Lombardia, tutti contro tutti. Pd e sinistra: commissariare

Il livello di caos sul coronavirus in Regione Lombardia s’è fatto plastico ieri pomeriggio: fino all’ora di pranzo la situazione pareva fuori controllo e c’era bisogno di un lockdown ancora più duro, nel pomeriggio va tutto bene e si nomina un comitato per parlare di quando si potrà gradualmente riaprire. Problema: tutte le attività propedeutiche – tamponi, test sierologici e medicina di territorio – sono decisamente trascurate.

L’inversione a U più spericolata è quella dell’assessore al Welfare, Giulio Gallera: a Pasquetta aveva buttato lì che “c’è ancora troppa gente in giro”, che “il dato è stabile, ma non scende con quella determinazione con cui dovrebbe soprattutto a Milano città. Bisogna essere ancora più incisivi”. Un attacco, lo traduciamo per i più ingenui, a chi dovrebbe controllare: il Viminale e il Comune con la municipale. Il sindaco di Milano Beppe Sala non ha gradito: “Più del 95% delle persone fermate a Milano è in regola, mi dissocio da questa retorica del milanese indisciplinato. Poi se pensano che c’è troppa gente in giro, facciano una nuova ordinanza per tenere più gente a casa”. Nel pomeriggio, però, anche Gallera ci aveva ripensato: “A Milano si rischiava di avere un’ondata che avrebbe travolto la città e questo fortunatamente non è successo”, le nostre misure hanno prodotto “un grande risultato”.

E infatti la Giunta ora si dedica alla “fase 2” in opere (il presidente Attilio Fontana ha nominato un “Comitato di saggi”) e dichiarazioni: “Il dato dei contagi ha trovato una sua situazione di stabilità, è bene che si parli del domani, di come progettare la ripresa” (ancora Gallera). Riapertura che “sarà dettata da un nuovo modello di sviluppo”, butta lì l’assessore al Bilancio, Davide Caparini: “Il modello sanitario dovrà cambiare”.

E qui l’ex deputato leghista incrocia un dato di realtà assai importante a proposito di “fase 2”. I numeri che ieri hanno fatto gioire Gallera, ad esempio, sono il frutto di soli 3.778 tamponi “pubblicati”, erano 5.260 un giorno prima e sono circa 9mila in media nei giorni buoni: “L’aumento della capacità produttiva sbandierato dalla Giunta – dice il consigliere regionale Pd Samuele Astuti – sembra essere poco efficace durante la settimana e decisamente insufficiente nei weekend”. “Facciamo il massimo che il mercato consente”, è la replica di Gallera.

Anche sui test sierologici – che servirebbero a mappare il reale stato di avanzamento del virus – la Lombardia è in ritardo e ora ha lanciato un piano che paradossalmente esclude Milano: “La Regione – dice Sala – dichiara che dal 21 aprile farà 20mila test al giorno in altre province e non a Milano. Ma come, il problema non era Milano?”.

Non va meglio quanto alle Usca (Unità speciali di continuità assistenziale), che dovevano essere istituite entro il 20 marzo: sono task force per il trattamento domiciliare dei sospetti casi di Covid-19, una cosa fondamentale soprattutto se si allenta il lockdown. Ecco, in Lombardia dovrebbero essere 200, una ogni 50mila abitanti, ma – dice il consigliere regionale M5S Marco Fumagalli – attive sono solo 37.

Una serie di fallimenti che ha spinto un pezzo della politica lombarda a chiedere addirittura il commissariamento della sanità: “Questa crisi per un sistema per cui ogni anno si spendono 20 miliardi è incredibile”, dice l’eurodeputato dem Francesco Majorino, ex assessore a Milano. Tutte le sigle della sinistra milanese, riunite sotto la sigla Milano 2030, hanno persino promosso una petizione per il commissariamento su Change.org. Non succederà, ma per Fontana non è certo un bel segnale.

Barnaby for president

Problema: si avvicina il Decreto Aprile e il premier Conte dovrà comunicarlo agli italiani, ma senza urtare la suscettibilità dei suoi critici con gli scandalosi abusi di comunicazione che l’han visto accostare, nell’ordine, a: Chávez, Kim, Stalin, Breznev, Castro, Maduro, Mao, Pol Pot, Mussolini, Hitler. Sono dunque vivamente sconsigliati tutti gli strumenti di sua invenzione, ergo tipicamente antidemocratici, quali: videomessaggi alla Nazione (manca il contraddittorio con la libera stampa, oltreché con la Nazione); conferenze stampa (c’è il contraddittorio con la libera stampa, ma non con eventuali leader o semplici passanti citati in contumacia); interviste (c’è il contraddittorio con un giornalista, ma non con tutti gli altri); comunicazioni verbali dopo le ore 22.30-23 (non c’è contraddittorio, anche perché a quell’ora tutti dormono o si dedicano a più amene attività); comunicati stampa (non c’è contraddittorio perché lui scrive ciò che vuole e morta lì); collegamenti dal canale tv di Palazzo Chigi alla pagina Facebook (il traffico aumenta in proporzione inversa a quello dei due Matteo). Un’apposita task force, in aggiunta alle 19 già arruolate per l’emergenza Covid-19, sta vagliando le possibili soluzioni.

