Scontro M5S-Pd: “Ingoiato Descalzi vogliamo di più”

“Abbiamo ingoiato Descalzi, dovete cedere anche voi”, e dopo un istante, appena il Pd ha compreso il messaggio non distensivo dei 5S, a Palazzo Chigi si è interrotta la riunione in videoconferenza dei partiti di maggioranza per le nomine di Stato. Il distanziamento sociale imposto dalla pandemia non ha temperato le tensioni – ormai da considerare un elemento irrinunciabile dei negoziati – fra i pentastellati e i democratici, accorsi in massa e con idee opposte all’incontro convocato. Tutti lì presenti con l’illusione di siglare un accordo per il rinnovo delle aziende a controllo pubblico e perciò di rimuovere la sensazione di spartirsi il bottino (di poltrone).

Al tavolo c’era un oceano di correnti, i pentastellati Vito Crimi, Riccardo Fraccaro, Stefano Buffagni, i democratici Andrea Orlando, Dario Franceschini, il ministro del Tesoro, nonché “azionista” principale delle partecipate, Roberto Gualtieri. Nessuno la pensava come l’altro, dentro i partiti, tra i partiti.

“Abbiamo ingoiato Descalzi, dovete cedere anche voi”, è l’effetto collaterale di chi – e parliamo dei Cinque Stelle – ha accettato la logica della distribuzione dei posti. “Abbiamo ingoiato Descalzi”, vuol dire non vi abbiamo – ai dem e non solo – intralciato il piano di riconferma dell’amministratore delegato di Eni, seppur imputato per corruzione in un processo per una tangente da oltre un miliardo di dollari e inquisito per gli affari della moglie in conflitto di interessi con la multinazionale del petrolio. Roba da far impallidire i nostalgici delle origini dei Cinque Stelle.

“Dovete cedere anche voi”, è un segnale che la ripartizione delle caselle da occupare andrà rivista, e di fretta perché i termini per presentare ufficialmente le liste scadono lunedì. Ai Cinque Stelle non basta la bandierina della presidenza di Eni come presunto, davvero presunto, contraltare all’indigesto Descalzi e non basta neppure la scelta dell’ amministratore delegato di Enav, l’ente che gestisce il traffico aereo civile e di Terna, la società della rete elettrica. Fraccaro e colleghi pretendono anche l’ad di banca Mps dopo la bocciatura del candidato Mauro Selvetti e, complici le divisioni nel Pd, hanno riaperto la discussione su Alessandro Profumo (Leonardo, ex Finmeccanica) per sostituirlo con Giuseppe Giordo, un ex manager del colosso degli armamenti (oggi in Fincantieri) gradito anche al mondo della Difesa e a Giuseppe Conte.

L’offensiva dei Cinque Stelle serve ad addossare al Nazareno – che si trincera dietro il Quirinale – la decisione di rinnovare i mandati agli ad delle società quotate più importanti, cioè Eni, Enel, Poste e Leonardo. La riunione iniziata alle 16 è stata sospesa dopo pochi minuti, quando i dem si sono impuntati sulla riconferma totale degli ad, specie Profumo, brandendo Sergio Mattarella come sigillo di continuità. E si è andati avanti fino a notte.

I nomi che circolano, alcuni lasciati circolare per essere bruciati, non hanno subito grosse variazioni. Lucia Calvosa, per i Cinque Stelle, avrà una presidenza, in ordine: Eni, Enel e Poste. A Fabio Innocenzi indicato dal Tesoro per Mps, i Cinque Stelle oppongono, con un certo vigore, Guido Bastianiani ex Carige. Tornando a Leonardo: i dem provano a insistere sull’ex banchiere Profumo, mentre vacilla la presidenza di Gianni De Gennaro, ma l’ex capo della Polizia all’ultima curva sa sempre stupire tutti. C’è stata l’ipotesi De Gennaro per la presidenza di Eni, come rimane quella di Luciano Carta (servizi segreti esteri) per Eni o proprio per Leonardo. L’impresa di fare pace – vedrete, accadrà – non dipende unicamente da Pd e 5S, ma va allargata ai partner minori, Italia Viva di Matteo Renzi, la sinistra di Roberto Speranza, poi il vaglio del Tesoro e ancora alcune postazioni riservate a Conte (come la presidenza di Poste) e la benedizione del Colle. È così lunga che non poteva non cominciare con una suggestiva e spettacolare videoconferenza sospesa, per poi litigare e litigare ancora finché ogni seggiola non sarà assegnata.

