Lotteria Green pass: prima nove mesi, poi sei e ora eterno!

M entre il Paese attende con il fiato sospeso (e qualche sbadiglio) che il grande spettacolo dell’elezione quirinalizia arrivi a una conclusione, leggiamo con interesse sui giornali che il governo sta meditando nuove e avventurose decisioni sulle nostre vite. Secondo il mitico decreto di inizio anno, quello che regola il green pass gold (rilasciato ai vaccinati e ai guariti), il passaporto ha un tempo di validità di sei mesi. Ma qui todo cambia ogni cinque minuti e siccome molte certificazioni verdi cominceranno a scadere nelle prossime settimane (la terza dose era stata autorizzata a metà settembre) il termine, secondo i ben informati, sarà presto “prorogato” per chi ha completato il ciclo vaccinale. Funziona un po’ come il Presidente della Repubblica: non sarebbe più comodo lasciarlo lì ancora un po’? Massì proroghiamolo…. Certo con la Costituzione è più difficile fare tira e molla, ma con i decreti è un giochetto da ragazzi. E così, dopo il parere del Comitato tecnico scientifico, il nuovo passaporto che dà diritto a fare quasi tutto si avvia a diventare eterno. Voi direte: qual è la ratio? Studi sulla durata della protezione? Sull’andamento del virus? Sull’efficacia del siero contro la variante predominante? No, pare che il green pass per chi ha la terza dose di vaccino varrà fino a quando non arriverà il via libera alla quarta da parte di Ema e Aifa. Poi, altro giro altra corsa. Il problema dei molti pass in scadenza è oggettivo e va affrontato, ma il continuo cambiamento di regole disorienta anche i cittadini più pazienti e ligi, che non capiscono più perché sottostare a regole di cui sfugge il senso. Sui green pass ante 5 gennaio (ne abbiamo la prova!) è indicata una scadenza di 9 mesi, “salvo diverse disposizioni di legge”. Poi sono diventati sei e tra poco ci diranno che non ha scadenza, fino a prossimo ordine: sembra il gioco dell’oca. Non potevano fare altro? Allora hanno sbagliato prima. Sicuramente il passaporto infinito fa piacere ai molti che, completato il ciclo di immunizzazione, cominciano ad avere dubbi sulla necessità di vaccinarsi ogni quadrimestre, però è difficile non sentirsi trattati come bambini inconsapevoli: a non dire che il green pass eterno dà vagamente l’idea che sia eterno anche il sistema di regole “emergenziali”.

L’organizzazione dei divieti che discende dal decreto del 5 gennaio ha un vago, e spiacevolissimo, sapore etico. Tanto è vero che l’esecutivo ha dovuto rettificare in corsa – con una faq sul sito del governo – la disposizione sui beni “voluttuari” che i cittadini non vaccinati non avrebbero potuto acquistare anche nei negozi dove si può entrare senza il pass gold: pane sì, calzini no. I tabaccai sono giustamente sul piede di guerra: sono rimasti aperti durante la prima, drammatica, fase dell’epidemia e ora sono accessibili solo ai 3 g. È un modo per incentivare? O per punire? Il dubbio ci viene perché abbiamo letto sul Fatto di qualche giorno fa un articolo sul nuovo vaccino Novavax, ribattezzato il vaccino dei no vax e non solo per assonanza: il farmaco utilizza la biotecnologia delle proteine ricombinanti, già utilizzata da decenni per altri vaccini. E mentre la Regione Lazio ha fatto sapere che i cittadini potranno continuare a scegliere (come sempre) con quale vaccino immunizzarsi, la Lombardia – faro della sanità nel periodo della pandemia – ha fatto la scelta opposta. Il coordinatore della campagna vaccinale Guido Bertolaso aveva già anticipato la posizione lombarda in un italiano “randomizzato” (un po’ casuale, tipo la durata del pass): “Quando sarà disponibile anche questo ulteriore vaccino verrà dato in modo random”. La decisione è stata confermata dalla Regione: per fortuna che lo scopo dell’obbligo era vaccinare quanti più cittadini possibile…

Insomma: loro saranno pure i Migliori, però non è che noi siamo proprio tutti cretini.

