Glitter, retrò e griffe: mascherine, ma alla moda

Glitterate, floreali, sgargianti. Rétro e futuribili, classiche o superpop. La tendenza della fase 2 che verrà? Le mascherine anti-coronavirus personalizzate, di moda, very cool. Si abbineranno al resto del look, affiancheranno borsette e cappelli. E non saranno certo affidabili come le FFP2 e le FFPP3; ma belle a vedersi, e protettive come tutte quelle realizzate in tessuto/non tessuto. Del resto, il processo era già in atto. Lasciando da parte Myss Keta, che ne ha fatto un marchio di fabbrica e ci accoppia sempre degli occhiali scuri, cosa sfoggiava a fine gennaio, al gran gala dei Grammy Award, la trionfatrice Billie Eilish? Una mascherina Gucci in tulle gotica e doppia G di cristalli. E cosa portava Fedez nell’arcinota sfilata di settembre? Un’arcana mascherina extralarge all black. Ed è da un bel pezzo che Gwyneth Paltrow si fa vedere con una mascherina di culto fabbricata in Svezia, la Urban Air Mask. A fine febbraio, quando la curva del contagio aveva appena iniziato a salire, erano esaurite quelle di lusso marchiate Fendi: in seta purissima, con i colori-simbolo aziendali, 190 euro cadauna.

Oggi vanno a ruba i modelli in cotone, con varie colorazioni e stampe, di Off-White, brand milanese urban molto seguito dai più giovani (intorno ai 50 euro). Il rivenditore americano di abbigliamento sportivo Ball and Buck vende, a 20 dollari, una maschera riutilizzabile con stampe mimetiche. Sul loro sito hanno però l’accortezza di precisare che “non sono di livello medico e non devono essere utilizzate come tali. Hanno lo scopo di fornire un certo livello di protezione contro la trasmissione di goccioline d’acqua al personale non medico”. Sempre dagli States, Los Angeles Apparel presenta “Facemask3”, una confezione da tre mascherine “in tre filati”. In nove colori e a 30 dollari. Ha sede in California anche dON kAKA, che punta sull’originalità: mascherine effigiate con motivi aztechi, geroglifici, fiori di ciliegio, effetto “mille e una notte”.

E no, l’Italia non sta a guardare. Mentre i big dell’haute couture mettono da parte il business per riconvertirsi alla produzione di mascherine antivirus e camici protettivi, da destinare esclusivamente alle strutture sanitarie (a cominciare dalle sopraccitate Fendi e Gucci), si fanno strada numerose iniziative dal basso. Da Como arriva la proposta di una mascherina in seta nera con filtri speciali. “Fashion e protettiva” la definisce la sua creatrice, Monica Gabetta Tosetti. È comprensiva di tasca con filtro, ed è in commercio a 49 euro. “Glamour Mask” è invece il nome della variante messa a punto da Maria Laurenza, presente a Roma dal 2018 con un grande atelier. Nemmeno le sue sono di uso professionale.

“Mascherine in seta a più strati, per new dandy glamour. Che ci fanno veramente fighi, e anche un po’ misteriosi. Per proteggersi e distinguersi con classe e originalità”: Cleofe Finati, che confeziona abiti sartoriali a Udine, ha le idee chiarissime. E sono già in arrivo le prime mascherine à la page contraffatte.

Pittura per distrarsi Il Paziente Zero? “Chiedete ai sorcini”

Visto che dobbiamo “stare a casa”, chi vuole condividere con gli altri la sua vita in quarantena può farlo sulle pagine del Fatto. Siamo una comunità e mai come oggi sentiamo l’esigenza di “farci compagnia” sia pur a distanza. Come i giovani che, nel Decameron di Giovanni Boccaccio, si riunirono per raccontarsi novelle durante la peste di Firenze. Inviateci foto, raccontateci cosa fate, quali libri, film e serie tv consigliate all’indirizzo lettere@ilfattoquotidiano.it. Ci sentiremo tutti meno soli.

 

L’amico senza smartphone ha tempo per la pittura

Giorgio è l’unico della compagnia ad avere un cellulare vecchissimo, senza WhatsApp ecc. Solo i pulsanti per ricevere o inviare chiamate. Per capirci, quello delle nonne. Noi ci sentiamo solo per telefono ovviamente. Abbiamo un amico che, essendo vicino di piano, ogni tanto bussa per vedere come se la passa e ci ha inviato delle foto. Giorgio in questi giorni si è dedicato alla pittura. Mi permetto di condividere quanto realizzato dal nostro amico. (vedi foto)

Pensavo che “Corona” fosse soltanto un fotografo

Fino al novembre 2019, il sostantivo “coronavirus” mi avrebbe fatto scattare un’immediata associazione al nome di un noto fotografo. Solo dal gennaio 2020 il suddetto sostantivo ha iniziato a diventarmi familiare associato a una pericolosa malattia. Poi fummo rincuorati da una serie di soloni e nel mitico 27 febbraio, a partire dal fratello del Commissario Montalbano, più persone raccolsero l’appello lanciato dall’attuale sindaco della nota città da bere per “Un aperitivo a Milano”.

