“La Lombardia è in tilt Bisogna commissariare”

La Regione Lombardia è completamente in tilt. Per questo dovrebbe essere commissariata”. Pierfrancesco Majorino, europarlamentare Pd, ex assessore al Welfare del Comune di Milano, ci va giù duro. “Siamo di fronte a un fallimento evidente, su alcune questioni molto concrete”.

Quali?

Fermo restando che l’emergenza non era prevedibile, parliamo di utilizzo dei tamponi, programmazione dei test, distribuzione delle mascherine, sostegno ai medici di base, assistenza domiciliare a chi è positivo. Senza contare il gigantesco scandalo delle Rsa.

Riguardo a quest’ultima questione, ha pesato anche la corruzione?

I risvolti giudiziari li vedremo. Il punto è che si è trattato di una macchina che non ha pensato a nulla di ciò che accadeva fuori dagli ospedali.

Lo smantellamento della sanità territoriale lombarda non inizia oggi.

Cinque anni fa, quando ci fu la riforma socio sanitaria in diversi Comuni, lanciammo un appello per porre l’attenzione sul fatto che il punto debole era il territorio. Inascoltati.

C’è un continuo rimpallo di responsabilità tra il sindaco Sala e il presidente Fontana. In questi giorni Sala ha accusato la Regione di aver fatto una delibera con troppi buchi. Risposta, a Milano c’è troppa gente in giro.

Puntare il dito sui milanesi è veramente un atto vile. Non solo perché la stragrande maggioranza sta rispettando le regole, ma perché è un modo per distrarre l’opinione pubblica. È assurdo che si discuta di chi va al parchetto con il cane e non della sanità che costa al contribuente 20 miliardi.

D’accordo con l’idea di tornare a una sanità gestita a livello nazionale?

Lo pensavo prima e lo penso ora. Ma serve una nuova sintesi. Per esempio, le città metropolitane una vera autonomia la devono avere. Una riforma passa per un grande confronto della politica con la società scientifica e con gli operatori. E poi c’è il tema risorse: l’Italia ha un sistema sanitario nazionale sottofinanziato rispetto a Francia, Germania, Gran Bretagna. Serve un finanziamento più significativo e un’autorità sanitaria nazionale più autorevole.

La Lombardia chiede la riapertura delle attività produttive dopo il 4 maggio. Una buona idea?

Sarei molto cauto. Bisogna coinvolgere sindacati e scienziati. Ma il grande tema è come sostieni economicamente la ripresa.

Flemma sabauda a Torino: “Nessun errore sulle Rsa”

Ai cittadini piemontesi preoccupati per il contagio Covid-19 nella propria Regione si potrebbe consigliare di sintonizzarsi sulle conferenze stampa dell’Unità di crisi, in cui regna una certa flemma sabauda, apparentemente impermeabile alle bordate che in questi giorni si abbattono sulla giunta Cirio accusata, al pari dell’omologa lombarda, di aver malgestito l’emergenza. Anche ieri il Piemonte ha fatto registrare il tasso di crescita del contagio più alto d’Italia (3%), i morti hanno superato quota 2 mila e i casi totali sono a un passo dai 20 mila.

I grafici sono in fase calante, ma i numeri spaventano ancora. E spaventa soprattutto lavoce “Rsa”, le residenze sanitarie assistenziali divenute epicentri di contagio.

La linea della Regione è chiara: tutti i protocolli di sicurezza sono stati scrupolosamente rispettati fin dal 22 di febbraio, i problemi riguardano solo il 10% delle strutture, il restante 90 è sano. Per contenere i contagi sono stati fatti 13.940 tamponi tra ospiti e personale sanitario, di cui 1.400 positivi (466 oss e 1.004 anziani). Sulla famosa delibera del 20 marzo in cui la Regione sollecita le Asl a reperire posti letto per pazienti Covid nelle Rsa autorizzate, l’assessore alla Sanità Luigi Icardi taglia corto: “Un falso problema, la delibera riguarda soltanto strutture nuove”. A chi gli fa notare che il testo del provvedimento non dice esattamente questo, Icardi risponde che “per le Rsa già funzionanti l’area dedicata deve essere completamente isolata dal resto della struttura. E comunque nessun paziente positivo è stato dimesso da un ospedale e ricoverato in un Rsa non in queste condizioni. Se qualcuno mi dimostra il contrario sarò il primo ad andare in Procura”.

