La paura dell’Italexit che può far cedere Berlino

L’euro, si sa, almeno dalla crisi greca è un tavolo a cui manca una gamba, in perenne equilibrio instabile. Vi è libertà di movimento di merci, capitali e lavoratori, ma è assente un sistema di condivisione dei rischi. Se il difetto di costruzione non viene corretto, è destinato a passare di crisi in crisi, seguite ogni volta da soluzioni parziali, fino forse al crollo finale.

La soluzione ideale sarebbe quella di un bilancio comune e di trasferimenti fiscali tipo un’assicurazione europea sulla disoccupazione. Questo però richiede unità politica ed è irrealizzabile nella situazione attuale. Come second best, la mutualizzazione parziale del debito pubblico (gli eurobond) consentirebbe, in dimensioni adeguate, ai Paesi più colpiti dal coronavirus di rispondere all’emergenza senza esporsi allo spread. Tuttavia, come in passato, i Paesi dell’area del marco si oppongono. Come rompere l’impasse? Alcuni consigliano di lasciar perdere gli obiettivi più ambiziosi e concentrarsi su quelli raggiungibili (come il Mes “leggero”). Così, però, andrebbe persa un’occasione unica di introdurre innovazioni istituzionali comunque necessarie a stabilizzare l’euro. È difficile che Paesi nordici si lascino convincere dalla forza habermasiana degli argomenti: i loro, dal loro punto di vista, sono altrettanto buoni. Che l’euro escluda la condivisione di debiti e rischi non è una novità introdotta di recente, ma un tratto essenziale sin dalla sua fondazione, che i Paesi del Sud hanno consapevolmente accettato: negli anni 90 l’Italia ha insistito per essere ammessa nonostante le riserve tedesche e olandesi. È come se una squadra di calcio prima insista per giocare la partita nonostante le condizioni atmosferiche avverse e poi si lamenti con l’arbitro per non averla sospesa.

Il nodo centrale sono gli interessi. La Germania, che ha un ruolo centrale, ha beneficiato dell’euro due volte: si è avvalsa di un tasso di cambio più favorevole di quello di un eventuale marco tedesco, cosa che ha favorito la crescita tirata dall’export, e ha goduto, come emittente di uno dei pochi asset sicuri in circolazione, di interessi più bassi degli altri. Quel che emerge da un’indagine che ho condotto nei giorni scorsi è che l’opinione pubblica tedesca è consapevole dei vantaggi dell’euro e disposta ad accettare forme di mutualizzazione per mantenerli.

Dal punto di vista italiano, battersi per cambiare gli equilibri istituzionali escludendo a priori di uscire dall’euro significa votarsi all’insuccesso. Varoufakis ci ha provato ed è andato a sbattere contro un muro. La vicenda dell’unione bancaria, in cui la Germania ha ottenuto quel che voleva lasciando successivamente cadere quel che aveva vagamente promesso (l’assicurazione comune sui depositi), suggerisce che un approccio gradualista non è promettente. Mentre perseguono la trattativa, gli italiani dovrebbero invece prepararsi (l’ombrello della Bce per il momento lo consente) all’extrema ratio dell’uscita. Gli eventi di questi giorni, mostrano vari sondaggi, stanno modificando la percezione degli italiani quanto a benefici e costi di rimanere nell’euro. Il presidente Conte fa bene a dire coram populo che se necessario l’Italia farà da sola. Dinanzi a una rottura, l’opinione pubblica tedesca sembra orientata a scegliere la mutualizzazione e le ricerche di Stefanie Walter (Università di Zurigo) suggeriscono che per le élite industriali tedesche gli eurobond sono preferibili al ritorno al marco.

Se si decide che si vuole rimanere nell’euro a qualunque condizione, allora sarebbe opportuno smettere di lamentarsi e accettare sia l’intervento del Mes sia la ristrutturazione del debito che probabilmente seguirà. Se invece si decide che non tutto è accettabile, occorre fin d’ora pensare a minimizzare i costi della transizione.

Che cos’è la super arma Bce e perché non servirà ai Paesi

Il 23 aprile il Consiglio europeo sarà chiamato a dare il via libera al pacchetto da oltre 500 miliardi approvato la scorsa settimana dai ministri delle Finanze europei. Come noto, si basa su tre pilastri principali: il fondo di garanzia da 200 miliardi della Banca europea per gli investimenti (Bei) per offrire liquidità alle imprese, lo schema “Sure” anti-disoccupazione promosso dalla Commissione e i prestiti del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) per finanziare le spese legate all’emergenza fino al 2% del Pil. È stato poi dato avvio a un percorso per la formazione di un “fondo per la ripresa” sufficientemente ampio (si parla di 1.500 miliardi) che dovrà sostenere la ripresa economica finita la fase emergenziale sgravando in parte gli Stati dal peso del nuovo debito.

