Per sanità, scuola o banche: la carica delle 40 task force

Chi aveva nostalgia dei tecnici si sentirà certo a suo agio. Il calcolo è rozzo, ma di sicuro non lontano dal vero: in questo momento siamo nelle mani di 9 task force o comitati speciali a livello nazionale, più un’altra trentina – come minimo – di squadre regionali volute dai governatori, per un totale di quasi un migliaio di persone coinvolte. Alcune di queste strutture ci sono ormai familiari nel nome e nei coordinatori – basti pensare a Vittorio Colao e alla task force per la ricostruzione – ma altre sfuggono quasi del tutto alle cronache.

L’ultima arrivata è la già citata squadra per la ripartenza, composta da 17 esperti guidati da Colao. Economisti, sociologi, psichiatri che sosterranno Palazzo Chigi nella gestione delle riaperture. Questa task force si confronterà pure con il Comitato tecnico scientifico della Protezione civile, formato da 12 membri e di cui fanno parte alcuni scienziati che spesso affiancano Angelo Borrelli durante la conferenza delle 18, come Franco Locatelli, Walter Ricciardi o Giovanni Rezza. Sempre insieme alla Protezione Civile e al suo Comitato Operativo lavora poi la task force istituita a gennaio dal ministero della Salute, composta da circa 15 membri tra cui i rappresentanti degli ordini di medici e infermieri, tecnici dei ministeri e membri dell’Istituto Superiore di Sanità.

Ben più corposa la task force voluta dal ministero per l’Istruzione, nata soprattutto per gestire la didattica a distanza. Qui i membri sono un centinaio, guidati dalla ministra Lucia Azzolina e dalla sua vice Anna Ascani, per scendere poi ai rappresentanti della Protezione civile, ai pediatri, ai rappresentanti territoriali del ministero, alle associazioni di genitori e studenti. Altri 74 esperti fanno invece parte della task force per l’Innovazione voluta dalla ministra Paola Pisano, che da settimane si interroga sul contributo della tecnologia al tracciamento del virus.

Restando ai ministeri, il Tesoro ha invece istituito la task force per la liquidità del sistema bancario. Tradotto: un tavolo permanente tra Mef, Mise, Bankitalia, Abi, Mediocredito Centrale e Sace (gruppo Cassa Depositi e Prestiti), con l’obiettivo di limitare i danni del settore bancario e mettere a punto misure per risparmiatori e istituti. Sono in 13 invece le componenti della task force Donne per un nuovo Rinascimento, ideata dalla ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti per studiare “la ripartenza sociale ed economica” e affidata a un team di donne, tra cui la direttrice del Cern di Ginevra Fabiola Gianotti.

Già operativa è poi la task force contro le fake news, composta da 8 giornalisti ed esperti dei media tra Riccardo Luca e Francesco Piccinini, intenti a stanare le bufale online sul coronavirus. Tutto questo, e siamo alla nona struttura nazionale, senza dimenticare la squadra del commissario straordinario per l’emergenza Domenico Arcuri, che con l’aiuto di 39 componenti si sta occupando soprattutto dell’aspetto sanitario.

Alle Regioni, però, questo non basta. Forse per affrontare più da vicino l’emergenza, ognuna ha istituito almeno una task force. Il Lazio ha messo a punto LazioLab (19 membri coordinati da Daniele Leodori) ma pure la task force Velocità per pensare alla ripresa economica e sociale. In Toscana prima è nata la task force guidata da Emanuela Balocchini, poi una nuova, gestita da Loredano Giorni, dedicata alle novità terapeutiche. In Campania si riuniscono 14 esperti più i dirigenti delle aziende sanitarie locali, in Sicilia Benedetto Mineo guida la struttura per l’emergenza, in Liguria Giovanni Toti ha lanciato la sua task force da 15 persone sulla ripartenza. In Calabria in tutto il tavolo arriva a 40 partecipanti, mentre in Lombardia sono stati chiamati 26 esperti. Con il bonus di Beppe Sala, appena nominato a capo della task force internazionale dei sindaci delle metropoli del mondo. Almeno in questo, Milano è davvero già ripartita.

Meno share e troppa ansia: l’Angelo delle 18 non tira più

I numeri sul Covid-19 confermano anche ieri un trend in discesa. Secondo i dati forniti ieri dal commissario Angelo Borrelli, i nuovi malati sono 3.786 contro i 2.667 di mercoledì, ma ieri è stato raggiunto un numero record di tamponi: quasi 61mila contro i 43.715 delle 24 ore precedenti. In leggero calo, ma ancora alto, il numero dei decessi: 525 contro i 578 di due giorni fa. Le persone dimesse o considerate guarite sono invece aumentate di 2.072 unità, raggiungendo la quota totale di 40.164. I dati poi riportano un netto calo delle persone in terapia intensiva: 2.936, il numero più basso dal 21 marzo scorso, 750 meno di mercoledì.

