Brescia, fase 2: turni, maniglie e “antisputi”

Ci si è messo il prefetto, Attilio Visconti, a fare da paciere. Perché a Brescia, la città della Lombardia che ha superato Bergamo per contagi e dove per un lavoratore su due il lockdown è finito da un pezzo, la fase 2 non può aspettare le task force di governo. Troppa gente in fabbrica e in ufficio – 270 mila, secondo i dati Istat elaborati mercoledì dalle pagine locali del Corriere – per affidarsi al protocollo che governo e sindacati hanno siglato un mese fa, il 14 marzo scorso. Non solo perché da allora sono aumentate le aziende aperte (altre 2 mila solo da Pasquetta in poi), ma anche perché questo mese di “esperienza” ha mostrato alcuni limiti di quel protocollo, che deve necessariamente tararsi sulle realtà produttive locali.

Così, l’altro ieri, raccogliendo “la spinta iniziale del prefetto”, l’Associazione Industriali Bresciani e Cgil, Cisl e Uil di Brescia e della Valcamonica, hanno firmato un protocollo d’intesa che in sostanza scrive le regole della fase 2. Quella, appunto, che lì è già cominciata.

I punti essenziali sono quelli che conosciamo: distanziamento e dispositivi di protezione individuali. Ma l’accordo aggiunge dettagli a cui probabilmente dovremo abituarci in tutta Italia. I turni, per esempio: il lavoro va riorganizzato in modo da evitare eccessiva “presenza contemporanea nei locali”. D’ora in poi bisognerà prevedere “orari di ingresso e di uscita scaglionati” e mantenere anche degli intervalli tra un turno e l’altro in modo da “consentire la sanificazione degli spogliatoi”. E ancora, prima dell’ingresso tutti sono chiamati a compilare una check-list con le domande di rito: “presenza di febbre > 37,5 °C; o presenza di sintomi simil-influenzali negli ultimi 14 gg (tosse, starnuti, febbre, difficoltà respiratorie, dolori articolari diffusi) e/o perdita di gusto e olfatto; o avere avuto contatti ravvicinati senza utilizzo di protezioni con persone positive al Covid-19”.

Mascherine e guanti sono ovviamente obbligatori, ma “per il personale addetto a funzioni di front-office o a contatto con clienti, fornitori e terzi” serviranno altre barriere che il protocollo elenca così: “protezioni antifiato, parasputi, parastarnuti”. L’intesa tra sindacati e industriali entra nel dettaglio anche dei prodotti da utilizzare per la “decontaminazione”: “ipoclorito di sodio 0,1%”. Da sanificare tutte le superfici, comprese – ricordano – “le tastiere dei distributori automatici”. Infine, “tutte le porte che possono essere lasciate aperte vanno bloccate in apertura”, in modo che non ci sia bisogno di toccare le maniglie. Sono alcune delle prescrizioni raccomandate e che viaggeranno in contemporanea con uno studio epidemiologico che per il momento verrà sperimentato su un migliaio di dipendenti di alcune grandi industrie bresciane: uno screening (tampone ed esame sierologico) che durerà quattro mesi e che dovrà “determinare un senso di sicurezza dell’ambiente di lavoro, così che il lavoratore si possa sentire protetto”. Resta il tema del trasporto, un altro degli elementi citati dal protocollo. Ieri mattina, il primo incontro in Prefettura sul tema ha già prodotto un dato rilevante: per mantenere le distanze, bisognerebbe quintuplicare i mezzi esistenti.

Furbetti e pochi controlli: 110mila aziende già riaperte

I pochi controlli, i tanti escamotage consentiti dalle norme e pure qualche furbizia: tutto è stato utile per riaprire imprese non ammesse dal decreto del governo del 22 marzo. É così che molte aziende hanno rialzato i battenti. Fino all’8 aprile erano 2.296 le attività sospese a seguito delle verifiche dei prefetti di tutta Italia. Ma sono solo una parte: gli “irregolari” potrebbero essere molti di più perché di fronte alla ingente mole di auto-certificazioni, i prefetti sono riusciti a controllare solo un’azienda su tre. Per questo adesso il Viminale, con una circolare, ha stabilito che saranno affiancati dalla Guardia di Finanza e dall’Ispettorato del lavoro.

Il Dpcm del 22 marzo ha individuato i (tanti) settori considerati “essenziali”, come la filiera agroalimentare o sanitaria: le aziende che vi ricadono possono restare aperte. Le altre per farlo devono rispettare alcuni criteri, come essere fornitore di un cliente che rientra nei settori essenziali o essere parte di un filiera internazionale col rischio di perdere i grossi clienti in caso di chiusura. Le imprese così auto-certificano la propria condizione inviando tutto alla prefettura. Tanto basta per aprire: vale la regola del silenzio-assenso. Se poi i controlli successivi rilevano irregolarità arriva la sospensione. Con l’ultimo decreto del 10 aprile, inoltre, anche le aziende dei settori difesa e aerospazio possono auto-certificare: in questi casi per far scattare la sospensione serve l’ok del governatore regionale.

