Meno casi, ma i morti sono ancora 602

Il dato dei contagi rilevati continua a scendere, ieri in Italia ne sono stati registrati 2.972, il valore più basso in assoluto dal 13 marzo, quando l’epidemia era all’inizio e galoppava attorno al 20 per cento al giorno di crescita. In percentuale è l’1,86, per la prima volta si scende sotto il 2 per cento: il totale dei contagi rilevati è 162.488 comprensivo dei morti (21.067) e dei dichiarati guariti/dimessi (37.130). Vale anche per la Lombardia che registra 1.012 nuovi casi (1,7%, per un totale di 61 mila) ma non per il Piemonte che registra 556 casi (3,24%, totale 17.690).

Sono dati incoraggianti pur tenendo conto dell’incognita tamponi: quelli registrati ieri sono solo 26.779 (totale 1,073 milioni) a fronte di una media vicina ai 50 mila al giorno nella scorsa settimana, però le regole sui tamponi variano a seconda delle regioni e nel tempo (quindi il riferimento non è certissimo). Nuovi casi sopra la media nazionale anche in Liguria (+212, +3,8%), Lazio (+143, +2,9%) e Campania (+99, +2,7%).

Resta molto elevato il numero dei morti. Ieri ne hanno contati 602. Ben 241 in Lombardia (11.142 totali), 101 in Piemonte (1.927), 90 in Emilia-Romagna (2.705), 24 in Veneto (906). L’andamento di giorno in giorno è fuorviante: erano stati 619 sabato 11 aprile, 431 la domenica di Pasqua, 566 lunedì. Su base settimanale, invece, la media è stata di 562 negli ultimi sette giorni, di 671 nei precedenti sette.

Si conferma la diminuzione della pressione sugli ospedali: rispetto a lunedì ci sono 12 pazienti in meno ricoverati nei reparti ordinari, ieri il totale era di 28.011 (lo scorso 4 aprile erano 29.010). Si sono liberati altri 74 posti nelle terapie intensive: si è passati dalle 4.068 persone in rianimazione il 3 aprile alle 3.186 registrate ieri. Il calo c’è pure in Lombardia, anche ieri 21 pazienti in meno in terapia intensiva (1.222 totali) ma 49 in più negli altri reparti (12.077 totali); anche in Emilia-Romagna 17 in meno nei reparti ordinari (3.473 totali) e tre in meno in rianimazione (328); in Piemonte invece i ricoverati sono 51 in più (3.395 totali) e 13 in meno nelle terapie intensive (367).

Due regioni, almeno apparentemente, sono a zero contagi. È il caso del Molise, fermo da due giorni a 257 casi (ma non risulta nessun tampone in più da lunedì a martedì) e della Basilicata, che resta a un totale di 319 da lunedì anche dopo aver fatto 214 tamponi in più. Un solo nuovo caso in Umbria, dove il totale è 1.321.

“Contagi tra famiglie e Rsa: non sappiamo abbastanza”

L’ultimo studio dice che le misure restrittive hanno funzionato. L’indice di contagiosità R0 era di poco inferiore a 3 in Lombardia tra il 17 e il 23 febbraio, a cavallo del caso di Codogno che è del 20; un mese dopo, il 24 marzo, nella regione italiana più colpita era poco al di sopra di 1, ciò significa che ogni persona positiva può ancora infettarne più di una. Bene, non benissimo. Lo studio, disponibile in preprint su medrxiv.org, è firmato da ricercatori dell’istituto Bruno Kessler di Trento e dell’Istituto superiore di sanità, tra i quali il presidente Silvio Brusaferro e il direttore del dipartimento di Malattie infettive, Gianni Rezza. Ma come avvengono i contagi più recenti, a più di un mese dal lockdown dell’11 marzo? In casa, al supermercato, nelle imprese che lavorano, nelle Rsa? “È un dato difficile da ottenere, abbiamo chiesto alle Regioni informazioni più precise”, risponde il professor Rezza.

Negli ultimi giorni si contano tra mille e 1.500 nuovi casi al giorno in Lombardia, a livello nazionale le nuove infezioni sono appena scese sotto il 2 per cento al giorno, i morti oscillano attorno ai 600. Troppi anche per voi?

Difficile dirlo. Quelli che noi vediamo nel bollettino delle 18 non sono nuovi contagi, sono nuovi casi notificati. La notifica avviene a 15 o anche 20 giorni dal contagio. Vediamo qualcosa che è accaduto due/tre settimane fa, a una distanza dal lockdown che non è siderale come può sembrare.

Quindici giorni è la media?

Cinque/sei giorni è il tempo di incubazione, vuole che non ci mettano 4-5 giorni prima di avere il risultato del tampone? Dopodiché la notifica non arriva subito. Quando hanno acquisito l’infezione non è oggi. Evidentemente questi contagi sono continuati anche qualche giorno o qualche settimana dopo il lockdown.

Come sono avvenuti?