La gente a quel punto iniziò a non capire più nulla e parecchi di noi finirono soffocati dalla sovrabbondanza di fake news. Chi ci diceva che le mascherine erano utili, chi diceva che non servivano a niente. Chi ligio al principio “il dovere prima di tutto” ha tenuto a lungo aperto alcuni uffici dimostratisi poi più esiziali che essenziali. Chi ligio al principio “l’economia prima di tutto” ha tenuto aperto alcune zone per il timore che se fossero state definite “rosse” la gente avrebbe cambiato orientamento politico. Chi ligio al principio “a me non la fanno” ha iniziato a cercare il Paziente Zero, ma stavolta Renatino era irraggiungibile anche ai suoi sorcini. Chi ligio al principio “eppure qualcosa di buono ci sarà”, dopo aver conosciuto l’associazione Nestore ha affrontato nel modo migliore un periodo pieno di cambiamenti. Anche io mi sto vivendo il mio cvirus in attesa di poter partecipare al laboratorio “Per fortuna che non siamo immortali”.

Letture da isolamento: “Le tre del mattino”

Ho iniziato adesso il libro Le tre del mattino. Sicuramente mi piacerà!

Messe, estetiste e caffè proibiti: ecco i “disobbedienti” del virus

Barili di caffeina riversati nelle fogne. Stragi di San Valentino (o di Pasquetta?) per una partita di chicchi di caffè. Tipacci con le ghette ai piedi pronti ad accoltellarsi per un cappuccino in tazza grande. Non sarà il proibizionismo degli Anni Ruggenti, ma quest’aria da commedia americana – a voler trovare del grottesco in queste tristi settimane – crea paradossi degni di Billy Wilder. Tanto che le cronache italiane si riempiono di testimonianze su bar e pasticcerie che di straforo, senza farsi sentire né vedere, allungano ai clienti gli agognati caffè nonostante il divieto assoluto stabilito dalla legge.

E così la setta dei cappuccini proibiti placa una delle astinenze più feroci per il Paese. Dove? Quando? In genere bisogna affidarsi ai bar-tabacchi, già aperti in quanto tabacchi ma con l’ordine di non funzionare come bar. Ma insomma, un caffè che sarai mai, e allora se il cliente è fidato capita che dopo il pacchetto di sigarette si strizzi l’occhio: “Non è che mi fai uno schiumatino?”.

A Roma ci casca il bar di una piazza a pochi metri da una delle più note attrazioni turistiche, che però in questi giorni non attrae né visitatori né clienti. Nel deserto silenzioso della Capitale, se non ci sono pattuglie all’orizzonte, il vecchio rituale dell’espresso si perpetua.

E non è un caso isolato. A Villa Convento (Lecce) un bar-tabacchi è stato chiuso per 5 giorni dopo che gli agenti avevano scoperto lo spaccio sottobanco di caffè: entrati nel locale, non avevano trovato nessuno, ma la macchinetta sporca e gli evidenti segni di recente utilizzo hanno colto i titolari senza una scusa pronta. A Pescara invece il fattaccio avveniva di notte: a inizio aprile la Guardia di Finanza ha scovato un bar che alle 3 e mezza ante meridiane offriva da bere e da mangiare ai nottambuli, forse colpiti da insonnia o stufi della compagnia domestica. Vista l’ora, facile ipotizzare come minimo un caffè corretto.

Ben diverso, ma ancor più sofferente, lo spirito dei molti che invece hanno violato l’isolamento per pregare in compagnia. Con la complicità dei parroci, si intende. A Fano (Pesaro) durante la domenica delle Palme i fedeli si sono radunati in chiesa grazie a un intenso tam-tam via social e Whatsapp. A Filadelfia (quella in provincia di Vibo Valentia, lasciando stare Rocky) è successa la stessa cosa, ma qui don Giovanni ha minimizzato: “Erano tutti autorizzati tranne tre persone. Avevo dimenticato la porta aperta”. E poi, come dice lui, “faccio il prete, non il vigile”.

Sarà per lo stesso principio che molti professionisti, stufi della quarantena e della chiusura forzata, si sono dati al lavoro a domicilio. Non proprio quel che Giuseppe Conte auspicava parlando di “telelavoro”, ma deviazione prêt-à-porter per nulla consentita – e pure pericolosa – di manicure, trucco, messa in piega, cerette e quant’altro.

Diverse sono infatti le segnalazioni di parrucchieri e estetisti all’opera da casa. A Massa, Cristina Mazzoni, presidente della Cna Benessere locale, ha rilanciato sui social una foto scattata da una estetista locale, che su Facebook si era vantata di aver fatto le unghie a casa a una cliente: “Ma le hai fatte oggi?”, le chiedeva qualcuno, come fiutando che ci fosse qualcosa di anomalo; “Sì, ma ovviamente ero attrezzata dalla testa ai piedi, mascherine e guanti. In più tornando a casa ho tolto subito le scarpe”.