Qualcuno, però, inizia a chiedersi se questo bollettino quotidiano abbia ancora un senso. L’interrogativo inizia a diffondersi nella politica, nei media e tra i cittadini. Ieri, per esempio, si è detto contrario il viceministro della Salute, Pier Paolo Sileri che, tra l’altro, è uno di quelli guariti dal Covid. “Personalmente cambierei la comunicazione e non diffonderei più il bollettino tutti i giorni, non è più utile come all’inizio. Mi limiterei al trend, ma il mio è un approccio medico: abbiamo 60 milioni di potenziali pazienti e con il virus dovremmo convivere”, ha detto Sileri a Radio24. Il viceministro non è l’unico a porsi il problema. “Mi chiedo se abbia ancora un senso trasmettere quotidianamente questo bollettino di guerra, che spesso non ci aiuta a capire…”, diceva qualche giorno fa Alessandro Sallusti su La7.

Intorno a questo appuntamento ormai ruotano molti palinsesti televisivi. Raiuno, per esempio, alle 18 apre una lunga finestra all’interno della Vita in diretta. Raidue, invece, manda in onda direttamente Rainews. Ed Enrico Mentana, col suo Tg, organizza sempre uno speciale. I canali all news, invece, la trasmettono tutta, senza filtro, fino all’ultima domanda dei cronisti: Rainews, SkyTg24 e TgCom24. E gli ascolti non vanno male: sono leggermente calati rispetto ai primi giorni, ma tengono. Su Raiuno, per esempio, questa settimana lo share sta tra il 12,5% e il 14,5%, percentuali solo un poco più basse rispetto a marzo. “Fino a che gli italiani sono obbligati a stare a casa, l’audience di Borrelli sarà alto”, afferma il direttore di Rainews, Antonio Di Bella. “Finché il governo decide di farla, la Rai, come servizio pubblico, è obbligata a trasmetterla. Tra un eccesso d’informazione e il suo contrario, preferisco sempre la prima strada. L’appuntamento è utile proprio in quanto è conferenza stampa, con le domande dei giornalisti”, aggiunge Di Bella. L’effetto ansiogeno, però, c’è.

“Sicuramente sì, oltre al fatto che quella valanga quotidiana di numeri perde un po’ di significato”, osserva l’ex direttore del Corriere, Ferruccio de Bortoli. Secondo cui, però, “ormai è un appuntamento entrato nelle abitudini degli italiani ed è difficile tornare indietro. Sembrerebbe che il governo voglia nascondere qualcosa…”.

Le critiche, però, non mancano. “La penso come Sileri, basterebbe una volta a settimana, perché questa alluvione di dati è spesso di difficile e inutile lettura. Non serve agli scienziati e agli italiani genera solo ansia”, osserva Massimo Giannini, direttore di Radio Capital ed editorialista di Repubblica. Poi bisognerebbe vedere cosa fanno gli altri. “Francia e Germania non danno un bollettino quotidiano. E pure l’Oms non fa più di 2 o 3 bollettini alla settimana”, dice Duilio Gianmaria, giornalista Rai, conduttore di Petrolio. Che poi puntualizza: “Io sono sempre per le conferenze stampa, tanto che ogni notte non mi perdo quelle di Trump, che sono uno spettacolo per i duelli con i giornalisti. In quella della protezione civile manca un po’ il contesto, la spiegazione dei numeri e delle curve. Il numero in sé mi dice poco se non mi dici come, secondo te, si è generato. Forse qualcosa, nella comunicazione andrebbe cambiato…”. Il tema, dunque, appassiona e divide. L’appuntamento con Borrelli, però, al momento per Palazzo Chigi resta quotidiano, alle 18.

“Qui in Piemonte si è gettato il cerino nel pagliaio Rsa”

“Prima ci hanno lasciati soli. Poi, non contenti, hanno buttato un cerino in un pagliaio, le case di riposo, imponendoci di accogliere i malati dagli ospedali, dove il contagio circolava, e persino pazienti non negativi al Coronavirus. Infine, hanno spedito una lettera per interpretare la loro delibera e per cercare di rimediare al guaio che avevano combinato. Ma intanto, nelle nostre Rsa, gli anziani cominciavano a morire”.

Francesco C. è un dirigente di una Rsa piemontese che opera in una delle regioni italiane più popolate di residenze per anziani. Rivela la sua indignazione proprio mentre, in streaming, l’assessore alla Sanità della Regione Piemonte, Luigi Icardi, prova a esorcizzare (senza riuscirci) la diavoleria della sua “delibera della vergogna”, come la chiama Francesco.