Di Carlo, il pentito che sussurrava di mandanti occulti

Colpito dal coronavirus, se n’è andato a 79 anni Franco Di Carlo, il collaboratore di giustizia che più di tutti ha esplorato i misteri della zona grigia tra Stato e mafia, descrivendo approfonditamente il ruolo dei Servizi segreti. Era ricoverato dalla fine di marzo in un ospedale di Parigi, sua città d’adozione, dopo una vita divisa tra la Sicilia e le maggiori capitali europee. Era nato 79 anni fa ad Altofonte, 7 km a sud di Palermo, al confine con le borgate di Villagrazia e Santa Maria di Gesù, e durante la sua collaborazione ha indicato fatti, nomi e circostanze legati alla stagione delle stragi che ha vissuto in prima persona, rinchiuso nelle carceri inglesi. Fu anche testimone oculare di un incontro tra Berlusconi e i boss mafiosi a Milano, negli Anni 70, finito agli atti del processo Dell’Utri e ormai coperto da un giudicato.

Amico fraterno del principe Alessandro Vanni Calvello di San Vincenzo, condannato per mafia al maxiprocesso, figlio della principessa Stefanina Ganci che a Palermo ospitò la regina Elisabetta, proprietario di un night club di successo, il Castello di San Nicola, anfitrione di Alain Delon e Claudia Cardinale che facevano il bagno sotto i suoi occhi nel mare di Solunto nelle pause del Gattopardo di Visconti, girato nei saloni di palazzo Ganci, e in ottimi rapporti con il capo del Sismi di allora, Giuseppe Santovito, iscritto alla P2, Di Carlo è stato un boss anomalo nel panorama mafioso degli aAnni 70 e 80. Totò Riina lo definiva di “buone braccia e di ottimo cervello”. Lui lo correggeva: “Mi contento del cervello, le braccia le hanno tutti”.

Le foto dei primi Anni 80 lo ritraggono con le camicie di seta aperte sul petto villoso su cui luccica un medaglione d’oro, i Ray Ban trasparenti, in mano una coppa di champagne. Accanto donne, buona borghesia, nobili: “A Londra – raccontava – avevo rapporti con la nipote di Churchill, da parte della figlia, si era sposata con un riccone, un lord. Eravamo soci di un club esclusivo, c’era Andrea il figlio della Regina, c’erano figli di ambasciatori, quando andavo, posteggiavo il mio Ferrarino davanti la porta”. E affari, apparentemente leciti. A Londra era il ‘signor Franco’, rispettabile antiquario siciliano in rapporti di import-export con numerosi colleghi romani. Fino a quando Scotland Yard non lo accusa di trafficare in droga con i Caruana di Siculiana e i giudici lo condannano a 25 anni di carcere, circostanza che lo ha spinto a collaborare con la giustizia. Lo ha fatto da attento osservatore e frequentatore del potere nelle sue varie forme, politiche, investigative o militari, avendo conosciuto, fin da giovane, esperti militari come il generale Goffredo Canino, suo compaesano e capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il principe Gianfranco Alliata di Montereale, massone con il pallino dei colpi di Stato in chiave atlantica, e il generale Giuseppe Santovito, piduista dal quale ha appreso tattiche e strategie dei servizi trasferendole ai corleonesi di Totò Riina che in tre anni, dal ’79 all’81 si sono impadroniti di Cosa Nostra con il piombo, inaugurando il terrorismo anti-statale.