C’è la trasmissione intrafamiliare. Noi in Italia facciamo isolamento domiciliare, non è come in Cina dove avevano strutture dedicate e portavano lì i contatti delle persone positive, anche contro la loro volontà.

I nuovi casi più recenti sono mediamente meno gravi dei precedenti perché calano le terapie intensive e i ricoveri; più giovani secondo i medici. Sono per lo più contagi intrafamiliari? O avvengono nelle aziende che lavorano perché essenziali o in deroga, cioè fino a un terzo o alla metà in certi settori anche in Lombardia? Sono contagi da supermercato?

Questo purtroppo è uno dei dati più difficili da ottenere. È anche una nostra curiosità scientifica e di sanità pubblica quella di avere maggiori dettagli sulle persone che si sono contagiate dopo il lockdown. Pensiamo che in gran parte siano contatti domiciliari o condominiali, perché anche nei condomini c’è un certo scambio di contatti personali. Molti casi sono dovuti alle Residenze sanitarie assistenziali. Poi ci sono gli operatori sanitari. Queste modalità di trasmissione, diciamo di comunità chiusa, hanno continuato ad andare avanti, anche quando è diminuita la trasmissione di comunità aperta grazie al distanziamento sociale.

Ma è ancora così rilevante il contagio in Rsa e ospedali?

I contagi degli operatori sanitari cominciano a diminuire. Però le Rsa hanno dato molti problemi. Molte delle zone rosse sono state create proprio a causa dei focolai all’interno di queste strutture.

Se sono ancora così importanti questi casi è certo possibile parlare di riaperture e fase 2. Se però i contagi più recenti avvengono sul lavoro o nei supermercati bisognerebbe saperlo.

I provvedimenti hanno diminuito la trasmissione, ma quando si parla di fase 2 non si pensa certo di allentare tutto. Il virus non ci metterebbe nulla a ripartire.

Non abbiamo un lockdown piuttosto blando, specie per le attività produttive al Nord?

Non abbiamo fatto un lockdown di tipo cinese. I cinesi hanno chiuso una regione di 60 milioni di abitanti e adottato misure di sanità pubblica repressiva molto più dure. E hanno avuto i loro risultati. I nostri provvedimenti, per quanto possano sembrarci pesanti, sono più morbidi, un certo grado di trasmissione può continuare a esserci.

Anche i morti diminuiscono lentamente. Non sarà, vista la mortalità in eccesso rilevata dall’Istat, che erano molti di più e quindi la discesa è partita da un picco più alto di quello dei 969 decessi registrato il 27 marzo?

Una certa sottostima c’è stata, specie tra le persone anziane e nelle Rsa. Però anche il tempo che passa tra il contagio e il decesso è più lungo, quindi la decrescita impiega più tempo. Ci sono entrambi i fattori.

Sulle modalità dei contagi preparate studi specifici?

Certamente, intanto abbiamo lavorato sugli operatori sanitari e sulle Rsa. Ora abbiamo chiesto alle Regioni di avere più dettagli sulle più recenti modalità di contagio, anche per calibrare al meglio gli interventi. Ma i contagi di comunità aperta dovrebbero essere meno frequenti.

“Sanità questione centrale. Ma le Regioni sono diverse”

“Un investimento importante per potenziare la sanità territoriale: dal mio osservatorio, questa è una delle principali cose da proporre al governo. Significa anche rafforzamento dei servizi che si occupano di salute mentale e di tossicodipendenze, un’emergenza nelle emergenze”. Fabrizio Starace, direttore del dipartimento Salute mentale dell’azienda Usl di Modena e presidente della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica (SIEP), è uno dei 17 esperti nominati da Giuseppe Conte per elaborare proposte all’esecutivo, in vista della Fase 2, quella della ripresa.

Dottor Starace, che tipo di normalità ci aspetta?

Non sarà come riaccendere la luce e tutto torna come prima. La ripresa sarà molto graduale: bisognerà fare propri dei comportamenti preventivi che avevamo sperato potessero essere limitati solo alla fase di emergenza. Sarà una normalità diversa da quella di prima. Dovremo adattarci in maniera evolutiva, una capacità che avevamo messo da parte, grazie a una situazione complessiva favorevole. La globalizzazione, il clima, la produttività, il rapporto tra uomo e lavoro dovranno essere ridefiniti alla luce di questa sfida.

Da psichiatra, come descrive quello che è successo in questo mese e mezzo?

Tutti gli italiani, come gran parte della popolazione mondiale, sono stati sottoposti a una misura che non ha precedenti nella storia dell’umanità: alla minaccia del coronavirus si è aggiunto il lockdown, ovvero l’interruzione dei rapporti e dei contatti. L’impatto di questa pandemia è analogo a quello di una catastrofe naturale, come terremoti e tsunami o a disastri nucleari, come Chernobyl.

Cosa ha potuto osservare a livello psicologico?