Segnalazioni simili ci sono state pure a Bari, a Firenze (sempre dalla Cna locale) e a Napoli. A Chieti un barbiere è stato beccato dai carabinieri appena uscito dalla casa di un cliente: nella valigetta d’ordinanza c’erano le armi del delitto e il dna della vittima, eccezionalmente sotto forma di forbici, rasoio e capelli.

Vicino a Reggio Emilia Francesco Costi, proprietario dell’omonimo negozio di parrucchieri, ha persino girato un video su Facebook per denunciare il giro clandestino a domicilio. E al Fatto conferma: “Pure io ho ricevuto chiamate e non solo dai miei clienti. Volevano che andassi da loro o che venissero qui. Ovviamente ho detto di no: il problema non è solo quello di lavorare in nero o di fare concorrenza sleale, ma è soprattutto sanitario. Se inizio a girare le case di tutti quelli che hanno bisogno, c’è il pericolo di diffondere il contagio”.

Conscio di questa paura diffusa, un cinquantenne torinese dalla spiccata etica protestante (laddove intesa come spirito del capitalismo) si era invece ingegnato per lucrare sui timori della gente: rubando le mascherine scadute dai magazzini della sua azienda, le aveva poi rivendute porta a porta a cittadini indifesi, garantendosi una buona cresta. Tradito forse dalla scarsa qualità del prodotto, il suo sogno imprenditoriale si è interrotto nelle grigie pagine di una denuncia alla Guardia di Finanza.

“Non era un messaggio istituzionale. E le destre hanno troppo spazio”

Il premier “non è intervenuto a reti unificate” e la garanzia di replica avrebbe dovuto valere anche per lo “straripante tempo televisivo concesso negli ultimi mesi” a Salvini, afferma Nicola D’Angelo, magistrato, giurista e in passato componente dell’Autorità di garanzia.

C’è chi sostiene che la par condicio andrebbe abolita.

In una condizione di effettivo pluralismo non ci sarebbe stato bisogno di una legge per regolare l’accesso ai mezzi di massa e la natura dell’informazione trasmessa. Purtroppo in Italia questa condizione non esiste per la concentrazione delle fonti informative: un forte operatore pubblico sostanzialmente nelle mani del governo, e un operatore privato destinatario della maggior parte delle risorse tecniche (le frequenze) ed economiche (la pubblicità). Non va poi dimenticato che il caso italiano è stato caratterizzato, unico nel mondo, dall’entrata in politica del proprietario del maggior gruppo televisivo privato.

La legge del ’90 dice che il pluralismo, l’obiettività, l’imparzialità dell’informazione rappresentano i princìpi del sistema.

Non c’è dubbio che come indica il testo unico della radiotelevisione all’articolo 3, sono principi fondamentali del sistema radiotelevisivo la garanzia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione radiotelevisiva, la tutela della libertà di espressione di ogni individuo, l’obiettività e la completezza, la lealtà e l’imparzialità dell’informazione. Ma quello che è avvenuto nel nostro Paese dimostra che un conto sono i principi e un conto è la loro applicazione. Tutte le maggiori istituzioni internazionali hanno evidenziato da anni l’insufficienza della libertà di stampa nel nostro Paese.

Il potere dell’Agcom sulla carta non è poco, di fatto non viene esercitato nella sua pienezza.

L’Autorità necessita di un processo di riforma. La sua struttura e i suoi poteri furono definiti nel 1997, ma oggi si pongono nuovi problemi. La riforma dovrebbe partire dalla nomina dei suoi componenti, soprattutto con riferimento all’accertamento del loro grado di indipendenza e competenza (magari con l’esame del nominato da parte delle commissioni parlamentari sul modello americano), e prevedere l’assegnazione di poteri più penetranti verso gli operatori. Le sproporzioni dei tempi su soggetti e forze politiche dimostrano che semplici richiami, multe e richieste di riequilibrio non sono sufficienti. Peraltro è ormai incongruo far riferimento ai dati dei partiti in un epoca di prepotente personalizzazione della politica.

Nei mesi scorsi il tempo di parola di Forza Italia sui tg Mediaset è andato oltre il 30%, nei talk da luglio a dicembre Salvini, Meloni e Sgarbi hanno parlato per 30 ore, il premier per 2. Siamo oltre le legittime scelte editoriali.

Le sproporzioni sui tempi di parola indicano che il meccanismo previsto dall’ordinaria disciplina radiotelevisiva non regge. Né può farsi carico solo alla Rai di questo disequilibrio come è avvenuto con il provvedimento Agcom del mese scorso. Ora è evidente che non si può stare con il bilancino a valutare le scelte editoriali, ma i principi di completezza e imparzialità, principi generali del sistema, debbono essere rispettati da tutti comprese quindi le emittenti private.

