Riapriamo i set? Sparate agli attori!

Che degli attori/attrici, ponga pochissima se non addirittura nessuna attenzione in questo Paese è un fatto risaputo (dal discorso, è ovvio, sono escluse le poche star). Carne da cannone, sognatori sfigati, gente da sotterrare fuori dalle mura della città. Ipocriti, nella migliore delle intenzioni. Perché dico questo? Perché mi è caduto l’occhio sul protocollo cinema Covid.

Eccolo il genio italico che tutti aspettavamo, quello che ci ha fatto emergere nella storia per tanti secoli, che ha reso l’Italia un faro della civiltà mondiale, quella luce che era di Leonardo e Michelangelo, di Ariosto e Machiavelli, Fermi, Amaldi e Marconi, Pirandello e Dante è tornata a splendere. È in fase di realizzazione, al momento è solo una proposta di Co rent, società noleggio per attività cinematografiche, un documento che rappresenterebbe la risposta dei lavoratori del cinema, ma soprattutto della fiction televisiva, al covid 19, un vademecum per poter riaprire i set: appunto il protocollo Cinema Covid. Si leggono soluzioni di altissimo livello, intenzioni, a loro dire, che verranno proposte a diversi soggetti con competenze in ambito medico-epidemiologico. E va benissimo. Macchinisti e operatori tutti muniti di tute e mascherine, tamponati ogni 15 giorni, scenografi in sicurezza, un solo operatore alla macchina da presa, le messe a fuoco degli obiettivi non a mano ma col laser, la macchina da presa ad almeno un metro e mezzo dall’attore sterilizzata dopo ogni inquadratura. Dietro le quinte è tutto sistemato, disinfettato, a posto, regole ferree per la pulizia e la sicurezza. C’è un dettaglio, risibile per il cinema italiano, ma c’è. Sono gli attori, quelli che stanno davanti alla macchina da presa, non so se si hanno presente i soggetti, quelli cui cui frega una mazza a nessuno, come ho detto in precedenza, i quali, a meno che non si stia girando una scena in sala operatoria o una rapina in banca, non possono portare mascherine e in generale stare a volto coperto. Quelli si baciano, si abbracciano, si stringono le mani, scazzottano, si aiutano per rialzarsi, insomma fanno quelle che si chiamano azioni. Come faranno? Gireranno le scene uno alla volta e poi in fase di post produzione le immagini verranno accoppiate? Si gireranno solo storie di immensa solitudine alla Lost in Translation per capirci, con al massimo due attori in scena, a un metro e mezzo di distanza? Bandite le scene d’amore, è chiaro. Io se fossi un attore e sul copione leggessi “L’abbraccia, la bacia e finiscono a letto” chiederei 100 mila euro solo per quell’inquadratura. Ma anche solo una stretta di mano senza guanti diventa improponibile. Vietate le scene di massa, va da sé. Solo ambienti vuoti, zero comparse, il rischio epidemia è dietro l’angolo. Niente scuole o aule universitarie, monasteri e ospedali (servono per qualcosa di più importante, credo) niente manifestazioni sportive, scene in spiaggia al mare, bar, ristoranti e pub. “Ci sarà il tampone” si legge. Viene da sorridere. Un mio caro amico, un importante critico letterario, ha avuto il Covid, se l’è vista brutta, e nessuno si è recato a fargli il tampone, lo stesso dicasi di un medico che conosco e che lavora per una asl in Liguria. Però, magia, per la troupe di un set i tamponi spunteranno fuori. Per gli infermieri dell’Umberto I no, per i macchinisti di Don Matteo sì. Torniamo agli attori. Soli, davanti alla macchina da presa, probabilmente reciteranno dei monologhi e andranno parecchio a cavallo in campagna o in piazze dechirichiane. Gli attori, protagonisti di mondi distopici e vuoti, se ci tengono alla salute e a non gravare sul sistema sanitario nazionale, vagheranno, animule blandule, parlando al vento oppure a un cane, a una pianta magari. Sparatorie, quelle sì, ecco, ce ne saranno a decine. A distanza si massacreranno per interi quarti d’ora o si inseguiranno con le auto, un attore per veicolo mi raccomando. Prevedo molte telefonate e, ovviamente, dialoghi su zoom e su skype con la figlia lontana o l’amata/o in un’altra città. Si delineano all’orizzonte storie di cavalieri medioevali chiusi in un’armatura che nasconde in realtà la tuta anti virus, cacciatori solitari sul pak, esploratori di foreste pluviali disabitate, avventurieri in groppa al cammello in mezzo al Sahara, ciclisti gregari in fuga sul Pordoi; prevedo sale operatorie come piovesse e molte scene di derattizzazione o disinfezione, naufraghi su isole o su battelli sperduti nell’oceano, palombari sui fondali marini. Si faranno 12 versioni del Robinson Crusoe, zanna bianca e piccoli principi a pioggia. Nella solitudine dei campi di cotone di Koltès vedrà almeno due adattamenti cinematografici. Ma vediamo il caso sfortunato in cui il/la protagonista della serie, impegnato/a per sei mesi sul set, si becca il virus. Quarantena, a casa, riprese interrotte con buona pace del clima, arrivederci alle location già affittate e soldi che se ne vanno come acqua sorgiva. Finché il/la protagonista non guarisce non si potrà riprendere a girare, non è che puoi sostituirlo/la. Difficile pensare, che so? Montalbano con la faccia di Valerio Mastandrea o Genny Savastano con le fattezze di Nino d’Angelo né si può chiedere a quel genio di Picchio Favino di trasformarsi in tutti i ruoli possibili e immaginabili, anche lui ha un limite, per esempio in suor Angela non ce lo vedo. Si interrompe il film/serie. E quando si riprenderà, ammesso che i colleghi abbiano voglia di tornare a lavorare con l’attore/ice appena guarito/a, succederà che prima c’erano i campi in fiore ora la neve, il figlio dodicenne del/la protagonista adesso è un adolescente con la barba, il cane è morto, il paese dov’era ambientata la storia è in quarantena, proprio per colpa dei lavoratori del cinema, e bisogna emigrare con l’aggravante che nessun altro paese, a questo punto, avrà voglia di ospitare la troupe untrice. Ma il genio italico ha chiarito il problema. Sì perché è prevista la presenza di un dottore sul set. Allora è tutto risolto, scusate, non l’avevo capito, c’è un dottore, stiamo a cavallo, ci penserà lui a evitare che il virus attacchi un interprete della pellicola. Amici noleggiatori, amici produttori, amici distributori, un consiglio. Prima del set, prima di scenografie, macchine da presa, obiettivi e stativi quarzi e gelatine, dovete pensare alla salute degli attori. Perché, con tutto il rispetto, un macchinista, uno scenografo, un regista lo potete sostituire, un attore no. E ricordatevi sempre che senza gli attori si possono fare bellissimi documentari o splendidi cartoni animati, ma scordatevi i film. Non vi tedio oltre amici noleggiatori, amici produttori, amici distributori vi lascio con una frase di un nostro grande attore per fortuna mai dimenticato: “Ma mi faccia il piacere!”.

