René Robert, fotografo del flamenco, morto assiderato dopo caduta in strada

È stato il fotografo del flamenco. Nei suoi scatti – in oltre 50 anni di carriera – Paco de Lucia, Fernanda de Utrera, Pastora Galván… René Robert è morto di ipotermia a Parigi, all’età di 85 anni, dopo aver passato nove ore su un marciapiede vicino Place de la République in seguito a una caduta, senza che nessuno lo aiutasse.

 

Dal Cremlino Lavrov: “Usa e Nato ignorano le nostre preoccupazioni”

“Nessunarisposta positiva” alle richieste russe era contenuta nel documento consegnato da Washington al Cremlino per far cessare la crisi tra i due Stati ex sovietici, hanno riferito ieri le autorità di Mosca. Al contrario del ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kouleba, che ha riferito di aver visto la risposta Usa e di ritenersi “soddisfatto”, la Federazione non ha ottenuto quello che voleva riguardo l’espansione della Nato a est, ha detto il ministro degli Esteri russo Serghey Lavrov, ma “c’è speranza per l’inizio di un dialogo almeno su questioni secondarie”. Quella principale è l’inammissibile espansione dell’Alleanza Atlantica e il dispiegamento di armamenti in territori che minacciano la Federazione: “Il diritto di scegliere alleanze e rafforzare la propria sicurezza è condizionato dagli interessi di sicurezza degli altri Stati“, ha detto Lavrov. Secondo Dmitry Peskov, portavoce di Putin, il presidente e il suo governo hanno già letto il documento inviato da “Washington”, ma “ci vorrà del tempo per analizzarlo e non si salterà a conclusioni affrettate“. Negli ultimi giorni di crisi sono sfumati 28 miliardi di dollari, è crollato il valore delle aziende russe e il rublo si è avvicinato ai minimi storici.

Biden contro Putin: sul ring anche Turchia e Cina come “arbitri”

Nella crisi ucraina, i cui tempi si allungano e le cui tensioni si stemperano un po’, Cina e Turchia si propongono come mediatori: teoricamente, hanno il vizio d’origine di essere di parte, con Pechino più vicina a Mosca che all’Occidente e Ankara dentro la Nato; ma pragmatismo cinese e disinvoltura turca consentono di superare l’ostacolo. I presidenti cinese Xi Jinping e turco Recep Tayyip Erdogan vedono un tornaconto nell’offrirsi come arbitri. Xi, che si muove con maggiore discrezione, può saggiare la fermezza degli Stati Uniti e dei loro alleati e l’effettivo decisionismo di Joe Biden, in funzione della questione Taiwan, oltre che dei futuri negoziati commerciali. Erdogan, con la consueta spregiudicatezza, fa senza imbarazzi il doppio gioco: sta nella Nato e vende droni a Kiev, irritando Mosca e traendo profitto dal rispetto delle direttive atlantiche, ma compra sistemi antiaerei russi, ignorando le riserve di Washington; e ha già esperienza di balletti con Putin – ora contro, ora a braccetto – in Siria e in Libia. Del resto, nella crisi ucraina, e nell’amplificazione della minaccia da parte occidentale, che crea problemi persino a Kiev, ci sono anche da parte Usa, elementi di politica interna: Biden vi vede un’occasione per recuperare frazioni della credibilità perduta con la rotta afghana e pure un modo per mostrarsi fermo con Putin – e in proiezione con Xi – e per potersi poi fregiare della salvaguardia della pace.

L’invio di una risposta scritta di Usa e Nato alla richiesta della Russia di garanzie di sicurezza è, indipendentemente dai contenuti, che ancora non sono noti, un atto negoziale e un gesto che fa proseguire la trattativa. Antony Blinken e Serghei Lavrov progettano un nuovo contatto, anche se Mosca mette le mani avanti, dicendo che non c’è a priori “margine di ottimismo” verso un’intesa: Usa e Nato non intendono impegnarsi a tenere l’Ucraina fuori dall’Alleanza. Per alcuni, la tregua negoziale è solo funzionale agli interessi contingenti russi e cinesi. Il generale Ben Hodges, comandante delle Forze Usa in Europa dal 2014 al 2018, oggi analista del Center for European Policy Analysis, ipotizza che Putin si faccia scrupolo di non compromettere le Olimpiadi di Xi – i Giochi invernali in programma a Pechino dal 4 al 20 febbraio – e rimandi l’azione a fine febbraio. Probabilmente, è una leggenda metropolitana.