 

L’equilibrio perduto tra virus, algoritmi e disuguaglianze

Equilibrio. Dal latino aequilibrium, composto di aequi (uguale) e libra (bilancia). Ho spiegato (Fq, 25.11.21) che la salute è, in ultima analisi, un problema di equilibrio. L’ambiente in cui viviamo è il risultato di milioni di anni di equilibrio di determinanti ambientali evolutivi. È ormai assodato: i dinosauri si sono estinti 65 milioni di anni fa a causa di un enorme meteorite che ha brutalizzato l’equilibrio del pianeta. Duecento anni fa con il passaggio da modello produttivo agricolo/artigianale a industriale, il pianeta è stato colpito da un meteorite e l’equilibrio si è brutalmente modificato.

Intendiamoci: sono passaggi di fase socio-economici difficilmente eludibili. Il “compagno Lenin” era un ammiratore incondizionato della catena di montaggio fordista. Poi la “dittatura del proletariato” si è trasformata in “dittatura sul proletariato”. E Gramsci ha scritto i suoi Quaderni dal carcere. Ma è un’altra storia. Purtroppo la “catena di montaggio fordista”, totalizzante e alienante, è sopravvissuta al tramonto del fordismo. Oggi, in pieno passaggio da economia fordista a economia digitale, siamo di fronte, in nome del denaro, alla perpetuazione di quella catena. Non si chiama più “fabbrica”. Si chiama “algoritmo”. Ma, in ultima analisi, si tratta di una “fabbrica digitale”. La merce? Le nostre vite e l’ambiente. Cosa è cambiato? Invece di produrre manufatti per vivere, siamo obbligati a consumare compulsivamente merci per “sostenere” la produzione. Risultato: consumiamo la vita lavorando, invece di esprimere noi stessi per quello che siamo: esseri vivente dotati, evolutivamente, di un cervello “sociale”. Ma i fatti ci confermano che la solitudine e la precarietà si configurano come cifra sociologica dilagante del turbocapitalismo.

Ci stiamo abituando a parlare con uno schermo, cioè con l’immagine di un altro essere umano, ma ci riesce sempre più difficile comunicare con un essere umano in carne e ossa. Pensiamo che una spunta verde sullo schermo ci consenta di comportarci “come prima”, ma dobbiamo ricrederci. La solitudine sta proprio nel fatto che stiamo perdendo il senso e la direzione in un contesto che ci viene presentato dall’informazione mainstream come rischioso, quando rischioso non è e, viceversa, come sicuro quando sicuro non è.

Dobbiamo dissotterrare l’ascia della biodiversità. Dobbiamo rianimare il gusto di esercitare un pensiero critico. Avviarci verso un sano conflitto sociale che rimetta le cose in equilibrio. Ma per fare questo, e rimanere all’interno di una democrazia rappresentativa, bisogna dare rappresentatività al Parlamento. La netta riuscita dello sciopero generale (sacrosanto) del 16 dicembre lascia ben sperare. Ma non basta. Dobbiamo evitare che il “burn out sociale” che ci pervade provochi danni irreversibili alla nostra salute e all’ambiente. I fatti ci dicono che la realtà va in un’altra direzione. È evidente che, per consentire una gestione equilibrata della pandemia, debba essere ricostruita una forte Sanità pubblica. Ma il messaggio che sta passando è: “Puoi pagarti la sanità? Buon per te. Non hai i soldi per farlo? Affari tuoi”.

È evidente che la pandemia può essere affrontata solo globalmente. Ma chi sostiene la liberalizzazione dei brevetti e la possibilità di interi continenti di accedere al vaccino viene trattato come il bestemmiatore in Chiesa. È evidente che la profilassi vaccinale da sola non basta. Bisogna mettere in campo procedure di prevenzione e protezione integrate. In conclusione: la situazione richiede equilibrio, ma resta squilibrata. Penso che, come “capitalisti umani”, saremo costretti a lanciare un’Offerta pubblica di acquisto sulla politica. Magari verrà percepita come ostile da quasi tutto il ceto politico. Ma mi sembra l’unica via democratica per riacquistare equilibrio.

 

Cassazione, le nomine del Csm sono assurde

Il Consiglio superiore della magistratura – che, di regola, impiega mesi e mesi per nominare i capi dei più importanti uffici giudiziari lasciandoli così per lungo tempo vacanti – ha, in poco più di 70 ore, confermato le nomine di Pietro Curzio e Margherita Cassano ai vertici della Corte di Cassazione, nomine che, su ricorso del candidato pretermesso Angelo Spirito, erano state qualche giorno prima annullate dal Consiglio di Stato che le aveva definite “manifestamente irragionevoli”.

