Arrestato il patron dell’acqua Santa Croce: “Deve 137mln al fisco, svuotata una società”

La sua società edile Como srl era arrivata a superare i 137 milioni di euro di debiti con l’Agenzia delle Entrate. Nel frattempo, secondo le accuse, aveva “svuotato la società di ogni asset patrimoniale ed economico”, trasferiti “a società riconducibili allo stesso” imprenditore. Il tutto, secondo i pm, per sfuggire al fisco. Camillo Colella è stato arrestato dalla Guardia di finanza di Roma per bancarotta fraudolenta. L’immobiliarista molisano, 63 anni oggi, è conosciuto per essere il patron dell’Acqua minerale Santa Croce (imbottigliata da un’altra società del suo gruppo), diffusa in tutta Italia. Nel 2013 Colella si era candidato anche a presidente della Regione Molise, sostenuto da una lista indipendente. Con lui, sono indagati (nessuna misura emessa) dalla Procura di Roma una consulente amministrativa, Emanuela Paniccià, e un consulente del lavoro, Alessandro Grassi, accusati di concorso nel reato contestato.

L’indagine del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Gdf di Roma nasce nel 2019, a seguito di alcune segnalazioni di operazioni sospette giunte dall’Uif di Bankitalia e relative a bonifici arrivati sui conti correnti riconducibili ai due consulenti indagati e provenienti dalle società del “gruppo Colella”. Gli inquirenti hanno così ricostruito tutte le operazioni portate avanti dal 2015, fra compravendite che i finanzieri giudicano “fittizie” e spostamenti societari. Fra i beni trasferiti da un’azienda all’altra, ci sono anche cinque appartamenti nel centro della Capitale destinati a strutture ricettive e riconducibili al brand “Roma Resort”, anch’esso, secondo gli investigatori, legato a Colella. Gli inquirenti, nel motivare la richiesta di arresto, hanno rilevato anche come Colella abbia “procedimenti pendenti per gravi reati fiscali”, in un caso relativo a fondi spostati verso una società uruguaiana di cui era titolare fino al 1° luglio 2020. Il 2 novembre 2021, invece, i finanzieri hanno intercettato, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, “movimentazioni verso la società Colella CZ (…) in cui si riscontrano flussi finanziari sul conto tedesco intestato al Colella provenienti in entrata dalle società del gruppo e in uscita diretti ai familiari del Colella”. Per l’avvocato Alessandro Diddi, legale di Colella, la custodia in carcere dell’imprenditore è “iniziativa ingiustificata tenuto conto che non c’è pericolo di reiterazione di reato. In più sul fallimento è pendente un ricorso in Cassazione. A me pare una scorciatoia per ‘tagliargli’ l’ultimo grado di giudizio nel quale confidavamo”.

Nuovo decreto per la Scuola, cambieranno di nuovo regole

Ormai è certo e sta già accadendo: in classe si rientra mostrando agli insegnanti il tampone negativo (fatto anche in farmacia) senza certificato di guarigione dell’Asl o del medico di famiglia. Non solo. La parola “quarantena” sparirà dal dizionario della scuola: gli studenti (di ogni ordine e grado) che finiranno in didattica a distanza, per la presenza di uno o più positivi in aula, staranno a casa in autosorveglianza per un breve tempo. Ciò che ancora non è chiaro è quanti saranno questi giorni di assenza. La richiesta delle Regioni è annullare la dad per chi è guarito o vaccinato ma al ministero della Salute e al Cts starebbero pensando solo a una riduzione da 10 a 5 giorni.