Marisa Laurito: “Sono diventata un muratore: pitto le stanze”

Voce squillante. Allegra. Ma provata, quella di Marisa Laurito. “Non ce la faccio più!”. Silenzio. E poi: “Me so’ scassata u cazz!”.

Giusto sfogo.

Eppure ho 8.000 cose da fare.

Però…

Ho diviso questa quarantena in “ere”.

Prima “era”.

Ho sfornato di tutto: ciambelloni, pane, biscotti, torte, pastiere, pasta al forno…

Mica male.

Poi sono stata costretta a smettere per dilagazione totale.

Seconda “era”.

Ho iniziato a pittare tutti i muri di casa, a coprire le crepe.

Muratrice.

Ristrutturo ovunque, ed è una passione antica.

Habitué.

Da ragazza ho sempre abitato in case di merda, e allora prendevo il pennello e lo passavo su tutto, anche il telefono.

Monocromatica.

E ogni anno cambiavo colore (dall’altra parte interviene il compagno, Piero: “Tra un po’ passava la vernice pure su di me”).

Il lavoro?

Non ne ho voglia, preferisco pittare: la mano va, la mente vola e nel frattempo fai pure ginnastica.

Altro esercizio fisico?

Ho tentato con i “5 tibetani”, mi sono scocciata poco dopo e ho mollato. (Silenzio) Non è il mio forte.

Consigli sui film.

No, preferisco le serie tv: le piazzi e vai…

Quali?

Trono di Spade, The Crown, Babylon Berlin.

Libri.