 

20 mila nuovi aperti in Lombardia e Veneto

Così le Prefetture, invase dalle domande, sono costrette a concentrarsi prima sulle imprese con parecchi dipendenti, per poi passare alle realtà più piccole. Finora si contano circa 112 mila auto-dichiarazioni, stando ai dati aggiornati a due giorni fa (erano 80mila la settimana scorsa). La metà si concentra in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna con circa 20 mila a testa. Stando ai dati provinciali aggiornati a poco prima di Pasqua, tra le province con il maggior numero di aziende che hanno comunicato la riapertura spicca quella di Brescia dove sono 6.700, a cui si aggiungono altre 2.013 imprese solo tra il 14 e il 15 aprile (nella provincia i contagi da Covid-19 accertati sono 11.187). Sono poi circa 4500 le comunicazioni arrivate dalle aziende della provincia di Milano, una delle più colpite dal coronavirus: di queste, 70 sono state sospese. In Veneto, nelle province industriali di Vicenza e Padova si contano circa 4 mila comunicazioni da parte delle imprese. In Emilia-Romagna invece ci sono circa 4500 autocertificazioni nella provincia di Modena, 4300 a Bologna e 2200 a Parma.

 

Lazio, i lidi e le imprese di buste di plastica

Nel Lazio la maggior parte delle imprese che ha riaperto si concentra nella provincia di Roma, con circa 5 mila auto-certificazioni arrivate in prefettura. Un centinaio quelle sospese. Tra queste alcuni stabilimenti balneari che avevano dichiarato di dover aprire per concludere i lavori in vista dell’estate. Nei controlli sono finite anche aziende che producevano buste di plastica: nella documentazione gli imprenditori asserivano che fossero destinate alla filiera alimentare, ma non era così. In realtà Roma – come pure Milano – ha anticipato la circolare del Viminale, avendo già avviato verifiche in collaborazione con la Finanza.

 

Protocolli di sicurezza, arriva l’ispettorato

Nella circolare del 14 aprile firmata dal capo di Gabinetto del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, e inviata ai prefetti si chiede un’accelerazione nell’istruttoria sulle autocertificazioni. “È stato rilevato – è scritto – un notevole divario tra il dato delle comunicazioni trasmesse alle Prefetture e quello delle relative istruttorie intraprese” (che sono 38.534). Si è stabilito che i prefetti potranno ricorrere alla Finanza per i riscontri sulla “veridicità del contenuto delle comunicazioni” dalle aziende, e alle Asl locali e all’’Ispettorato del Lavoro per i controlli sull’attuazione dei protocolli di sicurezza nei luoghi di lavoro.

 

Orari differenziati d’ingresso e d’uscita

Secondo i dati di un rapporto dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, il 52,7% delle aziende italiane ha interrotto le attività dopo il lockdown. Ma il governo sta studiando nuove misure, come l’apertura in base a orari differenziati d’ingresso e d’uscita per uffici pubblici, industrie e aziende. Prevedere ingressi e uscite “scaglionate” infatti consentirebbe di alleggerire la pressione sui trasporti pubblici.

 

Il silenzio è d’oro

Gli italiani si stanno comportando mediamente bene, al netto di un’infima minoranza riottosa alle regole che, quando furono annunciate, si temeva molto più numerosa. E i partiti? Almeno quelli di governo (salvo uno, peraltro clandestino) sembravano aver colto la portata della sfida che ci attende. Parlavano poco e facevano come si dovrebbe fare, anche dall’opposizione, in tempo di guerra: spogliarsi delle magliette, deporre le bandierine, collaborare col governo, anche con contributi critici ma sempre accompagnati da soluzioni realistiche, lavorare molto, possibilmente in silenzio, insomma dare prova di maturità. Poi l’altroieri siamo improvvisamente precipitati nella cacofonia pre-Covid con la gara fra Pd e 5Stelle a chi ce l’ha più lungo sul Mes, il meccanismo europeo Salva-Stati che tutto il governo, da Conte ai ministri M5S a quelli del Pd (gli “economici” Gualtieri e Misiani), ha già dichiarato di non voler usare, ma di non poter impedire ad altri di farlo.

Il Mes, per com’è nato – un prestito senior legato a “condizionalità” – è un cappio al collo di chi lo usa: vedi Grecia. Ora dall’Eurogruppo ne è uscita una versione 2.0 che parrebbe priva di condizionalità a patto che sia usata per spese sanitarie. Ma, siccome la sua cornice giuridica è tutta da scrivere, nessuno può sapere se le condizionalità uscite dalla porta potranno rientrare dalla finestra con un voto del Consiglio “a maggioranza qualificata” (come prevede il regolamento Ue). Quindi dire – come Sassoli, Gentiloni, Prodi, Zingaretti e B. – che i 37 miliardi riservati all’Italia sono gratis è una fuga in avanti. Idem affermare – come i 5Stelle – che le condizionalità sono già certe. Il nuovo Mes al momento è un Ufo e bisogna attendere almeno il Consiglio europeo del 23 aprile per saperne di più. Dire poi che l’Italia lo userà è molto pericoloso, perché il Mes è roba per i Paesi alla canna del gas, in crisi di liquidità e il solo evocarlo – per giunta durante l’emissione aggiuntiva di titoli di Stato – è una follia suicida: indebolisce l’immagine dell’Italia agli occhi dei fondi finanziari che dovrebbero acquistare quei bond (infatti lo spread è subito schizzato). E spaccare il governo fra guelfi e ghibellini nel pieno di una trattativa mortale – quella sugli eurobond (o come li si vuol chiamare), per attivare strumenti finanziari infinitamente più poderosi dei 37 miliardi del Mes – è roba da fuori di testa. Se Conte teme che le sparate di Salvini e Meloni depotenzino la forza contrattuale dell’Italia sul tavolo europeo, figurarsi i danni che possono provocare gli opposti estremismi dei suoi alleati. È troppo chiedere almeno un’altra settimanella di silenzio?