Di sé diceva: “Sono stato io a organizzargli (a Riina, ndr) i Servizi segreti dentro Cosa Nostra, me lo porto nella coscienza malamente, ma non potevo prevedere tutta questa violenza”. Trucchi, strategie, e segreti d’intelligence che hanno trasformato una banda di viddani scesi dalle montagne attorno a Palermo nella più organizzata, compartimentata e segreta mafia nella mafia. Quelle vicende da lui vissute nelle carceri inglesi, che precedono e seguono le stragi del ’92-93, quando i servizi lo andarono a trovare nel carcere di Full Sutton chiedendogli un contatto per “stoppare Falcone” costituiscono una delle chiavi di lettura più attuali delle indagini sullo stragismo e sui suoi mandanti occulti. Ma anche su chi ha coperto per decenni verità indicibili. Due anni fa, in un’intervista pubblicata da questo giornale, ci disse: “Ho detto tutto ai pm di Caltanissetta che indagano sui mandanti occulti delle stragi, ma si continua a puntare sui livelli bassi”.

Calciatori, politici e altri vip dal tampone facile

La scritta nera è sul muro rosso del municipio di Nembro, provincia di Bergamo, uno degli epicentri del Coronavirus: “Politici e calciatori, vi siete fatti fare i tamponi. Quindi i nostri zii, padri e nonni sono coglioni?”. Uno slogan sguaiato – comparso la mattina del 26 marzo – che però racconta una preoccupazione vera: di fronte al Coronavirus sono davvero tutti uguali? Sono molteplici le segnalazioni di cittadini comuni che hanno chiesto di fare il test del tampone e sono stati respinti, nonostante i sintomi di un possibile contagio. La stessa difficoltà per altre categorie invece non esiste, come si evince dai racconti dei “vip” sulle loro esperienze con la malattia e le cure.

Nicola Zingaretti – ricorderete – è passato in pochi giorni dall’aperitivo a Milano all’annuncio della sua positività al Covid (7 marzo). Per lui il tampone è arrivato ai primi sintomi di malessere: qualche linea di febbre, mal di testa, occhi arrossati. Per un cittadino comune non bastano, per il presidente della Regione Lazio sì (anche perché Zingaretti era esposto “sul campo”, visitando regolarmente l’ospedale Spallanzani di Roma). La dem Anna Ascani, viceministra dell’Istruzione, ha fatto il tampone e scoperto la sua positività malgrado non avesse avuto (per fortuna) sintomi gravi (come lei stessa ha dichiarato). Tra i numerosi politici che hanno contratto il Coronavirus ci sono anche il 5Stelle Pierpaolo Sileri (pure lui molto esposto, in quanto viceministro della Sanità), il governatore piemontese Alberto Cirio, il parlamentare del Misto Claudio Pedrazzini, l’ex renziano Luca Lotti, Edmondo Cirielli di Fdi, Chiara Gribaudo del Pd, gli assessori emiliani Raffaele Donini e Barbara Lori, il sindaco di Cremona Gianluca Galimberti, l’assessore in Lombardia Alessandro Mattinzoli.

Se esiste una categoria che sicuramente ha avuto un accesso ai tamponi fuori da ogni canone è quella dei calciatori. A inizio marzo il lungo e ridicolo balletto sulla sospensione della Serie A fu risolto proprio dalle notizie dei professionisti contagiati. Il primo in assoluto è stato lo juventino Daniele Rugani. Il difensore ha scoperto di essere positivo malgrado fosse asintomatico, come ha raccontato la moglie Michela Persico: “Daniele non aveva sintomi, poi improvvisamente due linee di febbre, quasi niente, ma è partito il controllo”. La stessa Persico ha fatto il tampone, malgrado stesse bene. Una buona notizia per lei che è in dolce attesa, ma non tutti i familiari dei contagiati “comuni” hanno la stessa possibilità. Dopo Rugani sono fioccati i casi di positività nel calcio: Paulo Dybala (e compagna), l’ex stella del Milan Paolo Maldini (e il figlio Daniel), Blaise Matuidi, Manolo Gabbiadini, Patrick Cutrone, Marco Sportiello e molti altri ancora.

