perché la maggioranza abbia voluto impedire il voto in Italia su eventuali risoluzioni, quando il 21 Conte riferirà alle Camere sul Consiglio europeo di due giorni dopo. La capodelegazione del M5S, Tiziana Beghin, replica così al Fatto: “Nessuna spaccatura, sugli emendamenti abbiamo votato in modo compatto. Sono prevalse sensibilità diverse sul testo finale, ma nel Parlamento europeo è normale: i Verdi, per esempio, si sono spaccati in tre”. Ma sul Mes siete lontanissimi dal Pd, e comunque non avete votato la risoluzione… “Volevamo un testo più ambizioso, che prevedesse la mutualizzazione del debito. E sul fondo salva-Stati manteniamo le nostre perplessità. Servono gli eurobond, e in quest’ottica è sorprendente il voto contrario di Forza Italia”. E il no della Lega? “Ha tradito gli interessi italiani, in Ue sanno tutti che non è una forza costruttiva”.

Carmelitani Descalzi

Il primo burrascoso vertice di maggioranza per le nomine nelle società partecipate (Eni, Enel, Poste, Leonardo, Terna, Mps, Enav ecc.) ha visto Pd e 5Stelle scontrarsi su un duplice casus belli: da un lato la pretesa del Pd di tenersi tutte le poltrone più importanti con la scusa che il Quirinale spinge per non cambiare nulla in nome della “continuità”; dall’altro la richiesta dei 5Stelle di rimpiazzare alcuni manager di peso in cambio della rinuncia alla loro battaglia contro l’imbarazzante amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi. La pretesa del Pd è bizzarra: il partito di maggioranza relativa sono i 5Stelle che han vinto le elezioni del 2018, non il Pd che le ha perse; e la contrarietà del Quirinale a ogni cambiamento, se confermata, sarebbe un abuso di potere: la Costituzione non assegna al capo dello Stato alcuna voce in capitolo sulle partecipate, che invece spettano al premier e al governo. Ma altrettanto bizzarra è la posizione dei 5Stelle, che si sono rassegnati alla conferma degli Ad di quasi tutte le società più rilevanti, incluso l’imbarazzante Descalzi, ma a titolo di risarcimento per averlo “ingoiato” rivendicano un bel po’ di presidenze (con funzioni poco più che decorative).

A noi, come a tutti i cittadini, dell’etichetta partitica dei manager pubblici non importa nulla. Purché si tratti di persone capaci, oneste e al di sopra di ogni sospetto: cioè inattaccabili sul piano professionale, morale, deontologico e naturalmente penale. Per questo, da mesi, ci sgoliamo a spiegare perché Descalzi è del tutto incompatibile con la carica di Ad dell’Eni. E qualche miserabile verme annidato nei soliti giornalacci arriva a insinuare che la nostra battaglia di principio celi un nostro interesse per “piazzare” all’Eni questo o quel personaggio: prima si parlò dell’economista Luigi Zingales (ex consigliere indipendente di Eni e docente a Chicago), ora si parla di Lucia Calvosa, docente di Diritto commerciale, già consigliere indipendente di Mps, poi di Telecom e ora di Seif (la società del Fatto). Ovviamente, malgrado la stima che non solo noi nutriamo per Zingales e Calvosa, non ci occupiamo delle loro carriere professionali, anche se troviamo curioso che non vengano chiamati a discolparsi gli sponsor di manager inquisiti e imputati, ma noi perché abbiamo amministratori cristallini e incensurati. Da cittadini e giornalisti, però, siamo interessati a una seria bonifica di un gruppo strategico come l’Eni, da troppi anni in mano a personaggi che si dividono fra la politica energetica nazionale e i processi per presunte corruzioni e sicuri conflitti d’interessi.

Quindi, per i senza memoria, ripetiamo i cinque motivi che dovrebbero indurre Conte, Gualtieri, 5Stelle, Pd, Iv, Sinistra e (se è interessato) Mattarella ad accompagnare Descalzi alla porta.

