L’euro, si sa, almeno dalla crisi greca è un tavolo a cui manca una gamba, in perenne equilibrio instabile. Vi è libertà di movimento di merci, capitali e lavoratori, ma è assente un sistema di condivisione dei rischi. Se il difetto di costruzione non viene corretto, è destinato a passare di crisi in crisi, seguite ogni volta da soluzioni parziali, fino forse al crollo finale.
La soluzione ideale sarebbe quella di un bilancio comune e di trasferimenti fiscali tipo un’assicurazione europea sulla disoccupazione. Questo però richiede unità politica ed è irrealizzabile nella situazione attuale. Come second best, la mutualizzazione parziale del debito pubblico (gli eurobond) consentirebbe, in dimensioni adeguate, ai Paesi più colpiti dal coronavirus di rispondere all’emergenza senza esporsi allo spread. Tuttavia, come in passato, i Paesi dell’area del marco si oppongono. Come rompere l’impasse? Alcuni consigliano di lasciar perdere gli obiettivi più ambiziosi e concentrarsi su quelli raggiungibili (come il Mes “leggero”). Così, però, andrebbe persa un’occasione unica di introdurre innovazioni istituzionali comunque necessarie a stabilizzare l’euro. È difficile che Paesi nordici si lascino convincere dalla forza habermasiana degli argomenti: i loro, dal loro punto di vista, sono altrettanto buoni. Che l’euro escluda la condivisione di debiti e rischi non è una novità introdotta di recente, ma un tratto essenziale sin dalla sua fondazione, che i Paesi del Sud hanno consapevolmente accettato: negli anni 90 l’Italia ha insistito per essere ammessa nonostante le riserve tedesche e olandesi. È come se una squadra di calcio prima insista per giocare la partita nonostante le condizioni atmosferiche avverse e poi si lamenti con l’arbitro per non averla sospesa.
Il nodo centrale sono gli interessi. La Germania, che ha un ruolo centrale, ha beneficiato dell’euro due volte: si è avvalsa di un tasso di cambio più favorevole di quello di un eventuale marco tedesco, cosa che ha favorito la crescita tirata dall’export, e ha goduto, come emittente di uno dei pochi asset sicuri in circolazione, di interessi più bassi degli altri. Quel che emerge da un’indagine che ho condotto nei giorni scorsi è che l’opinione pubblica tedesca è consapevole dei vantaggi dell’euro e disposta ad accettare forme di mutualizzazione per mantenerli.
Dal punto di vista italiano, battersi per cambiare gli equilibri istituzionali escludendo a priori di uscire dall’euro significa votarsi all’insuccesso. Varoufakis ci ha provato ed è andato a sbattere contro un muro. La vicenda dell’unione bancaria, in cui la Germania ha ottenuto quel che voleva lasciando successivamente cadere quel che aveva vagamente promesso (l’assicurazione comune sui depositi), suggerisce che un approccio gradualista non è promettente. Mentre perseguono la trattativa, gli italiani dovrebbero invece prepararsi (l’ombrello della Bce per il momento lo consente) all’extrema ratio dell’uscita. Gli eventi di questi giorni, mostrano vari sondaggi, stanno modificando la percezione degli italiani quanto a benefici e costi di rimanere nell’euro. Il presidente Conte fa bene a dire coram populo che se necessario l’Italia farà da sola. Dinanzi a una rottura, l’opinione pubblica tedesca sembra orientata a scegliere la mutualizzazione e le ricerche di Stefanie Walter (Università di Zurigo) suggeriscono che per le élite industriali tedesche gli eurobond sono preferibili al ritorno al marco.
Se si decide che si vuole rimanere nell’euro a qualunque condizione, allora sarebbe opportuno smettere di lamentarsi e accettare sia l’intervento del Mes sia la ristrutturazione del debito che probabilmente seguirà. Se invece si decide che non tutto è accettabile, occorre fin d’ora pensare a minimizzare i costi della transizione.