Sepúlveda, e lo leggo da tanti anni.

Pulizie?

Piero si occupa dei servizi.

Tra voi come va l’eros?

(Tono stupito) Mai andati d’accordo come in questo periodo.

Finita l’emergenza, primo appuntamento?

Mi ubriaco (pausa); no, una lunga passeggiata al mare con i due Pieri.

Due?

Sì, pure il cane si chiama così. È più comodo.

 

Non può esistere solo la scuola come didattica a distanza

Le parole più belle sulla scuola arrivano da un medico. È interessante l’editoriale di mercoledì su Avvenire (F. Riccardi, Priorità scuola da custodire), perché non muove dalla lettera aperta di un operatore scolastico (maestro, professore, preside…), ma di “un’anestesista, impegnata nella lotta al Covid-19, madre di una 16enne” che ringrazia i docenti: “Ora più che mai la vostra presenza è fondamentale – scrive la dottoressa Elena Borsotti –. Alcuni di noi (medici) sono già o saranno contagiati (…) non vedranno la fine dell’epidemia. Ma questo è il nostro lavoro. Come noi ci prendiamo cura dei nostri pazienti, voi (professori) oggi ancor più di prima siete indispensabili (…) per contenere i danni psicologici che questa epidemia ha sugli adolescenti. Siete i loro compagni di viaggio in questo tempo sospeso”. Mentre lavoro “il mio cuore sarà più leggero sapendo che altre figure importanti si stanno occupando non solo della didattica, ma anche della formazione umana e dell’integrità psicologica di mia figlia e di tutti i ragazzi.” Parole precise. Nette. Si dà quasi per certo il ritorno in classe a settembre; il decreto dell’8 aprile rinvia la decisione al 18 maggio, ma da più parti arrivano segnali negativi. “La scuola è finita” titola Repubblica; e tuttavia il problema non è il tempo del rientro, ma come ripartire: didattica a distanza o in presenza? È sul “come” che il mondo della scuola si divide: il direttore della Fondazione Agnelli, Andrea Gavosto, oracolo a Largo Fochetti, non ha dubbi: didattica online a settembre. “La priorità è assicurare connessione e tablet” e “passare da una didattica a distanza col registro elettronico a soluzioni più coinvolgenti.” (Repubblica, 14 aprile). Di questo la scuola ha bisogno, sia chiaro, per la Fondazione Agnelli; non per i ragazzi che non vedono l’ora di tornare in classe; per i prof che vogliono gli alunni in aula; per i genitori che, più di Gavosto, capiscono la centralità del rapporto docente-discente. Intendiamoci, la tecnologia va usata, ma senza permetterle di stravolgere l’insegnamento: imprese, banche, industrie, mercato del lavoro, non pretendano di piegare l’Istituzione-scuola ai loro interessi, svuotandola di senso e di cultura, di dialogo e pensiero critico, a favore della cosiddetta “competenza”. Trasformazione in chiave digitale della scuola? Questo s’intravede in certa volontà “modernizzatrice” all’epoca del coronavirus. Se così è, la fine della scuola non sarà solo il titolo di un giornale ma un programma; senza nemmeno il fascino dell’utopia di Ivan Hillich (Descolarizzare la società, 1971). Hillich protesta: “si ‘scolarizza’ l’allievo a confondere insegnamento e apprendimento; si ‘scolarizza’ la sua immaginazione ad accettare il servizio al posto del valore. Eccetera.” Utopie. Ma oggi siamo a tesi altrettanto deleterie: la completa digitalizzazione della scuola non va bene, e contrasta con desideri e bisogni di alunni, genitori, docenti. Basta con la retorica della didattica a distanza. Scuola è didattica in presenza o è un’altra cosa. La Francia aprirà le aule l’11 maggio. Noi ci siamo dati alcuni mesi in più. È giusto. Per prudenza. Per tutelare la salute degli alunni. Ma a settembre si riapra (questo chiediamo alla politica), dando alla scuola più attenzione e più finanziamenti; ai professori nuovi contratti e nuovo status; agli studenti, con necessari accorgimenti, una classe e docenti che si occupino, per dirla con la dottoressa Borsotti, della didattica e “della formazione umana dei ragazzi.” La ministra Azzolina e il premier Conte si stanno muovendo bene, ma non possono mancare l’appuntamento di settembre: ci diano “la” scuola del passato, dove uno sguardo, una parola, una lezione (in presenza) potevano cambiare la vita di uno studente. Scuola non è solo competenze ma formazione: “Trasformare i sudditi in cittadini – disse Calamandrei – è miracolo che solo la scuola può compiere.”