Ma è un fatto che la Cina spalleggia la Russia, di cui definisce “ragionevoli” le preoccupazioni di sicurezza; il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ne ha parlato con Blinken. Dalla sua cattedra di relazioni internazionali, Pechino invita “tutte le parti” a spogliarsi della mentalità da Guerra fredda e a negoziare un meccanismo di sicurezza europeo “equilibrato, efficace e sostenibile”; e ritiene che “per risolvere” la crisi ucraina sia necessario “tornare ancora agli accordi di Minsk” del 2015, approvati dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. A Blinken, Wang dice che la sicurezza d’un Paese “non può andare a scapito di quella di altri” e che “non si può garantire la sicurezza regionale rafforzando o addirittura espandendo blocchi militari”. Pechino chiede a Biden e a Putin “di mantenere la calma e di astenersi dallo stimolare la tensione”. Fronte turco, Putin ha ieri accettato l’invito di Erdogan a recarsi ad Ankara, anche se la visita – nota il Cremlino – avverrà “quando glielo permetteranno gli impegni e la situazione della pandemia” e comunque dopo l’inaugurazione delle Olimpiadi di Pechino – Putin ci sarà –. Erdogan ha in agenda di recarsi in Ucraina all’inizio di febbraio e di incontrarvi il presidente Volodymyr Zelensky. Il capo di Stato turco intende espressamente mediare tra Mosca e Kiev. In un’intervista televisiva, dice che “la Turchia vuole che le tensioni tra Russia e Ucraina si risolvano prima che di trasformarsi in una crisi”. Erdogan cura i rapporti sia con Zelensky che con Putin sebbene la Russia non gradisca la vendita all’Ucraina di droni turchi utilizzati nella regione del Donbass; e nel contempo resta pienamente “atlantico”, assicurando “il rispetto degli impegni come alleato Nato.”

“Il nostro desiderio – dice – è trovare una soluzione allo stallo ucraino attraverso dialogo e diplomazia: continuiamo a credere che sia possibile”. A tale scopo, “è essenziale che la Nato mantenga una posizione comune”. Per il leader turco, alcune delle pretese di Mosca rispetto a Kiev sono “inaccettabili”, altre sono magari comprensibili. Condizione per parlarne è che la Russia non conduca alcun “attacco militare” o “occupazione” dell’Ucraina: “Non sarebbe saggio”.

Abusi sessuali, il principe Andrea chiede un processo pubblico: per alcuni è un bluff

Per il Daily Mail, il tabloid inglese che segue il caso più da vicino, la richiesta del Principe Andrew di essere giudicato da una giuria popolare nella causa contro Virginia Giuffré sarebbe un tentativo di prendere tempo e ottenere un accordo stragiudiziale. La Giuffré, la più combattiva delle presunte vittime del giro di sfruttamento sessuale di minori orchestrato dal finanziere americano Jeffrey Epstein e dalla sua ex compagna Ghislaine Maxwell, accusa il principe di averla stuprata in almeno tre occasioni quando lei era ancora minorenne, e ha ottenuto da una giuria di New York l’autorizzazione a trascinarlo in tribunale. Andrew continua a negare ogni responsabilità, e ora i suoi difensori raccolgono la sfida rilanciando l’idea di un processo alla presenza di una giuria popolare. In un documento presentato ai giudici americani, la difesa rintuzza in 41 punti le accuse della donna, e fornisce undici ragioni per cui il caso andrebbe archiviato, insinuando anche che la Giuffré abbia “le mani sporche”. In sostanza sfidano la controparte a provare ogni accusa: mettono in dubbio la veridicità della foto che ritrae Andrea e una giovanissima Virginia sorridente nella casa londinese della Maxwell, un incontro di cui il principe dice di non avere alcun ricordo, e contestano anche la circostanza che il terzogenito della Regina sia mai stato ‘amico intimo’ della Maxwell. Questo malgrado Ghislaine fosse fra gli invitati al 40° compleanno di Andrew a Windsor, e al 18° della figlia Beatrice. La Corona ha spogliato il principe di titoli e prerogative reali: malgrado questo, un processo di fronte a una giuria popolare significherebbe lavare i panni sporchi in pubblico, mettendo in imbarazzo la Regina Elisabetta durante le celebrazioni per il Platinum Jubilee, i suoi settant’anni di regno, che inizieranno a febbraio. Per l’avvocato Mark Stephens, esperto di diritto dei media, sentito dal Daily Mail, un processo pubblico rischia di essere la bomba che distrugge la monarchia britannica, ma è più probabilmente “un classico esempio di rischio calcolato” per mettere tutto a tacere con un accordo milionario. Lo pensa anche l’esperta Kate McNabb: “Può sembrare una scelta bizzarra, ma potrebbe essere mirata a guadagnare tempo, e a forzare un accordo stragiudiziale”.