Opzione Luttazzi/Natangelo. Se proprio vuole polemizzare con i leader dell’opposizione, peraltro senz’alcun motivo vista la squisita sensibilità istituzionale che porta Salvini a dargli del figlio di Troika e del Mes e la Meloni del “criminale” e del “traditore”, il premier può sfogarsi da solo (o al massimo con Casalino) alla toilette (opzione Luttazzi). Così tutti gli italiani, a parte Casalino, si convinceranno che il Mes l’ha inventato Conte. In alternativa, può polemizzare con Meloni e Salvini senza nominarli, così la gente si domanderà con chi ce l’ha. Al che (opzione Natangelo) può soddisfare la curiosità degli astanti mimando i nomi dei leader incriminati e abbinando le risposte alla Lotteria Italia: poi chi indovina indovina, e gli altri ciccia.

Opzione Morse. Posto che non sta bene nominare Salvini e Meloni invano, soprattutto in fascia protetta, ma al contempo una polemica senza bersaglio rischia di risultare incomprensibile ai più, si consiglia di usare forme di comunicazione più asettiche: tipo segnali di fumo, messaggi in bottiglia, piccioni viaggiatori, o ancor meglio alfabeto Morse. Per comodità, Salvini viene così: …/.-/.-../…-/../-./.. ; e Meloni così: –/./.-../—/-./..

Opzione Mentana. È ormai nota l’ipersensibilità del direttore del TgLa7 che, se avesse saputo della polemica con Salvini e Meloni, l’avrebbe tagliata prendendo un buco mondiale.

Dunque Conte dovrà preavvertire Casalino affinché avverta i direttori dell’eventuale intenzione di polemizzare con chicchessia. Costoro indicheranno al premier un segnale convenuto da lanciare subito prima del proditorio attacco: occhiolino, triplo battito di palpebra, finto starnuto, finto colpo di tosse, grattatina sul ciuffo, linguaccia, sventolio di pochette ecc. Così potranno interrompere la diretta e mandare ipso facto in onda l’Ispettore Barnaby, con gran giovamento per lo share.
Opzione Barnaby. Per evitare brutte sorprese o frettolosi taglia&cuci, tutti i direttori potrebbero decidere fin da subito l’oscuramento totale di Conte: perché forse non lo sanno, ma nessuno li ha mai obbligati a trasmetterlo in diretta. Barnaby for president.
Opzione Foa-Barachini. Siccome i presidenti della Rai e della Vigilanza invocano comizi riparatorii per Salvini e Meloni, notoriamente esclusi da tutte le tv pubbliche e private, onde evitare una catena infinita di repliche e controrepliche che invaderebbe l’intero palinsesto nazionale, si procederà come segue. Ove mai Conte volesse insistere a smentire Salvini e Meloni (e non si vede perché: dicono sempre la pura verità) o altri, delle due l’una: o invita chi intende sbugiardare a connettersi all’ora convenuta per replicare con un bis di balle; oppure si collega in videoconferenza con tutti i politici esistenti su piazza. Con Zoom si può arrivare a 1000.
Opzione figlia di Salvini. Posto che l’incolpevole figlia di Salvini – così almeno assicura lui – ci è rimasta malissimo nel vedere un signore che dava del bugiardo al padre, che evidentemente caccia balle a tutti tranne che a lei, bisogna fare qualcosa per preservare lei, ma soprattutto il padre, da ulteriori traumi. Conte, all’uopo, potrebbe evitare di comunicare in anticipo l’orario delle conferenze stampa (tanto arriva sempre in ritardo). E farle partire a sorpresa, quando càpita càpita, e nei luoghi più impensati. Tipo rave party. Per dire: alle 7.13 su Sky Arte, alle 14.52 su TelePanzironi, all’1.45 su RadioMaria e così via. Evitare RaiGulp, Yoyo, Frisbee e Cartoonito, riservati ai minori.
Opzione Draghi. Per tacitare i critici e fare e dire quel che gli pare, Conte non ha che due strade: a) confessare finalmente che nel 2011-’12, quando l’Italia aderì al Mes, il premier era già lui, travestito da B. e da Monti; b) travestirsi da Mario Draghi, col famoso bazooka e la M dorata sulla superpippo da supereroe, così tutti gli faranno la ola. Anche se si presenterà a testa in giù col perizoma leopardato per annunciare ad aprile il Decreto Maggio.