E poi ci sono artisti, giornalisti, vip generici. Piero Chiambretti è stato ricoverato con lievi sintomi da Coronavirus all’ospedale Mauriziano di Torino insieme alla madre Felicita: purtroppo la signora non ce l’ha fatta, Chiambretti è stato poi dimesso. Lucia Annunziata è stata ricoverata allo Spallanzani per una crisi respiratoria: malgrado due tamponi negativi, la tac a cui è stata sottoposta ha mostrato una brutta polmonite. Nicola Porro ha raccontato la malattia e l’isolamento domiciliare: “Ho avuto i sintomi di una brutta influenza”. Per alcuni “famosi” non servono neanche quelli. Valeria Marini l’ha raccontato durante la partecipazione al Grande Fratello: “Ho fatto le analisi e il tampone prima di entrare, era negativo”. Poi si è rimangiata tutto: “Era solo un tampone faringeo”. Peccato che il tampone per il Coronavirus sia proprio un tampone faringeo…

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“Per avere il vaccino per tutti servono almeno dodici mesi”

“Dovremo imparare a convivere con questo virus senza fermare il mondo. Quindi preparare una ripartenza è indispensabile. Saranno necessari sistemi diagnostici e logistici efficaci per individuare velocemente e isolare casi e contatti al fine di evitare ondate successive di pandemia”. Rino Rappuoli, 67 anni, microbiologo pluripremiato con un passato tra Rockefeller University di New York e Harvard Medical School di Boston, oggi è direttore scientifico alla GlaxoSmithKline con sede italiana a Rosia (Siena). “All’inizio l’impatto di questo virus è stato sottovalutato. È facile dirlo con quello che sappiamo adesso, ma è una lezione per il futuro. Dobbiamo sempre essere pronti a individuare segnali deboli di potenziali pericoli e a reagire velocemente, prevenendo prima che sia troppo tardi. Col Sars-Cov2 abbiamo agito quando era troppo tardi”.

Quanto tempo serve per sconfiggere Sars-Cov2?

È difficile fare previsioni trattandosi di un virus nuovo, che la comunità scientifica non conosce e contro il quale non abbiamo ancora strumenti efficaci. È probabile si debba convivere con questo virus per un po’ di tempo, finché non avremo vaccini e terapie per tenerlo a bada o sconfiggerlo.

Quanto tempo serve per ottenere il vaccino?

Nella normalità può richiedere un tempo compreso tra i 15 e i 20 anni. Ci sono dei tempi tecnici che vanno garantiti e che sono funzionali, prima di tutto, a garantire al vaccino il massimo profilo di sicurezza. In condizioni di emergenza, come nel caso dell’Ebola, i tempi sono stati ridotti a cinque anni. Oggi la disponibilità di tecnologie di ultima generazione ci consente di fare ipotesi di sviluppo ancora più ottimistiche, ma in ogni caso non è plausibile un tempo inferiore ai dodici mesi.

Molti hanno annunciato di bruciare le tappe.

Non dobbiamo confondere lo sviluppo del vaccino in laboratorio con la sua disponibilità ai pazienti. Lo sviluppo in laboratorio oggi è veloce, grazie alle nuove tecnologie e lo possono fare in tanti. Le prove cliniche, la industrializzazione del processo di produzione sono le fasi che richiedono più tempo e più investimenti. I gruppi nel mondo che possono fare queste fasi sono molto pochi, non credo ci siano più di due o tre colossi farmaceutici al mondo in grado di produrre centinaia di milioni di dosi per sconfiggere il virus su scala globale.

Sars-Cov2 può essere debellato prima del vaccino?

No, avremo bisogno di vaccini per creare l’immunità di gregge e sconfiggerlo.

Anche la sua azienda, la Gsk, è impegnata nella “corsa”. A che punto siete?