La storia è abbastanza semplice nella sua irrazionale crudeltà. Il 20 marzo scorso, la Regione fa sapere che, per decongestionare gli ospedali, tutte le Rsa avrebbero dovuto comunicare la disponibilità di posti letto “per la presa in carico di pazienti non affetti da Covid-19”. Poco dopo, però, il testo aggiungeva qualcosa di ancora più sconcertante: “Le Asl potranno reperire posti letto dedicati a pazienti Covid positivi”. “Da quel momento, è cominciata una battaglia senza senso. Io, per esempio, sono stato messo alle strette, con richieste continue da parte dell’Asl che ho sempre respinto. Appena si liberavano dei posti, ci subissavano di telefonate per trasferire da noi malati Covid in ‘fase di negativizzazione’. Abbiamo continuato a dire no, ma con dei conflitti non da poco con l’Asl che, in tempi normali, è l’ente che ci manda gli ospiti convenzionati e che quindi contribuisce alla cosiddetta ‘saturazione del posto letto’, cosa di non poca importanza per i conti di una Rsa”.

Una vera “barricata di no” che (“grazie anche alla fortuna”) ha salvato la Rsa di Francesco nella quale, già il 5 marzo, era scattato il divieto di visite agli anziani. “Per ora nessun contagio tra ricoverati e operatori”. Non è stato così, però, nel resto della regione e il bollettino Covid dal fronte Rsa è terribile: dal 1° gennaio al 31 marzo, in Piemonte sono morti 407 anziani in più di un anno fa. Di questi, 252 per Coronavirus: ma chissà qual è il conto vero, al netto di tamponi mai eseguiti e di autopsie non fatte.

Francesco non vuole sbilanciarsi su quanto può essere accaduto in altre strutture, ma si capisce che il tam-tam telefonico tra le Rsa piemontesi non si è mai fermato. “In quella delibera c’era una frase sibillina, ‘Ferma restando la possibilità di procedere in condizioni d’urgenza’, che suonava come un obbligo. Non me la sento di puntare il dito sui miei colleghi che si sono trovati ad accogliere casi Covid o ad averne all’interno. Le Rsa non sono ospedali, i nostri non sono pazienti, ma ospiti. I medici sono quelli di famiglia e le prestazioni sono solo di natura assistenziale. Non è possibile mescolare pazienti ospedalieri a ospiti magari non autosufficienti o isolare un anziano affetto da demenza rispetto a dei contagiati”.

L’ultimo messaggio in bottiglia dall’assessore leghista, che un tempo di occupava di Asti Moscato, è arrivato martedì scorso, sotto forma di una “precisazione alla delibera”. La stessa che Icardi ha poi sciorinato in conferenza stampa, parlando di equivoci (da parte di chi? Delle Rsa, dei giornalisti?). “Più che una precisazione, è un cambiamento bello e buono di quanto scritto prima – dice Francesco –. I malati Covid positivi? Solo in Rsa ‘non ancora attive e dunque vuote’, oppure in Rsa che ‘intendano candidarsi ad ospitare solo Covid positivi’. Con un’aggiunta che aumenta ancora di più la confusione, invece di annullarla: dopo aver detto che le Rsa dovranno ospitare solo positivi, si spiega che si dovrà isolare l’area loro destinata dal resto della struttura riservata ai normali ospiti: una cosa, tra l’altro, impossibile. Capisce perché ci sentiamo presi in giro?”. Le verità non verità dell’assessore Icardi: una, nessuna, centomila.

“Io e la mia doppia quarantena a Messina”

Il vicolo cieco di kafkiana memoria è spesso dietro l’angolo del cittadino onesto italiano. L’8 aprile, Carmelo Crisicelli, responsabile per la gestione dell’emergenza Coronavirus dell’Asl di Messina, aveva detto che “entro martedì 14 le oltre 1.500 persone in provincia che da giorni hanno finito la quarantena riceveranno l’esito dei tamponi a cui”. Tra queste ci sono decine di lavoratori dell’indotto della raffineria di Milazzo e decine di residenti rientrati da altre regioni e dall’estero dal 14 marzo, giorno in cui il governatore della Sicilia Nello Musumeci ha firmato la seconda ordinanza di restrizione. Il problema è che la Regione non ha previsto o, peggio, non si era preoccupati di una logica conseguenza dell’obbligo del tampone da effettuare durante l’ultimo dei 14 giorni di isolamento: la necessità che il risultato arrivi al massimo il giorno successivo. Pena, secondo l’ordinanza, che il soggetto rientri in quarantena. Cosa successa addirittura per la terza volta (ma con un solo tampone eseguito) all’imprenditore Giosuè Terranova che ieri è dovuto ritornare nel Bed&Breakfast dove è confinato a proprie spese dal 17 marzo dopo il rientro da un viaggio di lavoro a Genova.