Non c’è motivo di dubitare della buona fede dell’assessore, ma numerose segnalazioni di situazioni quanto meno un po’ più complesse arrivano da più parti. C’è l’Rsa che racconta di aver dovuto rifiutare pazienti Covid “in fase di negativizzazione ma non negativi” e quella che sostiene che creare reparti completamente isolati dal resto della struttura sia di fatto impossibile, il che renderebbe la delibera regionale quantomeno inutile. E continuano le segnalazioni di morti sospette. Ultimo il caso della Carlo Alberto di Torino, dove i lavoratori manifestano preoccupazione sul decesso di 25 persone.

Quanto al caso delle email ai Servizi di igiene dell’Asl in cui i medici di base segnalavano i casi sospetti di contagio andate smarrite per “eccesso di corrispondenza”, nessun commento. Il tema del giorno sono le Rsa, nient’altro. Chi sgarra con le domande viene redarguito dal severo ex pm Antonio Rinaudo, membro dell’Unità di crisi che certo non teme l’esposizione mediatica.

“Tamponi in Lombardia: domani ci fermeremo”

Fino a domani riuscirà a far fronte alle richieste. Poi chissà. L’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia-Romagna ha scorte per altre 48 ore. Fino alle 23 di domani sera la struttura, che tra le due sedi di Brescia e Pavia processa fino a 3mila tamponi al giorno, non si fermerà ma a quell’ora i reagenti che servono a individuare il genoma virale del Sars-Cov-2 saranno finiti. “Arriviamo a venerdì. Siamo agli sgoccioli, i nostri due fornitori statunitensi non ce la fanno – spiega il direttore generale Piero Frazzi -. Ci manca soprattutto l’estrattore, la sostanza che serve a tirare fuori dal virus l’Rna che deve essere analizzato”. Per farlo occorre poi, un altro reagente, che viene utilizzato per quella che in gergo tecnico si chiama “amplificazione” dell’acido nucleico. “È difficile trovare anche quello – prosegue Frazzi – Ci siamo rivolti a un’azienda italiana, ci hanno mandato un campione, lo abbiamo testato e abbiamo visto che funziona. Ora speriamo che riescano a inviarcene in quantità sufficiente. Ma per l’estrattore stiamo cercando un’altra ditta. Con le scorte non arriviamo oltre i due giorni”.

La carenza ha dimensioni mondiali. La pandemia ha fatto sì che i grandi produttori, Usa e Cina, tendano a tenere buona parte della produzione per il mercato interno e i Paesi che non hanno produzione propria o ne hanno poca, come l’Italia, facciano fatica a rifornirsi. Ad aggravare la situazione è arrivata la decisione di Pechino di consentire dal 1° aprile le esportazioni solo alle aziende in possesso dell’accredito rilasciato dal suo ministero del Commercio. L’impennata delle richieste, poi, fa sì che a mancare siano le stesse materie prime necessarie alla produzione, come l’etanolo. In questo quadro lo Zooprofilattico, il primo istituto incaricato dal ministero della Salute all’inizio dell’emergenza di garantire le analisi, è la cartina al tornasole di una penuria che affligge i laboratori di microbiologia molecolare di tutta Italia e della Regione più piagata dal virus. Con 36mila test processati, e solo per conto di enti pubblici, l’istituto è uno dei 31 accreditati e analizza 2.200 campioni al giorno a Brescia e altri 800 a Pavia, 2.500 dei quali provenienti dalle aziende socio-sanitarie territoriali della sola Lombardia.

La situazione sul territorio è variegata. Ieri l’Ats di Milano ha consegnato alle Rsa della città metropolitana i kit per fare 2milaesami a sanitari e pazienti, definendoli “sufficienti”.Altre strutture di primo livello sono in sofferenza. “La situazione della fornitura dei cosiddetti cotton fioc che servono per prelevare il materiale biologico da naso e gola, è tragica – spiega Maria Rita Gismondo, direttrice del laboratorio del Sacco –la ditta che ci rifornisce ci ha detto che per 10 giorni hanno tutto bloccato in consegna e dopo non sanno cosa riusciranno a darci”. Una situazione che contrasta con le dichiarazioni che arrivano dai palazzi: “Non so come si faccia a promettere tamponi a tutti – prosegue Gismondo, che osserva la situazione dal punto di vista di una delle prime tre strutture individuate dal Pirellone per effettuare i test (con il San Matteo di Pavia e l’Università di Milano), che processa tra i 400 e i 600 campioni al giorno – Manca la materia prima. Ma da febbraio sono passati 2 mesi. È stato dichiarato lo stato di emergenza, che a rigor di logica riguarda anche la diagnostica. Perché non si è pensato a un modo per evitare questa carenza?”.