La non visibilità del virus lascia aperta la porta a fantasie intrusive, a volte anche paranoiche. Mentre chi ha tratti di ipocondria tende a provare grande angoscia alla comparsa di un unico sintomo.

La fascia più colpita?

L’impatto è molto forte sugli operatori sanitari in prima linea. Sia per lo stress, sia per il timore di aver fatto errori e non aver protetto a sufficienza se stessi, con il rischio di trasmettere il virus ai figli e ai genitori anziani.

A livello operativo, che accade?

C’è un grande ricorso ai numeri verdi. I Dipartimenti di salute mentale hanno in carico circa 900mila persone. Per loro, sono state attivate strategie specifiche. Da noi, a Modena, il servizio continua ad essere aperto, ma una serie di attività hanno subito una ridefinizione. Abbiamo contattato tutti gli utenti al telefono, per valutare il loro stato psichico. Abbiamo organizzato videochiamate di gruppo, per continuare il percorso terapeutico. E promosso un mutuo aiuto tra utenti e familiari. E poi abbiamo incoraggiato chi ha già attraversato un problema di salute mentale a mettere a disposizione il proprio tempo, rispondendo alle telefonate di chi è in difficoltà. Un modo anche per dare un senso alle proprie giornate.

Un modello replicabile?

In Emilia lo standard qualitativo dei servizi è elevato. Non dappertutto è così. I diversi piani di ripresa dovranno tararsi sulle condizioni delle diverse Regioni, anche nel campo della salute e della salute mentale.

Quali sono le fasce più in difficoltà?

Gli anziani, gli adolescenti, i gruppi familiari con problemi relazionali. Ma anche gli imprenditori.

Gli anziani improvvisamente si sentono vecchi e senza prospettive.

A loro va la massima attenzione, perché sono i più vulnerabili alle conseguenze patologiche del virus. Saranno gli ultimi a poter uscire e vanno aiutati a capire che è per il loro bene.

Lo sviluppo degli adolescenti come va garantito?

L’apprendimento scolastico è centrale. Bisognerà prima mettere mano al digital divide. Ma per i ragazzi, i rapporti interpersonali sono indispensabili per una crescita armonica. Ora occorre promuovere anche attività sociali virtuali. E incoraggiarli al volontariato.

Chi rischia di più da oggi?

Le situazioni più complesse riguardano i piccoli imprenditori, per la preoccupazione legata alla loro attività. Tutti gli studi ci dicono che l’impatto della Fase 2 non sarà tanto caratterizzato da un’impennata delle condizioni più gravi psicologiche, ma dalla diffusione più ampia di disturbi psichiatrici comuni come ansia, irritabilità, insonnia, depressione. E di problemi relazionali.

Qualche priorità?

Bisogna rafforzare sanità e welfare, settori fondamentali al pari di quello produttivo. Per velocizzare i processi, è fondamentale lo screening: il Sistema sanitario deve rilevare i casi e rintracciare e informare tutti i contatti a rischio.

Task force, la lista di pro e contro

La videoconferenza dura quattro ore: un primo, lungo confronto tra i 17 esperti della task force nominata da Giuseppe Conte e guidata da Vittorio Colao. Ma il premier non c’è. E il manager di stanza a Londra ha subito chiarito alla squadra che vige l’obbligo di “massima riservatezza”. Un concetto che a Palazzo Chigi traducono così: “Sono lì per lavorare, non per fare chiacchiere”. Insomma, pare che le regole di ingaggio siano piuttosto definite. Perché il presidente del Consiglio ha sì voluto che il comitato tecnico-scientifico avesse il “supporto” di “altre professionalità” (secondo il Pd, a dire il vero, ha solo “accettato” una richiesta arrivata dal Nazareno). Ma di certo non ha intenzione di farsi fare ombra dal team, né tantomeno dall’ex numero uno di Vodafone in Europa che qualcuno – si legga, guarda caso, Matteo Renzi – già vorrebbe promosso a ministro.

La selva delle task force e il suo intreccio con le strutture istituzionali terrà banco per tutta la lunga fase 2, quella di convivenza con il virus: c’è il governo, c’è la protezione civile, ci sono il commissario Arcuri e i suoi (ne parliamo a pagina 8, ndr), ma è evidente che alla squadra guidata da Colao è stata affibbiata la rogna più grossa: stabilire come, dove e quando ripartire. A cominciare dal 4 maggio e fin dopo l’estate. Dalle fabbriche alle scuole, dagli autobus agli autogrill, dai parrucchieri ai ristoranti, dai cinema alle spiagge: saranno loro a dover scrivere la lista delle cose da fare per ricominciare a vivere riducendo al minimo il rischio che il coronavirus ritorni.

Non è un caso che il metodo di lavoro che la task force si è data sia all’insegna della prudenza, proprio quella che – stando agli umori di Palazzo Chigi – arrivava con troppa solerzia da epidemiologi e virologi con cui finora si era confrontato. E prudenza significherà “presentare scenari, ognuno con relativi pro e contro”: la responsabilità delle scelte, alla fine se la dovrà comunque assumere la politica.