Il governo vuole modifiche sul gas: “Favori a Berlino”

la materia è tecnica, ma racchiude implicazioni geopolitiche e industriali. Parliamo di tassonomia Ue, l’insieme di criteri che identifica come sostenibili dal punto di vista ambientale le attività su cui indirizzare miliardi di investimenti “verdi”, a partire dal Green Deal europeo, e che conterrà anche nucleare e gas. Così com’è stata pubblicata il 31 dicembre, è il sottotesto del parere che gli esperti del governo italiano hanno inviato alla Commissione Ue, la bozza favorisce i paesi che finora hanno inquinato di più con il carbone (la Germania) a scapito di quelli che invece sono già mani e piedi nella filiera del gas (l’Italia). La Commissione ha ribadito che entro il 2 febbraio l’atto delegato sarà adottato con piccolissime modifiche, ma intanto noi, come altri, abbiamo avanzato richieste di modifica.

Partiamo dal nucleare, un favore alle centrali francesi. Gli esperti italiani segnalano che “nel nostro Paese è vietata la produzione di energia elettrica da questa fonte”, e quindi il coinvolgimento sul tema è “legalmente limitato”. Riconoscono però “l’importanza della ricerca di soluzioni tecniche più avanzate” anche per “lo smaltimento dei rifiuti radioattivi”. Passano poi al vero nocciolo del problema: il gas. Con le ipotesi attuali, quasi nessuno degli impianti in ​​Italia – esistenti o in fase di progettazione – sarebbe a loro parere allineato ai limiti di emissione. Quello di 100 grammi di CO2 equivalente per kilowattora escluderebbe, ad esempio, la filiera del gas russo, “che è una quota importante del mix energetico italiano”; le deroghe concesse invece per gli impianti autorizzati fino al 2030 (270 g di CO2 per kilowattora o una media di 550 kg l’anno su 20 anni) così come scritte sarebbero riservate soprattutto ai Paesi – Germania e Polonia in testa – che convertiranno impianti a carbone, abbattendo così le emissioni di almeno il 55%. Scrivono gli esperti: “Sarebbe necessario includere la ristrutturazione degli impianti esistenti e il riferimento al carbone potrebbe essere sostituito da un riferimento più generale ai combustibili fossili”. Gas incluso.

Il testo dovrà comunque essere votato dal Consiglio e dal Parlamento Ue. Il fronte dei Paesi con maggiori investimenti nelle rinnovabili (come la Spagna) ha annunciato ricorso alla corte di Giustizia europea mentre a Strasburgo c’è già la conta dei voti per la maggioranza assoluta necessaria per respingerlo. “Così com’è, l’Atto su gas e nucleare compromette una reale transizione ecologica – spiega al Fatto Gianni Girotto, presidente della Commissione Industria al Senato e a capo del comitato per la Transizione Ecologica del M5S – e alzare i limiti previsti ora nella tassonomia significa agevolare un ancora maggiore utilizzo del gas. Come 5 Stelle abbiamo chiesto al governo di sostenere l’opposizione in sede europea, attraverso una mozione di cui sono primo firmatario e della quale abbiamo informato anche il commissario Gentiloni affinché si opponga, come altri Paesi. Così si contraddicono le azioni già intraprese dall’Ue per concretizzare la transizione e si ignorano i principi ‘chi inquina paga’ e ‘non arrecare un danno significativo a nessun altro obiettivo ambientale’. La stessa Ue conferma che il 75% dei gas climalteranti proviene dall’attuale filiera energetica. La tassonomia non decide cosa è legale, ma cosa è sostenibile. Continuare a considerare sostenibili fonti che non lo sono sarà un bagno di sangue”.