Ai piani alti del dicastero, guidato da Roberto Speranza, fino al tardo pomeriggio di ieri erano in corso interlocuzioni con i presidenti: “Stiamo aspettando un documento – spiega uno degli uomini al vertice – per poi fare le valutazioni necessarie”. Regole nuove che il sottosegretario alla Salute, Pier Paolo Sileri, definisce “un cambiamento radicale nella nostra vita, un progressivo ritorno alla completa normalità”. La rivoluzione annunciata, tuttavia, non arriverà prima della prossima settimana quando sarà firmato un decreto o un Dpcm. La parola d’ordine è semplificare. La chiedono i dirigenti scolatici, le famiglie ma anche gli insegnanti. Il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, già la scorsa settimana aveva parlato con il premier Draghi per trovare una soluzione ma, complice l’elezione del Capo dello Stato, è tutto slittato. Intanto, nel primo pomeriggio di oggi, Bianchi pubblicherà i nuovi dati del monitoraggio svolto dal 18 al 24 gennaio che riveleranno quanti sono gli studenti in didattica a distanza o “mista” e quanti docenti sono assenti perché positivi o quarantenati. Il bollettino di ieri, intanto, conferma una lenta discesa dei contagi: 55.967 nuovi casi, tasso di positività al 15% e ancora 369 morti. Il saldo ingressi/uscite, infatti, fa registrare un calo di 148 posti letto occupati nei reparti ordinari e di 20 nelle rianimazioni, dove gli ingressi sono stati 125. A oggi, quindi, sono 19.853 i ricoverati con sintomi e altri 1.645 pazienti Covid vengono assistiti in intensiva.

“Incartati sul pass: ora siamo in un loop molto poco scientifico”

“Dopo 13 settimane consecutive di aumento, i nuovi casi iniziano a scendere: -3,7 per cento nella settimana 19-25 gennaio rispetto alla precedente. Il report settimanale della Fondazione Gimbe certifica una prima inversione di tendenza di questa quarta ondata, ma il presidente Nino Cartabellotta invita alla cautela: “Quasi 1,2 milioni di casi settimanali documentano una circolazione del virus ancora molto elevata”.

Professore, poiché i contagi Omicron sono sfuggiti al controllo, molti Paesi alleggeriscono le misure di contenimento, a partire dai vari green pass. E anche in Italia si respira una gran voglia di allentare. Cosa ne pensa?

Desiderio sociale, gestione sanitaria e decisioni politiche iniziano a disallinearsi tra i vari Paesi, dove valori differenti possono condizionare le scelte. In Italia trovo un po’ stucchevole il dibattito, in fondo stiamo superando la quarta ondata senza aver chiuso quasi nulla e chi è vaccinato con tre dosi non ha alcuna limitazione. In ogni caso, oggi la “voglia di allentare” stride con oltre 2,7 milioni di positivi che hanno portato a un lockdown di fatto (senza ristori).

Il governo sembra intenzionato a rendere illimitata la durata del green pass dopo la terza dose. Lei è stato molto duro con questa ipotesi…

Il green pass deve avere una scadenza, idealmente allineata con la durata della protezione vaccinale. Ma visto che l’Ema, in assenza di dati, non raccomanda la quarta dose per la popolazione generale, siamo entrati in un loop da cui non si può uscire facendo riferimento a evidenze scientifiche. Inoltre, dal punto di vista giuridico, uno strumento che limita le libertà non può avere durata illimitata, la temporaneità è un principio base.

Altra richiesta pressante delle regioni: cambiare i criteri di classificazione dei ricoverati, abolire il sistema dei colori e il contact tracing.

Il sistema dei colori non ha più ragione di esistere: nessuna differenza tra zona bianca e gialla e in arancione, le (poche) restrizioni si applicano solo ai non vaccinati. Peraltro, la sua abolizione fa decadere la richiesta di cambiare i criteri di classificazione dei ricoveri che, per ragioni cliniche, organizzative e medico-legali, è inaccettabile e rischiosa. Oltre i 50 casi per 100 mila abitanti il contact tracing non è fattibile e oggi sono oltre 4.500: le Regioni chiedono di abolire quello che non riescono a fare da tempo.

L’Iss ha diffuso il report aggiornato sulla mortalità Covid. Il 58,5% dei decessi avviene in area medica e il 23,8% in terapia intensiva. La sorprende?

Assolutamente no. A eccezione della prima ondata, il maggior numero di decessi è sempre avvenuto in area medica, dove sono ricoverati i soggetti anziani con patologie multiple, nei quali la Covid-19 peggiora le condizioni cliniche, sino al decesso. Sorprende semmai il 17,7% che non muore in ospedale su cui possiamo solo fare ipotesi.

I dati sono sufficientemente trasparenti?

Da quando sono disponibili i dati grezzi (non aggregati) della sorveglianza integrata, assolutamente sì. Semmai i problemi sono la non “comunicabilità” tra le varie banche dati e l’assenza di controllo di qualità sui dati trasmessi dalle Regioni.