Una Bce senza limiti sarebbe impotente

Un gruppo di 101 economisti ha firmato un appello su MicroMega per criticare le proposte anti-crisi elaborate da Eurogruppo e Commissione europea e proporre una soluzione che piace a tanti: “Il finanziamento monetario di una parte rilevante delle spese necessarie da parte della Banca centrale europea”. La Bce, per la verità, è già impegnata a comprare titoli di Stato, ma soltanto sul mercato secondario, cioè dalle banche e dagli investitori che a loro volta hanno comprato i titoli alle aste dei Paesi membri. I trattati europei stabiliscono che la Bce non possa finanziare direttamente gli Stati. Per i 101 “i trattati possono essere sospesi” e l’Italia deve pretendere un cambiamento di mandato per la Bce e, in caso di rifiuto “fare da sola”. Cioè uscire dall’euro, si deduce, perché la minaccia di emettere debito a tassi di mercato e senza aiuti equivale a una resa.

Altri Paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna o il Giappone, hanno Banche centrali con mandati più estesi, prodotto di storie e sistemi finanziari diversi. Non sono storie solo di successo: la politica monetaria giapponese è reduce da trent’anni di fallimenti negli stimoli a una economia stagnante; quella americana ha alimentato la crisi del 2008. Ma stiamo all’Eurozona. La ragione per la quale la Bce è così efficace è proprio la sua indipendenza dalla politica e la separazione dagli Stati membri. Le decisioni del Consiglio dei governatori sono più rapide e operative di quelle del livello politico dell’Unione, dove le competenze sono distribuite tra Commissione, Parlamento, Consiglio (il coordinamento tra governi), proprio perché non sono decisioni politiche.

L’efficacia della Bce dipende dall’indipendenza e l’indipendenza si giustifica con un mandato limitato: la Bce può comprare 750 miliardi di euro di titoli come risposta alla pandemia senza passare da alcun Parlamento perché quell’azione rientra nel suo mandato, che è mantenere la stabilità dei prezzi (evitare inflazione e deflazione) e tutelare il sistema dei pagamenti, cioè prevenire fallimenti bancari a catena, crisi di fiducia che ridurrebbero l’offerta di credito e differenze eccessive di rendimento tra il debito di un Paese e quello di un altro che rendono impossibile trasmettere gli impulsi di politica monetaria.

La proposta dei 101 va oltre: finanziare direttamente il debito degli Stati sposterebbe la Bce nel campo della politica fiscale. Collega la creazione di denaro a scelte come quante tasse si raccolgono e quale generazione paga quali costi. Sono state fatte rivoluzioni in nome del principio “niente tasse senza rappresentanza”: non esiste una politica monetaria che sia al contempo indipendente dalla politica e dunque rapida ed efficace, ma anche al servizio della politica, pronta a stampare tutto il denaro che serve per finanziare qualunque esigenza dei governi dell’euro, dal salvataggio di Alitalia a quello delle banche regionali tedesche.

Ammettiamo per un attimo che tutta la letteratura sulla superiorità delle Banche centrali indipendenti sia superata (il rischio di inflazione non è piu la priorità).

Sottomettere la Bce alla politica non significa metterla al servizio della politica italiana, ma di quella europea. Cioè spostare le decisioni sui tassi e gli acquisti di titoli in quella palude che è il Consiglio europeo, dove ogni decisione di interesse comune si impantana negli egoismi nazionali.

È assolutamente sensato pensare una politica fiscale comune, ma quella si costruisce per la via maestra, attraverso la condivisione di debito e di quello che sta a garanzia del debito: asset (nuove infrastrutture) o nuove entrate (raccolte a livello Ue invece che nazionale). Se presa sul serio, la proposta dei 101 di MicroMega avrebbe come unico effetto di rendere impotente anche la Bce e lasciare l’Unione indifesa di fronte alle crisi.