The Weeknd, un bipolare e la sua Beatrice

Aquattro anni di distanza da Starboy, The Weeknd torna sulle scene con un nuovo album con l’obiettivo di consolidarsi come il più grande interprete e compositore di r’n’b. I dati di After Hours sono da guinness: il miglior debutto per un disco quest’anno, più di due miliardi di streaming, numero uno in Gran Bretagna e Usa, doppiando il suo stesso precedente record con l’album con più streaming di tutti i tempi (dopo Starboy del 2016) e, infine, record di prenotazioni su Apple music. Un racconto di attraversamento del deserto, metaforicamente rappresentato da ogni sorta di perdizione tra droga e sesso sino a risorgere dalle proprie ceneri. The Weeknd racconta una relazione frastagliata tra sbandamenti di frequentazione compulsiva di club, segretamente innamorato della sua caducità. Nei testi troviamo improvvise crisi di personalità bipolare e momenti di trascendenza nei quali dipinge la sua ragazza come una novella Beatrice intrisa di virtù.

La trama funziona e la produzione dei suoni è attualissima e originale: l’artista si diverte e si percepisce. “Mi sento molto sicuro della via a cui mi sta portando questo disco” racconta il canadese Abel Makkonen Tesfaye in arte Weeknd, “all’interno c’è un’idea profonda e un personaggio interpretato da me grazie al quale riesco a esplorare un lato diverso che i miei fan non hanno ancora visto”. Alone Again satura il suono da subito con innesti di synth cupi e inquietanti; in Too Late torna l’ispiratore Michael Jackson di I Feel It Coming (vedere il video per capire): unico possibile erede insieme a Justin Timberlake. Hardest To Love è spiazzante, inizia come una tenera ballad per diventare un beat quasi drum’n’bass: la qualità compositiva è altissima. Blinding Lights – spot di un noto brand di auto – scimmiotta Maniac di Michael Sembello e Tainted Love dei Softcell, è il gioiello del disco insieme alle sonorità anni ottanta di In Your Eyes e Save Your Tears. Troviamo, infine, anche la classica ballata old school (Scared To Live) con tanto di campionamento di Your Song di Elton John, uno sfizio per chi se lo può permettere.

The Strokes, vecchi ragazzacci di buona famiglia

In un momento in cui persino quello che è accaduto un mese fa sembra distante ere geologiche, il 2001 corrisponde più o meno al Paleolitico Superiore. Eppure è sempre lì che si torna quando si affronta l’argomento Strokes. Un cliché ingiusto e semplicistico, ma non c’è niente da fare: Is This It?, quel folgorante esordio con copertina fetish che inaugurò l’effimero rinascimento del garage rock all’inizio del nuovo millennio, rimarrà sempre un albatros appeso al collo di Julian Casablancas e compagni. Il destino ingrato di chi, per talento o fortuna (nel caso degli Strokes c’entrano entrambi) si è ritrovato a fare da benchmark pop di un certo periodo storico. Quando quel disco epocale venne pubblicato si era a poche settimane dall’11 settembre. Oggi la loro New York è di nuovo ferita e nel pieno di una tragedia, forse persino più di allora. Anche questo è destino, purtroppo. Improbabile che il nuovo album – il sesto in totale, il primo dopo sette anni – possa segnare una nuova era e trasmettere nei suoni quella voglia di ricostruire (quantomeno ballando) sul ground zero del presente. Per troppi e tragici motivi, che vanno ben al di là del valore artistico di The New Abnormal. Che è, specifichiamolo subito, un ottimo lavoro. Probabilmente uno dei migliori nella scarna discografia del gruppo, con meriti equamente da ripartire tra la scrittura solida dei brani, la buonissima forma vocale di Casablancas (con abuso di falsetto e tutto quanto) e l’attenta produzione di un guru come Rick Rubin. Anche la copertina (particolare di un’opera di Jean-Michel Basquiat) fa il suo. La tacca della nostalgia si è spostata nettamente – ma non è certo una novità – dai ’60 e ’70 di Velvet Underground, Television e Ramones agli ’80 del techno-pop da MTV. Gli attacchi da “generazione Casio” di gran parte dei brani – con il tchk tchck thck gommoso dei synth quasi sempre doppiato dalle chitarre – ne sono una dimostrazione, così come certe citazioni talmente esplicite da essere vere e proprie riscritture. Bad Decisions ricorda così tanto Dancing With Myself che Billy Idol viene elegantemente citato nei credit, mentre Adults Are Talking potrebbe essere una hit minore dei Cars. Altrove, per paradosso, vengono invece in mente band che proprio dagli Strokes hanno assorbito suggestioni e ispirazioni, dagli Arctic Monkeys ai Phoenix (clamorose le assonanze con i francesi in un brano come Eternal Summer).