1. Descalzi è imputato a Milano di corruzione internazionale per la più grande tangente della storia italiana (1,1 miliardi), pagata da Eni nel 2011 per ottenere un giacimento in Nigeria e finita sui conti di politici, mediatori, faccendieri, manager.

2. L’Eni è indagato anche per le accuse di Piero Amara, suo avvocato esterno, arrestato nel 2018. Amara racconta di aver ricevuto mandato e denaro dai vertici Eni per orchestrare nel 2015 un “complotto” per depistare le indagini milanesi sulle corruzioni Eni in Nigeria e in Algeria, salvando Descalzi dalle accuse. Non solo: nel marzo 2016 incontrò a Roma Claudio Granata (braccio destro di Descalzi) e l’ex manager Vincenzo Armanna per organizzare un depistaggio sul depistaggio: Armanna, in cambio di denaro, avrebbe dovuto ritrattare le accuse contro Descalzi e scaricare tutto su due manager licenziati.

3. Secondo Amara, la security Eni avrebbe dossierato, pedinato e intercettato Zingales, la Litvack, il giornalista Claudio Gatti (che indagava su Eni) e i pm milanesi De Pasquale, Spadaro e Storari.

4. L’Eni è sotto inchiesta a Milano anche per una corruzione internazionale in Congo: avrebbe girato quote dei suoi giacimenti alle società Aogc (legata al presidente Denis Sassou Nguesso) e Wnr (legata a “persone vicine a Eni e al suo management”). Anche quella, per la Procura, era una tangente per politici congolesi e manager italiani.

5. La moglie congolese di Descalzi, Marie Madeleine Ingoba, controllava – secondo i pm, tramite schermi esteri – 5 società denominate “Petro Service” che han prestato servizi all’Eni del marito in cambio di circa 300 milioni di dollari tra il 2007 e il 2018. La signora Descalzi controllò quelle società direttamente dal 2009 al 2014. Poi, l’8 aprile 2014, sei giorni prima che Renzi indicasse Descalzi come Ad Eni, la Ingoba vendette la lussemburghese Cardon Investments che controlla le 5 Petro Services ad Alexander Haly, ritenuto dai pm un socio-prestanome della coppia Descalzi-Ingoba. Di recente, in vista del rinnovo dei vertici Eni, è filtrata la notizia di una separazione dei due coniugi, evidentemente consci del loro mega-conflitto d’interessi. Che, a prescindere dal processo e dalle inchieste in corso, basta e avanza a sconsigliare la riconferma di Descalzi al comando del primo gruppo industriale italiano.

Com’erano “mitiche” le dee e le maghe antiche

Pandora è la causa di tutti i mali, le Sirene cantano e traggono in inganno, Medea uccide i suoi figli. Alla visione monodimensionale, sovente intrisa di cliché e venata di maschilismo, delle più iconiche donne della mitologia greca, ovvia il godibile (per giovani lettori curiosi, ma non solo) Mitiche di Giulia Caminito, a raccontarne nove, con al centro – anziché mariti, divinità, guerre – i loro più intimi pensieri, timori, angosce, desideri e pure l’infanzia che certo le ha segnate. Così ognuna assume un’umanità più sfaccettata. Aracne non è la tracotante giovine che osò credersi migliore di Atena, ma una ragazza consapevole del suo talento al telaio, decisa a difendere la propria abilità. Pandora non è solo l’incarnazione della curiosità che genera disastri, ma colei che, aprendo una seconda volta il vaso proibito, fa sì che la polvere dorata della speranza si sparga tra gli uomini. Circe, anziché maga seducente e impietosa, emerge per la forza che ha avuto nel mettere da parte il proprio egoismo e liberare l’uomo di cui era innamorata, Ulisse, aiutandolo a tornare, senza più pericoli, da una Penelope che più che per pazienza e fedeltà si distingue per la volontà di proteggere il suo popolo, la sua isola. Sullo sfondo le tre Moire, a intrecciare instancabili, implacabili, il destino di ogni essere umano.

