La quinta D

L’altra sera il sempre simpatico Beppe Severgnini sosteneva a Otto e mezzo che tutte queste critiche alla Regione Lombardia dipendono non dai disastri combinati dai suoi sgovenatori e sgovernanti, ma dall’astio del resto d’Italia verso i “primi della classe”. Certo, dev’essere imbarazzante – dopo una vita passata a esaltare le magnifiche sorti e progressive delle classi dirigenti lombarde, orgoglio e vanto della Nazione, ma che dico della Nazione, dell’Europa e del mondo, dal fascismo a Craxi, da Berlusconi a Salvini – scoprire che sono un branco di bauscia incompetenti e ultimissimi della classe, dai sindaci riformisti Sala&Gori ai pir(el)loni centrodestri Fontana&Gallera al duo confindustriale Bonomi&Bonometti.

Poi il sempre acuto Alessandro Sallusti argomentava che la curva dei contagi cala dappertutto fuorché in Lombardia perché la Lombardia ha i migliori governanti, ma purtroppo ha avuto “la sfiga del Coronavirus, come L’Aquila ebbe quella del terremoto”, neppure sfiorato dall’idea che il terremoto del 2009 colpì mezzo Abruzzo, mentre il Coronavirus ha contagiato il mondo intero. Certo, dev’essere imbarazzante, per chi è abituato a eseguire ordini, smettere improvvisamente di riceverne perché il padrone è fuggito in Costa Azzurra come il re e Badoglio a Brindisi dopo l’8 settembre 1943. Quella fuga gettò le truppe italiane nel caos più totale, che fece dire ad Alberto Sordi in Tutti a casa: “Signor colonnello, accade una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani!”. Ma conseguenze non meno incredibili ha avuto la fuga di B. sul povero Sallusti. Avremmo pagato oro per vedere la sua faccia mentre il padrone, senza dirgli nulla, telefonava dall’esilio a Floris per allearsi col Pd sul Mes, spargere latte e miele su Conte e dichiarare guerra ai suoi alleati Salvini e Meloni, la cui linea forsennatamente antigovernativa Sallusti aveva sin qui seguito, credendo di far cosa gradita. Noi, che in fondo ad Alessandro vogliamo bene, vorremmo pregare il fu Caimano di evitargli ulteriori sorprese, fra l’altro nocive alle coronarie, di non fargli mancare gli ordini e soprattutto di non esagerare con i contrordini. Come quelli che stanno costando la faccia, ove mai ne avesse una, ad Attilio Fontana, il noto cabarettista costretto ogni giorno a riportare fedelmente l’osso che gli lancia Salvini. Il mestiere di governatore da riporto è già abbastanza umiliante, senza bisogno che il Cazzaro Verde ci metta del suo con ordini schizofrenici. Nei giorni pari vuole chiudere tutto, in quelli dispari riaprire tutto.

Solo che lui, non avendo un mestiere, può dare fiato alla bocca senza conseguenza alcuna. Invece Fontana è un pubblico ufficiale, responsabile della sanità regionale in tandem con la sua spalla, al secolo Giulio Gallera. L’altro giorno i due attribuivano il record mondiale di morti e i numeri altissimi di contagi alla “troppa gente in giro”. E quando Conte ha riaperto le librerie, si sono affrettati a tenerle chiuse in tutta la Lombardia (invece le migliaia di fabbriche aperte in deroga ai divieti vanno benone). Poi l’altroieri, essendo giorno dispari (il 15), Salvini s’è svegliato riaperturista: “Gli italiani sono stufi di stare a casa”. E Fontana è scattato sull’attenti, annunciando che “dal 4 maggio la Lombardia riapre tutto” (incluse, pare, le librerie). Il sindaco Sala ha espresso stupore: “Ma come, meno di una settimana fa mi aveva chiesto un’ulteriore stretta su Milano!”. Beata ingenuità: quel giorno era il 10, pari, dunque Salvini era chiusurista. Come del resto ieri, giorno 16, infatti Fontana ha fatto retromarcia: la Lombardia non riapre più, al massimo socchiude. Oggi è di nuovo dispari, aspettiamoci novità.

Il guaio supplementare è che Salvini può sparare a salve senza argomentare (nessuno si aspetta da lui un minimo di logica). Invece un governatore, specie se ha la Finanza in casa e i pm all’uscio, qualche spiegazione deve darla. L’altroieri il povero tapino precisava che “il lavoro sarà scaglionato non su 5 giorni, ma magari su 7” (ma solo perché 8 non si può, altrimenti che settimana sarebbe). E “con orari di inizio diversi per evitare l’utilizzo eccessivo dei mezzi pubblici in determinate fasce” (soluzione avvincente: ogni negozio apre e chiude quando vuole e gli eventuali clienti indovinano). Poi una precisazione superflua: “Lo dico senza valenza scientifica (strano, per un premio Nobel, ndr), ma mi auguro, e spero di non sbagliare, che il caldo rallenterà il contagio e renderà il virus meno aggressivo (non è un amore? ndr). Mi auguro che chi dice questo abbia ragione (e, se poi ha torto, pazienza, ndr)”. Quanto alla strage nelle residenze per anziani, “non ho nulla contro le polemiche e le indagini. Ma forse sono state intempestive, si poteva aspettare di risolvere il problema” (lo dice pure Salvini, “È di cattivo gusto indagare proprio adesso”: meglio aspettare che i vecchietti siano tutti morti). E poi tenetevi forte: “Abbiamo posto alla base della ripresa le 4 D: distanza, dispositivi di sicurezza, diagnosi e digitalizzazione”. Ma allora è vero che è il primo della classe. Però è più forte di noi: mentre parlava delle 4 D, ce n’è subito venuta in mente una quinta… Sì, proprio quella: indovinato!