Con una campagna elettorale permanente non ci vorrebbe una par condicio permanente?

Non si tratta di rendere la par condicio una regola perenne. Si tratta invece di rendere più efficaci le regole generali esistenti, per esempio introducendo obblighi particolari negli statuti delle imprese che svolgono attività editoriale e, conseguentemente, rendendo gli amministratori delle stesse responsabili per il loro mancato rispetto, anche verso gli azionisti.

Ha ragione chi si lamenta dell’ultima apparizione di Conte tanto da chiedere l’intervento della Vigilanza?

Premessa: il presidente non è intervenuto a reti unificate tant’è che alcuni canali non hanno trasmesso il suo discorso. Si può discutere dell’opportunità di quello che ha detto con il riferimento ai leader dell’opposizione, al caso però non possono essere applicate le regole proprie dei messaggi istituzionali nei quali il verificarsi di tale circostanza non sarebbe possibile. Si è trattato di un punto politico rispetto al quale semmai possono valere principi relativi alla garanzia di replica, ma allora va ricordato che gli stessi principi avrebbero dovuto valere anche a proposito dello straripante tempo televisivo concesso negli ultimi mesi a uno dei leader citati da Conte, così come certificato da Agcom.

Il bluff disperato di Salvini: sentire Casalino in Vigilanza

La richiesta dell’opposizione è forte, ma ai più pare un bluff: le probabilità che la commissione di Vigilanza sulla Rai possa convocare in audizione Rocco Casalino con l’accusa di aver nei fatti costretto il servizio pubblico a trasmettere la conferenza stampa in cui Conte ha bastonato Matteo Salvini e Giorgia Meloni, sono pochissime.

“La sua convocazione potrebbe scattare in un solo caso, clamoroso e assai improbabile: se il presidente della Rai Marcello Foa e il suo amministratore delegato Fabrizio Salini dovessero autodenunciarsi, confessando di subire pressioni dal portavoce del premier” confessa a microfoni spenti un autorevolissimo esponente dell’opposizione in Vigilanza dove l’audizione dei due manager dovrebbe tenersi la prossima settimana. Certo, la Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia tutti in coro si sbracciano nella speranza che Foa – che Salvini ha imposto ai vertici della Rai all’epoca del governo gialloverde – si faccia sfuggire una mezza conferma delle pressioni di Chigi sull’azienda.

Ma soprattutto accarezzano l’idea che anche il Pd e soprattutto Italia Viva di Matteo Renzi, a cui Casalino non sta certo simpatico, si accodino alla richiesta che giunge in un momento complicato per la maggioranza sulla questione Mes. Che il Pd vorrebbe usare mentre i 5 Stelle no e che Conte ha giurato di non voler attivare: proprio nella conferenza stampa del 10 aprile in cui il premier ha fatto “nomi e cognomi” di chi in passato ha dato l’ok al Mes, tirando in ballo le responsabilità Salvini e Meloni.

L’opposizione con la richiesta di audizione di Casalino in Vigilanza, dove in qualche occasione si sono create alleanze inedite, cerca insomma di far deflagrare le contraddizioni della maggioranza. Ma è un fatto che, allo stato, mancano gli appigli e non solo per la nota con cui Palazzo Chigi ha chiarito di non aver mai chiesto che la conferenza stampa venisse trasmessa a reti unificate e meno che mai via Facebook, ma “di aver trasmesso il segnale audio video in hd mettendolo a disposizione di tutti e di tutte le reti televisive”.

In realtà mancano pure i precedenti, oltre che i presupposti. “Non sono mai stato chiamato a rispondere nelle sedi istituzionali della mia attività e non ho memoria che prima o dopo di me il portavoce del presidente del Consiglio sia mai stato ascoltato” spiega Silvio Sircana, storico portavoce di Romano Prodi che all’epoca ebbe il suo bel da fare a Palazzo Chigi: quando al governo con il Professore c’erano l’alfa e l’omega, “il dc Beppe Fioroni habitué del Family Day e Paolo Ferrero di Rifondazione ospite al Gay Pride”. Continua Sircana: “Il portavoce del presidente ha un ruolo laterale, per quanto rilevante. Quello di convocare Casalino la trovo un’iniziativa stramba che non condivido perché serve solo a fare bagarre. Se fosse una cosa seria avrebbero chiamato a rispondere il titolare, ossia Conte”.

B. gioca di sponda coi dem e a Portofino regala pacchi di pasta

“Non mi sarei mai aspettato di ritwittare Berlusconi, ma il coraggio della sua posizione lo merita”. Il tweet di Enrico Letta, intorno a mezzogiorno, la dice lunga sulla giornata che ha visto Silvio Berlusconi smarcarsi dagli alleati di centrodestra sul Mes, per andare in soccorso del Pd nel tentativo di isolare Giuseppe Conte e i 5 Stelle. Il leader forzista, infatti, ieri, con una lunga lettera al Giornale, ha rivendicato l’istituzione del Meccanismo europeo di stabilità e ha invitato le forze politiche a non demonizzarlo. “Sarebbe assurdo non utilizzarlo. In linea di principio non c’è nulla di sbagliato che i Paesi a economia più solida chiedano garanzie rafforzate per finanziare Paesi più a rischio”, ha scritto l’ex Cavaliere. E ancora: “Il problema poi ora non si pone, perché possiamo accedere ai fondi senza condizioni fino al 2% del Pil…”.