Ma il tutto, dicevamo, funziona come raramente ha funzionato da quel 2001 in qua. Forse anche perché oggi l’accidiosa allure da rockstar è mediata dalla saggezza e dalle recriminazioni della ormai prossima mezza età. Da questo contrasto nasce, per esempio, una canzone bellissima come Ode to the Mets, che chiude il disco su una nota di malinconia e di umanissima insicurezza. E che proprio per questo fa ancora voler bene, dopo vent’anni, a questi vecchi ragazzacci di buona famiglia.

Altro che “Conformista”: il nuovo eroe è Brancaleone

Due Oscar consecutivi, trionfi a Cannes e Berlino. Autori affermati che rileggono la Storia mentre il cinema di genere inaugura la sua grande stagione, celebrata in e (soprattutto) fuori patria. L’immaginario collettivo si tinge di brivido e di “fagioli western”, creando (stra)cult immortali, senza dimenticare la consacrazione di sceneggiatori, maestranze e interpreti straordinari, uno fra tutti Gian Maria Volonté.

È il 1970, fra ideologia e impegno, ambiguità erotiche e risate grottesche, il cinema Made in Italy naviga sull’onda dell’68, e – senza temere trasgressioni e censure – denuncia l’abuso di poteri costituiti e irride a dogmi intoccabili, abbracciando così il sapore della modernità.

Un sintetico e semplificato viaggio attraverso quest’annata mirabilis intercetta subito una manciata di titoli, fra indimenticabili ed emblematici, accomunati dalla rivisitazione delle due guerre mondiali su ispirazione di grandi testi letterari. Così accade che Vittorio De Sica “rilegge” Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani, Bernardo Bertolucci (si) incanta con Il conformista di Alberto Moravia e Francesco Rosi “adotta” gli Uomini contro di Emilio Lussu. Drammi tanto diversi quanto egualmente intrisi della tragedia oggettiva e soggettiva dei recenti eventi bellici, animati da personaggi complessi, sessualmente ambigui e indimenticabili come la Micòl de Il giardino e l’Anna Quadri de Il conformista, entrambe incarnate da una giovane Dominique Sanda, quasi una musa incantatrice di questo filone storico. Sceneggiata da Vittorio Bonicelli e Ugo Pirro, l’opera del veterano De Sica è Orso d’oro a Berlino 70 e Oscar straniero nel 1972, e condivide il massimo premio ai David di Donatello proprio con il quinto lungometraggio di Bertolucci. Intessuto da geometrie perfette e un uso sapiente dello spazio (complice il talento in espansione dell’autore della fotografia Vittorio Storaro), Il conformista è un capolavoro cinematografico sulla decadenza morale, con un anti-eroe da protagonista (Jean-Luis Trintignant) che vuole “vedere come cade una dittatura” – quella fascista naturalmente – rilevando tutta la meschina ipocrisia del caso. Un sentimento che il sempre acceso Francesco Rosi combatte frontalmente invocando Tonino Guerra e Raffaele La Capria ad adattare con lui il diario della I guerra mondiale di Lussu: i soldati ammutinati perché ribelli agli ordini folli dei generali nelle trincee diventano occasione d’accusa dell’abuso di potere, intensificato da evidente non-senso.

Purtroppo l’Italia “istituzionale” di allora non è ancora recettiva: Rosi è denunciato e perseguitato per vilipendio dell’esercito. Volto simbolo è l’attore presto feticcio suo e di Elio Petri, quel Gian Maria Volonté tenente “contro” e contemporaneamente corpo straordinario dentro a uno dei ruoli più iconici del tempo: il commissario omicida di Indagine su un cittadino al di sopra ogni sospetto. Gran Prix a Cannes e Oscar straniero nel 1971, il primo capitolo della nota trilogia “petriana” è co-sceneggiato da Pirro e musicato da Ennio Morricone. È l’apoteosi del grottesco politico, un instant cult a denunciare il mondo al contrario, la cecità imposta dal fanatismo dei ranghi (al polizia in questo caso), e opera-bomba in più di un senso, essendo uscita nelle sale in pieno caos politico post strage di Piazza Fontana. Un’esplosione che – visivamente – riverbera il contestato Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni, anch’esso cult ma più per visionarietà e sonorità (le musiche dei Pink Floyd fra gli altri…) che non per il suo statement anti consumismo.