Solo i Diavoli possono cambiare il mondo

Invisibili, rigorosi, seducenti. I monaci-guerrieri altrimenti detti Diavoli (dell’alta finanza) ideati da Guido Maria Brera nel noto best-seller approdano sul piccolo schermo. Da domani sera, infatti, l’omonima serie tv targata Lux Vide e Sky sarà programmata su Atlantic e Now Tv. L’attesa è quella dei grandi eventi, a maggior ragione in epoca di forzate visioni domestiche dove il prodotto nuovo – e di qualità – deve distinguersi. E non c’è dubbio questi “demoni” della City non deludano le aspettative, almeno in termini di confezione impeccabile, coerente alle geometrie trasparenti di cui si edifica la New York-London Investment Bank che ospita le gesta dei due protagonisti: l’italiano d’adozione londinese Massimo Ruggero, giovane head of trading dal fiuto geniale e “che vive in anticipo” a cui dà corpo un convincente Alessandro Borghi (che parla in perfetto British English), e il suo mentore e capo, il potente ceo americano della Nyl Dominic Morgan, animato dal sorriso irresistibile di Patrick Dempsey.

Contesto realistico (siamo nel “critico” 2011 con Grecia affossata, scandalo Strauss-Kahn), intreccio accattivante, attori di bravura millimetrica, Diavoli è un thriller finanziario con le carte in regola per catturare un pubblico esteso e “viziato” dalle serie Usa e inglesi. Mai come in questo caso, infatti, l’abito fa il monaco, e il look patinato fatto di specchi illusori come i giochi di potere fa scordare comuni luoghi di italico provincialismo: l’effetto è una vendita internazionale a 160 territori. La speranza è che tutti i 10 episodi funzionino come i primi, scritti da un team attrezzato a parole – anche gergali – almeno quanto i trader in scena lo sono con cifre, proiezioni e investimenti. D’altra parte “chi controlla le parole controlla le cose” dichiara lo scrittore – private banker – economista italiano soddisfatto dell’adattamento televisivo della sua creatura letteraria. Creatura che per sua natura appare sintomatica al periodo surreale che stiamo vivendo: “perché la finanza, per quanto diabolicamente possa agire, è l’unica ad aver risposto istantaneamente alle esigenze primarie dettate dall’emergenza Covid-19: i suoi provvedimenti giusti o sbagliati che siano non conoscono le burocrazie della politica”. Non si fa retorica da pandemia nell’invocare la metafora chirurgica: maneggiando con sapienza il bisturi dell’alta finanza, questi specialisti non solo governano il denaro mondiale, ma dispongono delle sorti geopolitiche del pianeta. E forse non sarà un caso che la proprio ieri annunciata second season esattamente dall’effetto-Coronavirus aprirà le sue prime sequenze: per questi gentlemen glaciali, impercettibili e letali, il futuro è già presente.

“Leggete Mann: i potenti lasciano morire i poveretti”

Abbattere gli egoismi nazionali e rifondare un’Europa basata sulle persone: c’è anche Dacia Maraini tra le firmatarie dell’appello ai governi lanciato nei giorni scorsi dalle donne di Se non ora quando. L’occasione data dalla pandemia è quella di riappropriarsi di un senso comune: “Da anni – spiega Maraini – non sentivo nel nostro Paese un sentimento diffuso di solidarietà e voglia di appartenere a una comunità da curare e riportare alla vita”.

Signora Maraini, come sta vivendo questo isolamento forzato?

Durante il giorno non cambia molto, sono abituata a stare chiusa in casa da sola a scrivere. È la sera, quando finisco, che mi mancano il teatro, il cinema, le cene con gli amici. E poi i viaggi. In questo mese sarei dovuta andare in Spagna, in Austria, in Inghilterra, dove sono uscite le traduzioni di un mio libro.

Considerando la diffusione del virus in Lombardia, in molti hanno citato Manzoni. C’è un libro che le è venuto in mente con la pandemia?

La morte a Venezia di Thomas Mann, in cui, oltre all’amore platonico e straziante di un uomo anziano per un bellissimo giovane, si racconta della malattia in città. L’autore si sofferma con molta lucidità a parlare delle menzogne dei governanti che, pur di non turbare il turismo e gli affari, lasciano morire cinicamente molti poveri cristi, mentendo sulla gravità del fenomeno.

Quale classico consiglierebbe?

Boccaccio che parte sì dalla peste, ma poi fa un ritratto molto gioioso di un gruppo di giovani, sette ragazze e tre uomini, che si raccontano delle storie avventurose. Fra l’altro si suggerisce che il narrare nasce dalla bocca delle donne.

C’è una pubblicazione recente che le è piaciuta?

Un romanzo che mi ha sorpreso è L’ospite di una giovanissima autrice (19 anni) che si chiama Margherita Nani, e racconta la storia del mostruoso dottor Mengele che scappa in Brasile per sfuggire all’arresto e lì, costretto a fare una vita semplice aiutando i veri malati, qualcosa si smuove in lui. Si può guarire dal male? Si può pentire un torturatore assassino di bambini? Alla domanda non c’è risposta, ma è importante che ce la si ponga.

Trova analogie tra il periodo che stiamo vivendo e il Dopoguerra?

Qualcosa c’è, per esempio il senso di sconfitta e anche, per fortuna, la voglia di ricominciare.

Crede che, una volta passata l’emergenza, avremo imparato qualcosa?