Sembra che l’obbligo vaccinale agli over 50 non abbia dato grandi frutti…

Ogni nuovo vaccinato è sempre un risultato: dal 6 gennaio oltre 330 mila over 50 hanno fatto la prima dose. Tuttavia, la media giornaliera, raggiunto il picco di quasi 20 mila il 15 gennaio, è scesa a 13.851. Nelle prossime settimane potrebbe risalire per l’entrata in vigore del super green pass nei luoghi di lavoro. In ogni caso, dei 2 milioni di over 50 non vaccinati, non sappiamo quanti sono gli esentati e i guariti.

Vaccinazione 5-12 anni: come spiega le differenze regionali (Puglia al 50%, Piemonte nemmeno al 20)?

La decisione è dei genitori e la comunicazione personalizzata su benefici e rischi ha un ruolo non indifferente, ma non ci sono dati che possono dimostrarlo. Preoccupa il crollo di prime somministrazioni (-35,6%) nell’ultima settimana, conseguente anche al rinvio delle prenotazioni vaccinali degli studenti in isolamento.

Superare il green pass? Europa spaccata

L’Europa è confusa. Anche sotto la morsa del Covid. Non riesce ad avere, a due anni dall’inizio della pandemia, un modello e una strategia condivisi – nonostante gli annunci – per contrastare la pandemia. Le nuove evidenze scientifiche, a partire dalla diffusione della variante Omicron, parlano però chiaro. L’alta contagiosità di Omicron, e l’immunità naturale diffusa che ne consegue, potrebbero rimettere almeno in parte in discussione le strategie fin qui adottate dai diversi Paesi. Proprio ieri, un editoriale del Wall Street Journal, a firma di Marty Makary – docente di Salute pubblica alla Johns Hopkins School of Medicine –, ha sottolineato la crescente sfiducia dell’opinione pubblica verso le istituzioni sanitarie, dovuta alla denigrazione delle diverse evidenze scientifiche: “L’immunità naturale è stata demonizzata. Ma, dopo due anni di raccolta di dati, la superiorità dell’immunità naturale sull’immunità da vaccino è ormai chiara. Eppure (…) si è fatto di tutto per ‘sbarazzarsi’ anche dei guariti, di coloro che avevano meno probabilità di infettare gli altri”. I vaccini, come ormai sappiamo, pur confermandosi altamente efficaci nel ridurre la mortalità e le forme gravi della malattia, hanno dimostrato di non essere sterilizzanti come ci aspettava.

Lo ha ribadito anche l’autorevole rivista The Lancet: “I vaccini non fermano i contagi”. L’analisi, pubblicata pochi giorni fa, inizia citando uno studio di coorte prospettico nel Regno Unito, in cui si “mostra come la trasmissione delle varianti di Sars-CoV-2 non sembra essere significativamente diversa tra persone vaccinate e non vaccinate”. Le nuove evidenze incrinerebbero così la logica alla base di molte delle scelte prese in questi mesi – pass vaccinali, Italia in testa – e che sembra invece essersi cristallizzata.

E così, nell’attesa che si apra un dibattito sulla proposta del premier spagnolo Pedro Sánchez di passare a una gestione dell’epidemia come fosse una “malattia endemica, un’influenza”, i governi continuano ad adottare misure diametralmente opposte. Il discrimine resta l’introduzione di restrizioni, sulla linea del rigore, a partire da Green pass e obbligo vaccinale. E sulla mappa del Covid Stringency Index dell’Università di Oxford, l’Italia è strictest, “severissima” e rossa: il colore scelto per la durezza delle restrizioni. Dall’introduzione dell’obbligo vaccinale per tutti gli over 50, al Green pass versione super o base, l’accesso a luoghi di lavoro, mezzi di trasporto, luoghi di arte e cultura e servizi per la persona è fortemente condizionato dal rilascio della certificazione sulla base dell’avvenuta vaccinazione. “Siamo i primi in Europa”, ha più volte detto il premier Draghi. Ma, se si getta un rapido sguardo altrove, il sospetto è se siamo rimasti anche gli unici.

modello “no restrizioni”

È notizia di ieri l’addio definitivo in Gran Bretagna del “piano B”, imposto per contenere Omicron (obbligo di mascherina nei negozi e sui trasporti pubblici, uso limitato del Green pass base e un parziale ritorno allo smart working). Queste misure decadono – da giorni i numeri sono in riduzione, 338 i decessi ieri e 96 mila i casi – e resta solo la raccomandazione di indossare la mascherina nei luoghi affollati. I britannici si mostreranno “open for business, open for travellers”, aperti per affari e viaggiatori, ha detto il premier Jonhson.