Fase 2, scopo privato e sacrificio pubblico

Non siamo la Cina, dicevamo all’inizio di questa brutta vicenda. A Wuhan hanno azzerato i contagi perché in Cina vige la dittatura, imponevano la quarantena sparando alla gente, deportavano i contagiati e altre leggende. Era dunque una questione di incompatibilità tra ordinamenti a impedire l’adozione di misure che hanno portato alla chiusura di una regione di 60 milioni di abitanti, oltre che di demografia (chi ci avrebbe alimentato, la Svizzera? Chi avrebbe pulito le strade, soldati tedeschi a ciò deputati?).

Ebbene, è ormai chiaro che il vero conflitto che impedisce l’azzeramento dei contagi non è tra igiene coatta e democrazia, ma tra salute e mondo capitalista, di cui le imprese e le varie Conf- sono gagliarda espressione. Si tratta degli stessi soggetti che volevano che Milano “ripartisse” mentre partivano focolai dentro e attorno agli ospedali lombardi; che Bergamo “non si fermasse” mentre si accumulavano le bare nelle camere ardenti. Insomma è la struttura, il mastodonte senza morale di Marx, a vedere nella sovrastruttura della tutela della salute l’intralcio alla nostra e soprattutto alla sua sopravvivenza.

Da subito i dirigenti di Confindustria hanno spinto sul governo affinché non chiudesse parti della filiera produttiva, molte delle quali infatti continuano a funzionare: il decreto del 22 marzo, quello del lockdown nazionale, è stato il frutto di una lunga negoziazione. Da allora non c’è stato giorno che qualche vertice del mondo delle imprese non si sia espresso sui suoi organi di stampa o in Tv per spiegare ai virologi (additati come sabotatori della ricchezza italiana) che i lavoratori (costoro parlano sempre a nome dei lavoratori) non riescono ad arrivare a fine mese. Si è imposta una narrazione in base alla quale il governo e gli scienziati non si accorgono del crollo del Pil, godono ad affamare operai e piccoli imprenditori o sono semplicemente indifferenti alla loro tragedia in nome di un’astratta divinità scientista; mentre i padroni annunciano inascoltati la catastrofe, col coro di personaggi elettivamente affini ancorché ininfluenti (come il capo di un partito dell’1 virgola qualcosa per cento che intimava di riaprire prima di Pasqua).

Oggi, con 600 morti al giorno, mentre gli scienziati spiegano che il plateau della curva non coincide con una remissione del virus e il Centro europeo per il controllo delle malattie avverte che è presto per allentare le misure senza prima implementare efficaci sistemi di testing e sorveglianza, sono tornati tutti alla carica per la Fase 2. Il sindaco Sala, quello che incoraggiava aperitivi promiscui nelle stesse ore in cui scoppiavano i focolai lombardi, vuole far ri-ripartire Milano. Il “governatore” Fontana, quello che non ha decretato le zone rosse mentre ad Alzano Lombardo si consumava l’ecatombe di medici e pazienti e inviava con un’ordinanza i malati di Covid nelle Rsa, dà il suo aut aut al governo: riaprire dal 4 maggio. Lo fa inventandosi la formuletta apotropaica delle 4D (Distanza, Dispositivi, Digitalizzazione, Diagnosi), che dà subito un’impressione di efficienza alla coreana, mentre si moltiplicano le denunce di persone con sintomi da coronavirus che non riescono nemmeno a farsi fare un tampone.

Nessuno si premura di indagare dove e come avvengano i 3000, 4000 contagi al giorno di cui ci informa il bollettino della Protezione civile. Il raggiante assessore al welfare della Lombardia Gallera non ha dubbi: dalla troppa gente che va a zonzo, oppure in casa, tra conviventi che non sanno di essere positivi. Ormai siamo tutti alfabetizzati riguardo i tempi di incubazione e di responso dei tamponi: come possiamo accettare queste fandonie? Non sarà che ci si contagia perché il 55,7% delle persone lavorano regolarmente (non in smart working), con picchi sopra il 67% a Milano e Roma? Quante persone usano i mezzi pubblici per andare al lavoro? I datori di lavoro proteggono i dipendenti con misure idonee? Perché non avviano test periodici a loro spese? L’indagine epidemiologica procede, o le Asl sono bloccate nell’attesa di una estinzione spontanea dei casi? Perché le Regioni non copiano dal Veneto su test e tamponi?