In questo pacchetto è sicuramente il ruolo del Mes a far discutere. Sebbene le condizioni per aver accesso a questa linea di credito siano molto ammorbidite (basta dedicare i fondi alle spese sanitarie legate all’emergenza Covid-19) il ricorso a questo strumento potrebbe rivelarsi un boomerang. Il Mes è stato pensato e disciplinato per altri tipi di crisi, sulla falsa riga del ruolo che svolge il Fondo monetario internazionale nel mondo. Quando un Paese della zona euro non riesce a finanziarsi sui mercati, o si trova temporaneamente in crisi di liquidità, il Mes è pronto, valutata la sostenibilità del debito del richiedente e applicate le “riforme” richieste in un memorandum di accordo, a erogare i fondi necessari. Per questa emergenza si è cercato di adattare un meccanismo pensato per le crisi di liquidità per finanziare alcune spese, quelle sanitarie, degli Stati. Ma se uno Stato è in grado di finanziare quelle stesse spese sul mercato, perché dovrebbe aver bisogno dei prestiti del Mes? Solo gli Stati che ne hanno più bisogno ne farebbero ricorso, dando però un pericoloso segnale: che non si è più in grado di finanziare in modo ordinario, come si fa comunemente sul mercato, le proprie esigenze di cassa. Non è proprio la cosa più sensata da fare, in un momento di crisi economica, quello di appiccicarsi lo stigma di Paese in difficoltà finanziaria.

Una delle motivazioni è che ricorso al prestito del Mes può avere la funzione di aprire la strada al supporto della Banca Centrale Europea con le Omt, le operazioni illimitate che Mario Draghi annunciò nel 2012, e che, sebbene mai attivate, riuscirono a tenere insieme la zona euro.

Le caratteristiche principali di questo programma sono: 1) condizionalità, perché per avere accesso alle Omt è necessario sottoscrivere uno “stretto ed effettivo” programma di riforma; 2) scadenza breve, perché le operazioni di acquisto, anche se illimitate, sono condotte solo su titoli a breve termine (da 1 a 3 anni); 3) sterilizzazione, perché la liquidità aggiuntiva rimane vincolata presso la Bce; e infine parità di trattamento della Bce con tutti gli altri creditori dello Stato.

Le misure che la Bce ha varato a marzo e sotto l’acronimo Pepp (Programma di acquisto per l’emergenza pandemica), oltre all’estensione delle operazioni di rifinanziamento a lungo termine per le banche, sono però molto più ampie delle Omt. Esse non sono sottoposte a nessuna condizione, interessano scadenze dei titoli più ampie (da 70 giorni a 30 anni) e immettono nuova liquidità aggiuntiva (che invece, con Omt, verrebbe congelata).

Lo stesso direttorio della Bce, stando alle minute pubblicate pochi giorni della riunione del 18 marzo, ritiene le Omt insufficienti, perché pensate “nel caso di forti tensioni nel mercato dei Titoli di Stato di uno o più Paesi originate, in particolare, dalla paura infondata di una reversibilità della zona euro”. Il compito a cui viene adesso chiamata Francoforte è più esteso, perché deve fare in modo che il diluvio di nuovo debito pubblico e privato chele economie dell’eurozona faranno arrivare nei prossimi mesi possa venir assorbito dal mercato senza tensioni nei rendimenti, cioè ci siano condizioni finanziarie che permettano “in ugual modo alle famiglie, alle imprese, alle banche ed allo Stato” di assorbire lo choc.

È chiaro, però, che questo debito lascerà un’eredità pesante e alcuni Stati potrebbero non essere più in grado di sostenerlo, diventando insolventi. Il Mes potrebbe, in questo contesto, riassumere il ruolo per il quale è stato pensato, offrendo aiuto a fronte di impegni precisi e condizionalità. Anticiparne però il ricorso potrebbe solo dar luogo a profezie auto-avveranti in cui uno Stato, pur non essendo insolvente e avendo per tutta l’emergenza il supporto incondizionato della Bce, rafforza il timore del mercato su un’immediata insolvenza.

Ue, 101 economisti: “Non firmate l’accordo raggiunto dall’Eurogruppo”

“L’accordo raggiunto dall’Eurogruppo il 9 aprile scorso sugli interventi europei per fronteggiare la pandemia e le sue gravissime conseguenze economiche è insufficiente, prefigura strumenti inadatti e segna una continuità preoccupante con le scelte politiche che hanno fatto dell’eurozona l’area avanzata a più bassa crescita nel mondo”. Questo l’appello firmato da 101 economisti e pubblicato su MicroMega.net. Nel testo si continua a leggere: “Tra i ministri delle Finanze sembra prevalere l’idea che quanto sta accadendo possa essere circoscritto nel tempo a una parentesi relativamente breve, chiusa la quale si possa tornare senza problemi a comportarsi come prima. Non è così, come ha ben spiegato una personalità di riconosciuta competenza come l’ex presidente della Bce Mario Draghi. L’eccezionalità delle circostanze dovrebbe avere almeno due caratteristiche essenziali: – essere attivabili in tempi il più possibile brevi; – ridurre al minimo possibile l’aumento dell’indebitamento degli Stati, già destinato inevitabilmente a crescere per finanziare gli interventi indifferibili per ridurre i danni della crisi. La sola opzione che risponda a questi due requisiti è il finanziamento monetario di una parte rilevante delle spese necessarie da parte della Bce. Si tratta di una opzione esplicitamente vietata dai Trattati europei che, in caso di necessità, possono essere sospesi nel rispetto del diritto internazionale e questo è oltretutto già avvenuto. La monetizzazione di spese giudicate inderogabili non è una procedura inusitata. È stata appena formalizzata nel Regno Unito e Federal Reserve e Bank of Japan la praticano di fatto. In Italia viene ormai proposta da economisti dei più diversi orientamenti. Al prossimo Consiglio dei capi di Stato e di governo, che dovrebbe ratificare l’accordo dell’Eurogruppo, l’Italia dovrebbe invece rigettarlo, e proporre che la parte più importante degli interventi anti-crisi, il cui volume dovrebbe raddoppiare per estendersi almeno al prossimo anno, sia attuata con un intervento della Bce. In caso di rifiuto da parte degli altri partner, la strada meno dannosa sarebbe quella di dare seguito a ciò che il premier Conte ha detto: “Faremo da soli”.