Alcune linee guida già esistono: c’è la traccia scritta dal ministro della Salute Roberto Speranza, che prevede il potenziamento delle reti sanitarie territoriali, la nascita di ospedali Covid-19, il tracciamento dei contatti e la sorveglianza attiva. Lo stesso vale per le questioni del lavoro: si lavorerà all’interno della cornice del protocollo già sottoscritto da governo e parti sociali, che stabilisce le misure di sicurezza per chi torna in fabbrica o in ufficio. Ma da ieri, il team di Colao è subissato di lettere e richieste: dal sindacato dei bancari alla Confesercenti, tutti suggeriscono, invitano, sottolineano. Per non parlare dei cloni che già si moltiplicano a livello regionale: i governatori Attilio Fontana e Giovanni Toti hanno dato il via alle task force regionali di Lombardia e Liguria. Un tema, quest’ultimo, destinato a creare non poche tensioni, visto che l’orientamento della task force – a differenza di quello sostenuto finora dall’esecutivo – è quello di procedere a riaperture “per zone”, ovvero non uniformi su tutto il territorio nazionale. Non sarà una passeggiata, insomma. Qualche dispositivo di protezione individuale – in senso lato – servirà anche a Colao e ai suoi.

“Che sciagura spostare i positivi nelle Rsa. Adesso devono abolire gli ospedali misti”

Mauro Salizzoni, il “mago” europeo dei trapianti di fegato di Torino e oggi vicepresidente del Consiglio regionale del Piemonte (Pd), usa uno degli insulti più sprezzanti del dialetto piemontese, “vagabondo”, per ribattezzare quello che lui giudica l’errore più grave del centrodestra subalpino sul coronavirus. “Sì, una decisione vagabonda, disgraziata: ordinare il ricovero nelle Rsa di positivi. Una scelta che non so come giudicare: un po’ disperata e un po’ cinica. Il cinismo, forse, degli inizi di questa storia: muoiono solo vecchi…”.

Be’, professore, la cronaca riserva anche altro: il responsabile dell’Unità di Crisi, Roberto Testi, ammette che per giorni sono andate perse le email dei medici di famiglia sui positivi. In qualche caso, con risposte giunte poi quando i malati erano già morti.

Certo, una cosa gravissima, segno dello sbando. E, per giunta, rendendo inutile il lavoro dei medici di famiglia, gli unici che stanno sul territorio, che possono cogliere il nascere di nuovi allarmi.

Medici di famiglia attaccati dalla giunta guidata da Alberto Cirio e messi alla berlina dalla Lega che propone di premiare tutto il personale sanitario, ma escludendo proprio loro. Dilettanti allo sbaraglio?

Certi comportamenti sanno più di piccola rivalsa che di un vero governo. Attaccare i medici di famiglia è insopportabile, tenuto conto che sono stati mandati avanti senza camici, mascherine, sistemi di protezione.

Quali sono gli errori più gravi commessi in Piemonte, capaci di spiegare il balzo verso il secondo posto, per numero di positivi, dietro la Lombardia?

Rispondo dicendo che cosa bisognerebbe fare. Abolire gli ospedali misti per medicina normale e coronavirus: ne alimentano la diffusione. Aumentare i tamponi per scoprire i focolai nascosti. Infine, sviluppare l’assistenza domiciliare, altro che insultare i medici.

C’è qualche segnale su dove potrebbero trovarsi questi focolai sconosciuti?

Un dato anomalo arriva da Cuneo: un aumento del 9 per cento. Si tratta di capire se non è un errore. Il problema più grave, però, sono le periferie di Torino. Quelle periferie dove si vive male, anche ai tempi del coronavirus. Abitare in 4-5 persone in 40 metri quadri significa moltiplicare i casi di contagi familiari.

La soluzione?

Fare più tamponi.

Il presidente Cirio si difende dicendo che, all’inizio, c’erano in tutto solo due laboratori in grado di analizzarli e che solo ora si è saliti a 18. Un modo per accusare il centrosinistra che aveva governato prima.

Una falsità. Ho telefonato al precedente assessore alla Sanità, Antonino Saitta, e lui me l’ha confermato: i laboratori che avrebbero potuto operare sono sempre stati 18. Il problema era decidere, all’inizio di tutto, se cercare le macchine e i reagenti necessari. Non è stato fatto.

Dove sta la colpa?

Credo sia tutto legato al fatto che in Piemonte l’epidemia è arrivata da est e cioè dalla Lombardia. Così si è deciso di imitare Fontana, forse per affinità politiche. Il Piemonte, allora, è diventato come lo scolaro che copia il compito sbagliato dal vicino.

Ma la giunta Cirio è all’altezza?

Questa è una giunta a forte trazione leghista. Una Lega che per allestirla ha dovuto tener conto di interessi territoriali, delle sue divisioni interne, delle tante marchette elettorali.