“Sarà un modo per reinventarci: diventiamo spacciatori di libri”

“C’è stato un momento in cui mi sono sentito un pusher. Un signore si è affacciato alla soglia e mi ha chiesto un libro, ma ho dovuto rispondergli ‘mi spiace, non posso’. Lui ha lanciato un’occhiata perplessa agli scaffali, al che gli ho proposto di lasciarmi l’indirizzo di casa, glielo avrei fatto avere in qualche modo. ‘Ho capito, sei uno spacciatore’, ha risposto. Ci siamo fatti una sana risata”. Gigi Raiola è uno dei due titolari della libreria internazionale Luxemburg di piazza Carigano a Torino, un luogo che per molti torinesi è assai più che un semplice bookshop. Da ieri ha potuto riaprire per qualche ora: “Ma solo perché siamo anche edicola internazionale – racconta Raiola – ecco perché non posso vendere libri”.

Raiola, com’è stato il primo giorno?

Emozionante, anche se è mancato quel rito dell’apertura degli scatoloni delle novità, le case editrici sono ferme. L’emozione vera è stato alzare la serranda e aspettare qualcuno.

E qualcuno è arrivato?

Certo, ovviamente tutte persone che abitano nei dintorni. Abbiamo venduto molti giornali, esauriti Fatto Quotidiano, Repubblica e Corriere della Sera, anche se le copie erano meno del solito. E abbiamo anche ricevuto la stampa internazionale. In tanti avrebbero voluto fermarsi come erano abituati a fare. In libreria non vai a colpo sicuro come dal panettiere, è un luogo di sosta. Ma in questo momento non è possibile. Però ci tenevamo a riaprire un angolino di piazza Carignano. Un gesto d’amore per chi abita da queste parti. Parte della mattinata l’ho passata a chiacchierare in piazza con quei (pochi) che passavano. Ovviamente a distanza e tutti con la mascherina.

La Luxemburg – e la libreria in genere – è un luogo di contatto. Difficile pensare che le cose torneranno come prima a breve. Come vi state organizzando?

Già, bisognerà capire come fare, ma intanto già avere un contatto umano, anche se limitato, diventa immediatamente una cosa bella. Lo avremmo mai pensato fino a due mesi fa? Per il momento abbiamo ricevuto molte telefonate dai clienti che chiedono come fare per avere i libri e le riviste. Fino a ieri non abbiamo fatto consegne, ci eravamo fermati del tutto e a chi ce lo chiedeva abbiamo risposto che non appena fossimo stati attivi ci saremmo interrogati sul da farsi. Per organizzare delle spedizioni con un corriere bisogna avere almeno un punto di ritiro aperto.

Basterà organizzare un buon servizio di delivery per salvare un po’ di fatturato?

Certo che no. Però, se posso permettermi, questa è anche un’occasione che il libraio ha per reinventarsi. Dobbiamo imparare ad andare incontro al lettore non solo portandogli a casa quel che acquista. Stiamo studiando una finestra take away dove ritirare titoli precedentemente ordinati via social media, su cui dovrà essere presente un catalogo aggiornato. E dobbiamo trovare un modo per sostituire, almeno temporaneamente, ciò che in questo momento non si può fare. Prima si entrava in libreria e il libraio, o il cliente accanto, ti raccontava il libro. Adesso non si può, così abbiamo pensato a una specie di radio Luxemburg, piccole pillole di recensione dove poter andare incontro a fare quello che prima facevamo a voce. Ci svuoteremo per un bel po’, è ovvio, così bisogna darsi da fare. Certo, l’obiettivo è tornare alla normalità, ma di queste esperienze si farà tesoro. Impariamo il futuro per migliorare. E impareremo ad apprezzare di più cose che abbiamo sempre dato per scontate. E questo vale per la cultura in generale, non solo per le librerie.

Rocco Petrone, un lucano alla conquista della Luna

The Dark Side of the Moon. No, non i Pink Floyd, ma un americano di prima generazione e sangue lucano: Rocco Petrone. A lungo, troppo, rimasto sul lato oscuro del nostro satellite, sebbene protagonista assoluto delle missioni spaziali statunitensi, e dell’allunaggio del 20 luglio 1969: “Non saremmo mai arrivati sulla Luna in tempo o, forse, non ci saremmo mai arrivati senza Rocco”. Parola di Isom “Ike” Rigell, ingegnere capo del Kennedy Space Center, che con i colleghi gli affibbiò due soprannomi più utili di mille identikit: “la tigre di Cape Canaveral” e, appoggiandosi sul cognome, “The Rock”.

Il destino era davvero scolpito nella pietra, Sasso di Castalda, il borgo della Basilicata che i genitori abbandonarono alla volta degli States nel 1921, appena tre mesi prima che gli yankee chiudessero le frontiere agli immigrati. Rocco rimase orfano di padre a tre mesi, la madre si risposò, lui si ritagliò un pezzo del sogno americano entrando all’Accademia di West Point e laureandosi in Ingegneria al MIT, per poi affiancare il papà delle V2 naziste Wernher von Braun a Hunstville, Alabama, nel nucleo di quella che nel 1958 sarebbe diventata la Nasa. Un paisà di meritata e nondimeno incredibile riuscita, che oggi torna agli onori della cronaca complici gli allora concorrenti, se non nemici, nella corsa allo Spazio: i russi, ovvero i sovietici che prima del “un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità” di Neil Armstrong stracciarono gli americani e mieterono imprese al di là delle nuvole, mandando in orbita prima la cagnetta Laika e poi l’astronauta Jurij Gagarin. Ebbene, il documentario che lo leva dall’angolo, Luna Italiana – Rocco Petrone e il viaggio dell’Apollo di Marco Spagnoli, ha vinto ex-aequo il Gold Prize dello Tsiolkovsky Space Fest, il più importante festival russo sullo Spazio e uno dei principali al mondo, che si tiene nel centro moscovita di addestramento dei cosmonauti.