 

Mitiche

Giulia Caminito

Pagine: 128

Prezzo: 16

Editore: La Nuova Frontiera

Il reality maledetto sui fumettisti rivela il lato oscuro della comunicazione

Tra le forme più perverse di voyeurismo della televisione, anche italiana, una ancora non ha trovato la sua piena espressione: spiare la vita dei fumettisti. E ci sono mille ragioni per le quali le società di produzione hanno preferito pasticceri, organizzatori di matrimoni e perfino agenti immobiliari. I fumettisti sono gente strana, che passa il tempo a leggere, scrivere, disegnare, sospesa per anni (o per sempre) tra la convinzione di essere artisti e il sospetto di essere soltanto disoccupati con un hobby. Ma proprio perché impossibile, un reality sui fumettisti ha un suo fascino perverso e irresistibile che alimenta La vedova bianca, il graphic novel di esordio di Fran, la vignettista della testata Fanpage. Dalle prime pagine sembra un ritratto autoironico di una categoria cui anche la autrice napoletana appartiene, ma La vedova bianca è molte altre cose. C’è un reality televisivo, Comic Master, la cui produzione viene avviata senza convinzione dalla rete. Poi una serie di imprevisti lo trasformano in uno show attesissimo in quanto maledetto e, forse, impossibile. In pagine costruite per una lettura veloce e ritmata da web, Fran riesce a raccontare molte cose insieme: il cinismo della televisione basata sui casi umani, la capacità dei social di alimentarsi di effimere ondate emotive facili da manipolare, il rapporto di reciproca dipendenza tra un autore e i suoi personaggi di finzione (chi è piu reale? L’autore muore, i personaggi no). Ma La vedova bianca è anche un graphic novel sulle donne al potere che contesta l’ingenua illusione che basti mettere più donne nelle posizioni di comando per cambiare certe dinamiche machiste. Troppa roba per un solo graphic novel? Fran riesce a tenerla tutta insieme e a divertire parecchio il lettore.

 

La vedova bianca

Fran

Pagine: 144

Prezzo: 15

Editore: Edizioni BD

 

“Ancora lei”: bentornata scorbutica Olive

Strano come, pur usando agilmente l’aggettivo “rotto” per gli oggetti – il frigo si è rotto oppure il telefono – non siamo soliti utilizzarlo per la specie umana. Eppure, delle volte, anche le persone si rompono. Ma soprattutto, molte volte, non si possono aggiustare e continuano così, claudicanti e irreparabili, la propria breve o lunga andatura chiamata vita.

È quello che è successo a Olive Kitteridge – personaggio nato dalla penna della scrittrice americana Elizabeth Strout – quando aveva trent’anni e suo padre si è ucciso sparandosi un colpo di fucile, senza nemmeno lasciare un biglietto. Burbera professoressa di matematica, donna feroce e scorbutica, quando una decina di anni fa era uscito il romanzo Olive Kitteridge per Fazi – valso il Premio Pulitzer alla sua autrice –, i lettori di tutto il mondo l’avevano d’un subito amata, perché dietro le sue parole sputate come coltelli contro gli altri, dietro i giudizi tranchant su tutto e tutti, dietro i suoi insulti al vetriolo, Olive ha un disperato bisogno di riparare se stessa, riparando gli altri.

Per questo, Olive, ancora lei – che questa volta esce per Einaudi e nell’accurata traduzione di Susanna Basso – più che un titolo sembra una promessa (oltre che per i lettori, anche per gli spettatori della ben riuscita miniserie in quattro episodi con Frances McDormand). L’avevamo lasciata appena settantenne che stava per suicidarsi dopo essere diventata vedova e dopo che il figlio Christopher le aveva urlato chiaramente di non volerla più nella sua vita, quando a un certo punto l’arrivo di un tardivo amore le fa baluginare in testa un motivo per continuare a stare al mondo.