L’uscita di Berlusconi, in questo particolare momento, ha un notevole peso specifico e va a incunearsi all’interno dei conflitti nella maggioranza sui fondi europei. Fino a qualche giorno fa, infatti, l’ex Cavaliere poteva giocare su tre tavoli: quello del centrodestra, quello di un ipotetico appoggio esterno al governo Conte nel caso di uscita di Renzi dalla maggioranza e quello di una presunta disponibilità a un esecutivo di unità nazionale. Ma ora lo scenario è già mutato. Con l’uscita di ieri, B. sceglie di giocare di sponda con chi, all’interno della maggioranza, spinge per isolare il M5S e mettere il premier con le spalle al muro: o accetti il Mes oppure togli il disturbo. Rischiacciando, però, Conte sui 5S, dopo che l’avvocato del popolo in questi mesi aveva tanto faticato per prenderne le distanze, avvicinandosi al Pd.

Al di là degli scenari possibili, però, Berlusconi annusa nell’aria che in casa dem è partita l’operazione anti-M5S e punta a sostenerla. Anche a costo di sacrificare Conte, per il quale ha sempre speso parole di stima. E il suo messaggio ha dei destinatari ben precisi. Innanzitutto il presidente Sergio Mattarella, facendogli capire d’incarnare un’opposizione responsabile, pronta ad aiutare chi sta sulla tolda di comando in questo momento di emergenza. L’altro destinatario è l’Europa: dal suo ruolo di parlamentare europeo, B. vuol dimostrare di avere uno stand internazionale serio, non come “partiti sovranisti e anti europei che vogliono condizionare le scelte di Paesi, come l’Olanda, avversi alle nostre esigenze”, ha scritto ieri. E qui lo schiaffo è per Salvini. Infine, il messaggio è per il Pd: se vi siete stufati dei grillini, sappiate che in noi potrete trovare degli interlocutori affidabili. Ma per fare cosa? Un governo Draghi? O Colao? Troppo presto per dirlo. I canali di comunicazione, però, sono aperti e più volte, in questi giorni, Gianni Letta (che ieri ha compiuto 85 anni) si è sentito al telefono con Dario Franceschini. Che da una parte puntella Conte, dall’altra non si sottrae al dialogo con le frange più soft dell’opposizione. Il messaggio, comunque, è giunto a destinazione, almeno a vedere l’irritazione di Salvini. “Le parole di Berlusconi sono la fotocopia di quelle di Prodi e Zingaretti. Mi sembra di risentire certi ritornelli del 2011…”, ha detto il leader leghista.

Infine, c’è una storia gustosa che lo riguarda. Come un novello Achille Lauro, Berlusconi ha elargito, tramite Pier Silvio, 410 pacchi di pasta e beni alimentari di prima necessità ad altrettante famiglie bisognose nei Comuni di Rapallo, Santa Margherita e Portofino. “Non proprio le zone più povere d’Italia”, ha ironizzato qualche parlamentare. E lo stesso ha promesso di fare in Trentino all’assessore regionale Giorgio Leonardi. E sulle chat del partito già iniziavano le proteste dei forzisti del sud. “ E noi?”. In realtà “il presidente ha esortato coordinatori e parlamentari a compiere atti di solidarietà nei loro territori, in tutta Italia, pagando gli aiuti di tasca loro”, hanno chiarito, alla fine, dal suo staff.

Le condizionalità e i disastri della Grecia Tutti i rischi contenuti nel “Salva Stati”

Da quando i ministri delle Finanze dell’Ue hanno approvato il 9 aprile scorso la sua linea di credito “light”, il Mes (Meccanismo europeo di stabilità) continua a far discutere. Il Pd (come Forza Italia) vuole ricorrervi, i 5Stelle assolutamente no. Il nodo sono le “condizionalità”: il Mes concede prestiti solo in cambio della firma di un memorandum (sul modello della Grecia) che fissi un rigido programma di tagli e riforme strutturali per rientrare dal prestito e rendere sostenibile il debito (che altrimenti va “ristrutturato”). Insomma, l’austerità fiscale vista in azione ad Atene sotto il controllo della Troika. Il governo italiano aveva chiesto un Mes “senza condizionalità” e in parte sembra averlo ottenuto. Ma le cose non stanno proprio così e questo rende la discussione surreale e pericolosa. Ieri lo spread, il differenziale di costo tra i titoli di Stato italiani e tedeschi, è schizzato a 245 punti per poi calare a 235 dopo l’intervento della Bce.