Lo Stato garante non basta. Le regole di Bce e Basilea strozzano il nuovo credito

Le piccole e medie imprese segnalano un nuovo problema legato agli aiuti finanziari per le aziende colpite dalla recessione innescata dalla pandemia di coronavirus Covid-19. Le modalità di finanziamento e le regole di controllo del credito, invece di innescare il meccanismo richiesto dagli imprenditori e voluto dal governo con il decreto liquidità della scorsa settimana che eroga 400 miliardi di crediti garantiti dallo Stato, potrebbero paradossalmente innescare una nuova fase di credit crunch, la riduzione dell’offerta di credito complessiva. Il fenomeno è in corso in Italia dall’esplosione della crisi dell’euro del 2011 e l’epidemia potrebbe farlo peggiorare.

Secondo le statistiche di Banca Italia e Abi, a febbraio del 2012 gli impieghi al settore privato viaggiavano intorno ai 1.680 miliardi di euro, dei quali 1.500 miliardi circa alle famiglie e alle imprese non finanziarie. Il valore era in linea con quello dell’estate 2008, prima del crac di Lehman Brothers e della grande crisi globale innescata dai mutui subprime Usa. Secondo gli ultimi dati di febbraio scorso, prima dell’esplosione della crisi per l’epidemia, i prestiti bancari ai privati in Italia erano scesi a poco più di 1.400 miliardi, con un calo di oltre 275 miliardi, pari a un sesto del valore 2012. Il rubinetto del credito è stato chiuso in modo deciso tra il 2012 e il 2013, poi il flusso si è mantenuto pressoché stabile sino a metà del 2017 per poi stringersi di sino a oggi.

In realtà gli andamenti sono diversi per fasce di aziende. Per le grandi e grandissime imprese ogni caso fa storia a sé. Ma prima della crisi le medie società sotto i 500 dipendenti, specialmente al nord, erano mediamente molto liquide per via del credito facile a tassi ridottissimi offerto dalle banche grazie alle politiche della Bce mirate a sostenere l’economia reale. In alcuni casi, per ogni euro ricevuto dalle banche queste aziende negli stessi istituti di credito ne avevano in giacenza tre.

Ora invece il rischio sono i modelli interni di rating delle banche, cioè quegli algoritmi voluti dalle regole di supervisione di Basilea che assegnano uno “stato di salute” alle imprese che chiedono credito e lo rivedono una volta al mese. In condizioni normali, l’algoritmo del rating è come un radar che cerca di intercettare segni di eventi finanziari negativi. Tra questi innanzitutto i bilanci, pubblicati una volta l’anno e che sino al 2021 non registreranno il crollo dei fatturati dovuto alla pandemia. Poi le cifre raccolte dalla Centrale dei rischi, la banca dati gestita da Banca d’Italia che raccoglie le informazioni sui debiti. Dalla centrale, gli algoritmi traggono indicatori quali variazioni del numero di banche o società di leasing e factoring che erogano crediti alla stessa impresa, richieste di prima informazione, quando un cliente bussa agli sportelli in cerca di denaro (se sono troppe il cliente è in difficoltà), ma anche linee accordate, utilizzate, sconfinamenti. Infine ci sono gli indicatori interni alla banca su affidamenti, conti correnti, fidi, il rispetto delle rate e quant’altro. Una volta al mese l’algoritmo estrae dai dati i rating delle imprese, buoni o cattivi. Se le aziende chiederanno prestiti garantiti dallo Stato, a fronte di fatturati fermi al 2018 o al 2019, gli algoritmi bancari segneranno peggioramenti dei rating aziendali. Se i peggioramenti dei rating delle aziende delle banche saranno molti, si deteriorerà anche il rating medio del portafoglio creditizio delle banche stesse, crescerà il rischio di default di quel portafoglio e, in base alle regole di supervisione volute dalla vigilanza Bce, scatterà in automatico un maggior assorbimento di patrimonio per la banca. In assenza di interventi delle autorità di vigilanza si rischia così che le banche non eroghino credito, magari perché i dipendenti che le deliberano verranno “istruiti” a non concedere il via libera alle pratiche, oppure che le banche facciano erogare linee di credito garantite dallo Stato per sostituire i propri prestiti precedenti, specialmente per le aziende più problematiche, in modo da ridurre le proprie esposizioni.