Contestualmente la stagione dei generi si fa vivacissima, e il pubblico s’inquieta davanti al folgorante giallo dell’esordiente – e futuro maestro italiano del brivido – Dario Argento, L’uccello dalle piume di cristallo (anch’esso musicato da Morricone e fotografato da Storaro), o gongola di risate con la magnifica tragicommedia romantica di tre dropout siglata da Ettore Scola, Dramma della gelosia, così sapiente di verità e luminosa delle interpretazioni del trio Mastroianni (premiato a Cannes), Vitti e Giannini. Alla base c’è la solida scrittura di Age & Scarpelli che nutre anche la saga grottesca par excellance di Brancaleone ideata da Mario Monicelli: nel 1970 esce Brancaleone alle crociate. Ma un altro fenomeno sta per riempire i botteghini e il buonumore degli spettatori: derivazione in commedia del leoniano spaghetti-western, arriva il “fagioli western” Lo chiamavano Trinità con il duo Bud Spencer e Terence Hill ed è subito stracult.

Social e al balcone: preparativi per un 25 Aprile in quarantena

Il 25 aprile ricorre il 75º anniversario della Liberazione e, causa emergenza coronavirus, sarà impossibile celebrarlo degnamente in piazza. Da più parti si levano quindi inviti a una grande celebrazione “virtuale”.

Il comitato 25aprileiorestolibero, per bocca di Carlo Petrini, è tornato ieri a rivolgersi agli italiani: “Care amiche e cari amici, da poco più di quattro giorni abbiamo dato inizio ai preparativi di questo 25 Aprile. Il riscontro che abbiamo avuto è stato straordinario, ma il lavoro da fare è ancora molto e richiede il contributo di tutti, nella coscienza che questo 25 Aprile deve testimoniare anche la nostra solidarietà verso i senzatetto e i molti che non hanno cibo in questo momento. Un 25 Aprile di liberazione e solidarietà: dobbiamo essere uniti nelle nostre diversità senza lasciare indietro nessuno. Le due settimane che ci aspettano possono quindi essere importanti per la nostra iniziativa, sia per la raccolta fondi che. Mi piacerebbe che i vostri social, i vostri pensieri tradotti su carta, le vostre canzoni e opere d’arte di ogni tipo, parlino al mondo di questa iniziativa, coinvolgano più gente possibile e raccontino che cosa significa per voi oggi resistere e restare liberi”.

Per chi, quindi, volesse dare un contributo alla promozione dell’evento può utilizzare Facebook (25aprileiorestolibero) usando l’hashtag #iorestolibero, Instagram (25aprile2020, hashtag #iorestolibero“.

L’Anpi, invece, invita tutti alle ore 15 del 25 aprile a esporre “caldamente” dalle finestre o dai balconi il tricolore e a intonare Bella ciao: “In un momento intenso – scrive l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia – saremo insieme, con la Liberazione nel cuore. Con la sua bella e unitaria energia”.

Mose, scordiamoci il passato: colpo di spugna sui contenziosi

Si può definire un colpo di spugna su debiti e contenziosi originati dai lavori del Mose e dalla cricca che gestì affari e tangenti in Laguna. Ma anche un tentativo di superare il Consorzio Venezia Nuova, a cui spetta la gestione della fase finale di realizzazione delle dighe mobili che dovrebbero salvare Venezia dalle acque alte, la struttura un tempo controllata dalle grandi imprese responsabili del malaffare, poi commissariata dal governo e dall’Autorità Anticorruzione. Ma può anche apparire come un primo passo per costruire la struttura statale che dovrà gestire il Mose, con un costo di manutenzione di decine di milioni di euro all’anno. Una torta appetitosa.

Tutto questo, a seconda delle letture, è contenuto nella proposta del Settimo atto aggiuntivo, l’atto finale di una vicenda i1niziata trent’anni fa e poi con la posa nel 2003 della prima pietra per lavori che non si sono ancora conclusi. In ballo c’è la più grande delle incompiute, con un contenzioso infinito frutto di lavori fatti male, invecchiamento degli impianti, errori di progettazione e collusioni di varia natura.

Qualche giorno fa, il provveditore alle opere pubbliche del Triveneto, Cinzia Zincone, ha scritto agli amministratori straordinari del Consorzio, Giuseppe Fiengo e Francesco Ossola, nonché al commissario straordinario per il Mose Elisabetta Spitz (nominata a novembre) per sottoporre la bozza del “VII Atto Aggiuntivo” della convenzione che dal 1991 regola i rapporti tra lo Stato e i Consorzio. Della bozza ne hanno già discusso il 3 marzo scorso. “Tale atto rappresenta l’unica possibilità di rimodulazione della somma di 5 miliardi e 493 milioni di euro indicata nel VI atto aggiuntivo – scrive il provveditore – per scorporare gli interventi non indispensabili alla messa in funzione delle paratoie e ottimizzarne la conclusione”. L’atto avrebbe un “carattere transattivo che eliminerebbe ogni contenzioso, garantendo così il futuro dell’opera e dell’intera città”. E questo è uno dei punti dolenti. In pratica è la proposta di uno “spezzatino”.