Nonostante la dichiarazione di Crisicelli in cui, dopo aver ammesso l’ingolfamento del Policlinico di Messina per l’analisi dei tamponi e la mancanza di reagenti, affermava che martedì 14 sarebbe stato smaltito tutto l’arretrato, Terranova, 45 anni, residente a pochi chilometri da Milazzo, oggi ancora non conosceva l’esito del tampone fattogli il 1º aprile.

Signor Terranova, lei è entrato per la prima volta in quarantena il 17, il 1º aprile ha fatto il tampone. E poi?

Appena sbarcato in Sicilia ho subito notificato la mia situazione alle autorità. Pur non avendo alcun sintomo, come non ne ho ora, ho deciso di affittare a mie spese un Bed&Breakfast a Milazzo per evitare di mettere in pericolo la mia famiglia qualora avessi contratto il virus. Pochi giorni prima del 1º aprile, scadenza della quarantena, ho ricevuto una email dall’Azienda sanitaria provinciale in cui mi si diceva di recarmi a fare il tampone presso il presidio Covid dell’ospedale di Barcellona Pozzo di Gotto. Dopo averlo fatto ho chiesto alla Asp se fossi potuto tornare a casa, ma mi è stato detto che l’esito avrei dovuto attenderlo tassativamente dove avevo già trascorso la quarantena. Trascorsa una nuova settimana di doppia quarantena senza ricevere il risultato del tampone, ho chiamato di nuovo l’Asp e tutte le Istituzioni siciliane, ma niente. Fatto sta che il 14 aprile è finita anche la mia seconda quarantena e sono entrato nella terza senza che qualcuno si degni di dire a me come agli altri nella mia stessa situazione kafkiana come uscire da questa stanza diventata un carcere dove mi hanno messo pur non avendo io commesso alcun reato.

L’assessore regionale alla Salute Razza, in un video Facebook del 10 aprile, si rivolgeva a chi non ha ancora ricevuto l’esito scusandosi, ma anche giustificandosi perché lo sforzo organizzativo è davvero imponente e quindi serve pazientare ancora qualche giorno dopo Pasqua. Le basta ?

No, non mi basta. Anzi mi sento preso in giro doppiamente.

Dal Niguarda al Don Gnocchi senza virus, s’infetta e muore

L’ultimo messaggio alla figlia Daniela, Maria Felicia Pinto lo ha digitato faticosamente la notte tra il 7 e l’8 aprile. “Ho vomitato ancora sangue, sto malissimo”. Maria Felicia aveva anche la febbre. Aveva anche un “piccolo impegno ai polmoni”: così lo aveva definito il medico di turno dell’Istituto Palazzolo, lo stesso che alla figlia aveva detto, poche ore prima e senza tanti giri di parole: “Signora, parliamoci chiaro, in questo reparto su 40 pazienti 39 sono positivi al Covid, tranne sua madre. Se risultasse ancora negativa al tampone sarebbe meglio saperla a casa che qui dentro”. Maria Felicia morirà la mattina dell’8 aprile, stroncata da una pancreatite necrotica emorragica ma forse anche dal virus contratto proprio al Palazzolo di Milano, una delle strutture – comprende una Rsa e una casa di cura – che fanno capo alla Fondazione Don Gnocchi: aveva 78 anni, nessuna patologia cronica.

Un dramma finito in un verbale della Questura, dove la figlia, Daniela Conte, ha presentato denuncia. “Ora sto valutando anche un esposto per ricostruire la catena degli errori – dice Daniela –. A partire dalla Regione Lombardia, per le sue delibere, per arrivare all’ospedale Niguarda e al Palazzolo”. Sì, perché la madre era, prima, ricoverata al Niguarda. Lo era dal 29 gennaio, in gravi condizioni per quella pancreatite che l’aveva portata a subire tre interventi chirurgici, l’intubazione, la terapia intensiva. Solo che dopo era scoppiata l’emergenza Covid e per lei, lì, non c’era più posto. Per liberare posti letto era stata portata al Palazzolo: in fondo, un via libera c’era già, con la delibera della Regione che disponeva il trasferimento di pazienti nelle Rsa. Maria Felicia era lucida, sempre attaccata allo smartphone per poter parlare con la figlia. “Non mi è stato restituito”, dice Daniela. “Né il suo telefono, nè il cavo lungo che le avevo comprato per consentirle di averlo sempre in carica”. All’ospedale Niguarda è il 12 marzo quando la caposala le dice che sua madre deve essere dimessa, mentre la dottoressa la rassicura, le spiega che nelle sue condizioni, dopo un’altra tac, servono come minimo altre due o tre settimane di monitoraggio. Ma l’emergenza incombe e pochi giorni dopo, il 18 marzo, Maria Felicia viene trasferita al Palazzolo. A Daniela crolla il mondo addosso, si sente abbandonata. È al Palazzolo, dove la ricoverano nell’unità operativa di Medicina, che la donna viene sottoposta al primo tampone che risulta negativo. Il secondo non verrà mai eseguito. Difficile parlare con i medici. “Non mi stanno facendo niente, niente di niente, devo sapere se sono qui per curarmi o è un deposito”, dirà Maria Felicia in quei giorni alla figlia: non le fanno, denuncia, nemmeno la fisioterapia per aiutarla a rimettersi in piedi, a camminare. Il reparto di Medicina del Palazzolo è ancora, ufficialmente, un reparto “pulito”, ogni tanto si affaccia qualche giovane dottore di turno, le chiede come sta. Poi le sue condizioni si aggravano. Arriva un po’ di tosse, il 6 aprile la febbre sale, supera i 39. La mattina dell’8 Maria Felicia è gravissima. È la dottoressa di turno a riferire alla figlia che deve stabilizzarla, per poterla trasferire di nuovo al Niguarda; le dice che “nemmeno il 112 voleva venire a prenderla, ho fatto di tutto per convincere gli operatori”, sostiene che la donna aveva rifiutato per due volte il ricovero. “Se anche fosse vero, allora avrebbero dovuto chiamare me”, dice la figlia Daniela. “Solo dopo due giorni di insistenza mi hanno chiamata dal Palazzolo per dirmi che potevo ritirare gli effetti personali di mia madre. Ma il telefono, che teneva sempre stretto nella sua mano, non c’era. Era anche sparito il cavo, erano spariti gli alimentatori, e gli occhiali da vista”.