Anche in Danimarca si torna definitivamente alla vita pre-Covid. Libertà totale e a volto scoperto: cesserà di essere obbligatorio anche indossare la mascherina in negozi, trasporti, ospedali e ospizi, dove sarà solo raccomandabile di usarla. Su 46 mila positivi solo 40 sono in terapia intensiva, ha detto il ministro della Salute, Magnus Heunicke. Spalleggiata dai partiti, la premier danese Mette Frederiksen ha dichiarato: “Diciamo addio alle restrizioni e diamo il benvenuto alla vita come la conoscevamo prima. Può sembrare strano con questi tassi di diffusione, ma poche persone con Omicron si ammalano seriamente”.

Sulla stessa scia l’Irlanda del Nord, che chiede il pass vaccinale solo per grandi eventi, riduce i giorni di quarantena e impone l’isolamento solo ai positivi.

La Svezia, che non ha quasi mai fatto ricorso a obblighi e restrizioni, prevede blande misure restrittive fino a febbraio: i ristoranti chiudono alle 23 e all’aeroporto test agli arrivi. Rimane consigliato lo smart working e la mascherina se i mezzi pubblici sono affollati.

In Portogallo e Spagna, a fronte di tassi di alti tassi di vaccinazione, una sorta di pass base è richiesto solo per accedere a luoghi affollati. A Madrid “la situazione non è più quella di un anno fa”. Il Covid da pandemia sta diventando malattia endemica: si dovrà continuare a monitorare il virus, ha detto Sánchez, ma bisogna puntare sull’autoprotezione e non sulle chiusure.

modello “sì restrizioni”

Il codice a barre del Green pass, il lockdown anche solo per i non vaccinati, distanziamento e quarantene, città serrate: tutto questo all’Austria sembra non essere bastato per frenare i contagi. Vienna ha approvato l’obbligo vaccinale, il primo Paese europeo a farlo. Multa di 600 euro per chi è sprovvisto di passaporto vaccinale. Ma, nonostante l’aumento dei contagi (+80% negli ultimi giorni), la priorità assolta del cancelliere Karl Nehammer è ora “limitare il più possibile le restrizioni”.

Dopo il via libera del Consiglio costituzionale francese, anche in Francia è entrato in vigore una sorta di Super Green pass. A rischio c’è un milione di cittadini che non ha fatto il booster e un 20% di popolazione mai vaccinata: l’imposizione, dicono le autorità, consentirà di riaprire in tranquillità bar e ristoranti, dove dai 16 anni in su è obbligatorio il certificato verde. Per il premier Jean Castex, grazie al nuovo obbligo si dovrebbe “eliminare la maggior parte delle restrizioni prese”.

La Germania, invece, non frena. Qui l’obbligo vaccinale c’è solo per il personale sanitario, come ha stabilito il Parlamento. Berlino mantiene in vigore le restrizioni per decisione non solo del cancelliere Scholz, ma di 16 governatori spaventati dal record di infezioni e dalla dichiarazione del ministero della Salute che prevede il picco di diffusione a metà febbraio. Un altro timore di Berlino sono gli anziani: i meno vaccinati rispetto al resto d’Europa.

“Perché votate Amadeus?”, “Mi manca B.”

Lucia Azzolina (M5S): Sveglia alle 5, colazione e slalom tra i giornalisti in cerca di risposte. Anche oggi però è giornata di attese e mancate intese. Un amico medico mi chiama: “Lucia cosa aspettate? C’è chi si diverte a votare Amadeus e chi lavora in ospedale per salvare vite”. Ha ragione. La sensazione di molti è che le soluzioni al rebus quirinalizio siano sul tavolo fin dall’inizio. Non è facile spiegare al Paese questo lungo giro per tornare alla casella iniziale. In Transatlantico il clima è sempre gelido, e non perché le finestre sono spalancate.