Prodotto da Istituto Luce-Cinecittà in collaborazione con A+E Networks Italia/History (canale 407 di Sky) e con il patrocinio di Agenzia Spaziale Italiana e Nasa, narrato da Laura Morante, con Francesco Montanari che dà voce a Petrone, si avvale di talking heads di pregio, da Tito Stagno a Piero Angela e Oscar Cosulich, ed è disponibile nei principali negozi digitali: a maggio verrà ritrasmesso su History.

Spagnoli guarda all’odierna pandemia e sostiene a ragione che “la figura di Rocco Petrone ci ricorda come si possano superare tutti gli ostacoli anche nei momenti più difficili e duri”, ma siamo alle solite: a far la differenza è l’allocazione delle risorse e, ancor prima, la volontà politica.

Mastodontico e dispendioso (24,5 miliardi di dollari), l’intero programma Apollo, di cui Petrone supervisionò le operazioni di lancio, costò appena l’equivalente di tre mesi di guerra in Vietnam e fu possibile solo grazie alla risoluzione di John Fitzgerald Kennedy, che scottato da Laika e dalla Baia dei Porci arrivò a promettere ai connazionali la Luna. Che sia corsa o corsia, razzi o provette, allunaggio o vaccino, ogni conquista si assomiglia, ogni impresa si può replicare, a patto che sussistano le condizioni preliminari: “Succederà – aveva vaticinato Rocco – quando arriverà un leader politico che voglia investire sui sogni e sulla scienza, perché una volta che ci verrà detto ‘Facciamolo!’ noi saremo pronti”.

Ispirato dal saggio di Renato Cantore, Dalla Terra alla Luna, Rocco Petrone, l’Italiano dell’Apollo 11 (Rubbettino), il documentario trova nelle immagini di repertorio (Istituto Luce, Teche Rai, Associated Press, Bbc e Nasa) le tappe di una success-story italiana per origine e americana per possibilità.

Serio e brusco, scrupoloso e determinato, l’unico connazionale tra i prevalenti ingegneri e scienziati tedeschi in cui si imbatté Piero Angela non fornisce un exemplum solo volendo guardare le stelle con il naso all’insù, ma anche tenendo i piedi ben piantati in terra, a partire dallo ius soli. Già, qual è oggi la luna da conquistare?

 

Le librerie riaprono (ma in ordine sparso)

Sembra facile ricominciare da dove ci eravamo fermati, ma non lo è. Venerdì Santo, quindi subito prima di Pasqua, il presidente del Consiglio ha annunciato la riapertura delle librerie per martedì 14 aprile, ieri, ma era impensabile che in soli quattro giorni, per giunta di festa, si approntasse l’approntabile allo scopo. E ciò perché la salvaguardia della salute dei librai e dei clienti viene giustamente indicata al primo posto delle priorità.

Quando il primo aprile scrittori e intellettuali come Ginevra Bompiani, Renzo Paris, Piero Bevilacqua, Tomaso Montanari, Gianrico Carofiglio e molti altri hanno firmato diversi appelli a Conte affinché si provvedesse al non secondario “conforto culturale” durante la “lunga cattività domestica”, pur considerando che “non si sarebbero create le file del supermercato”, lo sapevano tutti che non sarebbe stato facile.

Ma quante sono le librerie oggettivamente riaperte ieri? Difficile fare un conto, poiché molte sono le variabili da considerare. Innanzitutto, la discrepanza tra il Dpcm e le ordinanze regionali. Molti governatori, infatti, si stanno muovendo singolarmente: nel Lazio il limite è il 20 aprile, in Sardegna il 26, in Piemonte e in Lombardia è tutto fermo fino al 3 maggio. E così via, a macchia di leopardo.

Mentre i grandi gruppi stanno lavorando alla sanificazione dei locali, ai protocolli anti-contagio e stanno riflettendo sull’opportunità di riaprire (letteralmente) o garantire un servizio su appuntamento o a porte chiuse (come fanno alcune farmacie), gli esercizi di quartiere – quelli indipendenti, per capirci, i più colpiti certamente dalla chiusura – non aspettavano altro: in ballo c’è la sopravvivenza.

Dal Gruppo Mondadori fanno sapere di star lavorando per tirare su le saracinesche gradualmente, con l’assoluta priorità di garantire la sicurezza dei dipendenti e dei clienti. Il tutto prevedendo, per la trentina di punti vendita gestiti direttamente da Segrate, personalizzazioni e adattamenti in base alle dimensioni dei negozi. Per ciò che concerne i circa cinquecento librai affiliati, invece, la decisione spetta a questi ultimi (nel rispetto, ovviamente, delle disposizioni legislative). Anche Feltrinelli, che ad oggi non ha riaperto nessuna delle centodiciotto librerie, utilizza ponderatezza e l’espressione “progressiva e graduale riapertura”. L’intenzione, comunque, è quella di ripartire “tra giovedì e venerdì, in una decina di punti vendita”.

“Siamo contenti di ricominciare – spiega al Fatto Martino Montanarini, amministratore delegato del Gruppo Giunti, che gestisce duecento punti vendita – sia perché questo darà ossigeno all’azienda, sia perché è stato riconosciuto il libro come ‘bene essenziale’. Noi c’eravamo portati avanti con un protocollo interno molto severo, che prevede la sanificazione degli ambienti a opera di ditte specializzate, oltre alla fornitura di mascherine e guanti. Per la fine della settimana prevediamo di riaprire 30-40 negozi, tutti gli altri – ferme restando le disposizioni regionali – entro il 3 maggio”.