Adesso, la accompagniamo per un altro decennio, la osserviamo varcare la soglia degli ottant’anni, ritrovandola sempre a Rosby, piccola cittadina del Mayne, incrocio di vite e di storie, un microcosmo narrato lucidamente in un nuovo romanzo di racconti centripeti (tredici) fatto di stranezze, incendi, suicidi, fraintendimenti, bambini che nascono in auto, bugie e segreti tutti da scoprire.

La storia con Jack, ricco docente universitario in pensione un po’ parvenu, renderà Olive di nuovo moglie e di nuovo vedova, ma avrà il grande pregio di riparare il suo rapporto con il figlio Christopher. Tuttavia, a rendere indimenticabile Olive e i suoi accadimenti è la sua imperfezione, la sua umanità, il suo essere per l’appunto “rotta”.

Strout utilizza con grazia un difficilissimo ma ben rodato effetto narrativo (utilizzato magistralmente solo dai grandi come Flaubert, Joyce): l’idioletto, o meglio il socioletto, un linguaggio cioè che crea un mondo tangibile e riconoscibile. Si muovono, difatti, dentro Olive un modo di parlare aggressivo e crudo fatto di imprecazioni a Dio, o dell’abitudine di dare alle persone soprannomi di animali; una maniera di vestire rustica; una camminata scomposta e pesante; un appetito pantagruelico e il vezzo di ruttare.

Olive sbaglia, si pente, ma continua a sbagliare. Perché non sempre, quando qualcosa o qualcuno si rompe, può appunto essere aggiustato. Bentornata Olive, una di noi.

 

Dall’Unione Sovietica alla Russia di Putin: la parabola siberiana di Arkady Renko

Dalle nebbie del potere sovietico dell’onnipotente Partito, il Pcus, a quelle dell’autocrate “immortale” Vladimir Putin, tra gli idoli delle destre sovraniste: la parabola di Arkady Renko è da sempre destinata a scontrarsi con il muro della corruzione pubblica che non lascia scampo, laddove non esiste democrazia.

Quarant’anni dopo Gorky Park, il poliziotto moscovita ama la bellissima Tatiana, che fa il mestiere più pericoloso da quelle parti: giornalista d’inchiesta. A metà novembre del Diciannove la donna dovrebbe rientrare da una misteriosa trasferta in Siberia. Ma alla stazione non arriva nessuno. Arkady getta in un cestino i fiori per lei e va via. Il destino fatale però incombe. Il capo di Renko, il procuratore Zurin, ovviamente corrotto e putiniano, lo spedisce proprio in Siberia per prendere in consegna un prigioniero ceceno da processare e condannare. Il poliziotto vola a Irkutsk. Sull’aereo conosce Bolot, che gli si presenta come un efficace “factotum”.

Per Arkady, la Siberia è un luogo del cuore. Ha conosciuto questi posti da bambino, ché il papà era un generale dell’Armata Rossa. E soprattutto era siberiana sua moglie Irina, che non c’è più. Irina gli ha insegnato il dilemma siberiano, quando si affronta la morte: “Meglio fare qualcosa che non fare niente”. L’investigatore ritrova Tatiana e scopre che sta scrivendo un articolo ad altissimo tasso di rischio: gli affari petroliferi di due oligarchi. Uno dei due si chiama Mikhail Kuznetsov e vuole candidarsi contro Putin. L’altro, invece, di nome Benz, muore ucciso. A quel punto, Renko e Tatiana inizieranno una tragica avventura nella taiga, scortati dal tuttofare Bolot. E ancora una volta Martin Cruz Smith si dimostra un maestro nella trama e nei paesaggi, con una conoscenza maniacale dei meccanismi e delle dinamiche di una società “dura” come quella russa, fatta di classismo e dispotismo dell’uomo solo al comando.