La logica utilitaristica impone di massimizzare il profitto col minimo sforzo. Ma qui non si tratta più del conflitto tra utilità del capitale ed etica e difesa della salute (un diritto costituzionale, incidentalmente). Qui l’utilità stessa si rivolta contro la sua cinica applicazione, non foss’altro perché i contagiati sono almeno 10 volte quelli che erano a inizio marzo, e spingere ora altre persone nella macchina del consumo e del lavoro non protetto porterebbe rapidamente a un nuovo sovraccarico degli ospedali, dove le terapie intensive costano 3000 euro al giorno. Costo collettivo, economico e umano, di cui i padroni e i loro rappresentanti politici, fautori del sacrificio pubblico a scopo privato, ovviamente non si danno pena.

Noi comici assassini e la vera disgrazia: la quarantena finirà

Salve a tutti. Sono Daniele Luttazzi, il Fabio Fazio della televisione. 19 anni dopo Satyricon, 13 anni dopo Decameron, 10 anni dopo Raiperunanotte, è bello rivedervi. Come va, là fuori? Si balla ancora la macarena?

A causa del coronavirus, rinunciamo agli amici e restiamo in pigiama tutto il giorno a fare binge-watching. Non è questa gran perdita: a parte uno o due, gli amici non fanno che accrescere l’uggia generale, si sa. Perché andavate a vedere i comici, del resto, se non per spassarvela come normalmente non vi capita? (Ho sempre trovato patetico l’affetto che il pubblico riversa sui comici. Se solo la gente sapesse come stanno le cose! Lo svelo qui: i comici sono misantropi che vorrebbero morto il resto dell’umanità. A cominciare dagli altri comici. L’indizio di questa psicologia perversa è dato dai comici stessi. In tutto il mondo, quando si chiede a un comico com’è andata la serata, se è andata bene risponderà: “Li ho uccisi”. Da questa piccola verità libidica nasce lo sketch dei Monty Python sulla barzelletta che ammazzava tutti quelli che l’ascoltavano: è il più grande desiderio di ogni comico, trovare una barzelletta così! Anni prima dei Monty Python, Al Capp usò la stessa idea del joke mortale, conteso da potenze nemiche, in una storia di Li’l Abner. E il nostro Jacovitti, nel 1948, ci fece il fumetto Pippo e la bomba comica. Se un’idea vi sembra originale, è solo perché non ne sapete abbastanza. L’arte nasce dall’arte, e la filologia non serve a scovare “colpevoli”). (Non che il pubblico sia innocente. Cos’è infatti uno spettacolo comico? La messa in scena dell’antico rito sacrificale del capro espiatorio. Il comico accetta il ruolo del capro espiatorio; e, durante la cerimonia live, la comunità del pubblico lo uccide con le risate. La risata espone i denti: è un retaggio del digrignare con cui i primitivi, come le bestie, minacciavano il nemico potenziale. I comici sono un portafortuna della comunità, come l’antico capro espiatorio: e il pubblico lo sente, come si sentono le simpatie e le antipatie. I comici, in sostanza, sono gli ultimi sacerdoti di quella paleo-religione che fonda tutte le altre. Non a caso, la storia di Cristo è quella di un capro espiatorio. Troppa carne al fuoco? Ci torneremo su). (Comunque, Cristo è la prova che tutti possono diventare influencer. Guardate cosa è riuscito a fare con soli 12 follower. E non è manco esistito!). Rinunciare agli amici e restarsene a letto per il binge-watching: lo si faceva anche prima, ma di nascosto. L’epidemia assolve dal senso di colpa, che è particolarmente pertinace negli allocchi sensibili alle pressioni socio-culturali della maggioranza silenziosa, cui vogliono appartenere, nonostante ne faccia parte pure Giletti. Un altro effetto positivo della pandemia? Ha fatto chiudere bottega ai preti, ed eliminato gli spettacoli dei comici. Finalmente! Non se ne poteva più, di quei coglioni. E anche i comici mi stavano sulle palle. Il guaio venturo sarà la fine della quarantena. Difficile inventarsi una scusa migliore di un’epidemia mortale, per evitare la scocciatura del prossimo.

Notizie dal futuro. I turisti invadono Wuhan dopo la popolare serie HBO sulla pandemia del 2020.