Il Consorzio si concentrerà sui lavori, per finire entro il 2021. Ma sarebbero messe da parte opre paesaggistiche, architettoniche, di manutenzione, gli studi e i piani di salvaguardia ambientale, le banche dati, la difesa dell’insula di San Marco (valore 30 milioni di euro). E il Consorzio rinuncerebbe a discutere l’assetto futuro della struttura che gestirà il Mose. In cambio lo Stato si farebbe carico di contenziosi, oneri e rinuncerebbe a chiedere penali e messe in mora per il ritardo biblico dei lavori. In particolare, “il Provveditorato si impegna ad assumere la spesa e a sostenere il costo dei ripristini e delle manutenzioni derivanti da danni e incuria, anche imputabili alle imprese consorziate”. Il Consorzio a sua volta “si impegna a rinunciare a riserve e contenziosi anche per conto delle imprese consorziate”. Inoltre il personale delle società collegate Thetis e Comar “potrà progressivamente essere assorbito dal Provveditorato”.

Sullo sfondo c’è però il mare magnun di cause incrociate e questioni aperte. Basti pensare che lo Stato ha chiesto danni per 76 milioni al Consorzio, da cui sono uscite di scena le tre grandi società Mantovani, Condotte e Fincosit, tutte in crisi. Rinuncerà alla pretesa? Alcune delle imprese hanno chiesto danni per 197 milioni di euro alla struttura degli amministratori straordinari, per essere state esautorate dai contratti. Ma nei programmi sono previste spese (69 milioni di euro) per riparare malfunzionamenti e ripristinare vecchi impianti, oltre a 36 milioni per un intervento alla porta della Conca di Malamocco danneggiata anni fa. Lì potrebbero esservi responsabilità delle vecchie imprese.

Un pozzo senza fondo. Se ne farà carico lo Stato? Anche per questo rischio di colpo di spugna, l’avvocato Giuseppe Fiengo ha commentato: “Non faccio polemica con il Provveditorato, ma ho inviato all’Anac e al prefetto di Roma tutta la documentazione necessaria”.

“In Grecia i profughi rischiano più di tutti”

Le autorità sanitarie hanno registrato ieri 31 nuovi casi: i contagiati sono 2.145, i morti 99. I pazienti ricoverati in terapia intensiva 73, con patologie preesistenti o un’età superiore ai 70 anni. A fronteggiare l’epidemia c’è anche Yorgos Vihas, esperto nel tappare gli enormi buchi del servizio sanitario nazionale greco, da quando, dieci anni fa, Atene è stata travolta dalla crisi economica che ha costretto migliaia di disoccupati, pensionati e lavoratori precari a non potersi più curare per mancanza di soldi. Fondatore nel 2012 della clinica sociale di Atene, Vihas oggi è a capo di uno dei cinque presidi ambulatoriali istituiti dal governo per curare i malati il più possibile a casa.

Dottor Vihas, le autorità hanno isolato i centri di accoglienza di Rizona e Malakasa perché sono stati scoperti almeno una ventina di contagiati. Ritiene che la situazione possa sfuggire di mano, pur essendo riuscita la Grecia a contenere finora con successo la diffusione del Covid, tanto che si parla di un “modello greco” ?

La Grecia non ha inventato questo modello di comportamento, cioè il lockdown, o distanziamento sociale. Abbiamo semplicemente guardato all’Italia fin da subito, cosa che non hanno fatto gli altri paesi europei e occidentali, e seguito la vostra linea, nel bene e nel male.

In che senso ?

L’isolamento sociale lo abbiamo seguito fin da subito, ma purtroppo vi stiamo seguendo anche per quanto riguarda la esigua mappatura dei contagiati attraverso i tamponi. Ed è un male, perchè così non si può capire nemmeno quanti siano gli immunizzati. Del resto, come voi, non abbiamo tamponi a sufficienza, posto che ci vogliono almeno due tamponi per escludere l’infezione, nè abbiamo protezioni sufficienti per tutti i medici.

Quale le condizioni dei campi profughi e degli ospiti?

Per chi vive in quei campi è facile essere contagiato data l’impossibilitá di seguire anche le norme igieniche basilari. Ma ora ci preoccupano anche le comunitá Rom, come quella di Larissa, vicino ad Atene dove ci sono circa 30 casi. I rom sono molto esposti.

Perchè il governo non ha esitato a imporre il lockdown quando ancora c’erano pochi casi?

Il ragionamento è stato questo: se l’Italia, che ha ancora un buon sistema sanitario di base pur con tutti i tagli agli ospedali pubblici, è finita nel caos, figuriamoci cosa può accadere qui dove gli ospedali non hanno nemmeno le medicine e le sale di rianimazione sono pochissime. Un altro dato che ha allarmato il governo è l’alto numero di personale specializzato richiesto per curare il Covid-19. In Grecia dal 2014, l’anno del tracollo del sistema sanitario di base, a oggi, se ne sono andati all’estero ben 15mila medici.