Cosa prevede l’accordo dell’Eurogruppo?

La possibilità di accedere a linee di credito del Mes fino al 2% del Pil (35 miliardi per l’Italia) con la sola condizionalità di usarle per le “spese dell’assistenza sanitaria diretta e indiretta e i costi relativi alla cura e alla prevenzione dovuti alla crisi”.

Quindi le condizionalità sono eliminate?

Non pare. Il Mes è in tutto e per tutto una banca (gli azionisti sono i 19 Paesi dell’euro): è stato istituito nel 2012 per prestare ai Paesi insolventi un’assistenza finanziaria “soggetta a una rigorosa condizionalità” (art. 136 del Trattato dell’Ue). Le condizionalità possono essere all’ingresso, come i memorandum firmati dalla Grecia, o inserite dopo. Come ha ricordato l’economista Francesco Saraceno (Sciences Po, Parigi), il regolamento europeo 472/2013 (parte del cosiddetto Two pack) prevede che “la Commissione, in accordo con la Bce, esamina insieme allo Stato membro interessato le eventuali modifiche e gli aggiornamenti da apportare al programma di aggiustamento macroeconomico”, che poi viene approvato dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata. Insomma, le condizionalità possono aggiungersi dopo. È successo tante volte nei programmi di salvataggio della Grecia.

Quindi non esiste il Mes senza condizionalità?

In teoria no. Tutto però dipenderà dai dettagli tecnici delle nuova linea di credito “sanitaria” del Mes che saranno stilati entro due settimane e a cui ieri Conte ha fatto riferimento. L’unico modo per disinnescare del tutto il rischio di condizionalità ex post è stabilire che l’erogazione delle somme sia in un’unica tranche. Altrimenti queste possono essere inserite ogni volta che si devono valutare nuove erogazioni. La Troika, per dire, ha imposto ad Atene 61 misure fiscali da applicare, ma solo 13 erano previste dal memorandum Mes del 2015, le altre sono arrivate nei 4 aggiornamenti successivi. Da questo dettaglio si capirà se prevarrà la linea dei Paesi del Nord o davvero, almeno per la linea “sanitaria”, si potrà forse evitare il rischio di consegnare le proprie politiche fiscali a un’istituzione intergovernativa fuori dal controllo del Parlamento Ue.

Ha senso usare il Mes?

Il Pd insiste per usare i soldi del Mes per l’emergenza sanitaria. È bene chiarire che quelli del Mes non sono trasferimenti, ma prestiti che fanno salire il debito pubblico italiano. Il vantaggio è che possono avere tassi di interesse più bassi, perché sfruttano il rating creditizio dell’azionista più in salute, la Germania. Gli economisti del Centro di ricerca sulle congiunture economiche di Sciences Po hanno però calcolato che anche così il risparmio che l’Italia avrebbe sui 35 miliardi è minimo. Con lo spread a 200, parliamo di 690 milioni, lo 0,04% del Pil. Sono cifre irrisorie. C’è poi un altro rischio. Il Mes è un creditore privilegiato, e questo renderebbe meno sicuro il resto del debito italiano facendo salire i tassi richiesti dagli investitori per finanziarlo.

È partita la caccia a Conte, ma sul Mes ottiene la tregua

Di sera, Giuseppe Conte prova a spegnere l’incendio nella maggioranza: “Discutere ora delle condizionalità del Mes significa logorarsi in un dibattito astratto, valuteremo poi se conviene all’Italia”. E comunque “l’ultima parola spetterà alle Camere”. Di fatto, il presidente del Consiglio arretra rispetto al no dritto al fondo salva-Stati scandito venerdì scorso in diretta tv. E i due capi-delegazione di governo, il dem Dario Franceschini e il grillino Alfonso Bonafede, battono subito le mani al premier, che nel pomeriggio li aveva preavvertiti. Ma sulla pelle del governo restano i segni dello scontro tra Pd e Cinque Stelle sul Mes. Un giorno e mezzo di scaramucce dietro a cui c’è anche il futuro del presidente del Consiglio, o almeno questo è il sospetto diffuso nel M5S. Tangibile anche nell’intervista di ieri al Fatto del capo politico reggente dei 5Stelle, Vito Crimi: convinto che le dichiarazioni del segretario dem Nicola Zingaretti per il ricorso a un Mes senza condizionalità “mettano in discussione la linea del governo e di Conte”.

Un muro, quello di Crimi (“noi non voteremo mai l’utilizzo del Fondo”) che provoca un diluvio di reazioni, prima tra tutte quella del capogruppo dem alla Camera Graziano Delrio, a Radio Anch’io: “È un successo aver ottenuto il Mes senza condizionalità”. E anche se giura che “il Pd non mette in discussione nulla” allarma i grillini. “Perché va così dritto anche questa mattina?” si chiede un 5Stelle di governo.