Intanto continua l’indagine della Procura di Milano sulla “strage dei nonni” e sulle diverse Rsa del Milanese, compreso il Trivulzio. Ieri la Finanza si è ripresentata su appuntamento nel palazzo della Regione per proseguire con l’acquisizione dei documenti sulla gestione dell’emergenza. Il sospetto è che possano esserci state irregolarità nella delibera dell’8 marzo che ha fatto sì che pazienti Covid venissero trasferiti nelle Rsa.

Fase 2. La “secessione” di nord e Sicilia

Fase 2 già dal 4 maggio. Il giorno dopo la richiesta della Lombardia, da Nord a Sud si allunga la lista delle regioni che chiedono di accelerare l’uscita dal lockdown che sta aiutando a contenere l’epidemia del coronavirus. Mentre l’Istituto superiore di sanità avverte che l’immunità di gregge è ancora “lontana” e predica cautela, tutto il Nord (Lombardia, Piemonte, Veneto, Friul-Venezia Giulia, Liguria) e Sicilia propongono la loro ricetta e mettono in campo le proprie task force, provocando più di qualche malumore sia nel governo sia tra gli esperti chiamati da Palazzo Chigi sotto la guida di Vittorio Colao proprio per elaborare linee guida per l’uscita dalla fase più acuta dell’emergenza. Accanto ad Attilio Fontana si schierano, seppur con accenti diversi, Luca Zaia, Alberto Cirio, Giovani Toti e Massimiliano Fedriga ma anche la Sicilia di Nello Musumeci che, forte proprio del suo “isolamento” naturale, chiede a sua volta di ripartire. Il governatore della Lombardia si dice pronto a dialogare con il governo, e annuncia che nel weekend inizieranno i lavori di una (ulteriore) cabina di regia con il ministro Francesco Boccia e i rappresentanti degli enti locali proprio per “discutere di quelle che possono essere le modalità di riapertura”. A quel tavolo Fontana porterà la sua proposta ad esempio di spalmare il lavoro non su 5 ma su 7 giorni per evitare congestionamenti dei mezzi pubblici in orari di punta. Mentre il governatore del Piemonte Alberto Cirio prepara la distribuzione di 5 milioni di mascherine in tessuto multiuso ai suoi concittadini prima di introdurre l’obbligo. L’andamento in ordine sparso delle Regioni agita anche la maggioranza, col viceministro M5S Stefano Buffagni che torna in affondo contro la Lombardia e chiede a Fontana di “non seguire gli annunci di Salvini” ma di sedersi con il governo a “lavorare in modo serio” e il Pd che si oppone a soluzioni a macchia di leopardo e chiede un intervento nazionale. Preoccupatissimi anche i sindacati che hanno chiesto un nuovo incontro al premier Giuseppe Conte per essere coinvolti nella preparazione della fase 2, invocando una “regia nazionale” sulla sicurezza dei lavoratori e il rispetto alla lettera del protocollo siglato a metà marzo”.