E così?

Così abbiamo un assessore alla Sanità, Luigi Icardi, pronto ad ammettere che avrebbe preferito la delega all’Agricoltura: lui si intende di vini, diciamo così.

Il M5S chiede di commissariare. E il Pd?

I commissariamenti hanno tempi lunghi e non sempre sono efficaci. Meglio una commissione d’inchiesta, ma non ora. Adesso serve invece una svolta immediata, cercando aiuto, a cominciare dalle opposizioni.

Vo’ è a zero malati. L’ospedalizzazione è l’errore lombardo

Adriano Trevisan era stato il primo. Se n’era andato a 78 anni nella notte del 21 febbraio, dopo due settimane di terapia intensiva nell’ospedale di Schiavonia (Monselice, Padova). Poi era stata la volta di Renato Turetta, 67 anni, e Andreina Santimaria, 85. Tre vittime in tutto: 54 giorni dopo il conto a Vo’ Euganeo (Padova) si è fermato. Ieri il sindaco Giuliano Martini ha annunciato che nel paesino del Padovano in cui era stato registrato il primo caso di Covid-19 in Veneto “non ci sono più malati”. Un microcosmo di 3mila abitanti utilizzato dalla Regione per validare la strategia scelta contro l’epidemia.

Una strategia basata sull’uso massiccio dei tamponi nel piccolo Comune fin dai primi giorni anche sugli asintomatici per il tracciamento rapido dei contatti: le persone incontrate dai contagiati sono state rintracciate e messe in quarantena per evitare che, se infette, potessero diffondere il virus. Messa in atto a partire dagli ospedali. “Il signor Trevisan è morto nella notte del venerdì – racconta Daniele Donato, direttore dell’ospedale di Padova, 1.700 posti letto, 8 mila dipendenti, tra i maggior della Regione –, appena ci è arrivata la notizia abbiamo protetto medici e infermieri dando indicazioni sull’utilizzo di guanti, camici e mascherine”. Sugli 86 mila tamponi analizzati nel nosocomio, “7.100 sono stati fatti a loro e 3.300 di loro sono stati valutati più di una volta per evitare che l’ospedale fosse un moltiplicatore di contagi”. Così oggi gli operatori positivi sono solo 72, un sogno nella maggior parte delle regioni più colpite.

Prima ancora degli ospedali, il pilastro della gestione dalla giunta Zaia è stato il potenziamento della sanità di prossimità, una delle caratteristiche della “gestione territoriale” dell’emergenza, tra le tre tipologie individuate da una ricerca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore su Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, Lazio e Marche. Un sistema, si legge nello studio Instant Report Covid-19 dell’Alta Scuola di Economia e management dei sistemi sanitari, arrivato al 3° numero, basato su “una crescita dei posti in terapia intensiva superiore al 50%”. Letti che vengono usati con frequenza (cioè nel 20% dei ricoveri) ma anche su un “minore ricorso all’ospedalizzazione” che riguarda solo il 23% dei positivi: “I pazienti meno gravi vengono curati a casa”, spiega Americo Cicchetti, direttore dell’Altems. Impossibile, però, un raffronto tra le risposte date dalle Regioni perché “l’infezione in Lombardia e nel Piacentino è stata molto più intensa di quella registrata in Veneto o nel Lazio”. La differenza sta nella differente vocazione sanitaria: “Il Veneto ha investito negli anni su strutture territoriali, la Lombardia ha potenziato quelle ospedaliere”, nelle quali finisce in media il 50% dei suoi pazienti positivi. E il cui rafforzamento caratterizza anche il modello combinato “ospedale-territorio” di Emilia e Piemonte.

“In Veneto ci sono molte ‘Unità complesse di cure primarie’, associazioni di medici di famiglia che curano le persone in isolamento a casa, che non hanno mai attecchito in Lombardia. Hanno, poi, avuto un ruolo determinante i distretti territoriali. Sono strutture composte da medici della Asl, igienisti, pediatri e altri specialisti che hanno fatto da filtro tra l’assistenza domiciliare e quella ospedaliera. “Uno scudo che sembra aver arginato il contagio: oggi la Regione Veneto è la quarta più colpita, ma le 906 vittime sono lontane dalle 1.927 del Piemonte che occupa il terzo gradino del drammatico podio. “I veneti non sono stati più bravi nel gestire l’emergenza – conclude Cicchetti – ma, pur non avendolo previsto, hanno creato un sistema che ha risposto meglio al Covid”.

In Piemonte si sono persi le email sui primi contagi

Numeri che continuano a preoccupare, botte da orbi tra medici e Regione Piemonte e un sistema sanitario che, tra tamponi non fatti e informazioni perse per strada, si è dimostrato clamorosamente impreparato a gestire un’emergenza, seppur di dimensioni non immaginabili. Su questi tre elementi si basa il “caso Piemonte”, regione che si appresta a diventare la seconda malata d’Italia dopo la Lombardia, vicina con cui – al pari del Veneto – condivide chilometri di confine e a cui – a differenza del Veneto – si lega per una certa affinità nelle politiche anti Covid-19.