È vero che la clinica sociale da lei diretta ha dovuto dare ad alcuni ospedali equipaggiamenti e strumenti sanitari ?

Sì. Molte medicine, mascherine e apparecchiature ottenute dalla clinica sociale attraverso le donazioni internazionali durante gli anni più duri della crisi economica, le abbiamo date agli ospedali pubblici. Per quanto riguarda le medicine, avevamo un’ampia scorta di clorochina e anti virali perchè abbiamo dovuto trattate a lungo profughi con malaria pregressa e malati di HIV. Usiamo anche un antibiotico, un farmaco per il cuore e un anticoagulante, che assieme sembrano promettenti e abbiamo iniziato a somministrarne alcuni ai medici come prevenzione. Giá ce ne sono pochi, immagini se si ammalassero .

Migranti, roulette barconi: chi sbarca e chi è già svanito

L’Italia controlla la sua zona di ricerca e soccorso. Malta fa altrettanto. Il tutto sul presupposto che la pseudo guardia costiera libica stia controllando la sua. Nell’ultima settimana dalle coste libiche sarebbero partite un migliaio di persone. Una cifra impossibile da verificare. Di certo, invece, c’è che almeno quattro barconi sono finiti in avaria nelle ultime 72 ore. E che da 5 giorni l’Italia non è più un porto sicuro, a causa della pandemia, e quindi è vietato lo sbarco di qualsiasi Ong che non sia coordinato dalle autorità italiane. E’ il caso della Alan Kurdi, del quale ci occuperemo più avanti. Restiamo ai barconi in avaria. Due sono sbarcati nelle ultime 48 ore in Sicilia: 101 migranti a Pozzallo e 77 a Portopalo. Il terzo (47 persone a bordo) è stato soccorso dalla nave Aita Mari che ieri ha avuto l’ok allo sbarco da Malta. All’appello manca il quarto, con 55 persone, che mentre scriviamo potrebbe essere in acque Sar maltesi.

Potrebbe. Nessuno sa dirlo. Ogni stato pattuglia il suo cortile e, come nel caso di Portopalo e Pozzallo, accade che i barconi approdino da soli, se ci riescono, altrimenti affondano senza che nessuno li abbia individuati e soccorsi prima. Una vera e propria roulette. Va precisato che per i barconi sono previste regole diverse da quelle che operano in questo momento per le navi delle Ong. Se Guardia Costiera o Guardia di Finanza li intercettano nelle nostre acque, devono soccorrerle e far sbarcare i migranti, i quali saranno poi sottoposti alla quarantena e alle procedure previste per la salute pubblica. Che approdino da soli, o vengano soccorsi, sotto questo aspetto non cambia nulla.

L’unica vera differenza è che se nessuno li intercetta rischiano di morire in mare. Ed è il rischio segnalato dalla Ong Alarm Phone nelle ultime 48 ore: ieri ha dichiarato di aver perso il contatto con uno dei barconi in avaria. Scongiurato invece il naufragio segnalato dalla ong Sea Watch. Secondo la Guardia Costiera italiana e l’agenzia internazionale Frontex, il barcone rovesciato, individuato dalla Sea Watch, era il relitto di un salvataggio andato a buon fine nei giorni scorsi.

Resta quindi il dramma di un gommone tuttora alla deriva nel Mediterraneo. I pattugliamenti delle autorità italiane non l’hanno individuato nella nostra area Sar. In teoria potrebbe essere ovunque. “Il tempo sta peggiorando, abbiamo chiamato ancora una volta Malta ma non abbiamo ricevuto risposte. Restiamo in attesa di istruzioni”: è uno degli ultimi messaggi lanciati dalla nave che chiedeva anche supporto medico. Ecco un atro messaggio raccolto da Alarm Phone: “Aiutateci, per favore, stiamo affondando – dice disperatamente una donna -. Sono incinta e non sto bene. Mia figlia di 7 anni è molto malata. Non abbiamo cibo né acqua, non abbiamo nulla”. Sembra invece a una svolta lo stallo della Alan Kurdi, la nave della Ong tedesca Sea Eye, ferma da sei giorni, con 156 persone a bordo, in acque internazionali a poche miglia da quelle italiane.