Siamo gli unici al mondo ad aver sviluppato e registrato adiuvanti per uso umano, ci abbiamo messo vent’anni. L’adiuvante è una sostanza che si aggiunge ai vaccini per favorire la risposta del sistema immunitario, creando una immunità più forte e durevole nel tempo. L’utilizzo di adiuvanti permette di produrre un maggior numero di dosi. Quindi non partecipiamo allo sviluppo di un solo vaccino, ma rendiamo possibile lo sviluppo di più vaccini promettenti messi a punto da gruppi diversi. Lavoriamo, ad esempio, con l’Università di Queensland, in Australia, attraverso la partnership con Cepi (Coalition for Epidemic Preparedness Innovations) e con le aziende cinesi Clover Biopharmaceuticals e Innovax Biotech. E contro il Covid-19 abbiamo unito le forze con un altro colosso del settore, Sanofi: insieme svilupperemo un vaccino adiuvato che unisce l’antigene di Sanofi e l’adiuvante di Gsk consolidato per vaccini pandemici. Il candidato vaccino dovrebbe iniziare gli studi clinici nella seconda metà del 2020 e, in caso di successo, sarà disponibile nella seconda metà del 2021.

“Costretti in due sullo stesso camion senza presidi adeguati”

Ci esortano a non accalcarci nei supermercati in quanto gli approvvigionamenti sono garantiti sia per la quantità che per la continuità, ma ci siamo chiesti come arrivano le merci negli scaffali? Ora provo a spiegarlo: sono un lavoratore autonomo con partita Iva e presto la mia collaborazione per una nota azienda italiana, la Granarolo. In questo momento di emergenza Covid-19 siamo in due nella stessa cabina del mezzo. Come facciamo a mantenere le distanze di sicurezza di 1 metro? La fornitura di mascherine simil-chirurgiche è arrivata da pochi giorni insufficiente come numero e inadeguata per lo scopo. L’azienda ha dimezzato i mezzi di trasporto, mentre le zone di distribuzione sono rimaste invariate. Come possono due colleghi condividere lo stesso mezzo ad appena 50 cm di distanza l’uno dall’altro utilizzando presidi di protezione non adeguati senza incorrere in eventuali contagi? E vogliamo parlare della sanificazione giornaliera dei mezzi che puntualmente non avviene? E la misurazione della temperatura? La coscienza ci impone di attrezzarci autonomamente affinché il rischio di contagio sia minimo. Ma queste grandi aziende cosa fanno per tutelare i loro collaboratori? Ve lo dico io cosa fanno: minacciano se non accetti di lavorare a queste condizioni, puoi anche rimanere a casa, ma noi a casa non possiamo rimanere perché non percepiamo uno stipendio fisso né un indennizzo per malattia. Non siamo una categoria che può andare in cassa integrazione, siamo una categoria che se non esce tutte le mattine a rifornire gli scaffali non mette nulla nel portafoglio a fine mese e, quindi, nulla in tavola per la propria famiglia. Però la Granarolo scrive sulle bottiglie che si preoccupa per il benessere della mucca… Ci capite qualcosa voi?

Deliveroo & C. stangati: devono fornire guanti e mascherine

Non c’è due senza tre. Il provvedimento con il quale, l’altro ieri, il Tribunale di Bologna ha ordinato a Deliveroo di fornire mascherine e gel rappresenta la terza vittoria dei rider contro le multinazionali che consegnano cibo a domicilio. Nelle due settimane precedenti, decisioni molto simili erano state emesse dai giudici di Firenze e Roma su ricorsi promossi dalla Cgil contro Just Eat e Glovo. Si tratta di decreti emanati d’urgenza e con natura provvisoria, le imprese si stanno difendendo, ma per ora sono sufficienti a fissare un punto fermo: le aziende del food delivery hanno il compito di assicurare tutti gli strumenti per proteggere la salute dei loro addetti in bicicletta: mascherine, guanti monouso, gel per le mani e prodotti a base alcolica per sanificare gli zaini nei quali si trasporta il cibo devono essere a carico delle aziende. Finora le piattaforme avevano distribuito questi prodotti in modo spesso incompleto e non a tutti, lamentando problemi nell’approvvigionamento. Queste giustificazioni, ha detto il Tribunale di Bologna, “seppur astrattamente plausibili, non appaiono costituire insormontabile ostacolo all’adempimento dell’obbligo imposto dalla legge al datore di lavoro”. In genere le piattaforme si sono limitate alle raccomandazioni, chiedendo ai rider di procurarsi da soli tutto il necessario e riconoscendo aumenti nelle paghe a consegna. Per i giudici non è sufficiente. Le iniziative giudiziarie della Cgil e di Rider Union Bologna hanno insistito su quanto già stabilito dalla Corte di Cassazione in una sentenza di gennaio: anche se i fattorini sono inquadrati come lavoratori autonomi dalle app, hanno comunque diritto a quasi tutte le tutele previste per i lavoratori subordinati, soprattutto in materia di salute e sicurezza.