Da qualche giorno a Palazzo Lombardia si è deciso di parlare del problema: “Facciamo 10 mila tamponi al giorno – ha detto martedì Giulio Gallera – Se potessi ne farei un milione, ma dipende dalla mancanza di reagenti”. Ieri, poi, l’assessore è tornato sull’argomento: i contagi registrati non scendono, ha detto, perché “con le nuove linee guida dell’Iss stiamo facendo più tamponi a medici di base, operatori sanitari, sociosanitari e pazienti di Rsa con sintomi”. Ma secondo le cifre fornite dalla sua Regione a scendere è la curva dei tamponi. Il totale giornaliero riportato negli ultimi bollettini è crollato: da una media di 9.500 test ogni 24 ore registrati tra il 9 e il 12 aprile si è scesi ai 5.260 comunicati il 13 fino ai 7.098 di ieri, passando dai 3.778 del 14. Non che a Roma ci si sia mossi molto di più per risolvere il problema: “Tre settimane fa il ministero ci ha chiesto la lista dei reagenti di cui avevamo bisogno, dicendo che ce li avrebbe forniti tramite la Protezione civile – conclude Frazzi –, ma non ho sentito più nessuno”.

“Morte 22 donne, infetti 80 operatori Ma dal Pirellone nessuna risposta”

È un paese nel paese. Ma i morti sono di più dietro le mura di questa struttura – un antico castello, chiamato oggi “Cittadella della carità” – rispetto a quanti registrati nell’intera comunità. Siamo a Pontevico, nella Bassa Bresciana. Settemila abitanti, 90 contagi e 17 morti Covid certificati: proprio qui, in questa piccola cittadina si era registrato il primissimo caso di coronavirus dell’intera provincia di Brescia. Da allora a oggi, all’interno dell’Istituto Cremonesini per disabili psichiche, sono decedute 22 delle oltre 300 ospiti. Sono tutte donne: ragazze giovani così come 80enni, tutte affette da problemi psichici. Alcune arrivano dall’ex ospedale psichiatrico di Castiglione delle Stiviere, tante altre anche dalle province vicine. Ma non solo disabili psichiche: l’Istituto ospita anche le donne affette da Alzheimer, specie nella parte della struttura diventata Residenza sanitaria assistita. “Il nostro indice di mortalità nel periodo critico dell’emergenza, circa il 6%, ha riguardato soprattutto le pazienti anziane e con patologie associate, sostanzialmente ospiti della nostra Rsa” spiegato dall’Istituto. Parliamo di donne che sono state abbandonate al loro destino, senza che nessuno sia potuto intervenire in tempo.

“I tamponi per le pazienti sono mancati perché la Regione Lombardia ha ritenuto di limitarne l’impiego” spiega monsignor Federico Pellegrini, presidente dell’Istituto Cremonesini. “In due occasioni, il 13 e 24 marzo, abbiamo richiesto a mezzo mail l’effettuazione di tamponi nasofaringei, proprio dopo il primo caso riscontrato a seguito del ricovero in ospedale. Non abbiamo mai ottenuto risposta”. La Regione si sarebbe trincerata dietro il silenzio, mentre le donne morivano e il personale continuava a infettarsi. A metà marzo infatti lo stesso sacerdote presidente dell’istituto bresciano aveva denunciato la situazione d’emergenza, raccontando che il 75% del personale era a casa in malattia con i sintomi covid. Un numero enorme che aveva spinto la direzione a cercare infermieri all’esterno perchè “giunti al limite della possibilità di garantire un servizio adeguato alle nostre ospiti”, come scriveva il 18 marzo monsignor Pellegrini.

Il silenzio assordante della Regione era stato rotto da una mail di Ats che, richiamando “la nota della Direzione generale Welfare Regione Lombardia del 10.03.2020 in merito all’emergenza Covid-19”, ricordava che i tamponi potevano essere fatti solo agli operatori sanitari. E così il numero dei contagi tra le donne disabili sono continuati ad aumentare: “Non è stato possibile ricostruire la catena dei contagi”, spiegano dalla Onlus bresciana. Secondo quanto riferiscono alcuni dipendenti, il piano pandemico messo a punto in occasione della Sars 1 non sarebbe stato rispettato. “Dovevano essere isolati due reparti, ma non è stato fatto”, racconta un infermiere. I vertici dell’Istituto Cremonesini si difendono: “L’elevato numero di febbri riscontrate all’inizio, unito all’impossibilità di individuare i casi positivi per la più volte ribadita impossibilità di effettuare i tamponi sulle ospiti, avrebbe portato ad un’attività assolutamente disfunzionale, portandoci al rischio di tenere insieme pazienti positivi e negativi”. E poi – è la linea di difesa – “l’Istituto ha pochissime camere singole, quindi avremmo dovuto isolare le pazienti per ‘corti’, sottoponendo il personale ad uno sforzo dannoso e disfunzionale”.