 

L’enigma siberiano

Martin Cruz Smith

Pagine: 233

Prezzo: 20

Editore: Mondadori

Audiobook. La voce dei libri in quarantena

Qualcuno ha cominciato perché aveva gli occhi troppo stanchi. Altri perché una voce fa sentire meno soli. C’è chi non smetterebbe mai di leggere e allora ha bisogno di un libro anche in auto, mentre guida, o mentre fa la spesa. Una pensionata che conosciamo li ascolta mentre cucina, portandosi dietro un tablet che le ha regalato una prima giovinezza digitale. Un’altra nostra strettissima conoscenza se li mette nelle orecchie mentre nuota, perché così unisce le due cose che ama di più: leggere e nuotare. In queste settimane di quarantena, con le librerie chiuse fino a pochi giorni fa (e in Lombardia ancora con la serranda abbassata), il mondo del libro digitale è sempre più frequentato: ebook, certamente, ma anche audiolibri. Che non sono libri diminuiti – ci sia consentita la precisazione – sono libri diversi e anzi talvolta migliorati dalle interpretazioni.

Italo Calvino diceva che “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”; e che “ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima”. Ecco: questo vale ancora di più per l’ascolto. Semplicemente l’audiolibro non è più un pas de deux in cui danzano due ballerini, lo scrittore e il lettore, è un ménage à trois in cui sulla scena c’è anche il narratore. Talvolta un alleato formidabile degli scrittori, come capita quando a leggere sono interpreti come Moro Silo, Tommaso Ragno, Michele Maggiore, Valerio Sacco, Valentina Mari, Valentina Carnelutti, Claudio Carini.

Detto ciò, in questa quarantena si sono moltiplicate le “audioiniziative” editoriali. Raiplay radio ha messo a disposizione un centinaio di grandi classici nella sezione Ad alta voce (RadioTre), con molti titoli introvabili e preziosi: Gli indifferenti di Alberto Moravia letto da Toni Servillo, Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi letto da Paolo Poli, Un amore di Swann di Marcel Proust letto da Sandro Lombardi (in italiano non c’è quasi nulla della Recherche), Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati letto da Remo Girone, I tre moschettieri e Vent’anni dopo di Alexandre Dumas letti da Paolo Bonacelli (che citiamo perché della sterminata produzione dumasiana in italiano si trova praticamente solo Montecristo). E ancora Flaiano e Silone. Sul sito Audiolibri.org si trovano alcune chicche (tutte interpretate da Valter Zanardi): alcuni racconti di Stefan Zweig, I miei sette figli di Alcide Cervi, ma anche Apuleio e Lucrezio. Liber liber, vastissimo portale di ebook e audiobook, è un’antica e meritoria associazione di volontari (nata all’inizio degli anni Novanta) che mette a disposizione di tutti capolavori della letteratura mondiale. In questi giorni è interessante ascoltare un testo quasi dimenticato, Disobbedienza civile di Henry David Thoreau, il papà di Walden, che s’interroga sul rapporto tra diritto e legge, sulla necessità per l’individuo di sottostare alle regole piuttosto che di autodeterminarsi.

La piattaforma Audible ha lanciato, all’inizio del lockdown, l’iniziativa #acasaconaudible mettendo a disposizione di tutti non solo degli abbonati, centinaia di titoli tratti dal catalogo, anche per i più piccoli: Il mago di Oz, Il giornalino di Gian Burrasca, Gli ultimi Filibustieri e Il figlio del Corsaro rosso (meravigliosamente letti da Gianni Gaude). Tra i classici alcuni imperdibili (Lella Costa che legge L’età dell’innocenza di Edith Warthon, Guerra e pace di Tolstoj, di cui esistono diverse versioni, noi consigliamo quella letta da Moro Silo in un’edizione critica particolarmente curata) e titoli di stringente attualità: La storia della colonna infame di Manzoni e Le mie prigioni di Silvio Pellico.