Stefano Fassina (LeU): Quarta giornata. Quarta fumata nera. Incontro un amico matematico per strada prima di entrare nel Palazzo. Mi formalizza il problema dei nostri giri a vuoto: un sistema con più incognite che equazioni è irrisolvibile. Vero. Ma la politica non può eliminare le incognite, come fa la matematica. Ciascuna delle tre incognite – partito, coalizione e maggioranza – deve trovare soluzione per ciascuno dei principali protagonisti. Le new entry di ieri complicano il sistema. In Transatlantico, trovo diffuse e comprensibili preoccupazioni per le disponibilità espresse da alcuni leader verso Elisabetta Belloni. Per carità, civil servant di prima qualità, ma per la Presidenza della Repubblica è decisivo un vissuto politico diretto. E poi affidare a due tecnici le due più rilevanti cariche politiche diventerebbe anomalia assoluta per una democrazia. La nostra politica è messa male, ma non così male. Quindi Mattarella arriva a 166 voti.

Michele Anzaldi (Italia Viva): Non è solo il gelo politico che spaventa e disorienta, il Transatlantico sembra la Siberia. Col Covid tutti i finestroni aperti e dunque – non bastassero le mascherine – cappotti e sciarpe a coprire ogni lembo di pelle. L’universo femminile è sicuramente il più colpito, le mises ricercate (per onorare l’evento!) sono piegate alla dura legge del meteo. L’impressione è di aver consumato inutilmente non solo questa quarta giornata, ma anche una buona dose di pazienza e di prudenza. Noto che si insinua tra di noi grandi elettori quel sentimento di paura, di stare tergiversando troppo, di ubbidire a logiche che ci porteranno all’inferno.

Roberto Occhiuto (Forza Italia): Mica ho capito perché ci siamo astenuti? Il centrodestra non sta facendo una bella figura e l’ho detto ai colleghi. Senza Silvio Berlusconi è una coalizione squilibrata che avanza senza un orizzonte. Annunciamo nomi che poi non votiamo. Per fortuna ho altro di cui occuparmi: la Calabria. Anche oggi ho dedicato davvero cinque minuti a Montecitorio, il resto della mia giornata l’ho trascorso a fare cose per la mia Regione. Ti fa stare meglio, ti mette di buon umore questo nuovo lavoro. Fare il presidente di Regione è gratificante, esaltante. Nulla a che vedere con l’ozioso surplace romano.

Gianni Pittella (Pd): Si fa strada un senso di solitudine, di estraneità dei grandi elettori, il popolo che vota, dall’élite, i suoi leader che negoziano. Si ripropone, nell’area alta della piramide sociale, ciò che succede in basso. Una massa di sfiduciati per un esito che si fa sempre più incerto. Non c’è più voglia di fare battute, non ci sono più goliardate nelle schede scrutinate perché si sta facendo strada un senso di paura. Vuoi vedere che facciamo un botto?

Diplomazia e Servizi segreti: i duellanti Belloni e Massolo

Giampiero Massolo potrebbe scacciare Elisabetta Belloni? L’attuale coordinatrice del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, cioè l’Intelligence, ieri mattina sembrava in pole position per la nomina presidenziale. Lanciata da Giuseppe Conte, sostenuta dal Pd, in mattinata riceve un mezzo sostegno anche da Fratelli d’Italia (che in sedi riservate si dice disponibile a votarla) e nessuna aperta ostilità. In serata, però, nell’euforia di lanciare un candidato al giorno, Matteo Salvini getta nel vortice dei nomi quello di Giampiero Massolo, attuale presidente di Fincantieri, ma anch’egli diplomatico di lungo corso e già a capo del Dis.

Sono biografie che si sovrappongono quelle di Belloni e Massolo. Lei, 63 anni, una carriera tutta nella diplomazia fino al suo punto più alto, Segretario generale del ministero degli Esteri, poi il passaggio alla guida dei Servizi segreti con il governo Draghi. Lui, 68 anni, arriva a Palazzo Chigi nel 1990 nell’ufficio diplomatico con Giulio Andreotti presidente del Consiglio, poi diventerà segretario particolare del capo del governo con Silvio Berlusconi. Ma diventa Segretario generale della Farnesina, anche lui, durante il secondo governo Prodi, con Massimo D’Alema agli Esteri. Passa al Dis nel 2012, in sostituzione di Gianni De Gennaro, e ci rimane per circa 4 anni per diventare poi presidente dell’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale e, infine, di Fincantieri che presiede attualmente (compenso da 432 mila euro annui). Belloni non ha invece mai avuto la tentazione di lasciare lo Stato nonostante un’agenda di relazioni, nazionali e internazionali, tra le più invidiate.