L’Ue ora minaccia di multarci: plastiche monouso fuorilegge

Come se non fosse stato chiaro a inizio anno, mercoledì è arrivata un’altra conferma: se l’Italia non si adeguerà alla direttiva sulle plastiche monouso estendendo il divieto anche a quelle biodegradabili rischia di incorrere in una procedura di infrazione europea. Prima di Natale era arrivata al governo una nota ufficiale del Commissario Ue, Thierry Breton, e la ridondanza dei moniti ufficiosi che si sono succeduti da allora non è un buon segno.

La direttiva Sup (Single Use Plastics) in Italia è entrata in vigore il 14 gennaio: divieto di tutta la plastica monouso, tranne per quella biodegradabile e per il cartoncino reso impermeabile da un velo di politene, sostanzialmente quello usato per gli alimenti. Bruxelles contesta l’eccezione e l’Italia si trova in mezzo a un bel pasticcio da cui sarà difficile uscire senza danni. Già la partita sul recepimento della direttiva non era stata priva di pathos al ministero della Transizione ecologica di Roberto Cingolani: mentre si discuteva di come adeguarsi alla normativa europea, dopo due anni dall’approvazione e 12 di lunghe trattative a Bruxelles, il capo dell’ufficio legislativo del Mite, Claudio Contessa, si era dimesso: motivi personali ufficialmente, ma i rumors di Palazzo raccontavano di uno scontro col ministro proprio sulla legge che recepiva la direttiva Sup.

Nelle stesse ore, in Parlamento alcuni deputati tentavano di evitare il cortocircuito odierno. Basta scavare tra i materiali delle commissioni VIII e X della Camera per trovare un parere alternativo presentato dal deputato del gruppo Misto Giovanni Vianello, che prevedeva problemi proprio sui fronti che oggi ci oppongono alla Commissione Ue: bioplastiche e film di copertura. Alla fine, però, il testo non tenne conto di quegli avvertimenti.

La direttiva, è il punto, promuove approcci circolari e privilegia prodotti e sistemi riutilizzabili con l’obiettivo di ridurre in origine la quantità di rifiuti plastici prodotti. Il vulnus che viene indicato nella bioplastica, invece, riguarderebbe soprattutto il processo, che include riciclaggio, recupero e, infine, lo smaltimento. Insomma, un intervento a valle meno governabile anziché consapevole e a monte. Approcci su cui si può discutere.

Di certo, invece, c’è l’errore di valutazione su tempi e portata della norma. Per l’Italia le bioplastiche sono diventate un settore industriale importante. Secondo l’ultimo rapporto di Assobioplastiche, il macro settore è rappresentato da 278 aziende, tra produttori di chimica e intermedi di base, produttori e distributori di granuli, operatori di prima e seconda trasformazione, con 2.775 addetti dedicati, oltre 110mila tonnellate di manufatti compostabili prodotti e un fatturato complessivo di 815 milioni di euro in crescita del 10 per cento annuo, legato anche alla sempre maggiore pervasività dei prodotti.

Se fino al 2010 si producevano per lo più i sacchetti dell’umido, dal 2011 sono comparsi gli shopper, dal 2015 il film agricolo, il film da imballaggio alimentare e il film da imballaggio non alimentare. Nel 2017 è stato il turno degli shopper ultraleggeri e nel 2019 sono stati introdotti sul mercato gli articoli monouso che, a quanto pare, sono proprio quelli con le performance migliori. Oggi, in sostanza, l’Italia produce il 66 per cento di tutta la plastica biodegradabile d’Europa.

E mentre le associazioni di categoria come la stessa Assobioplastica rimarcano la biodegradabilità dei prodotti e lamentano errori di impostazione della direttiva Sup (che non terrebbe in sufficiente considerazione il tema del riuso, del design dei materiali e dell’economia circolare) gli ambientalisti come Greenpeace, pure in parte sposando questa tesi, ritengono importante non solo la riduzione della plastica monouso ma del monouso in generale, anche se biodegradabile.