200 addetti alle pulizie licenziati anche se per legge ora è vietato

Succede anche che si possa perdere il lavoro anche se in Italia i licenziamenti sono vietati per legge. Protagonisti di questa storia paradossale sono circa 200 addetti alle pulizie di Zara impiegati, attraverso una ditta esterna, nei negozi in Calabria, Sicilia e Sardegna. Il 17 marzo sono stati mandati a casa dalla loro azienda, il consorzio Toro, che aveva appena perso l’appalto con la multinazionale della moda (dopo varie contestazioni su ritardi nei pagamenti degli stipendi). Il 18 marzo, era prevista come da prassi l’assunzione da parte dell’impresa subentrante nell’appalto, la Pfe spa, ma qualcosa è andato storto. Il governo ha nel frattempo chiuso le attività commerciali e così Zara non ha fatto partire il nuovo appalto di pulizia e la Pfe, di conseguenza, ha deciso di non arruolare i lavoratori. Che sono rimasti disoccupati nel pieno dell’emergenza. Ma le beffe subite non sono finite qui: hanno chiesto il sussidio di disoccupazione Naspi che l’Inps gli ha negato. Motivazione: “Il licenziamento – si legge nella risposta – è avvenuto durante il periodo di blocco imposto dal decreto legge 18 del 2020”. Insomma, l’Inps non può concedere il sussidio poiché il licenziamento è avvenuto dopo il 23 febbraio e, quindi, non è legittimo. Questo li ha messi in un limbo: sono senza lavoro e senza sostegno al reddito. In teoria, potrebbero fare ricorso per farsi assumere dal gruppo Toro, ma sarebbe assurdo perché hanno passato gli ultimi mesi a scioperare contro quell’azienda per una serie di problemi. I sindacati stanno ora cercando di convincere la Pfe ad assumerli anche senza l’avvio dell’appalto e attivare subito gli ammortizzatori sociali previsti per il Covid-19.

“Ora riapriamo tutto”, ecco la Confindustria trainata da Bonomi

Vince Carlo Bonomi, designato ieri con 123 voti contro 60 nuovo presidente di Confindustria. E vince la voglia di rinnovamento contro una burocrazia “romana” ritenuta insufficiente. Vince “l’orgoglio industriale” contro chi, come ha detto Bonomi parlando al Consiglio generale che lo ha designato, “ci ha esposto a pregiudizi anti-industriali”. Una Confindustria meno incline al dialogo e alle mediazioni, un po’ più “padronale” che prende le distanze dalla politica e dal sindacato. E che da oggi avrà ancora di più la parola d’ordine “riaprire tutto”.

Serve una posizione degli industriali “su tutti i tavoli necessari” ha spiegato Bonomi, anche perché la “classe politica mi sembra molto smarrita”. Con la politica il rapporto sarà di distanza, come ha potuto verificare lo scorso ottobre Giuseppe Conte. Ma ce n’è anche per il sindacato: “Non pensavo più di sentire l’ingiuria verso le imprese che sono indifferenti alla vita dei propri collaboratori, sentire certe cose dai sindacati mi ha colpito profondamente”. Maurizio Landini a Otto e mezzo risponde a tono: “Per me la vita viene sempre prima del profitto”.