Le due carriere si assomigliano, accomunate anche dalla comune appartenenza dentro il mondo silenzioso della diplomazia, a una rete di relazioni distante da quella di un altro consigliere diplomatico di caratura politica, quel Pietro Benassi oggi rappresentante italiano presso la Ue, ma dal 2018 consigliere diplomatico a Palazzo Chigi, quindi con i governi di Conte e per poche settimane sottosegretario di Stato con delega ai Servizi. Particolari che contano negli intrecci di potere e di relazioni incrociate che vengono vagliati attentamente in queste ore.

A differenza di Belloni, però, Massolo ha avuto invece una contiguità con la politica più evidente. Quando si forma il governo Monti è in predicato di assumere la guida degli Esteri, ma incappa in uno “scandalo” che riguarda le email partite dalla sua segreteria alla Farnesina per far diventare il re del gioco d’azzardo, Francesco Corallo, console onorario a Philipsburg, capoluogo dell’isola di Saint Marteen nelle Antille olandesi. Il console Marco Rocca , come riportava allora Il Giornale, rispondeva: “Quando ho letto l’email ho fatto un mezzo salto sulla sedia perché mi ricordavo di un tale Corallo a suo tempo ricercato dalla giustizia”.

In realtà si trattava del padre di Francesco, Gaetano, poi condannato a 7 anni (pena scontata). “Sul conto di Francesco – scriveva Rocca – non risultano precedenti negativi, ma con una storia familiare come quella sopra descritta, non mi sembrerebbe il miglior candidato per un incarico a console onorario”. “La segnalazione circa l’aspirazione di Corallo – spiegava Massolo al Giornale – mi è venuta, tra le tante che ricevo, da persona che conosco da tempo che non ha alcun rapporto con la politica né tantomeno con ambienti politici legati al presidente Fini”. Di cui era stato capo di gabinetto e che veniva tirato nei rapporti con Corallo via inchiesta sulla sua casa di Montecarlo.

Se per Belloni è difficile stabilire per chi vota, Massolo sembra più saldamente legato al centrodestra, anche se con buoni rapporti nel mondo democratico che mira a rappresentare l’establishment italiano. Del resto, fa parte del gruppo italiano della Trilateral Commission insieme ad altri nomi di sistema come Mario Monti, Monica Maggioni, Luigi Gubitosi, Carlo Messina, Marco Tronchetti Provera e anche Enrico Letta. Vedremo in giornata chi davvero gli dirà di no.

Pizzini, balle e smentite: i partiti sfruttano i giornali

Nei giorni dell’elezione del presidente della Repubblica, la tentazione di mettere in difficoltà gli avversari (soprattutto interni) – confidando nella sponda della stampa – è per molti irresistibile. E così filtrano veline, retroscena, ballon d’essai messi in giro di proposito per costringere i rivali a rincorrere le agenzie con smentite che non sempre hanno poi la stessa forza mediatica della notizia.

È successo spesso anche in questi giorni, con la disinformazia diventata attore politico nella scelta del presidente. Emblematico è il caso della famosa telefonata di Beppe Grillo a Giuseppe Conte, fatta passare come un endorsement del fondatore del M5S in favore di Mario Draghi al Quirinale. La notizia, così scritta, è stata data prima dal Domani e poi dalla Maratona Mentana, che su La7 ha costretto Grillo a rettificare in diretta: “Piena sintonia” con l’avvocato, ergo il premier deve restare dov’è. A differenza di quello che sperava Luigi Di Maio, il quale invece aveva sentito Grillo per indurlo a sostenere l’elezione di Draghi.

Allo stesso modo, i fatti hanno smentito la convergenza di Matteo Salvini e Giuseppe Conte sulla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. Si pensava a una conta in Aula per ieri, col leghista che aveva fatto circolare la disponibilità di 70 grillini ad accodarsi al centrodestra.

In realtà l’ipotesi è naufragata ancor prima di arrivare a Montecitorio, nonostante adesso Casellati speri ancora di poter tornare in corsa più avanti.