La estrema rapidità della conferma – elogiata dal capo dello Stato, presente alla seduta del plenum – lascia perplessi perché, come è stato evidenziato dai componenti che hanno votato contro (3) o astenutisi (3), le nuove motivazioni – anziché costituire una reale ottemperanza delle sentenze del consiglio di Stato, che imponevano una riformulazione capace di superare le censure che avevano portato all’annullamento delle delibere – si limitano a riproporre sostanzialmente le stesse argomentazioni svolte nelle originarie motivazioni.

Per quanto riguarda specificamente la riconferma di Curzio a primo presidente, gran parte della ripetitiva motivazione si basa su una asserita maggiore importanza e complessità di gestione di una sezione (la VI sezione, di cui era titolare Curzio) rispetto alle altre cinque sezioni civili della Cassazione (l’altro candidato Spirito è titolare della III sezione). Argomentazione opinabile dal momento che la VI sezione civile è la sezione di “verifica preliminare dei ricorsi” (cosiddetta sezione “stralcio” o “spoglio”). Essa ha il compito di definire le controversie di più semplice soluzione (soprattutto con declaratoria di inammissibilità) e di trasmettere gli altri processi alle sezioni competenti che trattano, quindi, quelli più complessi con la emanazione dei principi di diritto (funzione monofilattica della Corte di Cassazione).

Si aggiunge in motivazione: “È proprio il carattere di assoluta eccellenza della professionalità del dottor Curzio nelle funzioni di legittimità, attestata non solo nei diversi pareri ma anche proprio dallo sviluppo della carriera nelle funzioni di legittimità, particolarmente rapido nelle sue tappe, che conferma la completa padronanza delle funzioni di legittimità nella sua massima intensità possibile, tale da non potersi ipotizzare alcun ulteriore arricchimento determinato da un ulteriore decorso del tempo. Il che vale a giustificare, appunto, la sua equivalenza con il dottor Spirito, pur a fronte di esperienze temporali così consistentemente diverse”.

Secondo tale incredibile motivazione, Curzio, in 13 anni di funzione di legittimità, non solo avrebbe raggiunto la “padronanza” di tale funzione (ivi compresa quella “monofilattica”) che l’altro candidato Spirito avrebbe acquisito solo dopo 25 anni, ma l’avrebbe acquisita – udite, udite – “nella sua massima intensità possibile, tale da non potersi ipotizzare alcun ulteriore arricchimento determinato da un ulteriore decorso del tempo”.

Con tale delibera, il Csm sembra non avere alcuna intenzione di abbandonare quella rotta di logiche distorte che troppe volte hanno ispirato le sue decisioni reiteratamente annullate dal giudice amministrativo per manifesta illogicità o irragionevolezza.

Nel corso del suo intervento all’inaugurazione dell’Anno giudiziario, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi – dopo aver auto-elogiato la sua gestione del potere disciplinare (in realtà più che criticabile) – ha “auspicato che il Parlamento, nel porre mano alle riforme ordinamentali, sappia restituire al Consiglio il ruolo che la Costituzione ha designato”. Si tratta di un’affermazione priva di significato perché il Pg dovrebbe sapere che le riforme non potranno mai invertire quella rotta, deviata rispetto al ruolo del Consiglio, potendo ciò avvenire solo con un forte riemergere dell’etica individuale di ogni componente che, ispirando il proprio comportamento ai doveri di correttezza, trasparenza e imparzialità, dimostri di aver abbandonato logiche di clientelismo, di appartenenza correntizia, di collateralismo con la politica. Solo in tal modo sarà restituito al Csm quel ruolo, autorevole e credibile, da tempo perduto.

 

Nell’Italia dei “Casini”: Democrazia cristiana, Quirinale e caprese

Grillo sarebbe stato chiamato da Di Maio, che gli avrebbe chiesto invano di convergere sul premier (L. De Carolis, Fq, 27 gennaio).

Ah, senti: chiunque ti porterà la proposta di Barrese, quello è il traditore. Non ti dimenticare (don Vito Corleone al figlio Michael, Il padrino, 1972).