Ma la posizione di Bonomi è chiara: “Bisogna riavviare le produzioni, perché sono quelle che danno reddito e lavoro, non lo Stato”. Non bisogna perdere l’aggancio alle “catene del valore mondiali” dice pensando soprattutto all’industria del Nord che pochi giorni fa, in un documento congiunto delle associazioni di Lombardia, Piemonte, Emilia e Veneto, chiedeva con forza di riaprire le fabbriche. Un po’ come hanno fatto ieri le regioni a trazione leghista.

Nel suo entourage assicurano che Bonomi parlerà e rispetterà tutti, compreso il mondo 5 Stelle. Con Salvini c’è “rispetto”, ma il suo populismo leghista non piace e non piacciono soprattutto posizioni economiche che sembrano “socialiste”. Entusiasta invece Forza Italia che saluta la nomina con Silvio Berlusconi.

Bonomi però non si farà legare le mani da “vecchi” assetti, siano essi politici o confindustriali. Lo hanno appoggiato nomi noti come Marcegaglia, Tronchetti Provera, Abete, il suo mentore Felice Rocca o esponenti della Confindustria romana come Aurelio Regina (ma sul supporto romano si nutrono dei dubbi). Ma il riferimento obbligato sarà la spina dorsale dell’industria italiana a cui si punta a restituire “orgoglio”.

Non è come nel 2000 quando in rappresentanza dei “piccoli” Antonio D’Amato batté la grande industria rappresentata da Carlo Callieri. Oggi c’è un capitalismo italiano che ha paura di restare sconnesso dalle “catene del valore mondiale” e lotta per la sopravvivenza. E che ieri ha votato compatto, con tutti i 183 membri del Consiglio generale, in una chiamata alle armi di cui è stata vittima Licia Mattioli più “sorpresa” che delusa per i voti che riteneva sicuri e che invece le sono mancati.

Per il sindacato non saranno tempi facili. La Cisl ha inviato i suoi auguri e l’auspicio di relazioni positive e così ha fatto la Cgil. Ma nel sindacato di Landini quella insistenza sulla centralità dell’industria e sull’orgoglio industriale, magari a scapito dei lavoratori, fa serpeggiare più di una preoccupazione. E preoccupazioni ci saranno anche in Confindustria dove il rinnovamento è certo. A Bonomi sembra che il termine “rimanere” non piaccia molto e quindi molti incarichi andranno rivisti. A cominciare dalla direzione generale.

Così il Viminale regolarizza i migranti e il lavoro nero

“Regolarizzare 600mila lavoratori irregolari invisibili, gli “stagionali dell’agricoltura, che vengono spesso sfruttati e lavorano in Italia per quella criminalità che chiamiamo caporalato, che per me significa mafia”. A porre con forza il tema è stato ieri il ministro dell’Agricoltura, Teresa Bellanova in un’informativa, prima al Senato e poi alla Camera. Sono lavoratori che “vivono in insediamenti informali, sottopagati e sfruttati. Oggi queste persone sono ancora più esposte al rischio sanitario e alla fame”, ha detto. Ribadendo poi l’emergenza, ha aggiunto: “In Italia, il 26,2% del totale del lavoro agricolo è svolto da stranieri, 346mila persone. In migliaia sono tornati nei propri Paesi e le associazioni parlano di una carenza di manodopera fra 270 e 350mila unità”.

La ministra renziana si è attirata immediatamente gli strali del centrodestra. In particolare, Matteo Salvini l’ha accusata di volere una “sanatoria”. A chiedere formalmente un’azione congiunta del governo è stato in Aula il deputato Bruno Tabacci: “Mi auguro che lei, unitamente al ministro dell’Interno, assuma un’iniziativa organica coerente con questa esigenza, che è vitale per il nostro Paese”.

Al netto della polemica politica, il governo sta studiando da tempo il modo di far emergere il lavoro nero. In particolare, più volte, la Bellanova si è confrontata con il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Le esigenze delle due componenti dell’esecutivo non sono le stesse, ma una condivisione di massima sulla questione c’è.