Tra i contemporanei sono molto ricercati i candidati al premio Strega La misura del tempo di Gianrico Carofiglio e Il colibrì di Sandro Veronesi (letto da Fabrizio Gifuni, che dà una magistrale prova nel Pasticciaccio di Gadda). Per chi volesse spaziare tra i titoli, è possibile fare una prova gratuita di trenta giorni dopodiché l’abbonamento mensile costa 9.99 euro (7,99 per i clienti Amazon prime). Anche la piattaforma Storytel (dove è possibile ascoltare in esclusiva Virus – la grande sfida, l’ultimo saggio del virologo Roberto Burioni e 180 nuovi titoli dei più noti best-seller delle case editrici del Gruppo Mondadori) consente una prova gratuita di 14 giorni (poi abbonamento mensile a 9,99 euro). In queste settimane si possono ascoltare le Storie dalla quarantena, un podcast gratuito lanciato come iniziativa di solidarietà digitale. Ogni mattina The Essential (contro l’infodemia che affligge la clausura) affronta in 5 minuti l’attualità politica ed economica. Se vi trovate da quelle parti non perdetevi Quando siete felici fateci caso, di Kurt Vonnegut.

 

Guerra e Pace

Lev Tolstoj e Moro Silo

Disponibile su Audible

Il Globe Theatre riapre al pubblico (almeno il suo prezioso archivio)

L’arte scritta sull’acqua – per brevità chiamata teatro – è legata a doppio filo con la memoria: chi vive, chi resta, come l’Orazio dell’Amleto, ha il compito di testimoniare, di tramandare la storia, di raccontare “la verità su di me e sulla mia causa, a chi non sa”. Non suoni dunque paradossale la nascita dell’archivio del Globe Theatre di Roma: centinaia di video, foto, copioni, bozzetti, dati, studi, note di regia che ripercorrono come preziosi testimoni i 17 anni di attività, da Romeo e Giulietta all’immarcescibile Edmund Kean.

Realizzato in sinergia con l’Università Roma Tre, e grazie al mecenatismo della Fondazione Silvano Toti, l’archivio – fisico e multimediale (bacheca.uniroma3.it/archivio-globe/) – è un progetto in divenire, ideale punto d’incontro tra un’arte antica, quella drammatica, e le nuove tecnologie; per dirla con la regista Loredana Scaramella: “Si apre a ventaglio, come una rosa”. Orgoglioso dell’iniziativa è anche il direttore artistico del Globe (e molto altro) Gigi Proietti: “È un segno forte in questo momento aprire una struttura culturale connessa al teatro, un mondo che sembra assente. Speriamo che le istituzioni si accorgano un po’ di più della sua importanza”.

Il Globe rialzerà dunque il sipario in estate? “Non lo so, non dipende da noi – chiosa il direttore –, ma siamo pronti. Potremmo ripartire già domani; quello che ci si augura è di farlo al più presto… Ma non basterà solo riaprire: ci vorrà tempo prima che il pubblico si riabitui… Di una cosa sono certo: il teatro è necessario. Non so se dopo questa pandemia ci ritroveremo tutti cambiati, e in meglio. Penso, però, che se vuoi migliorarti dipende solo da te, non dal virus”. D’altronde, quando gli chiusero il teatro a causa della peste, nemmeno Shakespeare rimase inoperoso; i suoi Sonetti nacquero così: giusto per passare la quarantena.

 

Chiedimi chi erano Jordan e Pippen

Da dove si inizia a raccontare il miglior giocatore della storia della pallacanestro e la squadra più forte di sempre? The Last Dance, la docuserie in 10 puntate dedicata a Michael Jordan e a suoi Chicago Bulls, comincia dalla fine. Stagione 1997-98: i Bulls sono reduci da cinque titoli, non consecutivi soltanto perché MJ si è concesso una pausa con il baseball (per poi tornare indietro). Ma la favola è destinata a finire presto. Gli anni passano per tutti: Jordan ha 34 anni, Scottie Pippen 32, il ribelle Dennis Rodman 36. A Phil Jackson, il direttore di quella magnifica orchestra di campioni, è stato concesso soltanto un anno di contratto. Questo è l’ultimo ballo, dice ai giocatori prima dell’inizio del campionato: “The last dance”. Jerry Krause, il general manager, ha deciso che è arrivato il momento di voltare pagina.