Giusto la settimana scorsa il centralinista Sgarbi affermava che Berlusconi “ha una voce come Frank Sinatra”. Più simili le frequentazioni pericolose, a dirla come sta; ma nel 2007 il modello di Berlusconi pareva proprio Frank Sinatra e il suo Rat Pack: Fini era Dean Martin, Bossi era Sammy Davis jr, e Casini era Peter Lawford, il belloccio che sposava le ricche. Ora che i bookmaker danno Pierferdi come prossimo presidente della Repubblica, i ricordi prendono a sgomitare. Riaffiora alla mente la volta che, alla vigilia della sentenza su Dell’Utri accusato di associazione mafiosa, il presidente della Camera Casini disse: “Stimo Dell’Utri”. La volta che attaccò Caselli dopo la sentenza che certificava le frequentazioni mafiose di Andreotti fino al 1980. La volta che ad Annozero si assunse la responsabilità politica della candidatura di Cuffaro nell’Udc. La volta che alla Camera ricordò “lo statista Craxi”. Poteva ricordarlo perché all’epoca c’era: dopo la morte misteriosa del suo mentore, il doroteo Bisaglia (cadde dal panfilo della moglie, come Enrico Berlinguer; e anni dopo morirono in modo strano anche il fratello prete e il segretario), Casini diventa il delfino di Forlani. Ogni volta che Forlani veniva intervistato dal Tg1, si era in pieno Caf, sulla sua spalla faceva capoccella, come il pappagallo del pirata, Casini. E non dimentico la volta che, dopo un attentato fondamentalista, Casini disse: “L’11 settembre precede la guerra in Iraq, è molto grave dimenticarselo”. In realtà era molto più grave dimenticarsi, alla Casini, che l’11 settembre non c’entrava nulla con l’Iraq, e che quel legame fasullo era stato creato dai falchi dell’Amministrazione Bush come pretesto per la guerra coloniale, criminale e illegale contro Saddam Hussein, che fu appoggiata dai governi Blair e Berlusconi e portò ai disastri ormai noti. Ma il primo ricordo che ho di lui risale al 1983. Dirigente dei giovani democristiani, venne a Santarcangelo per un incontro pubblico nella sala comunale. Cercava voti per l’elezione a deputato. Arrivò al volante di una spider cabrio azzurro metallizzato e tenne un discorso che impressionò molti dei parrocchiani presenti: dimestichezza con la storia e con la retorica, uso strategico dell’espressione “tout court”, valori della famiglia. Un mio amico, che bazzicava i congressi di partito, mi chiese il favore di accompagnarlo: andava a pranzo con Casini. Insomma io, lui e Casini ci incamminiamo verso “la Buca”, un ristorante presso le mura antiche; ci attovagliamo sotto la pergola, era una bella giornata di sole; e Casini ordina una caprese, di cui attesi con curiosità l’arrivo perché all’epoca non sapevo cosa fosse. Ah, ok: mozzarella e pomodoro a fette intercalate. L’oste, un vecchio comunista, gliela servì proferendo un insulto contro i democristiani. “Come si permette?” sbottai. Casini abbozzò: “Lascia stare, lascia stare”. Poi sbalordì, e io con lui, quando il mio amico, a domanda precisa, gli disse che poteva rimediargli 400 voti. Pensai: “Dove li trova, 400 parenti?”. Mi permisi di sottolineare alcune difficoltà politiche. Casini fece ingelosire il mio amico: “Questo tuo amico è bravo!”. E il mio amico, riportando l’attenzione su di sé: “Sì, sì”. Quando sospesero Satyricon (2001), Casini disse: “L’Italia non le assomiglia affatto, signor Luttazzi”. Replicai: “L’Italia assomiglia a lei, onorevole Casini. È questo, purtroppo, il vero problema”.