Spero proprio di sì. Già è tanto l’essersi accorti che le città senza traffico migliorano immediatamente: sono sparite le montagne di immondizia e le polveri sottili che ci avvelenano tutti. Questo dovrebbe farci riflettere e cambiare ritmo.

Sarà difficile ripartire?

Sì, ma se saremo più poveri nascerà la voglia di riprenderci. Non faccio l’elogio della povertà, ma penso che eravamo viziati dal benessere che ci aveva addormentati. La povertà, non l’indigenza naturalmente, può spingere a lavorare con più energia e generosità per ricostruire un Paese alla deriva.

Le donne sono meno colpite dal virus. In attesa delle evidenze scientifiche, qualcuno ritiene che il genere femminile sia più “resistente”. Altri sostengono che le donne siano solo più ligie alle regole. Entrambe le ipotesi sono suggestive, non crede?

Anch’io mi sono chiesta il perché di questa differenza. Non credo che sia un fatto biologico, perché per quanto riguarda il cancro e le altre malattie non soffriamo meno degli uomini. In effetti le donne sono piu ligie, ma sappiamo che lo sono state in questa pandemia? Le risposte verranno a posteriori quando tutto sarà finito.

Ho letto una sua battuta a proposito degli audiolibri, “vanno benissimo se uno è cieco”. O non era una battuta?

La battuta è monca e così com’è risulta offensiva. Io ho detto che gli audiolibri vanno bene quando si hanno le mani occupate, per esempio durante la guida o per chi fa lavori di artigianato. E naturalmente, ho aggiunto, sono importantissimi per chi non vede. Questo per far capire che non si possono sostituire i libri nella loro corposa essenzialità. Gli audiolibri vanno benissimo, ma senza farne un feticcio e senza pensare che possano sostituire del tutto la lettura.

Al balcone con Giulietta nelle “Città invivibili”

I classici resistono al tempo, un po’ meno al Covid-19: il virus ha ridisegnato le nostre vite, perché non riscrivere allora quelle letterarie? Ecco una cernita semiseria di romanzi riveduti e corretti a causa della pandemia.

#iorestoacasa. Anche perché le Città invisibili sono diventate invivibili: niente bar, ristoranti, shopping e aperitivi; in giro non c’è un cane. Anzi, cani fin troppi: La passeggiata (© Walser) si può fare solo col quadrupede al seguito, alla peggio coi bambini. Va bene anche Lolita, ma giusto per le vie del quartiere: l’hotel dei “Cacciatori incantati” è stato sequestrato per ricoverare i malati. Il massimo del Grand Tour è quello di Zazie nel metro: è chiuso per sciopero, peccato, sarebbe stato vuoto comunque. Murakami suggerisce poi L’arte di correre intorno al cortile di casa, mentre la Woolf insiste sulla necessità di avere Una stanza tutta per sé, o con la quarantena si rischia una strage in famiglia: per chi ha una moglie pazza è consigliato tenerla sottochiave nel sottotetto, come il signor Rochester dell’amabile Jane Eyre. Soprattutto perché lo strangolamento della consorte è vietato dal Dpcm, se non si sta almeno a un metro e ottantadue di distanza, braccia che manco il nerboruto Otello può vantare.

Ah l’amour. Romeo e Giulietta stanno ancora aspettando di sapere come si chiamano: lei è perennemente affacciata al balcone, ma nel baccano del dj-set dai davanzali non sente le dolci parole dell’amato. Però almeno si evita una tragedia. Lo scambio di coppia non è più tollerato, nemmeno nel Veneto di Shakespeare dal lockdown soft: la scusa delle Affinità elettive – per vedere l’amante – vale solamente nell’autocertificazione tedesca. Le relazioni pericolose si possono intrattenere soltanto su Zoom e quelle extraconiugali col sexting, tipo le Lettere di Eloisa e Abelardo. Attenzione, infine, alle adultere aspiranti suicide, come Anna Karenina e Madame Bovary: tolti gli amplessi in carrozza, potrebbero commettere gesti estremi.

Amici (cani esclusi). Al telefono o su Skype, La voce umana non si può più sentire: le pene d’amore delle amiche, le aperi-chat con gli amici, i pettegolezzi delle madri hanno stancato. Meglio una Conversazione in Sicilia con la portinaia. E con la mascherina. Addio ai party da Grande Gatsby, ma pure ai salotti troppo affollati di anarchici, bombaroli e Demoni.

Chi non lavora… Per gli operai nelle fabbriche sono sempre Tempi difficili: prima venivano chiamati in tono dispregiativo “le mani”, ora non si notano più neanche quelle, nascoste come sono dai guanti. E in campagna i contadini e i braccianti rischiano di far la fine delle Anime morte del nuovo feudalesimo. Al contrario, l’agiato furbastro Bel-Ami, giornalista arrivista, non si rassegna allo smart working, davvero inadatto per lisciare i capi e fare così carriera. Anche Bartleby lo scrivano preferirebbe di no, e infatti non fa niente: non lavorava in ufficio, figuriamoci a casa. Attori, registi, artisti, comparse, professionisti e maestranze dello spettacolo soffrono moltissimo: coi cinema e i teatri chiusi sono tutti a spasso, si fa per dire, persino gli spettatori flirtanti in platea e nei palchetti, come l’Anonimo lombardo di Arbasino che rimorchia un giovinetto “dalle dure linee del corpo” tra la “folla eccitata” a una prima della Scala. Gli sportivi, calciatori soprattutto, si son beccati la Febbre a 90°: stop agli allenamenti in attesa dei risultati del tampone. Due-tre mesi circa. Dalla circolazione son sparite pure le prostitute: la Signora delle camelie si rilassa i nervi stirando e Moll Flanders si è riciclata come cam-girl. In compenso, prosperano i negozi dell’e-commerce, dove la Colazione da Tiffany viene via per pochi spiccioli, consegna inclusa. Allegro è infin Pinocchio: non può uscire col Gatto e la Volpe, ma almeno non deve andare a scuola. Gli basta far finta di seguire la Dad (didattica a distanza, ndr): quella italiana è rinomata in tutto il mondo che sta al di là della banda larga.