E il cattivo pensiero è che i dem comincino davvero a pensare a un dopo-Conte, e a sostituirlo magari con il neo-capo della Commissione per la ripartenza economica, Vittorio Colao. O che quanto meno puntino a indebolirlo, anche per strappargli di più al tavolo delle nomine. Ma non solo. Nel Movimento notano anche la lettera di Silvio Berlusconi al Giornale a favore del Mes, a cui il capogruppo dem in Senato Andrea Marcucci risponde con lodi per il Caimano su Repubblica.it: “Ha dimostrato più senso dello Stato dei suoi alleati”. Un combinato disposto che riaccende i timori su un lavorio per un governo di unità nazionale, senza Conte. Anche per questo il premier si muove dalla mattina per sondare i partiti. Sente Luigi Di Maio, Franceschini e Bonafede. Con il capodelegazione dem e il 5Stelle Riccardo Fraccaro fa anche una video conferenza. Poi nel pomeriggio invoca la tregua su Facebook: “Sul Mes lievita un dibattito che rischia di dividere l’Italia secondo opposte tifoserie”.

Ma è inutile, giura: “Se vi saranno condizionalità o meno sul Fondo lo giudicheremo alla fine. Prima di dire se un finanziamento conviene o meno al mio Paese voglio battermi perché non abbia condizioni vessatorie. Dopodiché voglio studiare il regolamento contrattuale che condiziona l’erogazione delle somme. Solo allora – chiosa – mi sentirò sicuro di poter esprimere una valutazione compiuta e avveduta”.

Nel Pd accolgono il post con soddisfazione. Ma sotto la compattezza ostentata, i distinguo rimangono. A lavorare per una moratoria del dibattito fino al Consiglio europeo sono stati prima di tutto i più coinvolti, quanto meno per competenze, nel negoziato. Il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri lo aveva detto martedì a Porta a Porta: “Si sta sviluppando un dibattito un po’ surreale, fateci condurre questo negoziato, siamo a metà del cammino”.

Ieri fonti del Mef valutavano l’uscita di Conte positivamente proprio per la possibilità di poter così condurre la trattativa con l’Europa con più tranquillità. Mentre Enzo Amendola, ministro degli Affari europei, twittava: “Il Recovery Fund è il nostro obiettivo strategico. La strada è ancora lunga e le polemiche su singole proposte non aiutano”. Lo stesso Antonio Misiani, al Fatto, spiega e rettifica il suo precedente netto no al Mes: “Se il Consiglio confermasse l’assenza di condizionalità nella linea di credito sanitaria, avremmo a disposizione uno strumento in più. Non decisivo ma sicuramente utile”. Ma dai piani alti del Nazareno trapelano anche altri pensieri: “Il Mes non si potrà non usare – dicono a microfoni spenti – aspettiamo il Consiglio, ma poi la discussione si riapre”.

Soprattutto, è evidente lo scetticismo sulla reale possibilità da parte dell’Italia di ottenere gli eurobond. E anche se nel Pd non si vede un piano chiaro e definito per sostituire Conte, è chiaro che per la buona riuscita del negoziato europeo passa pure il futuro del governo. E il suo.

Via ai test per 150 mila italiani Corsa a 4 per il grande affare

La grande gara per il test sierologico nazionale sarà gestita dal commissario Domenico Arcuri. Dovrà scegliere la piattaforma e la società che dovrà effettuare l’analisi degli anticorpi nel sangue degli italiani per capire chi ha sviluppato gli anticorpi stabili che, dovrebbero garantire (in teoria) una certa dose di immunità dal ritorno del coronavirus, per quanto si possa parlare di immunità per il troppo recente Covid-19.

L’operazione (forse con un ottimismo eccessivo) è considerata uno step fondamentale per la ripartenza. “Riaprire è vitale – ha detto ieri il vicedirettore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Ranieri Guerra – ma i test sierologici avranno un’importanza cruciale per avere un quadro completo della situazione”.

Una grande operazione sanitaria ma anche un grande business. Si parte su un campione di 150 mila italiani rappresentativo per area geografica, età, genere e categoria di lavoro. La società prescelta poi potrebbe realizzare nella “fase due” decine di milioni di esami e quindi decine di milioni di euro di fatturato.

La Spa piemontese Diasorin, come noto, ha sviluppato con il team del professor Fausto Baldanti del Policlinico di Pavia un progetto che non ha ancora l’autorizzazione CE IVD. Questo test (per il quale il Policlinico percepirà royalties dell’1 per cento sulle vendite) sembra in pole position non solo in Italia ma anche in Usa e altri Paesi europei, secondo il presidente del San Matteo Alessandro Venturi. La borsa ci crede e Diasorin è volata in pochi giorni a Piazza Affari fino a 8,4 miliardi, più di Tim.