La Procura di Brescia non ha ancora aperto un’inchiesta sul caso Pontevico, ma il Codacons ha annunciato un esposto: “I numeri strazianti dell’Istituto pongono in luce una probabile nuova carenza di diligenza che ha portato al disastro”.

Fiamme gialle in Regione: al vaglio dei pm non solo Rsa

La Guardia di finanza in Regione Lombardia. Per acquisire i documenti che ricostruiscono i rapporti tra la Regione e gli istituti dove nelle settimane scorse è avvenuta la strage degli anziani: Pio Albergo Trivulzio in testa. Ma anche per comprendere, più in generale, tutta la gestione dell’emergenza Covid-19, almeno dal 20 febbraio. Ieri mattina una squadretta del Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Milano si è presentata, su appuntamento, negli uffici dell’avvocatura regionale. Non una perquisizione, formalmente, ma un’acquisizione di tutte quelle carte – così tante che è stato fissato un secondo appuntamento stamattina – necessarie ai pm Mauro Clerici e Francesco De Tommasi, coordinati dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, per capire com’è stata gestita dalla Regione la pandemia. I pm vogliono sapere che cosa la Regione ha richiesto alle Rsa, ma anche alle Ats, le Agenzie di tutela della salute sul territorio, dopo il 20 febbraio, allo scoppio del caso Codogno.

Riavvolgiamo il nastro. Il punto di partenza è la delibera con la quale l’8 marzo il presidente Attilio Fontana e la sua giunta hanno dato il via libera al ricovero di pazienti Covid a bassa intensità (quelli cioè che hanno superato la fase acuta della malattia) in strutture extra-ospedaliere, tra cui le Rsa. Via libera condizionato, come ha sempre sottolineato Il Fatto, alla presenza di alcune caratteristiche, a partire dall’autonomia dal punto di vista strutturale e organizzativo, con padiglioni o aree separate. Quando scoppia la polemica, l’assessore Giulio Gallera precisa che l’accoglienza dei malati da parte delle Rsa è su base volontaria. E subito viene smentito, proprio da una delle strutture coinvolte. È la Fondazione Benefattori Cremaschi di Crema, che dispone di una casa di riposo con 220 posti e di un centro di riabilitazione con 136 posti. “Abbiamo accolto 20 pazienti Covid provenienti dagli ospedali. Non si poteva scegliere, la delibera lo impone a tutte le strutture con determinate caratteristiche”, dice Gian Paolo Foina, direttore generale. Non si è trattato dunque di una facoltà ma di un ordine.

Ed ecco la delibera del 23 marzo. Stabilisce, “per il periodo di emergenza”, l’istituzione di un supporto di cure palliative, sia in ambito domiciliare “per pazienti Covid complessi, cronici e fragili”, sia attraverso consulenze. Ma i ricoveri sono in realtà già scattati per alleggerire gli ospedali pubblici. Si arriva al 30 marzo, con un’altra delibera: la Regione dà indicazioni alle Rsa su come gestire i pazienti Covid. A quella data nelle case di riposo lombarde non sono ancora stati eseguiti tamponi sugli anziani degenti, nonostante si contino già centinaia di decessi: circa 600 solo nel Bergamasco.

Proprio qui, solo da ieri l’Ats locale ha chiesto ai vertici delle Rsa di inviare l’elenco nominativo degli ospiti con sintomi Covid, per sottoporli ai tamponi. “E solo da venerdì scorso hanno iniziato a fare radiografie”, dice Augusto Baruffi, presidente della Fondazione Anni Sereni di Treviglio (Bg), a cui fa capo una casa di riposo con 145 posti letto. “Abbiamo avuto 34 decessi. Solo ora l’azienda sanitaria ci ha garantito venti tamponi, e scaglionati nel tempo”. Secondo Gallera il trasferimento dei pazienti Covid nelle Rsa a seguito delle delibere della Regione non ha provocato “contaminazioni”. È un fatto però che nelle case di riposo lombarde il 70% dei circa 2mila decessi, come risulta da uno studio dell’Iss, sia avvenuto proprio nel mese di marzo. Il Fatto chiede inutilmente alla Regione da più di tre settimane i dati precisi sui pazienti Covid trasferiti nelle case di riposo (e negli hospice). Per stessa ammissione della Regione, il 27 marzo erano circa il 30% del totale dei dimessi “clinicamente guariti”, cioè senza più sintomi, in fase di negativizzazione, ma ancora potenzialmente contagiosi. Vale a dire – a quella data – qualcosa come 2.400 persone. L’assessore Gallera ha poi ridimensionato drasticamente: solo 147, trasferiti in 15 strutture, tra cui anche il Trivulzio.