Il tutto rischia di pesare soprattutto sulle micro e le piccole e medie imprese. Le medie aziende, gonfie di liquidità, potrebbero invece avvantaggiarsi della crisi e nei prossimi mesi potrebbero fare ottimi affari comprando fornitori a prezzi stracciati, magari in sede di concordato o fallimento. Insomma il cerino dei crediti più a rischio può passare dalle banche alle mani dello Stato, che in base al decreto liquidità è fornitore di garanzie di ultima istanza

La Vigilanza bancaria della Bce e Bankitalia hanno evidenziato i rischi di credit crunch a fine marzo decidendo “un trattamento prudenziale più flessibile dei prestiti garantiti da misure pubbliche”. Ora però servono norme di dettaglio sulle metriche dei rischi di credito dai regolatori del settore e dagli organismi di vigilanza, perché la crisi delle Pmi e le tensioni finanziarie potrebbero far collassare questo tessuto di aziende fondamentale per l’economia italiana. C’è poi l’ultimo nodo, quello dei tempi e delle pastoie burocratiche per ricevere le garanzie pubbliche per le piccole e medie imprese. Tra personale bancario al lumicino e trafila burocratica si rischia di sforare ampiamente gli 80 giorni di media previsti per ottenere i fondi. Il denaro, insomma, anche se arrivasse potrebbe comparire troppo tardi.

Eni il M5S si arrende: Descalzi tris in cambio del nuovo presidente

Si può dire in tanti modi, ma il più semplice è pure il più efficace: i Cinque Stelle hanno ormai accettato, senza neanche brontolare troppo, la conferma di Claudio Descalzi per il terzo mandato in Eni. Hanno preso atto del clima prevalente che vuole, dal Colle al Partito democratico fino a pezzi dell’alta burocrazia, il nullaosta al manager. E gli spianano laicamente la strada in cambio della presidenza.

Descalzi è imputato a Milano per corruzione internazionale per la super tangente da oltre 1 miliardo pagata a politici nigeriani e a uno stuolo di mediatori internazionali per il giacimento Opl 245. È anche indagato per un gigantesco conflitto d’interessi in Congo, dove società controllate dalla moglie, Marie Madeleine Ingoba, hanno fornito a Eni servizi logistici per oltre 300 milioni di dollari. Secondo i pm, i vertici dell’Eni avrebbero poi commissionato una complessa manovra di illeciti penali per depistare le inchieste milanesi. Per questa ragione sarà difficilmente accettato, almeno in maniera così supina, l’alibi dell’emergenza Covid 19 con cui il M5S proverà a rendere più digeribile la sconfitta politica.

Ma su Descalzi non sembrano esserci rimpianti. Si attende soltanto la scelta dei vertici, nuovi o vecchi, delle società a controllo statale, prevista entro lunedì prossimo con le liste presentate dall’azionista Tesoro col timbro di Palazzo Chigi e dei partiti che sorreggono l’esecutivo di Giuseppe Conte.

I Cinque Stelle sono immersi nelle trattative interne – tra le varie anime più o meno a disagio con il primo banco di potere – e concentrati verso le trattative esterne con il Pd di Nicola Zingaretti e Italia Viva di Matteo Renzi. Oggi ci sono le riunioni di coalizione, e la tradizionale tensione sarà distillata sino all’ultimo istante prima del varo dei cda. I Cinque Stelle, allenati dall’ex capo Luigi Di Maio e preparati dal sottosegretario Riccardo Fraccaro, più qualche comparsa che scalpita nelle retrovie, partono sconfitti su Descalzi e con un limite, inviolabile, all’intervento: gli amministratori delegati vanno tutti verso la riconferma e devono quindi accontentarsi – accapigliandosi – delle presidenze.

Quella più rilevante, ovvio, riguarda sempre l’Eni. Descalzi ha raggiunto un tale livello di sicurezza del risultato che può permettersi addirittura di respingere alcune ipotesi per la presidenza – tipo Gianni De Gennaro (adesso in Leonardo) o Luciano Carta (Aise, i servizi segreti) – ritenute troppo “forti” e di sicuro allarmanti per il sistema di potere che il manager ha costruito attorno a sé. Tanto che Desclazi ha persino accarezzato la suggestione di proseguire con Emma Marcegaglia, ma è sembrata davvero una battuta infelice. Per non intimorire Descalzi, e per non lasciare spazio ai dem, i Cinque Stelle propendono per figure di competenza, più tecniche, ma di esperienze diverse: è quello di Lucia Calvosa, ex Mps e Tim, oggi nel cda di Seif (l’azienda che edita Il Fatto), il nome indicato dai pentastellati.