 

No, tu no, però forse anche sì: il nome flambé

Di Elisabetta Belloni parlano bene in tanti. Da Mario Draghi, che l’ha voluta alla guida dell’Intelligence (entrambi allievi dei gesuiti all’Istituto Massimo). A Luigi Di Maio, che assai l’apprezzò come segretario generale della Farnesina (“è mia sorella”, bum). Per non parlare di Giuseppe Conte, tra i primi a candidarla. Dovrebbe piacere a Enrico Letta (che però tiene la bocca chiusa nella consueta modalità subacquea). Mentre (udite udite) non dispiacerebbe affatto a Giorgia Meloni. Dunque è tutto fatto, sarà lei la prima donna al Quirinale in un clima di ritrovata stabilità di governo, e dunque con buona pace del premier che più facilmente manderebbe giù il rospo della mancata elezione? Manco per niente, perché almeno a sentire ieri sera gli aruspici di Montecitorio che compulsano in presa diretta i cattivi umori di Montecitorio, “la Belloni sta tramontando”.

Come mai e perché? Mistero assoluto, a meno che non stia pesando sul futuro delle istituzioni il giudizio pallonaro di Clemente Mastella: “È come se un portiere volesse fare il centravanti” (il brasiliano Ceni con 120 gol in carriera e il paraguaiano Chilavert con 60, stanno a dimostrare che è possibile). Insomma, in quattro giorni di votazioni e quattro scrutini la politica dei partiti, così ansiosa di riacquistare ruolo e centralità contro l’invadenza dei maledetti tecnici, si è distinta esclusivamente nella nobile arte di bruciare i candidati altrui. Draghi no, perché il M5S, Salvini e una parte del Pd preferiscono lasciarlo dove sta. Casini no, perché Berlusconi non dimentica i tradimenti del passato e perché, dice Salvini, ha in tasca la tessera del Pd. Cassese no, perché i grillini non dimenticano come sparò contro i Dpcm di Conte e contro Conte medesimo. Cartabia no, perché i grillini non dimenticano la “schiforma” della Giustizia. Il trio Moratti, Pera, Nordio no, perché nel frattempo si sono dimenticati di loro. Amato no, perché la destra ne diffida (e pure i grillini). La Casellati no, perché ne diffidano in troppi, trasversalmente. Mattarella bis no, perché è lui a diffidare di chi lo sta votando. Nel generale impallinamento, gli aruspici di Palazzo sostengono che, attenzione, anche chi è stato carbonizzato dai veti incrociati potrebbe tornare a essere commestibile per il Colle. Avremo un presidente flambé?

Stalker arrestato e subito liberato. Il pm a Cartabia: “Norma da rifare”

La ministra della Giustizia Marta Cartabia appena il mese scorso aveva elogiato le misure per proteggere e mettere in sicurezza le donne vittime di violenza, aveva citato in particolare la legge che ha introdotto l’arresto in flagranza per chi viola il divieto di avvicinamento, facendo finta di nulla rispetto alle preoccupazioni, pure segnalate, dalle procure italiane, che questa legge non si può applicare. Un caso concreto successo ieri a Parma, che tra poco racconteremo, è la prova sul campo del cortocircuito normativo di cui fanno le spese le vittime. La legge entrata in vigore a ottobre scorso (articolo 387 bis del codice penale) non si può eseguire perché non è stata fatta una cosa tanto semplice quanto essenziale: la modifica di un articolo del codice penale collegato. Ed ecco che un uomo è stato sì arrestato a Parma mentre bussava alla porta di casa della sua ex compagna , violando un ordine di non avvicinamento, ma è tornato subito dopo in libertà. Il procuratore Alfonso D’Avino ha evidenziato le incongruenze della legge al ministero della Giustizia, senza ricevere alcuna risposta. Dopo il caso di ieri ha spiegato cosa accade: da un lato “la polizia giudiziaria è obbligata all’arresto ma, dall’altro, il pm, al quale viene trasmesso il verbale di arresto per la convalida, non può richiedere nessuna misura coercitiva, ma deve disporne la liberazione”.

Come mai? D’Avino ha parlato di una “situazione paradossale” che si è venuta a creare dopo che è stato introdotto l’arresto obbligatorio in flagranza per questo reato, “non è stata modificata la norma che prevede i casi nei quali il pm può chiedere la misura coercitiva. La conseguenza è che – come nel caso in questione – all’arresto obbligatorio da parte della polizia giudiziaria deve seguire l’immediata liberazione da parte del pm”. Il riferimento del procuratore è alla mancata modifica dell’articolo del codice penale, il 381, che elenca i reati per i quali in caso di flagranza può avvenire l’arresto pur non prevedendo il reato una pena superiore a 3 anni come – appunto – il reato di violazione di divieto di avvicinamento che, in base al codice Rosso, varato durante il governo precedente, prevede dai 6 mesi a 3 anni di pena. Bastava aggiungerlo a quell’elenco e l’arrestato di ieri non sarebbe tornato in libertà. Invece, abbiamo letto in una circolare interna, di novembre, della procura di Torino, la legge così com’è “rischia non solo di limitare di molto le finalità di tutela che il legislatore si proponeva di realizzare, ma anche di complicare la gestione dei procedimenti che da tali arresti potranno scaturire”. E infatti così è stato.