Gli ultimi numeri: ieri il Piemonte ha fatto registrare un aumento dei contagi pari al 3,2%, quasi il doppio della Lombardia, secondo soltanto a quello della Liguria (3,8%). I contagi sono 17.690 (circa 3 mila in meno dell’Emilia-Romagna) e 1.927 i deceduti (circa 800 in meno dell’Emilia). Continua a saltare all’occhio il numero dei tamponi fatti: 71 mila in Piemonte, 101.869 in Emilia e, soprattutto, 208.878 in Veneto che, con una popolazione sostanzialmente equivalente, registra un numero di poco inferiore di contagi ma ha mille morti in meno.

E sui tamponi – tasto dolente del Piemonte – volano infatti da giorni gli stracci. Da un lato le associazioni dei medici accusano la politica di aver ignorato l’appello a intensificare i controlli almeno sul personale sanitario, sottolineando come – a differenza di quanto sostenuto dall’assessore alla sanità Luigi Icardi – “esista eccome una correlazione tra tamponi effettuati e l’andamento dei decessi”. Dall’altro la Regione, che lamenta “pugnalate alla schiena”. L’ultimo capitolo è andato in onda ieri. Il presidente del Comitato tecnico scientifico, Roberto Testi, ha dichiarato che decine di comunicazioni via email, inviate dai medici di famiglia al Servizio di igiene e sanità pubblica dell’Asl unica di Torino in cui si richiedevano tamponi per pazienti sintomatici, “sono andate perse”, come denunciato dagli stessi medici di famiglia. In sostanza, l’email del Servizio d’igiene a cui arrivano le segnalazioni di cittadini vittime del Covid-19 si sarebbe bloccata per il numero “eccessivo” (fino a 500 al giorno) di messaggi ricevuti. Ciò che non si spiega, è come mai il Servizio d’igiene abbia temporeggiato a segnalare il problema. Il blocco, infatti, secondo Testi, sarebbe di un’intera settimana, circa un migliaio le email “perdute”. Come sia stato possibile tutto ciò, non è esattamente dato sapere. Di certo sono finite nel nulla anche centinaia di segnalazioni arrivate telefonicamente al Servizio d’igiene da cittadini che avevano contattato le guardie mediche o i medici di base o la Asl. Richiedevano invano un tampone dichiarando di aver avuto contatti con persone risultate positive. Per non parlare delle mancate analisi fatte a parenti stretti di persone decedute (anche loro rimasti senza test) o di casi da noir come quello delle due prostitute nigeriane fuggite a fine febbraio dall’ospedale Amedeo di Savoia. Erano state ricoverate con sintomi da coronavirus ed erano state in Lombardia. Sono state poi rintracciate, ma soltanto nei giorni successivi, l’ultimo tampone aveva dato esito negativo.

Inevitabile che su tutto piombasse anche la polemica politica: “Ci rivolgiamo al presidente del Consiglio e al ministro della Salute – scrive il gruppo M5s del Piemonte – affinché valutino la possibilità di commissariare la sanità piemontese come previsto dall’art. 120 della Costituzione laddove recita: ‘Il governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica”’. “Sciacallaggio”, taglia corto la Lega.

Medici vittime del virus: Inail riconosce l’infortunio mortale già a tre famiglie

Dopo la Lombardia, il Piemonte. Sono già tre i riconoscimenti da parte dell’Inail di infortunio mortale sul lavoro nei casi di decessi di operatori sanitari a causa del coronavirus. E decine di istruttorie sono in corso. Del resto continua ad aumentare il numero dei medici stroncati dal virus contratto mentre prestavano servizio: dall’inizio dell’epidemia sono saliti a 116. E crescono anche i decessi tra gli infermieri, arrivati a 28 e ai quali nei prossimi giorni potrebbero aggiungersene altri due, sui quali sono in corso accertamenti con i tamponi per verificare se a ucciderli sia stato il Covid 19.