No, viaggiare. Paura e delirio a Las Vegas: in giro ci sono solo gli zombie e in laguna è La morte a Venezia. Volare è proibitivo: addio amplessi in aereo come la lasciva Emmanuelle e la Gente di Dublino non è mai uscita da Dublino. America primo amore, ma anche l’ultimo: difficile replicare la crociera di Mario Soldati che sbarcò a New York festante, “in mezzo a una folla infuriata e urlante”. Purtroppo del Vecchio e il mare è rimasto solo il mare, Palomar invece può ancora ammirare sulla spiaggia i seni nudi delle bagnanti: si notano soltanto quelli perché le facce sono coperte dalle mascherine Ffp2 o Ffp3. Hemingway ci aveva visto giusto, quandò lasciò incompiuto Il giardino dell’Eden, romanzo erotico-sentimentale sulla Costa Azzurra nei suoi anni migliori, i Venti del Novecento: i Venti del Duemila si aspetta solo che finiscano. Sulle coste semi-deserte migliora però il tasso di omicidi: oggi il signor Meursault di Camus verrebbe inseguito da un drone e linciato prima di uccidere Lo straniero e i Corpi al sole nei box di plexiglass sono inespugnabili per qualsiasi assassino. Pure la vecchia di Delitto e castigo è stata ricoverata nottetempo; così niente delitto né castigo.

I sommersi e i salvati. Sostiene Thomas Mann che persino il sanatorio è meglio delle Rsa (Residenze sanitarie assistenziali, ndr): quelle italiane sono rinomate in tutto il mondo che sta al di là della Padania, un mondo in cui si vede ancora la Montagna incantata o si fa un bel Respiro con l’altro Thomas, Bernhard. Chi non si lamenta dell’isolamento e dell’inerzia forzata sono gli scansafatiche nati, tipo Oblomov o Des Esseintes, uno che è sempre Controcorrente e infatti va a fare jogging proprio ora che è vietato. Ma i più tranquilli di tutti, serafici e appagati, restano i consumatori di Serotonina: ormai in farmacia spacciano qualunque cosa.

“Assange è il padre dei miei figli: rischia di nuovo la morte”

Julian Assange non è uno a cui piace apparire fragile. Deve essere stata solo una preoccupazione estrema ad aver spinto la sua compagna, Stella Morris, a uscire fuori dall’anonimato pochi giorni fa e a rivelare che non solo dietro Mr. Wikileaks c’è un uomo di famiglia con due bambini piccoli, ma anche che la sua salute è a pezzi. Ora, a questo quadro già serissimo, si aggiunge il rischio che venga infettato dal coronavirus dentro la prigione di Belmarsh, a Londra, in cui rimane recluso, dopo che due settimane fa il giudice Vanessa Baraitser gli ha negato la possibilità di essere rilasciato.

Il Fatto Quotidiano ha avuto accesso esclusivo alle dichiarazioni della compagna di Julian Assange davanti alla Woolwich Crown Court di Londra – che deve decidere se accogliere la richiesta di estradizione delle autorità Usa – a comunicazioni interne delle autorità inglesi che abbiamo ottenuto con il Freedom of Information Act e infine ai file dello spionaggio dell’azienda spagnola di security, Uc Global, contro Julian Assange, quando si trovava dentro l’ambasciata dell’Ecuador. I documenti lasciano emergere le condizioni sempre più estreme del fondatore di Wikileaks.

L’isolamento, il rischio suicidio e il coronavirus. “Il periodo più difficile a Belmarsh è stato quando Julian Assange è rimasto per mesi nell’infermeria in isolamento per gran parte del tempo. Per lui l’isolamento e il rischio di rimanerci è terrificante”, scrive Stella Morris nella sua dichiarazione al giudice. “Ho temuto per ragioni fondate di poterlo perdere per il rischio di un suicidio, nel caso in cui non ci fosse modo di fermare la sua estradizione negli Usa”, Morris continua, “oggi io temo di perderlo per un’altra ragione anche più imminente: il virus. Conosco molto bene le sue condizioni di salute che posso descrivere nel dettaglio. L’ho osservato in molte occasioni quando nell’ambasciata lottava per la sua salute fisica e mentale. Quando si trovava nell’infermeria (del carcere di Belmarsh, ndr), stava in una cella singola per molti mesi, in completo isolamento a eccezione di poche ore. Ho notato come la sua mente non poteva più funzionare in modo coerente, e in quel periodo l’ho descritto come ‘spento… un fiore che appassiva’. Non c’è dubbio che se questa esperienza dovesse ripetersi ancora, sarebbe eccezionalmente preoccupante. È un fatto noto che questa crisi del coronavirus richiederà l’isolamento (dei carcerati)”.

Il fatto che neppure in queste condizioni eccezionalmente serie il fondatore di WikiLeaks verrà rilasciato dalle autorità inglesi non è una sorpresa per chi ha indagato il suo caso. I documenti che abbiamo ottenuto grazie al Freedom of Information Act dimostrano fin dall’inizio l’indifferenza delle autorità inglesi di fronte al collasso della salute di Assange.