Tanto che si stanno studiando modi e tempi per portarla in Consiglio dei ministri. Da posizioni diverse. Mentre la Bellanova è pressata dalle esigenze degli agricoltori, che chiedono il prima più possibile braccia per non lasciare i raccolti a marcire nei campi, il Viminale sta cercando le modalità più adeguate per far emergere il lavoro nero, con tutti i controlli e le procedure del caso. Con buona pace di Salvini, il modello potrebbe essere quello già utilizzato da tanti in passato, a partire da Roberto Maroni che al Viminale nel governo Berlusconi (2009) fece emergere 200mila lavoratori domestici. I numeri su cui si ragiona al ministero dell’Interno sono decisamente minori dei 600mila nominati ieri dalla titolare dell’Agricoltura.

Ma soprattutto si parte da un punto: potrà essere regolarizzato solo chi ha un contratto di lavoro regolare. Perché un provvedimento di questo tipo sarebbe motivato da più di un’esigenza. Prima tra tutte la sicurezza, che di questi tempi vale doppio: poter tracciare e riconoscere anche i migranti è un’arma importante per combattere il contagio da coronavirus. Gli irregolari positivi sostanzialmente non si possono “auto denunciare”. E poi, ci sono le tasse che lo Stato potrebbe recuperare. Oltre alla lotta al caporalato e allo sfruttamento. Da sottolineare che non è solo l’agricoltura ad aver bisogno di questo tipo di “emersione”.

Ci sono anche le colf, le badanti, alcuni settori del terziario e dell’industria, i lavoratori degli stabilimenti balneari. E poi, di regolarizzazione si parla anche per i lavoratori italiani in nero. Sempre Tabacci pone il tema dei romeni che hanno lasciato il nostro Paese: “Bisogna far rientrare dalla porta principale i tanti lavoratori che sono andati via”.

Blocco ai tornelli, conta-telefonini e linee a terra: la fase 2 di bus e metro (in crisi)

Letta adesso, la prima regola per la sicurezza dell’azienda del trasporto pubblico milanese sembra roba dell’altro mondo: “Dare la precedenza ai passeggeri in uscita: in questo modo si evita di scontrarsi con altre persone”.

Una scena che, nella fase 2, non si può neanche immaginare. Ma se del movimento degli studenti se ne parlerà a settembre, il rientro al lavoro nelle fabbriche e negli uffici – al netto di turni e smart working – impone con urgenza di studiare un nuovo sistema per spostarsi nelle città. Che avrà ripercussioni anche sulla tenuta economica delle aziende del trasporto pubblico locale, già provate dai “buchi” precedenti e dal crollo degli introiti degli ultimi 45 giorni: solo a marzo, biglietti e abbonamenti sono scesi del 74 per cento (e aprile andrà peggio). Per dire: un autobus che normalmente viaggia con 54 posti a sedere e innumerevoli altri stipati in piedi, per garantire il distanziamento, dovrebbe caricare al massimo 22 persone. Una capienza insostenibile, sia per le attese che per i conti.

A Roma pensano di affidarsi a un sistema di tracciamento – il “conta telefonini” – per capire quali linee e fasce orarie potenziare, si ragiona sull’acquisto di nuovi autobus e sulla creazione di altre corsie preferenziali. Considerato lo stato pre-Covid-19 pare un miraggio.

Un tema che si pone anche per i mezzi non di superficie. A Milano, il piano “new start” che il Comune sta studiando con Atm – non dissimile da quello della Capitale – prevede un sistema di “conta-passeggeri”: si potrà scendere ai treni della metropolitana solo se non è stato superato il numero di ingressi consentito, che verrà conteggiato direttamente ai tornelli. Linee di distanziamento da rispettare saranno posizionate sulle banchine, alle fermate, all’interno dei vagoni.

Il risultato, intuibile anche senza aspettare la fase 2, è che chi potrà si arrangerà con mezzi propri. Le associazioni – da Legambiente a Salvaiciclisti – chiedono incentivi per la mobilità sostenibile, perché già avvertono il rischio di un uso massiccio delle auto: tra le ipotesi c’è anche quella di lasciare aperte le Ztl delle città.