La Procura nei giorni scorsi ha iscritto nel registro degli indagati il direttore generale del Trivulzio Giuseppe Calicchio: ipotesi di reato epidemia colposa e omicidio colposo plurimo. Indagini avviate anche su una dozzina di altre strutture.

La grande mole di documenti acquisita sarà analizzata nelle prossime settimane e incrociata con le carte raccolte dai carabinieri dei Nas in oltre 600 Rsa su tutto il territorio nazionale.

Ma le carte richieste dimostrano che i pm non si fermeranno alla strage degli anziani.

Calano i nuovi casi “Tra i morti nascosti anche molte donne”

C’è ancora un calo dei nuovi casi di infezione da Covid-19 nei dati presentati ieri dal direttore della Protezione civile Angelo Borrelli, per l’occasione accompagnato da Ranieri Guerra dell’Organizzazione mondiale della sanità. In tutta Italia sono stati 2.667 per un totale di 165.155 casi totali, comprensivi di morti e guariti, quindi l’aumento è dell’1,64 per cento, più basso dei giorni scorsi. Va meglio anche in Lombardia: sono 827 i nuovi casi notificati (totale 62.153) contro gli oltre mille e quasi 1.500 al giorno di questa settimana. Resta però alta la preoccupazione per la provincia di Milano che registra 325 nuovi casi (189 martedì) per un totale di 14.675, di cui 144 (contro 57 martedì) in città, dove il totale è 6.058 casi. Ed è sempre allarmante il Piemonte, unica Regione che anche ieri ha registrato un 3 per cento di nuove infezioni notificate (539 che portano il totale a 18.229). Come ci ha spiegato il professor Gianni Rezza dell’Istituto superiore di sanità, sono contagi notificati ieri che però risalgono in media a quindici giorni fa.

Resta tuttavia molto alto il numero dei deceduti. Anche ieri sono stati 578 per un totale di 21.645 dall’inizio dell’epidemia: 235 in Lombardia (totale 11.142), 88 in Piemonte (2.015), 83 in Emilia-Romagna (2.788), 34 in Veneto (940). La media degli ultimi 7 giorni è 468, contro i 645 di due settimane fa e gli 807 di tre settimane fa. Calano molto lentamente. E dovrebbero riferirsi a contagi ancora precedenti, di 15-20 giorni fa. Però prosegue ormai da dieci giorni la diminuzione dei pazienti in ospedale: ieri hanno registrato 368 ricoverati in meno nei reparti ordinari, è stato il giorno migliore; altri 107 posti si sono liberati nelle terapie intensive. Succede anche in Lombardia: 34 in meno nei reparti ordinari dove ora sono 12.043 e 48 in meno in terapia intensiva dove sono 1.074. A livello nazionale, dal 4 aprile siamo passati da 29.010 ricoverati ai 27.643 di ieri (-1.367) e nelle terapie intensive dai 4.068 del 3 aprile ai 3.079 (-989).

Nel frattempo un nuovo studio dell’Istituto Cattaneo di Bologna solleva qualche dubbio sulla forte sproporzione della mortalità da Covid-19 fra i due sessi. L’Istituto superiore di sanità, nel suo ultimo report sui decessi che risale a due giorni fa e riguarda 18.641 deceduti alla data del 13 aprile, conferma che l’età media è 79 anni e le donne sono il 34 per cento del totale. Vuol dire che gli uomini sono i due terzi. Il presidente del Cattaneo Asher Colombo e i ricercatori Roberto Impicciatore e Rocco Molinari hanno invece analizzato i dati della mortalità in eccesso registrata dall’Istat tra il 21 febbraio e il 28 marzo, che in alcune Regioni supera il doppio della media dello stesso periodo negli anni tra il 2015 e il 2019 e supera anche i decessi legati al Covid-19. “Osservando i dati ufficiali sui pazienti deceduti per Covid-19, il numero di decessi maschili su 100 mila uomini è del 151% più alto del corrispettivo femminile — evidenzia Asher Colombo, ordinario di Sociologia all’Università di Bologna —. Se si osservano, invece, i dati dei decessi nei 40 giorni indicati del 2020 (21 febbraio-28 marzo, nda) eccedenti rispetto alla media 2015-19, la differenza scende al 37,9%” e sembra ridursi ulteriormente con l’aumento dell’età.

Le spiegazioni ipotizzate dal Cattaneo sono diverse, anche sovrapponibili fra loro: le donne over 65 vivono più spesso da sole (60,3 per cento contro il 29,9 per cento degli uomini), sono il 74,1 per cento degli ospiti delle Residenze socio assistenziali. Insomma hanno avuto maggiori possibilità di morire da sole o nelle case di riposo senza che nessuno si preoccupasse di far loro un tampone per il Covid-19.