Stanno aprendo in ordine sparso anche le librerie indipendenti: a Bari si può entrare in quasi tutte, compresa la storica Laterza. A Palermo, Modus Vivendi (dalle 10 alle 13) ha allestito un banchetto sul marciapiede: il lettore chiede un libro e Marcella (la proprietaria) glielo consegna fuori dalla porta. Anche a Cagliari, dove i librai avevano passato Pasqua e Pasquetta a rimettere in ordine, si sarebbe dovuto riprendere, salvo poi l’ordinanza del presidente Solinas che rimanda al 26 aprile. Mentre a Reggio Calabria e a Catanzaro questa settimana le saracinesche rimarranno abbassate.

Finora molti editori (e proprietari delle grandi catene) si sono salvati con l’e-commerce che, prosegue Montanarini, “pur non compensando le perdite, ha registrato comunque un incremento. Ci preoccupa di più il protrarsi dell’emergenza, che si abbatterà su un settore già in crisi e avrà conseguenze editoriali importanti”. I librai indipendenti si sono dovuti invece attrezzare con le consegne a domicilio. Lina Monaco, de La Ciocchinella di Mosciano (Te) racconta: “Finché le persone non si sentiranno serene, dubito che faranno la fila in una piccola libreria”. Esperienza positiva anche per l’Arcadia di Rovereto, che si è inventata il “Kit di pronto soccorso” (libri per sorridere, per intenditori, lettori di gialli e di storie d’amore): “Hanno riscosso un grande successo sui social – spiega Silvia Turato – e vanno anche bene nelle vendite a domicilio”. Certo, su tutte, incombe Amazon: rapido e senza costi di spedizione.

Pell ancora nei guai, l’accusa: da prete abusò di un minore

Il sapore dell’innocenza George Pell l’ha assaporato per una sola settimana. Rilasciato martedì dall’Alta Corte australiana – che ha annullato la sentenza del Tribunale di Melbourne che lo aveva condannato per violenza sessuale su due minori ritenendo quella decisione sbagliata perché non teneva conto del ragionevole dubbio – ora il cardinale simbolo della pedofilia nel clero si trova a dover affrontare un’altra accusa per lo stesso reato.

Un’inchiesta annunciata dalla News Corporation, che in realtà era nell’aria già il giorno del rilascio dell’alto prelato che in prigione aveva passato 400 giorni “da innocente” come lui stesso aveva sottolineato.

Questa volta l’atto di pedofilia – già noto e sempre negato con veemenza dal cardinale – risalirebbe agli anni 70, quando Pell esercitava il sacerdozio nella città vittoriana di Ballarat. La polizia di Victoria non ha voluto commentare la notizia dell’inchiesta su Pell, benché anticipata in qualche modo dalle dichiarazioni del procuratore generale, Christian Porter, che martedì scorso mentre l’ex ministro delle Finanze del Vaticano si rifugiava nel monastero carmelitano, aveva assicurato che le denunce raccolte nel fascicolo sul suo conto non sarebbero state archiviate con l’assoluzione, ma che anzi, visto l’interesse pubblico sulle accuse di pedofilia al cardinale, sarebbero state analizzate dalla procura. La polizia locale non ha voluto commentare la nuova inchiesta.

A parlare, invece, guarda caso proprio nel giorno delle accuse è George Pell in persona, o meglio, in video, su Sky News, intervistato dal suo amico e sostenitore di lunga data, Andrew Bolt. Nell’anticipazione dell’intervista, Bolt, che ha scritto numerosi articoli e commenti a sostegno di Pell prima che si chiudesse il caso dei due coristi di Melbourne, accennava già alla possibilità di nuove indagini sul conto dell’ex arcivescovo voluto da Bergoglio a Roma. “Come reagiresti se la polizia vittoriana continuasse a pescare a strascico altre vittime, se continuasse a pescarle per tentare di perseguirti?”. La riposta di Pell: “Be’, non sarei del tutto sorpreso. Ma chi lo sa. Sono affari loro”.

Insomma il cardinale avrebbe deciso di preparare, anche a livello mediatico e con l’aiuto del suo amico, il terreno per continuare a indossare i panni della vittima perseguitata. Teoria questa che anche la sua portavoce, Katrina Lee, citata dall’Herald Sun che per primo ha dato la notizia della nuova inchiesta a carico del prelato, sostiene: “Qualsiasi cosa faccia la polizia, dovrebbe esserci un giusto processo attraverso i canali appropriati”, ha fatto sapere Lee.

Accuse queste che il vice commissario della polizia di Victoria, Shane Patton, non ha voluto neanche commentare. Fatto sta che per George Pell potrebbe non essere questo l’ultimo guaio.

La commissione d’inchiesta aperta in merito alle accuse di abusi sessuali all’interno della Chiesa in tutta l’Australia infatti, dal suo rapporto finale del 2017 aveva stralciato le pagine relative al cardinale per non intralciare il processo a suo carico allora ancora non concluso. Ma ora una nuova indagine potrebbe mettere in dubbio quella cancellazione di quelle testimonianze inserite nelle indagini sulle azioni delle autorità ecclesiastiche a Ballarat, al tempo in cui Pell era sacedote in quella regione.