A Gualtieri l’hanno rimasto solo…

Oggi vogliamousare lo spazio dei “Rimasugli” per portare la nostra solidarietà al ministro dell’Economia Roberto Gualtieri detto er Panterà dacché il suo partito e i suoi stessi amici (“’sti quattro cornuti”) l’hanno rimasto solo come il personaggio di Gassman in Audace colpo dei soliti ignoti. A fine marzo, sviati da plurime fonti governative anche dem, ci era parso di capire che Gualtieri – insieme ai ministri Pd e a tutti i dem piazzati a Bruxelles da Gentiloni in giù – avesse lavorato in sede di Eurogruppo per creare l’unicorno detto “Mes leggero” o “senza condizionalità” contro il (mutato) parere del Caro Leader Giuseppe Conte, che invece non vuole sentirne parlare (“inadeguato”). Seguì nota di Palazzo Chigi: nulla di vero, “c’è piena sintonia”. Posizione ribadita dal duo, singolarmente e insieme, una decina di volte. E che ti va a succedere? Da Gentiloni a Sassoli (sic), da Zingaretti ai due capigruppo Delrio e Marcucci e, fuori dal recinto, da Prodi giù giù fino ai renziani e a Bersani, tutto il piddismo si mette a chiedere l’intervento dell’unicorno (vale a dire il Mes “solidale” che, come l’unicorno, non esiste). Ora, noi non metteremmo mai in dubbio la parola del Caro Leader e dunque a Gualtieri il Mes non glielo dovete nemmeno nominare che sennò pianta un casino. Solidarietà dunque: Robbè, t’hanno rimasto solo.

La lezione di Occhetto: navigare a vista

Forse l’immagine più vera dei tempi che viviamo ce l’ha regalata giorni fa Achille Occhetto, ospite di Un giorno da Pecora(Radio 1) che alla domanda di Giorgio Lauro e Geppi Cucciari su come stesse vivendo l’isolamento ha risposto: “In trenta giorni sono uscito un solo giorno, per andare in farmacia, insieme a mia moglie, è stata una bella esperienza”.

Dunque, l’uomo che guidò la lunga e perigliosa traversata della sinistra italiana dal Pci a una sponda ignota ci ha spiegato (sorridendo sotto i baffi) che oggi navigare a vista, per andare all’edicola o in farmacia ma anche per governare un Paese, è la più saggia espressione della politica, e in fondo dell’esistenza umana. Del resto, navigano a vista gli scienziati che ancora adesso sanno di non sapere quasi nulla del virus, della possibile cura e del salvifico vaccino: quella docta ignorantia che è la forza propulsiva di ogni ricerca e di ogni progresso.

Navigano a vita quei governanti consapevoli che i cittadini non se ne fanno più nulla dei vasti programmi e che alle magnifiche sorti e progressive preferiscono le poche e semplici indicazioni per farsi accreditare i 600 euro della sopravvivenza, o il prestito per rialzare la serranda, quando sarà.

Naviga vista Giuseppe Conte quando prova a smorzare la polemica lunare sul Mes per finanziare le spese sanitarie, di cui nulla si sa a cominciare dalle condizionalità che saranno decise dal Consiglio europeo del 23 aprile. E dunque dice il premier “valuteremo poi se usarlo se ci conviene”. E dovrebbero navigare a vista i padroni del calcio invece di programmare date e regole di un campionato immaginario. Poi c’è chi cammina a tentoni, sbandando continuamente tra il chiudiamo tutto e il riapriamo tutto, come sotto l’effetto di un mojito. Uno che se dovesse recarsi in farmacia, si perderebbe.

Primo non nuocere

Da un po’ di tempo non sentivo più parlare di “etica medica” e mi rallegrava, perché il termine era abusato spesso per farne un alibi a estremismi religiosi e ideologie politiche. L’etica medica è un argomento ostico, nel quale non è facile evitare critiche. Ma perché non averle, se sono costruttive? L’etica medica ha avuto nell’ultimo secolo un’evoluzione (?) molto significativa. Se ricordiamo il film “La gatta sul tetto che scotta”, ci appare, dopo circa 60 anni, un mondo medico lontanissimo. Nessuno potrebbe riproporre la tranquilla sicurezza di Tennessee Williams. La pietas medica, nascondere al paziente la gravità della sua malattia, oggi è addirittura illegale. L’eticità del medico abbraccia anche la responsabilità della sperimentazione clinica. “Primum non nocere”, cioè non arrecare mai danno con un farmaco, ne è un pilastro. Dopo orrori non lontani (mi riferisco per esempio all’inoculo di virus dell’epatite a bambini handicappati a Willowbroot State Hospital nel 1965-1971), oggi le fasi della sperimentazione clinica sono non solo garanzia di un’approfondita conoscenza
del meccanismo d’azione di un farmaco e quindi della sua efficacia; ma anche tutela della salute e della dignità dell’uomo, poiché evidenziano potenziali tossicità acute e croniche. Nessun beneficio medico può prescindere da questo principio, che coerentemente viene riprodotto nelle quattro fasi sperimentali previste dagli organi di registrazione di un farmaco, quali AIFA in Italia. Saltare, seppur con uno scopo scientifico importante, una sola di queste fasi, non è garanzia per la salute pubblica.