App per i tracciamenti, confusione sulla scelta La Toscana lancia la sua

L’attesa sulla scelta della applicazione di contact tracing che dovrebbe essere parte del progressivo ritorno alla vita degli italiani si allunga. E all’attesa si aggiunge la confusione, alla confusione il sospetto. Le due app selezionate dai tavoli della task force del ministero dell’Innovazione, basate su tecnologia bluetooth (anonimizzazione e informazioni solo su eventuali contatti tra telefoni) sono state l’ultima certezza. Intorno è confusione, iniziative autonome e operazioni di spin più o meno occulto.

Sms? Ieri mattina, per dire, è iniziata a circolare l’ipotesi di avvisare i cittadini che siano stati in contatto con un contagiato attraverso l’invio di un sms e non con la notifica dalla app come nei progetti usciti dal ministero di Paola Pisano. Non è una differenza di poco conto. L’invio di un sms implica il coinvolgimento dei gestori della rete telefonica (alcuni, come Tim, avevano anche partecipato alla selezione del ministero) e, di fatto, l’identificazione dei soggetti potenzialmente infetti attraverso il loro numero di cellulare. Una cessione di privacy che non spaventa parte di chi è nelle diverse task force dell’ emergenza e che certo non spaventerà l’ex ad di Vodafone, Vittorio Colao, figura chiave nella gestione della fase 2 che non ha finora nascosto la propensione per un tracciamento anche più spinto di quello invece sostenuto dagli esperti della Pisano. Certo, con due proposte sul tavolo da settimane, analizzate ed elaborate da esperti e tecnici, potrebbe apparire poco comprensibile cambiare idea all’ultimo momento o chiedere implementazioni. L’ultima parola spetterà, comunque, al premier Conte.

L’Ue. Anche perché ieri la Commissione Ue ha raccomandato, ancora una volta, di ritenere il tracciamento digitale solo un elemento che integri (e non sostituisca) le altre misure, come test e tamponi. “L’uso di tali applicazioni mobili – spiega la Commissione – dovrebbe essere volontario e nel pieno rispetto delle regole per la protezione dei dati personali”. Agli utenti deve rimanere il controllo dei propri dati e ad essere tracciata deve essere “la stretta vicinanza tra i dispositivi mobili” ma solo su base anonima e aggregata. E ancora: trasparenza sul funzionamento e disattivazione al termine della crisi, con cancellazione di tutti i dati. Niente numeri di telefono dunque né celle né operatori.

Reti, celle e annunci. Ieri mattina c’è stato infatti un certo allarme per la notizia di un accordo tra il capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, e il capo della Polizia, Franco Gabrielli, che autorizzava l’utilizzo dei tabulati e delle celle telefoniche per identificare i contatti dei positivi al Covid-19. In realtà si è trattato di uno scambio di lettere in cui Borrelli chiedeva alla Polizia di aiutare le Asl (su loro sollecito) a reperire rapidamente i numeri di eventuali persone a rischio nei casi in cui il positivo non fosse in grado di fornirli o le Asl di trovarli.

Come se l’incertezza non bastasse, c’è poi la solita annuncite. Mentre la responsabile per l’Innovazione del Pd, Marianna Madia, chiede una norma e l’intervento del Parlamento, la ministra dei Trasporti, Paola De Micheli propone una sua app che dovrebbe gestire l’affollamento sui mezzi pubblici su modello cinese. Non si sa ancora come dovrebbe essere, ma intanto l’annuncia.

Toscana e il nodo regioni.Ne approfitta anche la Toscana che fa partire la sperimentazione di una app, nell’attesa di capire come il governo si porrà nei confronti delle Regioni: #acasainsalute monitora i casi positivi al Covid-19 ma può anche tracciare gli spostamenti. Sviluppata dal dipartimento di sanità regionale (e, a loro dire, pensata a prova di privacy) dovrebbe essere uno strumento parallelo allo screening di massa annunciato dal governatore Rossi con 400 mila test sierologici. Al momento può essere scaricata volontariamente dagli operatori sanitari e forze dell’ordine. Funziona così: una volta scaricata, si inseriscono i dati personali scansionando la tessera sanitaria. Poi si aggiorna lo status dopo il test. Si possono inserire anche i dati sui propri sintomi e registrare se si è entrati in contatto con casi positivi o sospetti. Questo permette di fare un tampone immediato all’utente, anche se il risultato del test sierologico è negativo. È un punto nodale della campagna, risalire in fretta ai contatti e testarli subito. Nelle ultime ore l’applicazione è stata scaricata da medici, infermieri e operatori di ospedali e Rsa fiorentine nonché dagli agenti della polizia penitenziaria del carcere di Livorno. Per le categorie più a rischio, la Regione ha promosso una campagna da 200 mila kit sierologici che saranno estesi per la “fase due” a tutti i lavoratori che rientreranno nelle fabbriche a maggio.