In quell’occasione, Pell era già stato oggetto d’indagine perché amico del prete pedofilo di Ballarat, Gerald Ridsale. Interrogato, l’ex ministro delle Finanze aveva dichiarato che “si trattava di una storia triste e non molto interessante” per lui. “Non avevo motivo di interessarmi ai mali perpetrati da Ridsale”, aveva spiegato. Contro questa “indifferenza” all’epoca si era scagliato anche il giornalista Bolt che però in seguito si era scusato con Pell per averlo giudicato “come tutti gli altri”. Tra “gli altri” ci sarebbero anche tutti coloro che lo starebbero minacciando dopo l’assoluzione. Motivo per cui l’arcidiocesi di Sydney ha confermato che il cardinale è stato raggiunto per essere protetto dalla squadra antiterrorismo della polizia nel seminario di Good Shepherd, a Homebush.

Bolshoi azzerato dal virus, 34 positivi: il teatro chiude

Riflettori accesi, ballerine sulle punte, sipario rosso: ma sul palco entra in scena il virus. Il Covid-19 ha raggiunto il più importante teatro della Federazione russa, il leggendario Bolshoij. Artisti, guardie di sicurezza, ingegneri: 34 persone sono risultate positive ai test. Lo ha confermato Vladimir Urin, direttore dell’ istituzione artistica, dopo le critiche per non aver fermato l’esibizione “My Vmeste” (Noi insieme), mandato in onda in tv; lo spettacolo era dedicato ai medici, agli infermieri e a tutti coloro che anche in Russia stanno cercando di arginare l’epidemia. Tuttavia, il sospetto ora è che la performance sia stata organizzata senza tenere conto delle misure di sicurezza che riguardano il Covid-19.

“Se non riapriamo a settembre è spaventoso predire cosa potrebbe accadere: anche l’esistenza stessa del teatro. E non mi riferisco alll’edificio, ovviamente”. Al quotidiano Kommersant Urin ha confessato le sue preoccupazioni per le perdite pari a 9 milioni di rubli al giorno, (oltre centomila dollari).

Ieri mattina in Russia fronti bagnate di sudore freddo delle autorità e cifre rosse sui monitor: è stato registrato il picco più alto di contagi dall’inizio dell’emergenza. Gli 85 bollettini delle altrettante regioni russe si aggravano di ora in ora. La media nazionale della diffusione del Corona aumenta del 16% , quella di Mosca ha 20 punti percentuali in più. Degli oltre 21mila casi accertati nella Federazione, circa 13mila sono nella Capitale, epicentro del virus in totale lockdown, dove le ambulanze rimangono in fila ore prima di avere accesso ai reparti ospedalieri, già tutti saturi. Rimangono sospette le cifre ufficiali dei morti: meno di duecento. Quando i sindacalisti dei medici russi hanno parlato di insabbiamento per i decessi registrati per “polmonite”, sono stati arrestati. La Federazione non esclude di ricorrere all’esercito, recluta studenti di medicina, attiva corsi online per paramedici. Il presidente Putin appare in videoconferenza: “Abbiamo diversi problemi, non c’è nulla di cui vantarsi e non dobbiamo assolutamente abbassare la guardia, la situazione di fatto cambia ogni giorno e non per il meglio”.

 

Usa Il presidente teme il crollo dell’economia

Riapertura, Trump si scontra con i governatori “ammutinati” Primarie dem, Obama per Biden

Il nuovo nemico sono i governatori democratici, gli ammutinati del Bounty, li chiama in un tweet Donald Trump, che dichiara il film “uno dei suoi preferiti” (il remake con Marlon Brando, non l’originale con Clark Gable). “Un ammutinamento in buon vecchio stile è una cosa eccitante, specie quando gli ammutinati hanno bisogno di così tante cose dal loro Capitano”. Forse, però, Trump ricorda male la trama, dove il capitano è odioso e l’ammutinato fascinoso. Il presidente alimenta lo scontro con i governatori sulla riapertura dell’America per rilanciare l’economia, mentre il contagio colpisce anche le forze armate Usa: oltre 3.000 i militari malati, almeno due i morti, e quasi 5.000 i dipendenti del Pentagono positivi. C’è allarme pure per la tenuta della catena di approvvigionamento alimentare. Il personale ospedaliero di strutture pubbliche e private viene invitato a non denunciare le carenze di materiale protettivo e i problemi di sicurezza sul lavoro: Vanity Fair pubblica le testimonianze di medici e infermieri licenziati per averlo fatto. In compenso, in un Paese con il contagio dilagante – 600 mila positivi, oltre 24 mila deceduti, secondo il numeratore della Johns Hopkins University – il 44% dei campi di golf sono aperti. Lo scontro tra il presidente e i governatori esplode quando Andrew Cuomo, governatore di New York, contesta in tv l’asserito “potere totale” di Trump sul riavvio del Paese: “Non abbiamo un re, abbiamo un presidente”. Se “mi ordinasse di riaprire mettendo a rischio la salute dei cittadini dello Stato, io non lo farei”. Trump replica via Twitter: “Cuomo chiama e implora ogni giorno, persino ogni ora, per ogni cosa… Ho ottenuto tutto per lui… Ora pare che voglia l’indipendenza! Questo non accadrà”. Cuomo ribatte: “Il presidente vuole lo scontro, ma con me non lo avrà”. Le previsioni dell’Fmi acuiscono l’urgenza di rilanciare l’economia: il Pil Usa calerà del 5,9% nel 2020 e crescerà del 4,7% nel 2021; la disoccupazione salirà al 10,4% nel 2020 e scenderà al 9,1% nel 2021. Fronte Usa 2020, dopo Bernie Sanders anche Barack Obama dà il suo endorsement a Joe Biden, suggellando, con un video sui social, l’unità democratica.
Giampiero Gramaglia

 

 

Il grafico Bar e ristoranti affollati

Svezia, il “prezzo” del no al lockdown: gli infetti salgono del 34% nell’ultima settimana