Le prime due vittime per le quali è arrivato il riconoscimento dell’istituto sono lombarde: un medico e un operatore del 118. Quest’ultimo, che lavorava a Bergamo, è stato in assoluto il primo operatore sanitario che l’Inail ha classificato come infortunio mortale: aveva 46 anni ed è morto il 13 marzo scorso. L’ultimo è un operatore di un ospedale di Torino, deceduto dopo un periodo di terapia intensiva, come ha spiegato Daniele Bais, direttore della sede Torino Nord dell’Inail. Per i famigliari di queste prime tre vittime è stata costituita una rendita. L’assegnazione è stabilita dall’articolo 42 del decreto Cura Italia, in base al quale i contagiati sul posto di lavoro hanno diritto a un risarcimento che può diventare, appunto, una rendita, in caso di morte, a beneficio dei superstiti. Prevista anche l’una tantum dal fondo delle vittime di gravi infortuni sul lavoro, di cui possono usufruire anche i lavoratori non assicurati con Inail. Con due circolari l’Istituto ha chiarito da settimane: per il riconoscimento dell’infortunio sul lavoro vale la semplice “presunzione” dell’origine professionale. In pratica è sufficiente il risultato del tampone con il certificato medico per far partire la pratica. Nonostante questo alcune aziende sanitarie lombarde, come hanno denunciato i medici del sindacato Anaao, richiedevano il certificato di malattia nonostante l’Istituto si fosse già pronunciato dando diposizione di classificare l’assenza dal lavoro di un operatore sanitario risultato positivo (medico, infermiere o Oss) come un infortunio sul lavoro.

L’alto numero di istruttorie aperte, anche per i casi non fatali, è spiegato dal dato relativo al numero degli operatori infettati. L’ultimo bollettino dell’Istituto superiore della sanità ne conta complessivamente poco più di 16mila (dato aggiornato al 13 aprile). Di questi quasi la metà sono concentrati in Lombardia.

Ospedale in Fiera, pure la Giunta pensa che sia inutile: “Per fortuna non serve…”

Ieri Il Fatto Quotidiano ha scritto che l’ospedale in Fiera di Milano, nato con l’idea di avere 600 posti di terapia intensiva e che invece finirà per averne poco più di 150, ospita solo una dozzina di pazienti e rischia di essere in prospettiva “una cattedrale nel deserto”. Cattedrale peraltro, e nonostante un costo di decine di milioni di euro, destinata a breve vita: la convenzione su cui lavora la struttura è di soli sei mesi, poi – salvo proroghe – andrà smontata.

È curioso allora che una sorta di conferma a questa ricostruzione così sgradevole per Palazzo Lombardia arrivi dalla stessa Giunta di Attilio Fontana. Ieri, ospite di Agorà su Rai3, l’assessore all’Ambiente Raffaele Cattaneo – uno degli ultimi “ciellini” al comando della Regione dopo i fasti di Roberto Formigoni – ha risposto così a chi gli contestava i pochi pazienti accolti: “L’ospedale in Fiera lo abbiamo fatto per fronteggiare un’emergenza, lombarda e non solo lombarda. Noi ci auguriamo di non doverne avere necessità, ma se ci fosse necessità ci siamo organizzati con una struttura che funziona ed è in grado di dare una risposta all’emergenza”. Stesso concetto per l’assessore al Welfare Giulio Gallera nel suo happening quotidiano: “L’ospedale della Fiera fortunatamente non è servito a ricoverare centinaia di persone in terapia intensiva. E di questo siamo contenti: vuol dire che oggi c’è un bisogno sanitario inferiore” (220 pazienti in meno in terapia intensiva dal 6 aprile).

Meglio averlo che no, per carità, ma – come dicono anche i dirigenti medici della sanità regionale – era ancora meglio destinare somme così ingenti a potenziare gli ospedali pubblici lombardi che hanno fior di padiglioni smessi, a non dire dell’assenza della medicina di territorio.

Fontana non ha preso questa via e la sua scelta di fronte al virus è stata invece la strada “cinese” dell’ospedale smontabile. Per realizzare il suo “momento Xi Jinping”, il leghista ha puntato sulla Fiera di Milano, istituzione con cui – come vedremo – ha una certa familiarità storica e legami politici e professionali di peso.

Questo è il punto: perché proprio la Fiera? Perché per costruire “un miracolo” è quasi ovvio che si circondi di amici e persone di cui ci si fida. No, non si parla qui di Guido Bertolaso, velocissima cometa in questa vicenda, ma appunto della Fondazione , istituzione i cui vertici sono stati nominati dallo stesso Fontana giusto a luglio scorso.

All’epoca il “governatore” indicò come presidente della Fondazione il manager – milanese e bocconiano – Enrico Pazzali al posto di Giovanni Gorno Tempini. Non solo: nei tre posti di sua competenza nel Consiglio generale, nominò tra gli altri Giulia Martinelli, ex compagna di Matteo Salvini e capo segreteria dello stesso Fontana, divenuta poi membro anche del “comitato esecutivo”, una sorta di cda, ma non vicepresidente come voleva. Abbiamo tentato di conoscere i compensi dovuti per questi alti incarichi, ma la Fondazione – nonostante una delibera Anac di luglio 2019 glielo imponesse – non ha la sezione “trasparenza” nel suo sito.

Torniamo, però, a Pazzali, il centro di questa vicenda. Per il nostro, infatti, si tratta di un ritorno a casa dopo una parentesi in Eur, la Spa del Tesoro (90%) e del Comune di Roma: Pazzali fu infatti prima direttore generale (dal 2006) e poi amministratore delegato (dal 2009 al 2015) di Fiera di Milano, società per azioni controllata dalla Fondazione. In quel periodo l’avv. Attilio Fontana era – in quota Lega – vicepresidente del cda di Fiera di Milano e capo del comitato remunerazioni, organo di cui Pazzali non s’è certo potuto lamentare.