Al momento la app prevede una forma di geolocalizzazione volontaria per registrare il luogo dove è stato fatto il test. Si punta, però, a estendere la tracciabilità con un sistema Gps, ma questo potrà deciderlo solo il governo con un provvedimento. Eccola, ancora una volta, la grande incognita.

“Riapriamo tutto a maggio” La Lombardia fa di testa sua

Da Palazzo Chigi giurano che nuovi decreti del presidente del Consiglio, all’orizzonte non ce ne sono. E che le ipotesi di nuove aperture prima del 4 maggio circolate in queste ore sono senza fondamento. Dal comitato tecnico-scientifico non arrivano segnali per un allentamento delle misure in vigore. E il lavoro della task force presieduta da Vittorio Colao è ancora agli inizi: stanno lavorando e torneranno a riunirsi già oggi pomeriggio o al massimo domani mattina.

Per questo da palazzo Chigi filtra una certa “sorpresa” per le notizie che arrivano dalla Lombardia, che ieri ha annunciato di voler riaprire tutto già dal 4 maggio, secondo le regole delle “quattro D: distanza, dispositivi, digitalizzazione e diagnosi”. Corre in avanti, come al solito, il governatore Fontana. E sembra dimenticare non solo “il rischio che la curva dei contagi torni a salire” ma pure che, di pari passo con le riaperture, viaggiano altre questioni ancora tutte da ri-organizzare.

La prima è il trasporto pubblico. Ovvero i treni dei pendolari, le metropolitane delle grandi città, gli autobus che collegano i comuni delle province. Bisognerà limitare l’affluenza, per garantire le distanze. Anche per questo la ministra dei Trasporti Paola De Micheli ieri ha detto che “non possiamo più immaginare che milioni di persone si muovano tra le 7.30 e le 8.00 del mattino”. Il tema della “turnazione” sarà uno dei pilastri della ripartenza: perché permetterà al contempo di non affollare fabbriche e uffici e di distribuire su più fasce orarie l’affluenza dei lavoratori su strade e ferrovie. Gli interventi allo studio riguardano le tratte, il numero delle corse ma anche la rimodulazione degli spazi interni ai mezzi di trasporto: in un normale autobus da 54 posti, secondo le prime stime, si potrà viaggiare al massimo in 22.

Ieri, il documento congiunto di Commissione e Consiglio europeo, presentato dai presidenti Ursula von der Leyen e Charles Michel, non ha dato grossi lumi nemmeno su questo: dall’Europa, arrivano solo “raccomandazioni” sulla “gradualità” della riapertura. Con una precondizione: avere una “riserva” di posti in terapia intensiva. Forse le dovrebbe leggere anche il governatore leghista della Lombardia.

Confindustria sceglie oggi il presidente e scommette sulla riapertura generale

Si saprà oggi chi sarà il presidente di Confindustria designato dal Consiglio generale dell’associazione. Il parlamentino confindustriale, di 183 membri, voterà a distanza su una piattaforma certificata da un notaio e verso le 12:45 si saprà se il favorito della corsa, il 54enne presidente di Assolombarda, Carlo Bonomi, espugnerà il quartier generale romano da cui si sente molto lontano. All’attuale presidente Vincenzo Boccia si rimproverano promesse di rinnovamento non mantenute e lo schiacciamento sul governo. Quando Conte arrivò a Milano, Bonomi lo attaccò frontalmente.

Il presidente di Assolombarda rappresenta le ragioni del “Nord” racchiudendo umori leghisti, renziani, ma anche con la dovuta attenzione al mondo M5S, come Luigi Di Maio, o Stefano Buffagni, che all’impresa riserva sempre attenzione. I rumors gli assegnano circa 110-112 voti, quindi un vantaggio pieno. Licia Mattioli, industriale orafa, 70 milioni di fatturato, però ci crede. Gli avversari l’accomunano alla “vecchia Confindustria” che governa a Roma (e non solo, lei torinese è anche vicepresidente della Compagnia di San Paolo), ma ha in mente un’associazione “policentrica” con la testa non solo nella Capitale, ma anche nei territori e a Bruxelles. Negli ultimi giorni confida molto sugli indecisi (circa una dozzina) o su sostegni imprevisti come quello dell’Unione bresciana, che l’altra sera si è pronunciata a suo favore. Una rottura con Bonomi in terra lombarda che viene visto come un segnale importante. Così come si spera che sostegni come quello del gaffeur Bonometti possano alla fine danneggiare il candidato lombardo.