“L’ospedale in Fiera? Roba che fa ridere i polli…”

“È una cosa che fa ridere i polli”. Luciano Gattinoni, classe 1945, non ama i giri di parole: questa, per dire, è la prima cosa che dice se gli si chiede un’opinione sull’ospedale che Regione Lombardia ha voluto costruire alla Fiera di Milano. Per capirci sull’autorevolezza di quel che state per leggere bastano poche parole: Gattinoni è uno dei maggiori esperti mondiali di terapia intensiva e rianimazione, attualmente è guest professor a Gottinga, in Germania, e professore emerito alla Statale di Milano, ma per anni è stato primario al Policlinico, di cui fu anche direttore scientifico (si dimise in polemica con Sirchia, allora ministro di B.). Ecco allora, in breve, l’opinione del professore: “Cosa ne penso dell’ospedale? Quel che pensava Fantozzi della Corazzata Potemkin… Quella struttura non è medicina, è politica. Le do un titolo: è la Fiera della medicina o la Fiera delle vanità?”.

Ci spieghi.

Partiamo dai numeri. Tenga presente che per una terapia intensiva serve un infermiere ogni due letti. Da accordi sindacali in Italia per averli su 24 ore servono 7 infermieri ogni due letti (in altri Paesi si può scendere a 6,5 o a 6 ma non cambia molto): per un reparto con 100 posti fa 350 infermieri. I medici? Uno ogni 5 letti, sei medici per 24 ore, il che significa 120 medici. Ripeto: questo per 100 posti, non per duecento o cinquecento.

Al momento, tra infermieri e medici, in Fiera sono una cinquantina: magari ne troveranno altri…

Se vuoi fare una terapia intensiva ti servono medici di terapia intensiva. Centoventi medici specializzati per 100 posti: non ortopedici, fruttivendoli o che so io. Il training di un infermiere in terapia intensiva, prima di poterlo lasciar solo, dura sei mesi. Questo è quel che serve, sotto quegli standard possono chiamarlo come gli pare, ma non è terapia intensiva…

Poi c’è il tema dell’isolamento della struttura.

Certo, una terapia intensiva deve essere interna all’ospedale: ti può servire un cardiologo, il laboratorio, qualunque cosa…

E infine c’è il fatto che l’ospedale è vuoto…

Anche il timing è sbagliato. Si era partiti da 500 posti e oggi pronti sono 53 e occupati dieci o giù di lì, anche perché per fortuna i reparti, com’era prevedibile, si stanno svuotando. Per questo dico che non parliamo di medicina, ma di politica.

Dice che è uno spot che si sono fatti Fontana e soci?

Dico che non è medicina e che comunque gli spot sono pericolosi come i boomerang: rischi sempre che ti tornino tra i denti. Io tutti quei milioni di euro li avrei spesi in un altro modo.

Quindi secondo lei era meglio investire su una struttura stabile, magari potenziare un ospedale esistente?

Dico che in Regione c’era un Comitato tecnico-scientifico di cui, grazie a dio, non facevo parte: chiedetelo a loro se hanno raccomandato quella struttura. La domanda è: è stato il Comitato a influenzare la politica o viceversa? Le do un titolo: quella è la Fiera della Medicina o la Fiera delle vanità?

Salvini: “Zaia premier? È uno dei migliori, ma è una risorsa per il Paese in futuro”

Luca Zaia è bravo, sarà anche una risorsa nazionale, ma stia tranquillo. E al suo posto. Ovvero continui a occupare la poltrona dorata di Doge di Venezia, fuori dai giochi nazionali, nella periferia del Nordest dove si può anche essere il Numero Uno, senza fare però troppa ombra a Matteo Salvini. Nel rimbalzo tra un’intervista del Capitano su TVA Vicenza e la sede della Protezione civile a Marghera dove invece va in scena la conferenza stampa quotidiana del governatore leghista, si registra un duetto tutto interno alla nomenklatura di quello che un tempo era il Carroccio, poi Lega Nord, quindi Lega per Salvini premier. Per cui, pensare a un altro primo ministro, per giunta allevato alla scuola padana, non solo è una contraddizione in termini, ma è un’eresia politica, nonché un oltraggio da insubordinazione. Eppure le cronache del coronavirus ci stanno restituendo uno Zaia sempre più popolare, quale interprete del “modello veneto” che ha dato risultati ben più lusinghieri rispetto alla vicina Lombardia, ad analoga trazione leghista. In una parola, uno Zaia capace di superare in gradimento il suo segretario (sondaggio Demos di qualche giorno fa: Zaia 48%, Salvini 46%).

E così la domanda alla consueta conferenza stampa del governatore diventa ovvia. Cosa ne pensa Zaia del fatto che Salvini non abbia mai elogiato pubblicamente i risultati del Veneto? “Ma se lo sento tutti i giorni… se non ha detto… ha altro…”. Ma proprio Salvini, qualche ora prima, intervistato da TVA Vicenza, alla domanda se Zaia potrebbe essere un buon presidente del Consiglio, aveva risposto: “Zaia potrebbe fare benissimo tante cose, è uno dei migliori che abbiamo nella Lega. Ma è una risorsa in futuro, per tutto il Paese”.