Purtroppo per i milanesi, i risultati industriali di questo sodalizio non furono buoni: la gestione dell’allora ad di Fiera si chiuse con un triennio nero da quasi 40 milioni di perdite e la necessità di un aumento di capitale realizzato nel 2015. Sfortuna, deve aver pensato Fontana, che infatti l’ha richiamato e promosso a presidente della Fondazione affidandogli poi la speranza di essere lo Xi Jinping italiano. Al momento non pare vada benissimo.

“Strage dei nonni”: è la Mani Pulite delle case di riposo

C’è chi comincia a temere che, indagine dopo indagine, decolli una nuova Mani pulite. Si moltiplicano le inchieste sull’epidemia da Covid-19. A Milano, ma anche a Bergamo, Lodi, Como, Lecco, Varese, Monza, Cremona, Sondrio. La polizia giudiziaria anche ieri ha visitato alcune Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) lombarde, sequestrando e acquisendo documenti, cartelle cliniche e materiale informatico che saranno analizzati nei prossimi giorni. A Milano, gli investigatori della Guardia di finanza si sono presentati al Pio Albergo Trivulzio, 28 anni dopo il blitz dei carabinieri che diede il via a Mani pulite, per acquisire documenti, tra cui anche le direttive e le comunicazioni inviate dalla Regione Lombardia alle Rsa sulla gestione degli ospiti anziani. Nei giorni scorsi i carabinieri del Nas di Brescia avevano eseguito perquisizioni in una quindicina di case di riposo bergamasche, mentre il Nas di Milano è entrato ieri in quelle milanesi, ma anche in strutture per anziani delle province di Como, Varese e Monza. Inchieste sono state aperte anche in Piemonte, a Cuneo, e in Abruzzo, a Sulmona.

La Procura di Milano ha iscritto nel registro degli indagati i responsabili di una dozzina di residenze, tra cui i centri anziani di Affori, Corvetto e Lambrate. Nei giorni precedenti erano già stati iscritti il direttore generale del Trivulzio, Giuseppe Calicchio, i responsabili dell’istituto Palazzolo-Don Gnocchi e quelli della Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Le ipotesi di reato vanno dall’epidemia colposa all’omicidio colposo.

È la Procura di Lodi a indagare, sempre per epidemia colposa e omicidio colposo, sulla Rsa di Mediglia, la prima residenza per anziani in cui è stato segnalato un aumento impressionante di decessi tra gli ospiti, con 60 morti.

Dall’inizio dell’emergenza coronavirus nelle strutture assistenziali lombarde sono morti duemila anziani, 600 circa in provincia di Bergamo, oltre 300 a Milano, 150 nel solo Pio Albergo Trivulzio. Numeri drammatici. Secondo alcune testimonianze di parenti e di infermieri, è stata sottovalutata la necessità di proteggere ospiti e personale sanitario, non sono stati approfonditi decessi per polmonite che potevano essere causati da Covid-19, non sono stati isolati i pazienti che avevano sintomi da coronavirus e sono stati lasciati senza tampone. La situazione sarebbe precipitata dopo la decisione della Regione di spedire nelle Rsa i pazienti Covid-19 non gravi, per alleggerire l’affollamento degli ospedali lombardi. Un cerino acceso gettato nel pagliaio.

La Guardia di finanza ha acquisito documenti sulla gestione organizzativa del Trivulzio e su come ha recepito le direttive della Regione Lombardia, quando ha accolto una ventina di pazienti Covid dimessi dagli ospedali.

Delle 700 case per anziani lombarde, sono 15 quelle che hanno accolto la richiesta della Regione di accettare pazienti Covid dagli ospedali, nel pieno dell’emergenza virus. Di queste, sette sono nella provincia di Bergamo. Hanno accolto in totale 147 persone. Questi almeno sono i numeri dichiarati dalla Lombardia, che però in marzo aveva invece ammesso che circa il 30 per cento dei dimessi erano stati convogliati in Rsa e hospice, per liberare posti letto negli ospedali. Effetto delle delibere approvate dalla Regione a partire dall’8 marzo.

I trasferimenti non sono stati gratis, ma hanno significato entrate extra per le Rsa. “Sono previsti 150 euro al giorno, per paziente, di rimborso da parte della Regione”, spiega Luca Degani, presidente regionale di Uneba, l’associazione delle case di riposo a cui aderiscono 400 delle 700 strutture attive in Lombardia. Le degenze ordinarie degli anziani hanno un contributo pubblico che varia da un minimo di 29 a un massimo di 49 euro a seconda delle patologie. Chi ha accolto i dimessi Covid ha dunque incassato da 100 a 120 euro al giorno per paziente in più.