Entrambi i candidati, però, hanno mantenuto la stessa linea sulla necessità di tenere aperte le aziende in piena crisi pandemica.

Mattioli, a cui i sindacati guardano con attenzione, è la più coerente con la gestione attuale, ma spera di rappresentare una rottura: per questo le è cara la scimitarra che le fu regalata al termine della presidenza dell’Unione industriali di Torino. Ma chi è convinto di poter fare piazza pulita a Roma è soprattutto Bonomi che in quella, mai sopita, e mai davvero affermata, voglia della base di mettere un freno alla burocrazia dell’associazione, gioca le sue carte migliori.

“Così la Lombardia mette tutti a rischio, troppe le deroghe”

“Se le aziende riaperte provocassero l’insorgere di nuovi focolai sarebbe un disastro incommensurabile”. Pier Luigi Lopalco – epidemiologo ormai noto al grande pubblico, professore di Igiene dell’Università di Pisa, nominato dal governatore Michele Emiliano responsabile delle emergenze epidemiologiche in Puglia – teme che tutti gli sforzi degli italiani “possano essere vanificati da scelte dettate da logiche che non tengano conto della gravità della pandemia”.

Professore, i decessi quotidiani in Italia sono ancora troppi (578 ieri). I dati continuano a essere emergenziali, ma i numeri delle aziende aperte in deroga, proprio nel “Nord-focolaio” e nelle zone più colpite, cominciano a essere consistenti: 20 mila in Lombardia, altrettante in Veneto ed Emilia-Romagna. Troppa fretta?

I dati che ancora leggiamo rispetto alla situazione della Lombardia sono tutt’altro che confortanti. La circolazione del nuovo coronavirus è ancora importante e riaprire di più in quella zona industriale vorrebbe dire sovraccaricare Milano che ne è il fulcro. Non capisco se coloro che decidono si rendano ben conto di che cosa questo significhi. Rispetto al pre-lockdown risultava dalle celle telefoniche ancora un 40% di mobilità qualche giorno fa, non possono essere solo operatori sanitari… Aumentare questa percentuale di movimenti è molto rischioso. Perché i conseguenti contatti sociali potrebbero generare altri focolai.

Che scenario si aprirebbe?

S’immagina dopo le aperture dover richiudere? Psicologicamente ed economicamente oltre che a livello sanitario sarebbe il disastro totale. Danni incommensurabili.

Quindi?

Finché non ritorniamo ad avere il controllo della situazione, e certamente in Lombardia non ce l’hanno, non possiamo ripartire. La Lombardia è la regione che ha avuto la fase di proliferazione più importante della pandemia in Italia.

Il Sud è ancora in pericolo?

Il Sud è in un’altra condizione, senza dubbio. Ma, attenzione, il sistema-Paese non è a compartimenti stagni: una riapertura massiccia della produzione al Nord potrebbe compromettere anche l’equilibrio del Centro-Sud. Bisogna stare molto attenti, per questo non credo in alcun modo alle strategie a macchia di leopardo, non si può pensare a ripartenze della produzione diverse a livello regionale. In che modo si potrebbero poi controllare i movimenti da regione a regione?

Serve tempo?

Più che tempo serve impegno. Bisogna strutturare i dipartimenti di prevenzione, fare nuove assunzioni, così stiamo facendo con qualche risultato sotto gli occhi di tutti in Puglia. Il modello-Corea non è un’app da scaricare sugli smartphone. Il modello-Corea sono 20 mila persone qualificate che creano una struttura a rete sul territorio per indagare su dove siano i malati, mappando le aree del Paese e trovando i focolai tempestivamente.

Eppure proprio i vertici della Regione Lombardia sono pronti, dal 4 maggio, a una “nuova normalità”. Hanno chiesto di riaprire tutte le attività produttive rispettando le “4 d”: distanza (un metro di sicurezza tra le persone), dispositivi (obbligo di mascherina per tutti), digitalizzazione (obbligo di smart working per le attività che lo possono prevedere) e diagnosi (test sierologici). Può bastare?

Dipende ciascuna delle “4 d” come viene declinata. Per esempio, “diagnosi” cosa significa? Dove sono le azioni di sorveglianza? Dove andranno i positivi? Come hanno intenzione di spegnere le catene di contagio?

Non le sembra sufficiente… e in base ai numeri attuali dei bollettini non lo sarebbe in nessun caso, giusto?

Non è sufficiente. Servono più certezze altrimenti è un salto nel buio.