Assange ha sempre protetto la sua vita privata. Chi scrive ha lavorato come media partner per undici anni a tutti i documenti segreti di Wikileaks e ha incontrato lui e i giornalisti dell’organizzazione decine di volte. Stella Morris è stata una presenza regolare dentro Wikileaks fin dal 2011, diversi media partner potevano intuire una relazione sentimentale tra i due, ma nessuno di noi ha mai saputo che avessero due bambini piccoli. Morris ha lavorato per anni al caso legale del fondatore di Wikileaks e ha un notevole formazione accademica. Una laurea in Legge e Scienze politiche alla prestigiosa London’s School of Oriental and African Studies (Soas) e un Master of Science in Forced Migrations al Refuge Studies Centre (Rsc) di Oxford. Il direttore dell’Rcs di Oxford, Matthew Gibney la descrive così al Fatto Quotidiano: “Era seria, determinata, matura e intelligente. È arrivata a Oxford con un’importante esperienza pratica perché aveva lavorato nell’Ufficio del presidente di Timor Est nei primi anni del 2000”.

Nonostante i tentativi di Julian Assange di proteggere la sua intimità, i video e le email dello spionaggio dentro l’ambasciata portato avanti dall’azienda di security spagnola Uc Global, dimostrano che ogni aspetto della sua vita è stato osservato e registrato. Anche ogni minuto di quell’Assange sconosciuto: il padre di famiglia.

“Qui terapie intensive a punti: fuori anziani e chi ha altre malattie”

È un operatore sanitario in un grosso gruppo ospedaliero del servizio sanitario pubblico britannico (Nhs) ed è diventato il punto di riferimento per centinaia di colleghi italiani impegnati in prima linea nel contrasto al Covid-19 in tutto il Regno Unito. Preferiamo non pubblicare il suo nome perché l’Nhs sanziona interviste e dichiarazioni alla stampa.

Qual è la fotografia della situazione?

Simile per molti aspetti a quella italiana di qualche settimana fa, riflesso del fatto che i sistemi sanitari si somigliano. La prima Caporetto è stata quella dei medici di famiglia, troppo pochi e con strutture depauperate da anni di tagli: avrebbero dovuto fare da filtro fra l’epidemia e la popolazione e invece si sono trovati loro per primi sguarniti di materiale protettivo. E poi c’è stata un’enorme confusione: linee guida sulle protezioni personali ospedaliere cambiate almeno 4 volte, interventi a macchia di leopardo, con alcuni trust preparati e forniti di Ppe e altri in cui la caposala imponeva al personale di togliere le mascherine per non spaventare i pazienti.

E i ventilatori? Quelli ordinati a Dyson un mese fa non sono ancora stati approvati dal regolatore britannico.

Non mi risulta che ci siano carenze di ventilatori per il momento e credo che il motivo sia questo: il 20 marzo sono state introdotte linee guida ufficiali basate sulla Clinical Frailty Scale, una “valutazione di vulnerabilità” a punti. Lunedì sono state inserite delle specifiche: un punto per il diabete, uno per l’ipertensione, con l’età fra i fattori determinanti. Gli ultra-sessantacinquenni, per esempio, sono considerati a rischio e se hanno altre patologie, in terapia intensiva spesso neanche ci arrivano. Restano nei reparti. L’Italia l’ha pagata cara, ma è stata molto più generosa nel tentativo di salvare tutti.

Cioè oltre una certa età i contagiati non entrano nemmeno se in terapia intensiva c’è posto?

Dipende dai casi ma sì, possono non entrare nemmeno se c’è posto, per tenere il letto per pazienti più giovani e sani e con maggiori possibilità di sopravvivenza. Se non ci fosse un filtro così severo all’ingresso saremmo travolti, visto che abbiamo meno letti che in Italia.

Ma i nuovi ospedali come il Nightingale, quello costruito in nove giorni?

Aiutano naturalmente. Ma, per esempio, mi risulta che lì vengano mandati casi meno gravi, perché le autorità hanno capito che se fosse diventato un lazzaretto proprio il Nightingale, così al centro dell’attenzione, si sarebbe trasformato in pessima pubblicità per il governo.

La conta dei decessi è realistica?

No, c’è il buco nero delle case di riposo, dove non ci sono protezioni, il personale è tragicamente impreparato e la popolazione anziana, vulnerabile ed esposta. Ma gli anziani, purtroppo, sono considerati sacrificabili. E poi c’è il punto di domanda dei “guariti”. Pensiamo che, come in Italia, alcuni vengano mandati in convalescenza nelle case di cura, ma non sono mai stati censiti. Quindi non possiamo tracciarli né capire cosa funziona.

L’Nhs ha un problema cronico di carenza di personale, aggravato dall’esodo di infermieri e medici europei dovuto a Brexit. Come si sta risolvendo?

Con l’invio in terapia intensiva di personale senza il training necessario anche se coordinato da colleghi più esperti. Fanno supporto, ma lo standard di cura non è quello che dovrebbe essere.

Cosa le sembra del decorso di Boris Johnson? Ha davvero lottato per la vita?

I tempi del ricovero ci dicono che è stato male, ma mai in fin di vita. Sarebbe stato intubato e invece gli è stato somministrato ossigeno tramite ventilazione non invasiva. Le ricostruzioni che leggo sono false.

Questa è l’Nhs che lei si aspettava quando è arrivato?