“Anas non ha fatto il suo dovere su ponti e gallerie”

L’Anas non fa il suo dovere per la manutenzione di ponti, viadotti e gallerie. Non lo dice un signor nessuno, ma il direttore generale del ministero dei Trasporti, Antonio Parente, in una lettera bruciante come una frustata, indirizzata all’amministratore delegato dell’azienda pubblica delle strade, Massimo Simonini. Parente è il dirigente ministeriale che vigila sull’operato dell’Anas e la sua accusa è tanto più grave se si considera che essa viene sollevata a pochi giorni dalla caduta del ponte Anas ad Aulla, al confine tra la Toscana e la Liguria.

Il crollo non si è trasformato in tragedia perché non ci sono stati morti come nell’agosto di due anni fa a Genova, ma solo feriti non gravi. È stato il caso a impedire il peggio perché a causa del traffico quasi assente per il coronavirus in quel momento non transitava quasi nessuno. Il ponte è venuto giù nonostante il sindaco della zona solo alcuni mesi prima avesse più volte sollecitato ispezioni da parte dell’Anas e dall’Anas gli avessero risposto di non preoccuparsi perché era tutto sotto controllo e regolare.

Il Fatto ha rivelato in quell’occasione che dopo la tragedia di Genova, il nuovo amministratore delegato dell’Anas invece di moltiplicare le attenzioni per ponti e viadotti, ha di fatto smontato l’ufficio di vigilanza di cui lui stesso faceva parte. La nota del ministero conferma questa paradossale trascuratezza, aggiunge particolari inquietanti e mette in una condizione sempre più insostenibile l’amministratore dell’Anas.

Pescato alla fine del 2018 dal governo Lega-5Stelle tra le terze file aziendali, Simonini finora non ha mai brillato. Per la prima volta dopo un quindicennio l’azienda pubblica delle strade fatta confluire nel gruppo Fs ha chiuso il bilancio con una perdita (71 milioni di euro) e Simonini si è pure incaponito a voler pagare a suon di decine di milioni al gruppo dell’imprenditore ed ex politico Vito Bonsignore vecchi progetti per le autostrade Ragusa-Catania e Orte-Mestre nonostante il parere contrario dell’Autorità anticorruzione. Proprio per accelerare l’iter della costruzione di queste e di altri grandi opere stradali, a Simonini è stato affidato l’incarico di commissario dal capo della holding Fs, Gianfranco Battisti.

La lettera all’Anas del dirigente ministeriale è insolitamente esplicita e dura nonostante si tratti di un atto formale. In essa si legge che “per quanto riguarda ponti e viadotti risultano, alla data odierna, fortemente disattese le chiare indicazioni impartite dal governo e formalizzate nel cosiddetto decreto Genova dopo il crollo del viadotto del Polcevera”. Il decreto imponeva tra l’altro ai gestori di strade privati e pubblici di trasmettere all’Ainop (l’Archivio delle opere pubbliche) i dati necessari. L’Anas ha disatteso l’impegno “nonostante ripetuti incontri e solleciti effettuati” dallo stesso Direttore ministeriale. In pratica l’amministratore Anas si è sottratto a un dovere “di trasparenza verso la collettività, oltre che di rispetto di disposizioni di legge”. L’alto dirigente ministeriale rivela inoltre che l’“inadeguatezza delle modalità di verifica delle condizioni di ponti e viadotti Anas è stata più volte oggetto di attenzioni – anche a seguito degli esiti negativi di uno specifico audit – da parte del Collegio sindacale”.

Infine a proposito delle gallerie della rete Ten (i corridoi stradali europei), il direttore del ministero accusa l’Anas sostenendo che alcune di esse “non solo non sono risultate adeguate, ma non risulta neppure disponibile la progettazione dell’adeguamento da effettuare”.