L’alternanza di genere sarà replicata in altre società: in Enel, dove non ci sono variazioni con l’amministratore delegato Francesco Starace e la presidente Patrizia Grieco; in Poste con l’ad Matteo Del Fante che potrebbe assistere all’addio di Bianca Maria Farina. Per il cda di Poste si parla di Costanza Esclapon, comunicatrice con una carriera in Banca Intesa, poi Wind, Rai e Alitalia, ex cda di Mediaset, spesso con Luigi Gubitosi (Tim). È un’idea che circola tra i Cinque Stelle. Al momento la presidenza, però, sembra prenotata da Palazzo Chigi, che ha deciso di aver l’ultima parola per quella casella. All’alba del fu governo gialloverde Alessandro Profumo, amministratore delegato di Leonardo, (l’ex Finmeccanica), sembrava destinato a un unico mandato, invece ha recuperato e si è rafforzato con l’arrivo dei dem in maggioranza, anche se Renzi lo osteggia dal principio, ma con un’influenza ridotta. Anche perché i partner di governo considerano in gran parte soddisfatti i suoi diritti spartitori con la conferma di Starace in Enel. Alle spalle di Profumo si affollano le candidature. Il nome più gettonato è quello di Giuseppe Giordo, oggi in Fincantieri, ed ex manager di Leonardo dove è stato capo di Alenia, silurato nel 2017 da Mauro Moretti. Per la presidenza il nome è quello di Carta. La partita si gioca nella triangolazione tra i servizi, il mondo della Difesa e i dem, con il Quirinale osservatore attento e i 5Stelle che possono riservarsi solo gradimenti.

La partita vera entrerà nel vivo in settimana. Il Pd incassa quasi tutto quel che ha chiesto, e per questo i 5Stelle, pur sempre azionisti di maggioranza del governo, cercheranno di rosicchiare caselle. In Terna, la società dei cavi elettrici, per dire, è quasi certo l’arrivo di Stefano Donnarumma (ora nella romana Acea) e per Enav, società quotata del trasporto aereo, puntano sull’ad di Atac Paolo Simioni. Lo scontro vero è però sul Montepaschi, dove i vertici del Tesoro si sono messi di traverso alla scelta dei 5Stelle per l’ex ad del Creval, Mauro Selvetti.

Sordi? Vade retro, ci ricorda chi siamo

Come se la vedrebbe Alberto Sordi al tempo del coronavirus? Cosa si inventerebbe? Be’, sarebbe la morte sua, menu alla carta. Il furbetto dell’autocertificazione, il politico cinico, l’amministratore incapace, il conduttore ribelle… I nuovi mostri sono già lì, belli e pronti, peccato che manchino le maschere capaci di interpretarli. Siamo tutti Alberto Sordi? si domanda fin dal titolo il documentario di Fabrizio Corallo passato domenica su Sky Cinema. La risposta è sì, e per questo ci manca così tanto. Eppure nemmeno l’onnipotente coronavirus sta riportando in televisione i suoi film nel centenario dalla nascita. Abbiamo dovuto accontentarci di pochi fotogrammi per ognuna delle memorabili performance ripercorse con puntualità dal biopic: il big bang dello Sceicco Bianco (Fellini e Sordi si fanno debuttare a vicenda), Scola, De Sica, l’intera genealogia della commedia all’italiana, il sodalizio di pancia con lo sceneggiatore Rodolfo Sonego, quello di cuore con Monica Vitti, le tante donne avute in cinemascope e nessuna nella vita, come se per essere i più grandi si dovesse rinunciare a se stessi.

Ma insomma, perché i film di Alberto Sordi sono così ostinatamente ignorati dalla programmazione televisiva? Il documentario di Corallo suggerisce anche questa risposta. Perché nel rimuovere Sordi e la galleria dei suoi vecchi nuovi mostri l’Italia rimuove se stessa, tutti i nostri caratteri nazionali meno uno. La rimozione stessa, figlia primogenita dell’egoismo. Poi, il politicamente corretto dà una mano. Pussa via commedia, addio umorismo nero, vade retro sarcasmo. Sulla commedia all’italiana è scesa una bella colata di fiction, commissari, capitani coraggiosi, padri, madri e nonni coraggio. Una fiction di marzapane non si nega a nessuno, infatti Rai1 non l’ha negata nemmeno ad Albertone, l’omaggio a Sordi più lontano dallo spirito di Sordi che si potesse concepire. Tanto andrà tutto bene. Ma se nonostante tutto dovesse sopravvivere qualche peccatuccio, Don Matteo ci assolverà.

Qual è il prezzo delle nostre vite

“Alcuni economisti attribuiscono un valore economico alla vita umana per valutare le politiche pubbliche sulla base di analisi costi-benefici. Questo è uno dei maggiori danni che la ‘scienza’ economica ha fatto alla nostra società”, ha scritto su Twitter Andrea Roventini, economista del Sant’Anna di Pisa, stimato dai Cinque Stelle e oggi membro della task force del governo che si occupa di dati e lotta al Coronavirus. Le parole di Roventini, come l’ultima copertina dell’Economist (“Un calcolo sinistro”) alludono a un dibattito in corso da settimane: la crisi del Covid-19 implica una scelta tra salvare le vite e salvare l’economia?