L’altro problema, infatti, è che quando si parla di bioplastiche ci si riferisce alle plastiche ottenute con materiali biodegradabili e compostabili. Ma a renderle tali non sono le materie prime, bensì la struttura chimica e quindi il tempo che impiegano ad annullarsi. I tempi più brevi si raggiungono in impianti di compostaggio, ma a quanto pare molto spesso né le tecnologie sono pronte – a distinguere ad esempio una bioplastica dall’altra – né i consumatori differenziano.

Così, negli anni, politica e imprenditori anziché far fronte comune per risolvere queste fragilità del sistema, hanno sperato in proroghe e deroghe. Ora il tempo è scaduto.

Stretta superbonus Edili: “Mln di euro bloccati, è la fine”

A una settimana dal varo del decreto Sostegni ter, il testo non è ancora stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale (all’ora in cui chiudiamo il giornale). Ma le ripercussioni per alcune filiere sono più che evidenti: non solo quelle che attendono di ricevere i ristori, come Turismo e Cultura, ma soprattutto le imprese edili che stanno per subire la terza modifica della gestione di bonus e Superbonus in appena un anno. Ieri, una nutrita delegazione di edili, si è ritrovata in piazza, a Roma, per protestare contro la nuova stretta: le cessioni dei crediti fiscali effettuate dopo il 7 febbraio potranno essere oggetto soltanto di un altro passaggio. Altrimenti saranno nulle. Mentre finora una ditta poteva cedere il credito alle altre imprese, alle banche o alle Poste che, a loro volta, lo potevano cedere senza limiti. Una novità che per il governo serve a limitare le truffe, ma che per il mondo edile si trasformerà nella paralisi dell’edilizia. “Hanno già sancito la nostra fine. Ancora prima di diventare effettiva la norma, le banche hanno già sospeso l’accettazione di nuove richieste per i crediti fiscali, mentre noi abbiamo bloccati milioni di euro che non riusciremo più a cedere, fermando tutti i lavori di ristrutturazione”, spiega Norbert Toth, imprenditore edile tra gli organizzatori della manifestazione. M5S continua a promettere battaglia con la richiesta di modificare la norma con un emendamento nel Milleproroghe. Intanto gli imprenditori non si arrendono: torneranno a protestare giovedì prossimo fuori dal ministero dell’Economia.

Monterossi, Milano in doppio fondo

Carlo Monterossi doveva arrivare in tv, e c’è arrivato con i sei episodi di Questa non è una canzone d’amore, trasposizione del primo dei best-seller di Alessandro Robecchi che lo hanno per protagonista (Monterossi la serie, Amazon Prime). Doveva arrivarci, Monterossi, un po’ per nemesi divina, visto che lui in tv ci lavora, pur considerandola “la grande fabbrica della merda”, e un po’ per merito, essendo una delle invenzioni più felici del rinascimento del giallo all’Italiana. Un giorno qualcuno, forse Cacciari, ci spiegherà perché la commedia all’italiana si è trasformata nel giallo all’italiana; nel frattempo, osserviamo come la metamorfosi dal romanzo alla serie abbia tutta l’aria di una fatale evoluzione della specie.

Nel suo appartamento nel cuore della city, Monterossi si chiede come sia possibile adorare Bob Dylan ed essere al tempo stesso un guru del trash; a tirarlo fuori dalla crisi d’identità ci penserà un premuroso serial killer che lo prende di mira, e sarà l’inizio di una vocazione investigativa sul filo del rasoio, in una Milano dove si aggirano sicari stile Tarantino che fatturano un tanto a cadavere, sinti che uccidono pure loro ma alla vecchia maniera, commissari nervosi, vicequestori paterni… Nei suoi gialli Robecchi non si contenta di tessere intrecci con mano sicura, vuole mostrare di che traffici, maneggi e speculazioni grondi la Milano da bere (e da mangiare) dell’Expo. Tanta roba, così la serie tv qualcosa prende e qualcosa lascia. Fabrizio Bentivoglio è un Monterossi che parla lento e piano, a rischio amplifon, lupo beffardo e solitario modellato sul suo creatore quanto la terribile conduttrice Flora Depisis (Carla Signoris) è modellata su Barbara D’Urso. Certo, al lettore mancherà la scrittura brillante del Monterossi cartaceo, e il doppio fondo di una Milano con poca periferia e troppi skyline oltre le vetrate dell’attico. Ma tutto questo Monterossi è il primo a saperlo; come direbbe lui stesso, anche questo fa fare la tv.