La Svezia rifiuta il lockdown. Bar e ristoranti affollati, come anche le vie dello shopping, e i contagi salgono alle stelle. Non è bastato nemmeno l’appello promosso e sostenuto da scienziati e accademici svedesi per far cambiare idea al governo. Purtroppo però i numeri parlano chiaro: il 13 aprile erano 10.483 i casi positivi in Svezia contro i 6415 della Norvegia, i 6174 della Danimarca. Per quanto riguarda i decessi, erano 332 in Svezia, 178 in Danimarca e 95 in Norvegia. Ma come si vede dal grafico del sito Our World In Data con l’andamento dei casi positivi, a preoccupare maggiormente è il tasso di crescita, il più alto tra i Paesi scandinavi: 34% nell’ultima settimana in Svezia, 26% in Danimarca e soltanto 11% in Norvegia. La Danimarca è stata il primo dei tre Paesi a ordinare il lockdown il 18 marzo a cui ha fatto seguito il 14 marzo quello norvegese. La Svezia invece proprio non ne vuole sapere e le uniche misure adottate sono la chiusura delle scuole, il divieto di eventi pubblici affollati e un “invito” al rispetto della distanza di sicurezza tra le persone.
Giorgio Sestili

 

Francia 84% a favore della chiusura

Sindacati e insegnanti critici sulla riapertura delle scuole Macron in mezzo alle polemiche

Perché riaprire le scuole dopo l’11 maggio se caffè e cinema resteranno chiusi? È già polemica in Francia dopo che, nel suo discorso tv di lunedì, il presidente Emmanuel Macron ha annunciato la riapertura “progressiva” delle scuole, dalla materna ai licei (esclusi dunque gli atenei), alla data prevista per la ripartenza della Francia. “Non è serio, dal momento che le scuole sono luoghi in cui la trasmissione del virus è alta”, ha ammonito il primo sindacato degli insegnanti, Snuipp-FSU. Anche per la Federazione dei medici si correrebbe “un rischio inutile”. Ma per il governo l’impatto della chiusura delle scuole a causa del Covid-19 è alto: dal 16 marzo sono stati “persi” tra “il 5% e l’8%” degli studenti, soprattutto tra le classi popolari. Per rassicurare gli insegnanti, il ministro dell’Educazione, Jean-Michel Blanquer, ha promesso ieri un piano di riapertura per tappe. Secondo un sondaggio Odoxa, l’84% dei francesi approva il prolungamento del lockdown. Ma Macron non ha convinto le opposizioni. Per la ripresa delle attività alla data stabilita il Ps chiede “garanzie di fattibilità”. I Verdi insistono sui tamponi di massa e non solo per “le persone con sintomi”, come ha detto Macron. Per la destra Les Républicains bisogna “anticipare la ripresa dell’economia”. Secondo il bollettino di ieri, la Francia ha superato i 100 mila contagi (103.573) e le vittime sono più di 15mila (15.729, 10.129 in ospedale e 5.600 nelle case di riposo). In piena epidemia, è emerso anche che un sacerdote è stato multato per aver celebrato una messa “clandestina” di Pasqua nella chiesa dei tradizionalisti cattolici Saint-Nicolas-du-Chardonnet, a Parigi, in presenza di una quarantina di persone. Da immagini circolate sul web si vede che nessuno portava la mascherina e che la distanza di sicurezza non è stata rispettata. I poliziotti sono riusciti a fermare solo il parroco: fedeli e chierichetti avevano lasciato la chiesa da una porta sul retro. Intanto dopo le disposizioni di Macron sull’impossibilità di svolgere grandi eventi fino alle metà di luglio, Il Tour de France si correrò dal 29 agosto al 20 settembre.
Luana De Micco

La corsa del Pd per allentare le regole del decreto Dignità

Dopo i tifosi del ritorno dei voucher, l’altro fronte restauratore che sta cercando di prendere il treno dell’emergenza coronavirus è quello di chi vuole azzoppare il decreto Dignità. La stretta sul lavoro precario voluta da M5S all’alba del governo gialloverde, e da sempre al centro della rissa politica, rischia ora seriamente di essere allentata. O quantomeno sospesa fino alla fine della crisi sanitaria ed economica. L’intervento per rendere meno severe quelle norme è sostenuto da parte del Pd ed è allo studio del governo.

L’idea, in sostanza, è di rimuovere in particolare due paletti posti a luglio 2018. Il primo è quello che obbliga le imprese a indicare la causale per i rinnovi dei contratti a tempo determinato o per quelli che hanno già una durata superiore ai 12 mesi. Il secondo è quello che, tendendo a disincentivare la proliferazione dei rapporti a termine, ha introdotto un aumento contributivo dello 0,5% su ogni rinnovo. Quindi, se sarà confermato l’intervento valutato dal governo, i datori potranno tornare a reiterare i contratti senza motivazione e senza aggravi fiscali. L’obiettivo dichiarato è evitare che da questa situazione ne escano penalizzati i lavoratori precari. Per effetto del decreto Cura Italia quelli a tempo indeterminato non possono essere licenziati per ragioni economiche e sono protetti dalla cassa integrazione anche nelle aziende più piccole. Nulla è invece previsto per gli addetti che vanno a scadenza. Il timore quindi è che, in un clima simile, nessuna impresa si avventuri in un rinnovo, a maggior ragione se costretta a sostenere costi aggiuntivi. Uno scenario che condannerebbe alla disoccupazione una buona parte degli attuali dipendenti non fissi. Va detto che l’esecutivo si era già posto il problema di come aiutare queste persone e proprio da questa riflessione è nata la proposta del reddito di emergenza, una forma di assistenza per tutte le categorie non ricomprese negli strumenti già approvati a marzo. In ogni caso, i lavoratori scaduti e non rinnovati già godono di un piccolo cuscinetto, ovvero la Naspi, a patto che abbiano un minimo di anzianità accumulata.