In realtà proprio la capacità degli economisti di dare un prezzo (o meglio: un valore monetario) alla vita umana dimostra che questo dilemma non esiste. Chi continua a sollecitare immediate riaperture di fabbriche e attività economiche – da Matteo Renzi a Donald Trump – non ha fatto bene i conti.

In un famoso paper, Thomas J. Kniesner e W. Kip Viscusi, spiegano così il concetto di “valore statistico di una vita”: immaginiamo un gruppo di 10.000 lavoratori cui viene offerta la possibilità di guadagnare 1.000 euro al mese ciascuno in più se accettano di svolgere una mansione pericolosa che ogni anno farà morire un lavoratore in più rispetto alle mansioni tradizionali. Il gruppo di 10.000 lavoratori avrà, nel complesso, un reddito annuo di 10 milioni di euro più alto, ma uno di loro morirà ogni anno. Vi sembra inumano? Eppure accettiamo questi compromessi ogni giorno, basta leggere qualunque contratto collettivo nazionale: al personale tecnico sanitario di radiologia medica, per esempio, spetta una indennità “rischio radiazioni” di 1.239,50 euro (lordi) all’anno.

Quindi si può dare un valore monetario alla vita umana, lo fanno le assicurazioni, ma lo fanno anche i governi e noi cittadini lo accettiamo senza problemi: se il limite di velocità delle auto fosse 30 chilometri all’ora anche in autostrada, salveremmo gran parte dei 3.300 italiani che muoiono ogni anno negli incidenti. Ma accettiamo un certo numero di vittime per arrivare più in fretta a destinazione.

Applicare questi approcci nel mondo del Coronavirus porta a giustificare il lockdown, non a chiedere di tenere aperte le fabbriche.

Il “valore statistico di una vita” negli Stati Uniti è considerato di solito pari a 14,5 milioni di dollari. Luigi Zingales, economista dell’Università di Chicago, ha fatto il seguente calcolo in un recente articolo di ProMarket.org: ipotizziamo 200 milioni di contagiati negli Stati Uniti durante tutta l’epidemia, il 5 per cento finisce in terapia intensiva, uno su cinque di questi muore, più o meno le percentuali osservate in Cina. Ma quando finiscono le unità di terapia intensiva perché il contagio avanza troppo rapido e non ci sono ventilatori per tutti, nove pazienti gravi su dieci muoiono. La differenza tra i due scenari applicati è che nel primo ci sono 1,8 milioni di morti, nel secondo 9. Quindi, evitare l’affollamento degli ospedali può salvare 7,2 milioni di vite umane.

Chi fa questi calcoli tutti i giorni, come l’Agenzia federale per l’ambiente (Epa), applica un tasso di sconto per l’età che riduce il valore monetario statistico della vita degli anziani del 37 per cento. Anche dopo questo impietoso “sconto”, osserva Zingales, non ci sono argomenti economici per accettare che il contagio si diffonda, facendo più vittime di quante ce ne sono tenendo tutti chiusi in casa: se invece di 14,5 milioni per vita umana consideriamo 9 milioni (il 37 per cento in meno) e moltiplichiamo per 7,2 milioni di persone salvate, si ottiene un “valore” complessivo di 65.000 miliardi di dollari. “Anche la più semplice delle analisi costi-benefici suggerisce che il governo americano dovrebbe spendere fino a 65.000 miliardi per evitare quelle morti in eccesso”, scrive Zingales. Per dare un’idea: 65.000 miliardi è il Pil che gli Stati Uniti producono in tre anni.

Michael Greenstone e Vishan Nigam, sempre dell’Università di Chicago, in un paper appena pubblicato stimano che il distanziamento sociale negli Stati Uniti possa salvare 1,7 milioni di persone per un controvalore di 7.900 miliardi. Il beneficio economico, pari comunque al 40 per cento del Pil americano, è minore perché Greenstone e Nigam valutano la vita di un over-70 soltanto 3,7 milioni di dollari. L’approccio che scelgono è quello ideato da Kevin Murphy e Robert Topel che considera il valore monetario di una vita in termini di quanto la persona potrà consumare prima di morire. Anche con questo arido calcolo, salvare vite in questo momento è un ottimo affare.

Sarebbe sbagliato concludere però che allora conviene tenere l’economia ferma fino a quando il virus non sarà completamente debellato. La conseguenza dell’analisi costi-benefici è che, se il contagio continuerà a rallentare, a un certo punto i benefici di riaprire fabbriche, aeroporti e stadi saranno maggiori dei rischi che questo comporta (misurati in termini di morti). Anche perché pure il Pil serve a combattere il virus, come ha fatto notare Paul Romer, economista premio Nobel: se in troppi inizieranno a soffrire per il blocco dell’economia, ci saranno proteste, manifestazioni, assembramenti che faranno ripartire il contagio e alla fine avremo sia i morti sia la depressione economica. La tenuta dell’Italia è stata messa a dura prova dalla recessione del 2009, quando il Pil e sceso del 6,6 per cento in un anno. Secondo l’ultima stima di Unicredit, nel 2020 il Pil potrebbe segnare -15, con conseguenze sociali imprevedibili.