Il capo leghista ha però detto anche qualcos’altro: “Quando ci saranno le condizioni sanitarie e sociali ci sarà il voto regionale e comunale. Per quanto riguarda Luca Zaia in Veneto – si può votare a luglio, a Ferragosto, a metà ottobre – senza essere veggenti, è facile prevedere che ci sarà un’ampia riconferma per lui e la sua squadra”. Un chiaro avviso. Resti a Venezia e non si faccia venire grilli per la testa. Dopo l’elezione del 2010 e la riconferma nel 2015, va bene il terzo mandato ai vertici della Regione Veneto. Ma la leadership leghista non è in discussione.

“La fase 1 qui non è finita. La rianimazione è piena”

Ospedale di Codogno, le 21 del 20 febbraio. Luogo, ora e data fissano l’inizio dell’emergenza Covid. A quasi due mesi da quel giorno si punta a uscire dal lockdown. Ci pensa anche la Lombardia nonostante i numeri del contagio qui siano da record mondiale. Il 4 maggio si riapre. È questo il mantra ripetuto dai vertici della Regione. Se così sarà bisogna chiarire un fatto: la fase 1 non è finita. Lo spiegano i numeri di ieri con i contagi in rialzo (+941) e i morti in minima diminuzione (4 in meno rispetto a mercoledì).

Lo racconta con chiarezza il professor Antonio Pesenti, primario al Policlinico di Milano e coordinatore di tutte le terapie intensive della Lombardia. “Oggi siamo ancora in piena emergenza sanitaria. Non solo, al momento non esiste una vera terapia per affrontare le fasi acute della malattia”. Pochi giri di parole, dunque. Pesenti taglia corto con modi tanto bruschi quanto chiari. Covid morde ancora, nonostante i numeri di poco al ribasso, nonostante la pressione al pronto soccorso sia leggermente diminuita. “Le terapie intensive – prosegue Pesenti – se prima erano al collasso, ora tirano un po’ il fiato”. Ma la vittoria è ancora lontanissima. “I numeri fotografano la realtà, e la realtà è che abbiamo ad oggi circa 150 posti di rianimazione in meno. Che però non sono stati smontati, ma restano in attesa. Quasi tutti i miei anestesisti a due mesi dall’emergenza sono occupati nei reparti Covid”. All’Asst Santi Carlo e Paolo la grande pressione si è spostata ora sulle terapie sub-intensive ricavate nei reparti di medicina generale. Di più: in Lombardia gli ambulatori ancora non hanno riaperto e le operazioni chirurgiche restano sospese. Ieri il vicepresidente del Consiglio regionale lombardo Fabrizio Sala ha ribadito: “Siamo ancora nella fase dell’epidemia”. Il rischio resta alto, come purtroppo anche la mobilità a Milano che ha superato il 42%.

Insomma la posizione del professor Pesenti è quantomai fondamentale per ripensare al meglio la fase 2 senza rischiare di ricadere nella burrasca. Anche perché non c’è vaccino, la durata degli anticorpi è tutta da studiare e soprattutto manca una cura. In due mesi di crisi la sezione lombarda della Società italiana malattie infettive e tropicali (Simit) ha pubblicato due vademecum terapeutici. Tra l’uno e l’altro le differenze sono minime a testimonianza di come la ricerca terapeutica stia ancora rincorrendo il virus. “Al momento – ci spiega il professor Pesenti – una terapia non esiste e tutti i medicinali che si citano in queste settimane non rientrano in un protocollo universalmente condiviso”. Tutto è in divenire. Per questo la fase 2 va ripensata con tanto sale in zucca. Nell’ultimo vademecum addirittura Simit sconsiglia l’uso della clorochina/idrossiclorochina (farmaco anti-malarico) “in profilassi per Covid-19” perché “non esiste alcuna evidenza di efficacia, pertanto questa strategia non è raccomandata”. Così come si indica un uso attento degli strumenti di ventilazione non invasiva, come mascherine e caschi. “Questi – spiega meglio Pesenti – non è che non servano, anzi. Il punto è un altro: c’è un momento in cui la conservazione dell’attività respiratoria danneggia il polmone e bisogna intubare”. Il resto del vademecum non conforta perché tutti gli antiretrovirali citati sono ancora in fase del tutto sperimentale come anche il Tocilizumab, l’anticorpo monoclonale che abbassa il livello di citochine la cui produzione diventa pericolosamente esponenziale in malati Covid con gravi difficoltà respiratorie. Sul fronte terapie, dunque, se non siamo al punto zero poco ci manca. “Buoni risultati – dice il professor Pesenti – li abbiamo avuti con l’uso delle eparine”. L’impiego di scoaugulanti del sangue evita trombi e ed embolie ai polmoni provocati dal virus. “Ma – avverte Pesenti – questi medicinali di uso comune non rientrano in un approccio terapeutico”.