Io e molti colleghi pensavamo di avere da imparare; invece abbiamo scoperto di avere una preparazione molto superiore a quella degli inglesi, in un sistema un po’ più omogeneo di quello italiano, con meno differenze fra regioni, ma per il resto simile. Resteremo per far fronte all’emergenza, ma poi, dopo la mazzata psicologica della Brexit e dopo aver visto tanta impreparazione, saremo in molti ad andarcene.

Distrazione Trump: basta fondi all’Oms, meglio lo sport

Donald Trump ha azzeccato una di quelle mosse che fanno l’unanimità: contro. Il taglio dei fondi degli Usa all’Oms gli vale una valanga di critiche, a partire dal commento di Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Uniti: “Non è proprio il momento di ridurre le risorse dell’Oms”, nel pieno della pandemia da coronavirus. Critiche arrivano da Mosca e da Pechino, da Bruxelles e da Parigi e Berlino.

L’Organizzazione mondiale della sanità, un’Agenzia dell’Onu con sede a Ginevra, è colpevole, secondo Trump, d’avere insabbiato la diffusione del coronavirus, d’avere commesso errori costati vite umane e, soprattutto, di tenere bordone alla Cina nelle dispute con Washington. Nella giornata di martedì 14 aprile, i morti da coronavirus nell’Unione sono tornati a essere oltre duemila – 2.228 –, i deceduti sono oltre 26 mila e i contagi hanno superato quota 610 mila, su un totale mondiale di oltre due milioni, secondo i dati della Johns Hopkins University. Trump, ora, dice di sperare che i morti, a conti fatti, siano meno di cento mila. Gli Usa sono il principale contribuente dell’Oms: ne coprono circa il 15% dei costi, meno di quanto asserisce Trump, che ha l’esagerazione facile. Si tratta, comunque, di 893 milioni di dollari tra fondi pubblici e privati, stando ai dati sul sito dell’Organizzazione, riferiti al biennio 2018-’19. La Cina sta molto più giù nell’elenco dei donatori, con circa 85 milioni di dollari. Il contributo dell’Italia è stato di 59,4 milioni. La mossa di Trump anti-Oms e la guerra ai governatori sulla rimessa in moto dell’Unione, che non avverrà prima di maggio, suonano la fine della ricreazione per i Democratici che, ricompattatisi dietro Joe Biden, loro candidato alla Casa Bianca, tornano ad attaccare il presidente. Nancy Pelosi, la speaker della Camera, scrive ai deputati che l’“incompetente reazione” di Trump all’epidemia “è un disastro e mette a rischio le vite degli americani. È un leader debole, scarso, che non si assume responsabilità e che scarica le colpe” sugli altri. Dopo gli endorsement a Biden di Sanders lunedì e di Obama martedì, l’unificazione dei Democratici dietro l’ex vicepresidente si completa con l’endorsement di Elizabeth Warren, che in un tweet dice d’essere “orgogliosa” di appoggiare Biden, lodandone empatia, integrità e competenza. Trump fa sapere che è stufo di vedere in tv vecchie partite e che vuole che lo sport riapra.

Il “contagio cinese” schiaccia l’africa

Come dappertutto, più o meno nelle ultime tre settimane in molte Capitali africane è emersa una tendenza comune. Chi aveva prenotato viaggi, per lavoro o per svago, annulla i voli; le aziende chiedono ai lavoratori di rimanere a casa e, in alcuni casi, riducono i contratti di lavoro.

Una crisi sanitaria globale, che in apparenza ha colpito l’Africa meno che la Cina e i Paesi del Nord, si sta trasformando per questo continente e per molte altre nazioni a medio e basso reddito in una crisi sociale ed economica. L’economia africana è stata “contagiata”. La perdita di reddito, causata da una pandemia come quella del Covid-19, può tradursi rapidamente in picchi di povertà, in cibo carente per i bambini, in un limitato accesso a servizi fondamentali per l’esistenza, come l’assistenza sanitaria, l’acqua e la casa. Sul versante della domanda, le conseguenze più immediate per l’Africa, in seguito all’impatto economico del Covid-19, riguardano il commercio. La Cina infatti è il suo più grande partner commerciale. Ne ha subito risentito la domanda delle materie prime africane. Gli importatori cinesi stanno annullando gli ordinativi in seguito alla chiusura dei porti e in conseguenza della riduzione dei consumi in Cina. Oltre tre quarti delle esportazioni africane verso la Cina e verso il resto del mondo riguardano le risorse naturali: qualsiasi riduzione della domanda si ripercuote sulle economie di gran parte del continente, dal momento che la principale fonte di valuta estera di alcuni Paesi è costituita dalle loro esportazioni verso la Cina. Stati come l’Angola, la Repubblica Democratica del Congo, lo Zambia, lo Zimbabwe, la Nigeria e il Ghana sono significativamente messi a rischio dal crollo delle esportazioni di materie prime industriali, come il petrolio, il ferro e il rame. I detentori di questi prodotti sono costretti a venderli altrove a un prezzo scontato. Adesso che il Covid-19 si è diffuso anche nei Paesi del Nord, in particolare bloccando quelli europei – che per l’Africa sono partner commerciali essenziali –, gli Stati africani hanno subìto un secondo contraccolpo.