L’ala democratica del governo, dunque, spinge per la moratoria sostenendo di voler convincere gli imprenditori a non lasciare a casa i precari scaduti. Si tratta comunque di frange che hanno sempre criticato aspramente il decreto Dignità, anche quando – tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019 – ha accelerato le stabilizzazioni di flotte di lavoratori a termine. Un processo che, complice le cattive performance economiche degli ultimi mesi, si è un po’ sgonfiato tra dicembre 2019 e gennaio 2020.

Pandemia, l’economia che serve per il dopo

“Gli uomini – scriveva Jean Monnet – accettano il cambiamento soltanto nella necessità e vedono la necessità soltanto nella crisi”. Una crisi agghiacciante come quella che stiamo attraversando può innescare una catastrofe sociale, politica ed economica, ma può anche dare inizio a un rinnovamento profondo dell’assetto socio-economico in tutta Europa.

L’emergenza sanitaria sta mostrando platealmente quanto sia importante ripensare la gestione delle attività economiche che rendono sicura e degna la vita quotidiana. Sono quelle attività che oggi, nell’imperversare della pandemia, non si possono fermare: la sanità, l’istruzione, i servizi di cura, la produzione/distribuzione alimentare, la produzione/distribuzione di energia e di gas, le telecomunicazioni, i trasporti pubblici, l’edilizia residenziale, i servizi bancari di base.

Nell’emergenza, ne riconosciamo chiaramente i contorni e l’importanza: medici e infermieri diventano eroi; trasportatori e netturbini diventano lavoratori essenziali. Ma negli ultimi trent’anni l’economia fondamentale è stata logorata da scelte politico-economiche discutibili, di cui oggi paghiamo le conseguenze: tagli, riduzioni di personale, privatizzazioni, esternalizzazioni.

Trascurata dalla politica e dal pensiero economico, tutto concentrato sui settori “competitivi”, l’economia fondamentale è diventata, da un lato, il bersaglio privilegiato delle politiche di austerità; dall’altro, un terreno fertile per modelli di business orientati alla massimizzazione dei rendimenti attraverso la riduzione esasperata dei costi (innanzitutto del lavoro) e la cattura di risorse pubbliche.

Oggi i nodi vengono al pettine, amplificati dall’“effetto-verità” prodotto dall’emergenza sanitaria e dall’incombente recessione economica. Da questa crisi, le società europee potranno risollevarsi soltanto se sapranno ricostruire il benessere sociale su robuste infrastrutture collettive, su quei complessi sistemi socio-tecnici – nei quali è occupata quasi la metà della forza-lavoro, su scala europea – che rendono sicura e degna la vita quotidiana.

Il Collettivo per l’Economia Fondamentale, una rete di ricercatori europei attiva dal 2013, ha elaborato, a questo scopo, una piattaforma in dieci punti, pubblicata in un ampio documento in tre lingue.

Non è una serie di ricette, ma un repertorio di questioni prioritarie da affrontare con competenza e con una rinnovata capacità di costruire alleanze politiche. Fra le questioni prioritarie, estendere la responsabilità collettiva nel campo delle attività sanitarie e di cura, eliminando i divari regionali e rafforzando la medicina preventiva e di base; mettere in campo politiche abitative innovative e una transizione energetica verso modelli sostenibili.

Attivare sistemi alimentari locali e porre regole stringenti per la grande distribuzione; applicare un principio di “licenza sociale” a tutte le attività economiche fondamentali; promuovere una riforma fiscale fortemente progressiva per rinnovare le infrastrutture del benessere sociale; disintermediare gli investimenti privati, destinandoli direttamente ad attività fondamentali a remunerazione contenuta e costante; accorciare le catene di approvvigionamento dei beni fondamentali; sviluppare piani urbani e regionali basati più su obiettivi di vivibilità che su imperativi di competitività.

In un’epoca in cui i grandi partiti sono frantumati e l’elettorato imprevedibile, rinnovare l’economia fondamentale è un progetto che non può essere perseguito da una sola forza politica, tantomeno sulla base di leadership carismatiche e velleità sovraniste.

Occorrono ampie alleanze per il cambiamento, che coinvolgano partiti progressisti e ambientalisti, organizzazioni sindacali, movimenti sociali radicati nella società civile; ma anche quella parte di conservatori e liberali che riconoscono l’importanza dei beni e dei servizi collettivi.

È una prospettiva praticabile o soltanto un’illusione romantica? Di certo, uscire dall’emergenza sanitaria sarà estremamente costoso per tutti gli stati nazionali.

Il debito pubblico tornerà probabilmente a livelli da dopoguerra. L’attuale governance economica, nonostante sia ampiamente screditata, tenderà a replicare un regime di austerità, che questa volta imporrebbe sacrifici senza precedenti a più di una generazione, aggravando le disuguaglianze di reddito e di ricchezza e trascurando ancora l’emergenza ambientale e climatica. Conviene quindi impararla subito, la lezione della pandemia: far emergere il più ampio consenso possibile intorno alla necessità di una solida infrastruttura collettiva per il benessere sociale, finanziata da una leva fiscale seriamente redistributiva.

La versione italian del documento “Cosa accadrà dopo la pandemia” è scaricabile al link:
https://foundationaleconomycom.files.wordpress.com/2020/03/what-comes-after-the-pandemic-italian-002.pdf