La strada è ancora lunga, tanto più che in uno studio pubblicato il 13 aprile sulla prestigiosa rivista americana Journal of American Medical Association (Jama) si scrive esplicitamente: “La pandemia Covid-19 rappresenta la più grande crisi globale della salute pubblica di questa generazione. Attualmente non esistono terapie efficaci per il virus”. Una conclusione che dovrebbe essere oggi sui tavoli di chi in Regione Lombardia sta pensando di togliere il lockdown già dal 4 maggio.

Riaprire! L’inversione a U di Fontana in due giorni

L’interessato dice: “Assolutamente no”. Vogliamo fidarci di Attilio Fontana quando esclude categoricamente che Matteo Salvini abbia fatto pressioni su di lui per spingerlo ad abbracciare la narrativa della “fase 2”: cancelliamo dunque dai nostri appunti quanto sostengono fonti interne alla stessa Giunta lombarda, che descrivono l’avvocato varesino troppo prono, a differenza del collega veneto Luca Zaia, alle esigenze politiche del leader del suo partito. Tutta acqua della Fontana, insomma. Solo che il “governatore”, se la giravolta è tutta sua, dovrebbe spiegarla bene ai suoi concittadini: qualche giorno fa non si potevano aprire neanche le librerie, oggi tana libera tutti, salvo poi dire che sì, certo, con calma, adelante ma con juicio. Il breve regesto delle prese di posizione di Fontana lungo un mese spiega meglio di mille parole cosa va chiarito.

Eurochiusura. “È il momento che l’Europa dichiari la chiusura di tutta la parte produttiva” (16 marzo)

Ora basta. “Le nostre autorità sanitarie ci impongono di agire nel minor tempo possibile. La situazione non migliora anzi, continua a peggiorare”. Ne seguì la mitica ordinanza arrivata un paio d’ore prima del Dpcm del governo per chiudere cantieri, uffici pubblici, etc., ma non le aziende (21 marzo)

Vi vedo. “Oggi, non so se è una mia impressione, c’è troppa gente in giro” (30 marzo)

Nein! “Folle, insensata e irresponsabile”. Giulio Gallera, dopo una telefonata di Fontana alla ministra Luciana Lamorgese, contro la circolare del Viminale che predicava un po’ di tolleranza per chi portava fuori i figli piccoli vicino casa (1 aprile)

Guai a voi. “Bastano due giorni di notizie positive e provvedimenti che sembrano in senso più aperto e la gente pensa subito che sia finito tutto. Invece non è finito niente” (3 aprile)

Obbligo di sciarpa. In Lombardia è introdotto “anche l’obbligo per chi esce dalla propria abitazione di proteggere se stessi e gli altri coprendosi naso e bocca con mascherine o anche attraverso foulard e sciarpe” (ordinanza del 4 aprile)

Librerie. Il governo ha autorizzato l’apertura di librerie, cartolerie e alcune (poche) tipologie di aziende per martedì 14 aprile. La Lombardia, però, non ci sta e le richiude: “Sarà possibile acquistare articoli di cartoleria, di fiori e piante all’interno degli esercizi commerciali… già aperti” (ordinanza dell’11 aprile)

Contagio. “La libreria purtroppo uno la frequenta per sfogliare i libri, toccarli e poi rimetterli al proprio posto e questo può essere motivo di contagio” (12 aprile)

Milanesi nel mirino. “Ho sentito anche sui social la giusta rabbia di qualcuno che dice: a Milano c’è ancora troppa gente che si muove” (Giulio Gallera, 12 aprile)

Giù la cler. “Abbiamo chiesto insistentemente di poter tenere chiuso il maggior numero di negozi possibile” (13 aprile)

Peccato. “Aspetteremo quello che ci dicono i nostri esperti per capire: la curva sta rallentando, ma molto molto adagio. Io ero convinto che rallentasse più velocemente” (13 aprile)

Tutti dentro. “In Lombardia i numeri sono sempre costanti: non salgono ma non scendono. Siamo vicini all’inizio della discesa, se manterremo comportamenti virtuosi e rigorosi” (13 aprile)

La svolta/1. “Leggo ‘tutti fermi a casa fino a maggio’ e non è più sopportabile a lungo dal mio punto di vista” (Matteo Salvini, 14 aprile)

La svolta/2. “La Lombardia guarda avanti e progetta la nuova normalità. Dal 4 maggio la Regione chiederà al governo di dare il via libera alle attività produttive” (15 aprile)

Viva il caldo. “Lo dico senza valenza scientifica ma spero di non sbagliare: il caldo rallenterà il contagio e renderà il virus meno aggressivo. Mi auguro che il 4 maggio si possa cominciare una ripresa graduale com’è stato detto” (16 aprile)

N. B. Fontana è membro del Comitato per la fase 2 del governo che mira a riaprire gradualmente dal 4 maggio: quindi che vuole la Lombardia?