Mail box

Noi medici guariti non possiamo lavorare

Lavoro come ostetrica a Bolzano e vi scrivo per segnalare una situazione problematica: siamo un gruppo di sanitari sospesi tra luglio e dicembre per inadempienza dell’obbligo vaccinale, ma siamo in possesso del Super green pass in quanto abbiamo contratto il Covid e siamo guariti. In tutta Italia, da quanto sappiamo, i sanitari guariti sono stati riammessi al lavoro. Nella nostra provincia siamo invece in attesa del “parere dell’Avvocatura di Stato”, che attendiamo mentre i giorni passano e il nostro diritto al lavoro viene calpestato. Vige l’obbligo di vaccino anche per insegnanti e forze dell’ordine, che però vengono giustamente riammessi dopo guarigione.

Camilla Zamboni

 

DIRITTO DI REPLICA

In qualità di Procuratore generale f. f., chiedo l’immediata rettifica dell’articolo di ieri: “Omicidio Mattarella, c’è l’inchiesta a Bologna. La rivelazione durante il processo sulla strage”. In particolare, smentisco che la Procura generale di Bologna stia procedendo alle indagini riguardanti l’omicidio Mattarella.

Lucia Musti, Procuratore generale f. f. di Bologna

 

Prendo atto della smentita della Procura generale di Bologna. Ma chiunque può riascoltare la registrazione dell’udienza di mercoledì del processo sulla strage e sentire al minuto 3.25.00 le esatte parole riportate nell’articolo: “Noi ci troviamo in grande difficoltà su questo tema, perché c’è un’indagine ancora aperta, noi sappiamo moltissimo ma non possiamo dire una parola”.

G. B.

 

Gentile direttore, il titolo “La Consulta cancella la censura sulla corrispondenza tra i detenuti al 41-bis e avvocati. Geniale: così i boss potranno ordinare omicidi e stragi per lettera” offende l’intera categoria degli avvocati e, in special modo, quelli “penalisti”. L’avvocatura istituzionale non può consentire che alcuna testata giornalistica possa velatamente affermare che i difensori si possano rendere potenzialmente portatori e portavoce di illeciti “commissionati” dai propri assistiti, sia essi detenuti che non, sia detenuti a regime ordinario che detenuti a regime cd. “duro”. Qualora non fosse chiaro, tengo a sottolineare che la funzione dell’avvocato, che qualcuno può ritenere – a torto, ovviamente – da eliminare, è essenziale al corretto esercizio della giurisdizione per la tutela dei diritti di difesa dei propri assistiti, anche di quelli che si siano resi responsabili di reati più gravi. L’inviolabile diritto di difesa, come pure affermato dalla Corte, non va negato a nessuno ed è infamante il solo malcelato intento di delegittimare l’avvocatura con affermazioni di tal fatta. È inaccettabile il messaggio distorto che si evince dal titolo citato, che ammanta di supposta illiceità la figura dell’avvocato, ingenerando nel lettore il dubbio che il difensore, anche solo potenzialmente, possa essere la longa manus del proprio assistito. Ciò diventa ancor più fuorviante in casi in cui il detenuto sia ristretto a regime cd. “duro”. La invito, pertanto, a prendere le distanze da quanto affermato nel titolo citato e provvedere a una doverosa rettifica. A ciò aggiungo che la questione verrà da me sottoposta all’attenzione dell’Ordine nazionale dei giornalisti per gli evidenti rilievi disciplinari. Ovviamente mi riservo di adire alle competenti autorità giudiziarie per la tutela dell’immagine dell’avvocatura italiana.