Ieri Ranieri Guerra ha delineato l’identikit della piattaforma desiderata: “I test del sangue periferico non sono accettabili”, quindi niente kit con goccia di sangue. “Quelli su sangue venoso più o meno lo sono. Ce ne sono 4 o 5 che si potrebbero qualificare per una procedura di individuazione che dovrà fare il commissario Arcuri sulla base delle caratteristiche di qualità che il Cts ha espresso”. E quali sono? “Livello di sensibilità e specificità superiori al 90-95 per cento e il più vicino possibile al 100 per cento. Perché – chiosa Guerra – non vogliamo avere falsi positivi e falsi negativi”.

Al Fatto il professor Baldanti ha detto che il test Diasorin dichiara una specificità del 100 per cento e una sensibilità maggiore del 99 per cento che però nei suoi test su prototipo scende al 96 per cento. Il test girerà sulla macchina Liaison XL che promette 170 test all’ora. Almeno altre due società offrono test cinesi basati sulla stessa tecnica della chemiluminescenza, denominata in gergo CLIA con ritmi di lavorazione simili. La prima è la YHLO cinese, distribuita dalla Pantec srl di Torino. La seconda è la Snibe cinese, distribuito dalla Medical System di Genova. Il Veneto ha sposato quest’ultimo test per i 700 mila kit annunciati dal governatore Luca Zaia.

La Liguria pochi giorni fa ha assegnato la gara alla YHLO (grazie al prezzo poco più basso) che ha così superato la concorrente genovese.

Entrambe le società garantiscono nei loro documenti una grande capacità di processare campioni in poco tempo (come Diasorin) e valori tecnici elevati. Entrambe però potrebbero avere problemi per il blocco all’export della Cina: “Si dovrebbe risolvere in un paio di settimane”, giurano alla Pantec. Problemi che Diasorin non avrebbe visto che produce in Italia.

La macchina Yhlo (IFlash 1800) dichiara una sensibilità per IgG del 97,3 per cento e una specificità del 96,3 per cento; una sensibilità a IgM dell’86,1 per cento e una specificità clinica del 99,2.

Medical System, per la Maglumi di Snibe dichiara per le Igm una sensibilità del 78,65 e una specificità del 97,5 per cento. Mentre per le Igg dichiara una sensibilità dell’89,89 per cento e una specificità del 96,5 per cento. A inizio maggio sarà pronta con il suo test CLIA anche Techno Genetics, joint venture italo-cinese con stabilimenti a Lodi e in Campania: “Stiamo nella fase finale di sviluppo del nostro test sierologico. Sarà un CLIA innovativo e semiquantitativo sulle Igg. Saremo pronti per la validazione clinica in 4 centri nazionali – spiega Salvatore Cincotti, amministratore delegato del gruppo – entro la prima settimana di maggio”.

“Il Piemonte improvvisa, ci vuole una vera svolta”

“Commissariare la Sanità piemontese? Non vedo cosa cambierebbe. Mi pare che un commissario ci sia già…”. Francesca Frediani, capogruppo del M5S in Regione Piemonte, commenta così la prima domanda sulla lettera spedita a Conte e Speranza in cui si chiede al governo di valutare il commissariamento della Sanità piemontese.

Frediani. E chi sarebbe il commissario?

Be’, la conferenza stampa sulle Rsa piemontesi è stata monopolizzata da Antonio Rinaudo. Mi pare evidente che l’ex pm, che nell’Unità di crisi dovrebbe occuparsi di questioni giuridiche, sia ormai una figura preminente. Peccato che non sia esattamente un medico.

Al netto delle responsabilità politiche su cui è lecito discutere, sicuri che un commissario esterno lavorerebbe meglio?

Credo di sì. Vede, il problema di fondo della gestione sanitaria di questa emergenza è stato fondamentalmente di comunicazione. E l’ultima conferenza stampa lo dimostra. La linea è dividere i settori in compartimenti stagni, con buona pace della visone unitaria. Manca, di fatto, una catena di comando chiara. Dov’era il commissario straordinario all’emergenza Vincenzo Coccolo mentre Rinaudo dirigeva? Senza contare poi il ritardo sui tamponi e le delibere che spariscono e ricompaiono in altra forma.

Qual è stato secondo lei l’errore più grave?

Aver caricato sulle Rsa la responsabilità totale di isolare gli ospiti contagiati. Evidentemente non sempre è stato possibile e purtroppo i risultati si vedono.

Diciamo la verità, però. In questo momento tutti sognerebbero di essere all’opposizione e non al governo…

Senza dubbio. Ma vorrei a questo proposito che fosse chiara una cosa. La nostra richiesta di commissariare la Sanità piemontese non è una richiesta di punizione o un attestato di inettitudine conclamata. È, mi si passi il termine, una forma di aiuto. La situazione che si è venuta a creare è troppo critica per essere affrontata con scioltezza da una giunta insediata da nemmeno un anno e che, non dimentichiamolo, paga responsabilità anche di chi ha governato la Regione prima di loro. serve una scossa, anche per riportare in Piemonte almeno qualcuna delle eccellenze che la politica in questi anni ha fatto scappare altrove.