È una scelta delicata stabilire quando e quanto e cosa riaprire nella “fase 2”. Molti economisti, a cominciare da Romer, hanno avanzato idee su come proteggere le persone nella transizione: tenere gli anziani in casa, testare ripetutamente chi ha contatti col pubblico (a cominciare dai medici) e isolare i positivi. Più test si fanno, più rallenta il contagio, e se i test si fanno alle categorie più a rischio, a parità di tamponi si troveranno molti più contagiati, quindi l’efficacia della misura sarà massima.

Le alternative all’analisi costi-benefici sono tutte peggiori, perché basate non sui numeri, ma sull’ideologia o su scadenze arbitrarie che al virus interessano ben poco (Matteo Renzi aveva detto “riapriamo le fabbriche prima di Pasqua”). Si tratta di decisioni che non spettano più soltanto ai virologi, ma alla politica che dovrà anche spiegare su quali basi le prende. I numeri sono forse aridi, ma le decisioni prese senza considerarli sono le più pericolose.

Trenta volte peggio della crisi del 2008

Non abbiamo gli schemi mentali per immaginare cosa significano le previsioni diffuse ieri dal Fondo monetario internazionale: nello scenario base nel 2020 l’economia mondiale si ridurrà del 3 per cento. Potrebbe perfino sembrare poco, visto che quella italiana invece affronterà una recessione tre volte più grave, intorno al 9-10 per cento.

Per dare un’idea, la grande crisi finanziaria globale del 2008-2009 che ha fatto vacillare le fondamenta del capitalismo occidentale e aperto la strada a grandi cambiamenti politici, aveva fatto ridurre il Pil mondiale soltanto dello 0,1 per cento. Il lockdown dell’economia mondiale avrà effetti 30 (trenta!) volte più gravi. Con alcune cruciali differenze: nel 2008-2009 i Paesi poveri avevano continuato a crescere, questa volta andranno in recessione anche loro (con l’eccezione della Cina).

Difficile prevedere se questo porterà a maggiori o minori flussi migratori, visto che ci vogliono un minimo di risorse per scappare dalla povertà. Ma se la crisi economica innescherà guerre, carestie o altre calamità, niente potrà fermare le partenze (anche se mai le frontiere occidentali sono state così chiuse). Quelli che nella grande crisi del 2008 sono stati punti di forza dell’Italia oggi sono debolezze drammatiche: avere cibo, turismo e qualità della vita serve a poco se nessuno viaggia, le piccole e medie imprese inserite in catene di fornitura globali oggi sono strozzate dalla paralisi di quelle catene. Da quella crisi l’Italia non si è mai ripresa, non ha mai recuperato Pil e produzione industriale del 2007 e ora si trova impegnata in una sfida per la sopravvivenza: si salverà chi ha filiere domestiche e riesce a fare una fulminea transizione digitale, oltre alle (poche) grandi imprese. Abbiamo pochissimo tempo per reinventare l’economia da zero e intercettare il rimbalzo del 2021 (+4,5 globale). Se lo perdiamo, come abbiamo perso la ripresa dal 2012 in poi, l’Italia come la conosciamo non ci sarà più. Possiamo – e dobbiamo – farcela.

Ritorno al passato: salvare il cinema col drive-in

Parcheggi, popcorn e pomiciate. Col presente contagioso, il cinema potrebbe tornare trendy volgendosi a un passato super pop: il drive-in. E l’idea non è affatto remota né nostalgica. Si tratta di trovare una soluzione al distanziamento sociale, che si renderà più che mai necessario nell’ancora fumosa Fase 2. E poiché il cinema in sala fa dell’assembramento il suo status quo, una delle strade percorribili per non compromettere del tutto la visione condivisa è quella di ripescare dal pozzo del vintage.

Simbolo degli happy days di un’America fra i ’50 e i ’60, con bulli impomatati e pupe colorate in cabrio abbaglianti e film (intra)visti fra un bacio e una birra ghiacciata: l’immaginario collettivo è immediato per questa parola/concetto importata e mai tradotta dagli States che oggi s’insinua fra i pensieri degli addetti ai lavori. Perché se è vero che le sale cinematografiche sono state tra le prime attività ad abbassare le saracinesche, è altrettanto verosimile saranno fra le ultime a rialzarle.

Dunque largo alla fantasia, e con il gustoso ossimoro back to the future, eccoci seduti in auto davanti a uno schermo più o meno vicino a distrarci dalla pandemia. Se gli Usa fecero da apripista (e già in Texas sono stati riaperti alcuni cinema-parcheggi) anche l’Italia vanta un suo primato: era il 1957 e sul litorale romano funzionava il Metro Drive In, il più grande schermo da drive-in europeo.