Sul versante dell’offerta, un rapido sguardo alle importazioni africane rivela che i macchinari industriali, le manifatture e i mezzi di trasporto rappresentano oltre il 50% del fabbisogno combinato dell’Africa. Attualmente le importazioni dall’estero costituiscono più della metà del volume totale delle importazioni nei Paesi africani: i fornitori più importanti sono in Europa (35%), in Cina (16%) e nel resto dell’Asia, in particolare l’India (14%). Ne consegue che il lockdown causato dal Covid-19 porterà a una diminuzione della disponibilità di manufatti importati in Africa non soltanto dalla Cina, ma anche dall’Asia e dall’Europa. Sul versante della domanda, le esportazioni africane verso l’Europa si sono ridotte. Lo Standard Newspaper, un giornale del Kenya, ha riferito che al 12 marzo le vendite di prodotti freschi dal Kenya hanno subìto una pesante battuta d’arresto dopo le improvvise cancellazioni dei voli: una di queste ha lasciato marcire dieci tonnellate di fiori. Il quotidiano informava che quella singola spedizione valeva circa 12 milioni di scellini kenioti (120.000 dollari americani). Per il Kenya, dopo le rimesse in denaro, i fiori sono la più grande fonte di valuta estera, con un introito, lo scorso anno, di oltre 120 miliardi di scellini (1,2 miliardi di dollari).

In Africa l’impatto globale del virus si risolve in un contraccolpo diretto sulle economie locali, ovvero su quel bacino di microimprese che ne costituisce la componente più ampia, popolarmente nota come “settore informale”. Le merci importate dalla Cina e rivendute da piccoli dettaglianti dominano i mercati informali africani. Nel continente, questo genere di attività è una fonte di sostentamento per molti. Molti commercianti sono preoccupati del fatto che i prodotti provenienti dalla Cina, che già scarseggiano, presto si esauriranno completamente. “Potremmo riuscire a reperire le nostre forniture da altri Paesi, per esempio da Dubai”, ha detto Catherine Wachira, imprenditrice di Nairobi. Ma alcuni prodotti non si possono trovare a prezzi ragionevoli né a Dubai né altrove. Catherine va in Cina più volte all’anno per comprare apparecchi elettronici, cosmetici e prodotti di bellezza per capelli. Ora questo non è più possibile. “A Nairobi e in diverse altre città africane, le scorte di alcuni prodotti provenienti dalla Cina, compresi i generi alimentari, sono già state decimate, facendo lievitare i prezzi”, ha affermato Waweru, presidente della Nairobi Traders Association. Scarseggiano sempre di più i prodotti elettronici. “È molto difficile rimpiazzare i cinesi”, ha osservato un imprenditore locale. Le piccole imprese nigeriane sono a loro volta tra le più colpite. Si dice che nessun Paese africano consumi tante merci cinesi quanto la Nigeria. Racconti simili vengono dallo Zimbabwe.

Le ripercussioni più gravi – come detto – riguardano l’economia informale, che è la principale fonte di sostentamento per la maggior parte degli africani. Finora le analisi si sono per lo più concentrate sull’impatto della crisi sull’economia tradizionale: compagnie aeree, commercio, infrastrutture, energia, assicurazioni, industrie e così via. Ma in Africa l’economia informale è un enorme serbatoio di reddito. L’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) stima nella percentuale del 41% del Pil la dimensione media dell’economia sommersa nell’Africa subsahariana. Essa va da meno del 30% in Sudafrica fino al 60% in Nigeria, Tanzania e Zimbabwe. Dà lavoro a moltissime persone. Rappresenta circa i tre quarti dell’occupazione non agricola e circa il 72% dell’occupazione totale subsahariana.

Questa situazione sta aggravando il problema della povertà in Africa. Oggi un africano su tre, cioè 422 milioni di persone, vive sotto la soglia globale di povertà. Desta preoccupazione anche il rischio che l’impatto economico del Covid-19 possa rapidamente invertire il corso dei progressi compiuti negli ultimi 10 anni nella lotta alla riduzione della povertà. Secondo le proiezioni del World Data Lab, alla fine del 2019 il numero degli africani uscito dalla povertà estrema era cresciuto. Tuttavia il ritmo di questa tendenza era stato ritenuto ancora minimo. Le previsioni dicevano che sarebbe aumentato, ma con la crisi attuale la tendenza dovrebbe ridursi ulteriormente, se non invertirsi. Che cosa dovrebbero fare i Paesi africani per ridurre l’impatto economico del Covid-19? In primo luogo, affrontare la pandemia. Contenere la malattia è il primo passo per mitigarne non soltanto le conseguenze sulla salute, ma anche i riflessi economici. Le popolazioni devono essere sensibilizzate sul da farsi. Le immagini televisive del presidente Kagame che mostra come disinfettarsi le mani ne sono un ottimo esempio. Il fatto che la diffusione del virus in Africa sia ritardata e più lenta che altrove è una benedizione di cui i governanti africani dovrebbero approfittare. È un dato positivo che la Banca mondiale abbia già messo a disposizione circa 12 miliardi di dollari, e che il Fondo monetario internazionale abbia stanziato un prestito di 50 miliardi. In secondo luogo, si dovrebbe rafforzare la rete di welfare. Pertanto i governi devono assicurarsi di approntare una rete di sicurezza economica: trasferimenti diretti di denaro, malattia retribuita, copertura sanitaria agevolata. E devono aggiungervi adeguati supporti per aiutare a sopravvivere i più vulnerabili e le piccole imprese messe in ginocchio dalla carenza di forniture provenienti dalla Cina. In terzo luogo, va promossa la raccolta dei dati. C’è chi ha suggerito di organizzare una raccolta di dati essenziali, come venne fatto durante l’epidemia di Ebola del 2014-15. In Sierra Leone e in Liberia i ricercatori utilizzarono inchieste telefoniche per raccogliere in tempo reale informazioni riguardanti le ripercussioni della malattia. Sarà possibile aiutare i più vulnerabili soltanto se l’acquisizione dei dati necessari riuscirà a quantificare attendibilmente gli effetti della pandemia.