Il regista Jason Hehir ha potuto contare su un materiale esclusivo: un anno di riprese dietro le quinte dei Bulls realizzate dalla troupe dell’Nba durante quell’ultima stagione. Ci ha aggiunto i filmati d’archivio e oltre 100 interviste a personaggi del calibro di Jordan e Pippen, Rodman e Jackson, ma anche Larry Bird, Magic Johnson e gli ex presidenti Usa Barack Obama e Bill Clinton. Il risultato è un documentario ricchissimo che ricostruisce la storia e i successi di Jordan ma anche l’inizio e la fine di una squadra forse irripetibile. Non senza pathos, perché fra il 1997 e il 1998 esplosero tutte le tensioni e le gelosie fra Krause e i campioni che lui stesso aveva contruibuito a creare. Per chi è cresciuto a cavallo fra gli Ottanta e Novanta, basket e Chicago Bulls erano praticamente sinonimi. L’Nba era il massimo della pallacanestro e i Bulls erano il massimo dell’Nba. Sui campetti di tutto il mondo la scelta era più o meno questa: metto la canottiera di Jordan o quella di Pippen? Beh, non era sempre stato così. Fino alla metà degli anni Ottanta a Chicago c’erano il football, l’hockey e poco altro, visto che i Bulls perdevano sempre. Poi, nell’estate del 1984, successe qualcosa. Nel draft Chicago aveva diritto alla terza scelta: gli Houston Rockets presero Hakeem “The Dream” Olajuwon, i Portland Traiblazers Sam Bowie, i Bulls una guardia proveniente dall’università di North Carolina. Si chiamava Michael Jordan.

I primi due episodi di The Last Dance tornano alle origini di MJ. L’infanzia a Wilmington, la rivalità con il fratello Larry, l’esclusione dalla squadra del liceo, i successi con North Carolina e l’arrivo fra i grandi. Ci volle poco per rendersi conto del suo talento. “Era dio travestito da Michael Jordan” dice Larry Bird in un filmato d’epoca: il numero 23 dei Bulls aveva segnato 63 punti in una partita di playoff contro i suoi Boston Celtics (un record che resiste ancora oggi). “È senza dubbio il giocatore di maggiore talento della lega” chiosa Magic Johnson. Jordan aveva solo 23 anni e si era appena ripreso da una brutta frattura al piede.

C’è spazio anche per Scottie Pippen, lo scudiero di Michael: la sua infanzia difficile con 11 fratelli e un padre in carrozzina, la frustrazione per lo stipendio basso e gli aspri confronti con Jerry Krause che vorrebbe venderlo (al fianco di Pippen, due metri abbondanti, il gm dei Bulls sembra un nano). Ce ne sarà anche per il tatuatissimo Dennis Rodman, eccellente difensore che con MJ e Pip si completò alla perfezione. Ma il centro di tutto, e non potrebbe essere altrimenti, rimane Jordan: riguardare le sue giocate fenomenali, in questo periodo di lockdown, sarà una medicina potentissima per curare l’astinenza da sport.

L’uscita di The Last Dance era prevista per l’estate. È stata anticipata di un paio di mesi anche grazie all’intervento di LeBron James, la stella dei Cleveland Cavaliers, che dopo la morte di Kobe Bryant dovrà reggere sulle sue spalle l’eredità sportiva e morale di Michael Jordan. Le prime due puntate della docuserie prodotta dalla Espn saranno disponibili su Netflix il 20 aprile e dalla settimana successiva verranno caricati due nuovi episodi ogni lunedì.

 

The Last Dance

Netflix

Le prime due puntate dal 20 aprile