L’esperienza di Ostia potrebbe servire ai cinéphiles bolognesi la cui Cineteca è tra le capofila in questa direzione, almeno nelle intenzioni del suo direttore Gian Luca Farinelli, che mette il drive-in tra le ipotesi più accreditate per la prossima estate di cinema in piazza (Maggiore). “Trovo la proposta di Farinelli molto interessante, oltre che legata a una magia vintage” dichiara il regista Giorgio Diritti, anche lui bolognese, che ricordiamo concorrente (e premiato per l’interpretazione di Elio Germano) all’ultima Berlinale con Volevo nascondermi. “È un modo per tornare a fare comunità e fruire dei film insieme senza contravvenire alle regole e rischiare la salute. Ciò che conta è non subire questa situazione, ma utilizzarla per inventarsi qualcosa di intelligente per la convivenza futura. Certo, non possiamo parlare di reale ritorno al cinema, alla sala di qualità, ma di questi tempi conta la risposta all’emergenza, e questa è tra le più poetiche. Io stesso ricordo di aver partecipato a un drive-in una vita fa, ma il film all’epoca era meno importante rispetto all’avventura della visione così condivisa”.

E di necessità virtù parla anche la cineasta napoletana Antonietta De Lillo che non vede l’ora di sperimentare una visione sul sedile della sua vettura “magari con qualcuno che dal finestrino – opportunamente mascherato – mi offra bomboniere di gelato”. “Scherzi a parte, è un’esperienza che mi manca totalmente e la farei volentieri. Ritengo preziose tutte le formule innovative che ci permettano di rimaterializzarci come persone, costituendo occasioni di incontro, naturalmente con tutte le precauzioni e gli anticorpi del caso” sottolinea la regista. fra le ideatrici dell’ingegnoso modello di “film partecipato” in Italia, e dunque istintivamente compiacente alle novità solidali.

“Il punto – continua De Lillo – è che il settore era già in crisi e il virus sta accelerando una criticità a cui è necessario reagire: serve essere coraggiosi e inventarsi nuovi paradigmi di condivisione cinematografica e non solo”.

Guai ai cartomanti dei “soldi a tutti”. Letture? “Kaputt”

Visto che dobbiamo “stare a casa”, chi vuole condividere con gli altri la sua vita in quarantena può farlo sulle pagine del Fatto. Siamo una comunità e mai come oggi sentiamo l’esigenza di “farci compagnia” sia pur a distanza. Come i giovani che, nel Decameron di Giovanni Boccaccio, si riunirono per raccontarsi novelle durante la peste di Firenze. Inviateci foto, raccontateci cosa fate, quali libri, film e serie tv consigliate all’indirizzo lettere@ilfattoquotidiano.it. Ci sentiremo tutti meno soli.

 

La “soluzione” è semplice: soldi per tutti, subito...

Molto diffusa nella Penisola l’usanza di rivolgersi nei momenti difficili a cartomanti, maestri dell’occulto o sedicenti personaggi del paranormale, per questo diversi italiani si fanno ammaliare da stili meloniani e salviniani… Lo spot è: più soldi alle famiglie, agli imprenditori, agli artigiani, ai medici e via via citando molteplici categorie, come ama fare Salvini durante le sue dirette commerciali. La stessa soluzione, la proporrebbe anche mia figlia di 8 anni… Ma… un attimo, questi leader aggiungono un altro suggerimento: subito! Geniale! Adesso è tutto più chiaro e semplice! Conte deve solo aprire la cassaforte e mettere sotto tutti i deputati a consegnare personalmente pacchetti di euro ai 60 milioni di italiani!

Gianfranco Cipriano

 

Qualche verso per passare il tempo

Come qualsiasi persona di buon senso, mi muovo in casa. Dopo circa mezz’ora di ginnastica mi reco in cucina, dove sempre trovo pronta una tazza di caffè e latte (non ringrazierò mai abbastanza la mia dolce metà), poi, non potendo fare come nei giorni precedenti, quando avevo modo di recarmi, a piedi o in bicicletta, ad acquistare il Fatto, leggo alcune pagine di un libro. Ho sempre molte cose da dire e da scrivere, come tutti coloro che amano la poesia, ma non intendo dilungarmi troppo, adesso; mi limiterò a riassumere il pensiero che dovrebbe restare ancora impresso nella mente di tutti, sino alla fine dell’emergenza coronavirus.

Con gesti e ginnastica un po’ ci si muove/ Seppur senza andare in ogni dove/ Fermi, si legge o, anche, si scrive/ E in salute, più, credo, si vive…/ Segui il consiglio: col cuore lo dico/ Chiunque tu sia, per me sei amico.

Eugenio Mosconi

 

Malaparte e il fronte: un libro illuminante

Nel 1944 Curzio Malaparte, militare e diplomatico del Regno, scrive Kaputt. Sono brevi racconti tratti dal fronte ucraino, russo o dalle tante sedi consolari in cui lui fu personalmente presente durante la Seconda guerra mondiale. La visione di un intellettuale, un privilegiato e colto toscano su pogrom, ghetti ebraici, razze inferiori… e tutto quanto la Germania di Hitler (e i suoi alleati dell’epoca) ci ha regalato… Istruttivo, toccante, illuminante e attuale.

Francesco Calì