Il viceministro dell’Interno, Matteo Mauri, ieri ha spiegato: “La possibilità di prevedere la quarantena a bordo di navi attrezzate e con supporto medico per chi arriva garantisce il pieno rispetto dei diritti umani, così come permette di gestire in maniera adeguata l’emergenza sanitaria nell’interesse di tutti”. Il capo della Protezione Civile Angelo Borelli ha già firmato il provvedimento di quarantena in mare, su richiesta della ministra delle infrastrutture Paola De Micheli. E mentre scriviamo sembra ormai accertato che i 156 migranti a bordo saranno trasferiti sulla nave “Azzurra” della compagnia Gnv individuata dal governatore siciliano Nello Musumeci. Sul fronte della polemica politica non perde l’attimo Matteo Salvini: “Appello urgente di sinistra e 5 Stelle per porti aperti: foto ricordo” scrive su Facebook, postando un collage con le foto di esponenti del Pd, LeU e M5S. “Capisci che Salvini è in difficoltà – commenta Erasmo Palazzotto (LeU) – quando, dopo mesi di propaganda fallimentare sul coronavirus, torna con la solita lagna sui migranti. E non perché preoccupato per le loro sorti, no. Ma perché deve raccattare consenso sulla loro pelle”.

Madrid alla “fase due” Sindacati e imprese: “Non siamo a norma”

Tre milioni di lavoratori, 300mila solo nella Capitale. La Spagna – dopo 15 giorni di blocco totale delle attività economiche – ieri ha riavviato fabbriche ed esercizi non necessari: dalle imprese di costruzioni agli studi legali. Primo Paese in emergenza coronaviurs a farlo in Europa. “Un inizio di fase due. Prima di far uscire bambini e riaprire luoghi di aggregazione dobbiamo essere sicuri che la discesa di morti e contagi sia reale, che tenga”, ha assicurato il ministro della Salute, Salvador Illa, che ieri in conferenza stampa ha persino pronunciato il termine “picco” azzardando che la penisola avrebbe raggiunto il numero massimo di contagiati da Covid-19 e quindi di morti.

I dati in effetti parlano di una nuova discesa di decessi, 517 nelle ultime 24 ore, e un aumento del “solo” 2% dei nuovi malati: 3.477. Mentre continua il trend al rialzo dei guariti, in tutto il Paese sono già oltre quota 64mila. Quello che si augurano gli esperti del comitato scientifico che consiglia il governo Sanchez – peraltro in disaccordo con la riapertura, che secondo loro avrebbe dovuto avvenire tra una settimana – è che la decisione dell’esecutivo rosso-viola non vanifichi sforzi e risultati raggiunti fino a qui. Per quanto riguarda gli aspetti pratici dell’inizio della seconda fase, la prima giornata lavorativa – tranne nelle cinque regioni in cui era festivo – ha visto a Madrid un aumento del 35% dei passeggeri della metro, rispetto allo stesso giorno della scorsa settimana, fa sapere l’azienda dei trasporti della Capitale, dove, nei principali snodi polizia municipale e Croce rossa hanno consegnato 500mila mascherine. Per farlo il governo Sanchez ha esteso l’orario di distribuzione fino alle 16, anche se, assicurano alcuni media, molti cittadini erano già usciti di casa con protezioni proprie, seppure in molti casi improvvisate e quindi non a norma. Sulle banchine e nei treni la voce meccanica ricordava di rispettare le misure di sicurezza anti-contagio, in particolar modo la distanza e – assicurano testimoni – i vagoni delle 12 linee di metro attive nella Capitale viaggiavano quasi vuoti. Per quanto riguarda le fabbriche, è arrivata già la prima denuncia dei sindacati. Si tratta della rappresentanza dei lavoratori della Seat, azienda che peraltro in questo momento sta costruendo anche respiratori per le terapie intensive.

Le due sigle, Ugt e Ccoo, lamentano di non essere state coinvolte nelle decisioni sulle misure messe in atto dall’azienda per la ripresa delle attività, misure che, a detta dei sindacati, sarebbero insufficienti a garantire l’adempimento delle regole di sicurezza dettate dal governo. Ma quello della Seat non sarebbe un caso isolato. Secondo la Ceoe (la Confindustria spagnola) il 95% delle aziende che ha riattivato la produzione in realtà non sarebbe stato dotato dei mezzi necessari per proteggere i lavoratori.

Capitale a parte, l’immagine che ieri campeggiava sui media spagnoli era quella dei forni della più grande impresa di ceramica, dalla quale viene fuori il 90% della produzione di ceramica del Paese – a Castellón, comunità valenciana – dai quali iniziava a venire fuori il fumo bianco che la contraddistingue. Nel resto della Spagna mezzi e attività riprenderanno tra oggi e domani, come nel caso di Barcellona che con il presidente della Generalitat, Quim Torra, tra i rappresentanti di regione contrari alla ripresa delle attività non essenziali, denuncia la mancanza di mascherine nelle farmacie, e si augura che la distribuzione del milione di protezioni promesse dal governo basti per tutti i lavoratori. Intanto i tagli arrivano anche alle aziende pubbliche.

Ieri il gruppo Paradores, l’azienda di Stato che gestisce gli immobili trasformati in alberghi, ha comunicato ai suoi impiegati che taglierà 4.000 stipendi, a meno che non siano disposti a prendere ferie anticipate. Almeno finché non ripartirà il turismo.