Avv. Maria Masi, Presidente Consiglio Nazionale Forense

 

(Poco) gentile Presidente, non so dove lei abbia letto che voglio eliminare gli avvocati o sostengo che tutti i membri della categoria portano ordini di mafiosi fuori dalle carceri: ho scritto che, eliminando la censura sulla corrispondenza fra boss stragisti al 41-bis e i loro legali, i primi potranno chiederlo ai secondi e in qualche caso ottenerlo, come sa chiunque conosca la storia e la cronaca della criminalità organizzata (anche fra gli avvocati, come in tutte le professioni, abbondano le mele marce). Quanto alle sue comiche diffide e minacce (“l’Avvocatura istituzionale non può consentire”, “la questione verrà sottoposta all’attenzione dell’Ordine”, “mi riservo di adire alle competenti Autorità giudiziarie”), temo dovrà rassegnarsi: io continuerò a scrivere ciò che penso e ciò che so senza chiedere il permesso a Lei e a nessun altro. Ed è altamente improbabile che io possa “prendere le distanze da quanto affermato” (da me). Anziché importunare la libera stampa, chi vuole davvero tutelare “l’inviolabile diritto di difesa” che “non va negato a nessuno” dovrebbe rivolgere le sue diffide al presidente del Consiglio Mario Draghi che lo ha leso, anzi azzerato, quando ha imposto l’obbligo di Green Pass per partecipare alle udienze giudiziarie. O quel giorno l’”Avvocatura istituzionale” dormiva?

M. Trav.

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo di ieri a pagina 15, dedicato ai “decessi Covid”, abbiamo dimenticato un avverbio essenziale; la frase corretta è questa: “L’età media dei ricoverati in terapia intensiva successivamente stroncati dalla malattia è di 68,2 anni mentre quella di chi NON è morto in rianimazione è di 82,4”.

Fq

 

In merito all’articolo pubblicato ieri dal titolo “Concorso farsa, tutti prescritti”, precisiamo che il dirigente di prima fascia, cui l’articolo fa riferimento, attualmente non lavora più presso la direzione centrale Strategie, cui era stato assegnato, nel 2019, con incarico temporaneo già cessato.

Val. Pac. e Tom. Rod.

A Messina “Assurdi assembramenti all’hub vaccinale: c’è rischio contagi”

Caro “Fatto Quotidiano”, dopo varie e prolungate riflessioni decido di prenotare il vaccino contro il Covid-19 presso l’ospedale Papardo di Messina. La prenotazione era dalle ore 9 alle 10, con la specifica di recarsi intorno alle 9.35, probabilmente per evitare inutili assembramenti di persone. Seguendo le istruzioni, arrivo in ospedale, quando all’improvviso mi ritrovo in uno stanzone chiuso inondato di persone. Mi chiedo se si tratti di un meeting, forse una lezione universitaria o cos’altro… Provo immediatamente a districarmi tra la calca e prendo una via di fuga, giungo quindi in zona ascensori, dove incontro una dottoressa in camice bianco alla quale chiedo dove recarmi per il vaccino e questa mi indica lo stanzone dal quale ero appena fuggito: centinaia di persone ammassate senza alcun distanziamento. Deve esserci un errore! M’incammino impaurito verso una porta aperta (presumibilmente l’hub vaccinale) dove a un individuo con gilet giallo spiego di essermi prenotato per il vaccino, ma quest’ultimo risponde: “L’orario della prenotazione non fa testo, lei deve prendere il numerino e attendere”. Allora gli chiedo come sia possibile attendere ammassati tra centinaia di persone, con il rischio di infettarsi proprio nello stanzone ancor prima di essere vaccinato. Il signore mi risponde che la situazione è questa, e che loro non possono farci nulla. Decido quindi di andar via a gambe levate, mentre cerco l’uscita incrocio un altro medico in camice bianco al quale chiedo se sia responsabile far ammassare tutte quelle persone, presumibilmente non vaccinate neanche con la prima dose, in uno stanzone chiuso. Anch’egli mi risponde con la medesima cantilena: la situazione è questa e che non ci sono soluzioni.

Riassumendo: vado per vaccinarmi, ma corro il rischio concreto di contrarre il virus ancora prima di ricevere il siero nell’incredibile assembramento. Una vergogna senza limiti.