“Sì, Onorato mi pagò il viaggio: fui trattato bene, che male c’è?”

Il viaggio offerto da Vincenzo Onorato? Mi accolsero i suoi marittimi al porto di Napoli e mi trattarono molto bene. Francamente non ci vedo nulla di male”. Roberto Cociancich, milanese di professione avvocato, è il senatore del Pd autore della legge che prevede sgravi fiscali e contributivi garantiti dal Registro Internazionale solo alle navi che imbarcano esclusivamente marittimi italiani o comunitari. Una legge approvata nel 2016, che molto piaceva al patron di Moby, Vincenzo Onorato, ora indagato a Milano per traffico di influenze illecite – ma relativamente a vicende diverse – insieme al fondatore del M5S Beppe Grillo. La norma Cociancich è stata approvata nel 2016. L’anno successivo, come rivelato ieri dal Fatto, l’allora senatore dem è stato ospite su un traghetto Moby.

Cociancich, lei è estraneo all’indagine milanese. Dagli atti emerge un viaggio offerto da Onorato. Nulla di penalmente rilevante, ma perché le fu offerto?

Il viaggio è successivo all’approvazione della norma. Io nel 2016 non conoscevo Onorato. L’ho conosciuto in seguito, durante alcune manifestazioni di marittimi. In ogni modo, nel 2017, volevo andare in vacanza in Sicilia, così ho detto alla mia collaboratrice di chiamare quelli di Moby per chiedere se c’era una tratta Napoli-Palermo.

Poi cosa è successo?

La mia collaboratrice mi confermò la tratta e mi disse di andare al molo di Napoli. Qui mi ha chiamato una persona dell’equipaggio, che si mise anche a ridere quando gli chiesi dove potevo pagare il biglietto. Sulla nave poi mi accolse il comandante.

Che trattamento le hanno riservato?

Mi hanno trattato molto bene, in maniera gentile. Mi hanno offerto una cabina: non l’avevo mai presa prima, ero solito dormire col sacco a pelo sul ponte. I marittimi mi percepivano come uno che si era battuto per i loro posti di lavoro.

In questa occasione ha sentito Onorato?

Sì, gli ho scritto che mi aveva messo in imbarazzo. Prima del viaggio però non ci siamo sentiti. Mi sono ritrovato in quella situazione. Che dovevo fare? Dovevo scendere?

Sapeva che Onorato condivideva la sua legge?

Certo, quella norma ha suscitato compiacimento di molti marittimi. Addirittura quando fui invitato a una manifestazione a Roma, gridavano il mio nome. In quel momento mi sentivo come un calciatore di Serie B che fa goal. Questa norma non è a favore di un singolo armatore, ma di tutti i marittimi. Ci sono decine di migliaia di ragazzi in attesa di potersi imbarcare che rimangono disoccupati, perché a loro vengono preferiti altri marittimi, magari filippini o pachistani, che vengono pagati meno. Io quando ho promosso la norma non conoscevo Onorato. Furono altri gli armatori che incontrai, in quanto rappresentanti della categoria, che si lamentarono, senza però fare pressioni.

Negli atti di un’indagine diversa, quella fiorentina sulla fondazione Open (Onorato non è indagato), i finanzieri in un’informativa parlano di un rapporto “confidenziale” tra lei e l’armatore. È cosi?

Confidenziale è un po’ troppo. Ho stima dell’armatore, mi dispiace per le sue disavventure. E anche questa vicenda dell’inchiesta di Milano: Grillo condivideva la mia stessa preoccupazione. Ma se uno fa una battaglia politica a favore di qualcuno poi non può più avere relazioni economiche? Non è il mio caso, perché io non ho avuto alcuna relazione economica, se non questo viaggio. Questa norma era sostenuta anche da esponenti 5stelle, che non erano prezzolati di Onorato.