Bonini e il jolly dell’abisso a 5S

Ma che bellal’intemerata di Carlo Bonini, fresco vicedirettore di Repubblica, contro i pirati del web che riescono a far leggere i giornali senza pagare neppure un centesimo. Niente da dire, anzi. Possiamo solo ringraziarlo, visto il mestiere che facciamo. Qualcosa che Bonini descrive con grande maestria (una sola domanda, però: perché, una volta tanto, ha rinunciato a quella sua inseparabile immagine dell’abisso nel quale, di volta in volta, fa precipitare la politica italiana, la Roma della Raggi, i carabinieri del Noe e i pm napoletani che indagano su Consip e papà Renzi, Mifsud e il rapporto Barr?). Non c’è dubbio, quell’edicola virtuale e canaglia danneggia “novantamila lavoratori di un’industria che vede amputati i suoi i ricavi complessivi tra i 250 milioni e il miliardo di euro annui” e attenta “a un bene costituzionalmente protetto: il diritto a un’informazione libera e plurale”. E di chi è la colpa poi? “Della tracotanza che accompagna ogni parassita, dell’ignavia di un pezzo della politica e della classe dirigente del Paese che rivendica l’informazione a scrocco come ‘solidarietà creativa’ e considera il copyright il Diavolo (un po’ come i no vax i vaccini)”. Ma sì Bonini, ammettilo, è più forte di te: hai resistito e resistito, poi alla fine quell’abisso che hai stampato nel cervello è saltato ancora una volta fuori: tutta colpa dei Cinquestelle.

Ospedale in Fiera, l’immagine “glam” di una disfatta

L’ospedale alla Fiera di Milano doveva essere il simbolo dell’intervento virtuoso della Regione Lombardia contro l’epidemia. Si sta trasformando nel suo opposto: il simbolo della disfatta lombarda. Intendiamoci, ci sono colpe ben più gravi imputabili a chi ha le responsabilità politiche e amministrative di gestire il contrasto al Covid-19, e cioè il presidente Attilio Fontana, l’assessore Giulio Gallera e il suo direttore generale Luigi Cajazzo. Sono colpe in gran parte indicate non da astiosi avversari politici, ma dagli Ordini dei medici lombardi: “Assenza di strategie nella gestione del territorio”, “sanità pubblica e medicina territoriale trascurate e depotenziate”, “non-governo del territorio con saturazione dei posti letto ospedalieri”, “tamponi solo ai ricoverati e diagnosi di morte solo ai deceduti in ospedale”, “incertezza nella chiusura di alcune aree a rischio”, tipo Alzano Lombardo-Nembro, “mancata fornitura di protezioni individuali ai medici e al personale sanitario che ha determinato la morte o la malattia di molti colleghi”, “gestione confusa delle Rsa e dei centri diurni per anziani che ha prodotto diffusione contagio e triste bilancio di vite umane”, 600 morti nella sola provincia di Bergamo, 2 mila in tutta la regione.

Detto questo, per cercare di far dimenticare la terribile, epocale disfatta di quella che veniva narrata come l’“eccellenza sanitaria lombarda”, il duo Fontana-Gallera – persa ignominiosamente, a monte, la battaglia di Caporetto ¬ ha puntato tutto sull’intervento, a valle, dell’ospedale Covid della Fiera. La linea del Piave. Non abbiamo saputo fermare i contagi alla partenza, ma facciamo un super-hub della terapia intensiva per ospitare e salvare i contagiati. Operazione anche (non solo, ma anche) d’immagine, alla milanese, con gran lavorio delle pierre e degli esperti di comunicazione, annunci mirabolanti e rotonde promesse, numeri sparati al rialzo, San Bertolaso come nume tutelare, grandi firme come finanziatori, Cracco in cucina sorridente come nello spot della Scavolini, inaugurazione tecno-glam. Ma chi si loda s’imbroda, o – come dicono a Milano – “Fa no il bauscia!”. Fontana aveva annunciato un super-ospedale da 600 posti, poi diventano 400, poi 200, infine 157. Oggi i posti pronti sono 53, i pazienti sono dieci (10). Spesa 21 milioni di euro.

Era il 12 marzo quando Gallera aveva lanciato la sfida: “I cinesi a Wuhan ci hanno messo dieci giorni a costruire un ospedale? I lombardi ne impiegheranno sei”. Sarà inaugurato il 31 marzo (19 giorni dopo) e i primi tre (3) pazienti arrivano il 6 aprile (25 giorni dopo). È finito comunque fuori tempo: in questi giorni le terapie intensive si svuotano (per fortuna, e speriamo non tornino ad affollarsi). Ma da subito molti specialisti avevano sconsigliato l’operazione. Qualcuno racconta che il professor Alberto Zangrillo se ne sia andato da una riunione in Regione sbattendo la porta. E Giuseppe Bruschi, dirigente medico del Niguarda, spiega: “Una terapia intensiva non può vivere separata da tutto il resto dell’ospedale”, perché il Covid provoca complicazioni su cui è necessario intervenire d’urgenza che non sono solo polmonari, ma cardiovascolari, nefrologiche, neurologiche…

Intanto, in silenzio, senza glamour, senza Cracco e senza inaugurazioni, gli Alpini hanno fatto un padiglione a Bergamo con 140 letti e tutti gli ospedali hanno incrementato i posti di terapia intensiva. Il trio Fontana-Gallera-Cajazzo ha fatto invece l’ospedale glam della Fiera, che sarà studiato come case history della disfatta nella nuova Milano da bere.