Sempre nell’informativa dell’inchiesta Open, la Finanza parla di contatti tra l’ex ministro Lotti e Onorato. Aspetti privi di rilevanza penale. Ha parlato con Lotti della sua norma?

No, non è mai successo.

Marelli, via in 550 tra impiegati e quadri

Dopo i 1.500 licenziamenti a livello globale, Marelli ha annunciato 550 esuberi anche in Italia su 7.900 occupati. La società, che conta su oltre 58 mila dipendenti in tutto il mondo dislocati in 170 sede, è nata nel 2019 dalla fusione tra l’ex Magneti Marelli, venduta da Fiat Chrysler e la giapponese Calsonic orchestrata da Kkr, il fondo americano che ha presentato una manifestazione di interesse per prendersi Tim. L’azienda, nel piano illustrato ai sindacati, si impegna a realizzare un piano di investimenti di oltre 77 milioni nel 2022 nonostante le condizioni avverse del mercato automotive ma chiede, tra dirigenti, impiegati e indiretti, 350 accordi di prepensionamento e 200 incentivi all’esodo da attuare entro giugno.

De Cecco, imputazione coatta per il patron

Si va verso il processo per frode in commercio nei confronti di Filippo Antonio De Cecco, patron del gruppo De Cecco, terzo produttore al mondo di pasta. Stessa accusa e stessa sorte per il direttore acquisti Mario Aruffo e per l’ex responsabile controllo qualità Vincenzo Villani. Il Gip di Chieti ha ordinato l’imputazione coatta per i tre indagati, rigettando una richiesta di archiviazione del pm. Secondo il giudice, la dichiarazione pubblicitaria di utilizzo dei soli “migliori grani duri italiani, californiani e dell’Arizona” è stata “un’informazione infedele” (veniva utilizzato anche grano di altra provenienza) e “frutto di una precisa strategia aziendale”.

Bosch, a Bari 700 esuberi. Pesa transizione verso l’elettrico

La situazione alla Bosch di Bari è persino peggiore di quanto si credeva. Gli esuberi dichiarati dall’azienda entro i prossimi 5 anni sono più di 700, e non “solo” i 600 dei quali si era parlato negli ultimi giorni del 2021; ma soprattutto, durante il tavolo di ieri in Regione Puglia, è venuto fuori che probabilmente, nei prossimi anni, sarà a rischio l’intero stabilimento. Perché i piani per la transizione viaggiano a rilento. La fabbrica oggi dipende per l’80% dalle pompe diesel, che negli ultimi quattro anni hanno visto inevitabilmente calare di molto i pezzi prodotti; ecco perché è indispensabile una riconversione per garantire gli attuali livelli occupazionali, con 1.700 operai. “Più in particolare – fa i conti la Uilm – il Cp1h è passato dai 2,1 milioni di pezzi nel 2017 a 400 mila pezzi nel 2022 e si azzererà nel 2027; il Cp4 dagli attuali 720 mila pezzi calerà a 455 mila nel 2027”. Per quanto riguarda le produzioni non diesel, oggi sembrano invece in grado di assicurare al massimo 450 posti di lavoro. Nel 2018 è stata attivata la linea dei motori per le biciclette elettriche, su questa sono impiegati in 350 e si prevede di aggiungerne un centinaio. “Bosch Bari – scrive la Fiom in una nota – si è limitata invece ad annunciare la collaborazione con una società esterna incaricata di sondare il mercato per individuare progetti da sviluppare nei prossimi anni”. “Negli ultimi quattro anni – ricorda la Uilm – sono stati utilizzati ammortizzatori sociali che hanno scongiurato i licenziamenti e si è ridotto l’organico da 1.890 a 1.700 persone”. Si attende che anche il governo Draghi mandi qualche segnale, non solo sulla Bosch ma sull’intero settore dell’automotive, oggi in grande difficoltà. “Deve convocare il tavolo di confronto – conclude la Fiom – altrimenti costruiremo un’iniziativa di solidarietà e di lotta con tutti i lavoratori del gruppo e del settore per impedire che i lavoratori di Bosch Bari e dell’automotive paghino il prezzo sociale dell’incapacità del governo di mettere in campo risorse straordinarie”.