Ma il Movimento ha dovuto smentire anche un’altra polpetta avvelenata, fatta filtrare da “fonti parlamentari” secondo cui i 5 Stelle sarebbero “usciti dalla maggioranza” in caso di elezione di Pier Ferdinando Casini al Colle. Anche qui, un’eventualità girata alle agenzie con l’obiettivo di frenare ogni tentativo di intesa sull’ex democristiano, su cui invece i 5S non hanno posto condizioni legate alla permanenza nel governo: “È destituito di ogni fondamento – recita la smentita del Movimento – qualsiasi riferimento o commento del M5S a nomi di possibili candidati al Quirinale”.

Controverso è poi il caso dell’incontro tra Salvini e il giurista Sabino Cassese, rivelato dal Foglio giovedì. Salvini rimane sul vago, assicurando di “non sapere dove abiti Cassese”, mentre la Lega smentisce più chiaramente l’indiscrezione (“nessun incontro”). Il Foglio, però, tiene il punto e conferma il contenuto di un articolo che, in perfetta logica mediatica da Quirinale, avrà finito per far contento qualche leghista e per irritarne qualche altro. Segno che la stampa, a volte, serve pure per regolare i conti con qualcuno.

Il Papeete due: Letta è furibondo, i dem esplodono

Ogni tanto anche Enrico Letta perde la pazienza: è successo ieri, quando Matteo Salvini ha tirato di nuovo fuori il nome di Franco Frattini. “Ma basta provocazioni”, ha reagito subito, con una nota diramata dal Nazareno. Parlando di “improvvisazioni raffazzonate”. E poi, è uscito da Montecitorio, viso scuro, aria seccata. E l’incontro previsto con il leader leghista è sparito dai radar. Così, come ogni altro eventuale faccia a faccia con Giuseppe Conte, “sospettato” di fare da sponda sul nome di Frattini. D’altra parte, “Enrico” in questi giorni ha portato la croce in maniera quasi stoica, continuando a invocare tavoli, conclavi, vertici, soluzioni condivise. Facendo trapelare il suo possibile sì non solo a Mario Draghi, ma pure a Giuliano Amato, Pier Ferdinando Casini, Marta Cartabia, Elisabetta Belloni. Mentre tutti intorno a lui cospirano e complottano. Non proprio contro di lui. Ma di certo (anche) sopra di lui. Che i nervi ai vertici dem comincino ad essere tesissimi si capisce da quel che è successo ieri, quando le capigruppo, Simona Malpezzi e Debora Serracchiani hanno dato ordine a Emanuele Fiano e Piero De Luca di controllare i Grandi elettori. Il timore era che scrivessero Sergio Mattarella, invece di votare scheda bianca. Gli interessati assicurano che il loro compito era solo di richiamare gli assenti. Ma intanto ieri nell’ufficio di presidenza del Senato la questione è deflagrata. Tanto che nella votazione di stamattina – se non c’è un accordo – una parte del Pd voterà Mattarella.

Si sta ancora decidendo quanti voti devono andare al presidente: non troppo pochi, per dare un segnale; non troppi, per non bruciarlo (nel caso M5s lo voti in blocco). Di certo, il bis di Mattarella risolverebbe molti dei problemi di Letta. Mentre lui cercava la quadra su Draghi, Dario Franceschini ha fatto continui sondaggi sui deputati, per portarli su Pier Ferdinando Casini. Movimentismo che gli ha portato anche un richiamo dal segretario. Andrea Orlando è meno palesemente ostile a Draghi: ma anche lui ha sondato tutte le strade alternative. Goffredo Bettini, intanto, continua a guardare più a Conte che al suo segretario. Eccola lì, un’altra spina nel fianco di Letta. Il leader di M5S sul premier non lo ha mai appoggiato. Ma ha anche continuato a flirtare con Salvini. Ieri, dopo la proposta del leghista su Frattini, Letta notava anche la mancata reazione in chiaro del leader dei Cinque Stelle. A dire no, esplicitamente, è stata subito la dimaiana, Laura Castelli. Non lui. “Siamo fiduciosi che Conte non si presterà a un’operazione insensata”, dicevano dal Nazareno. La differenza tra fiducia e certezza è nota. E mezzo Pd morde il freno. Anche se non è il momento di fare processi al segretario, dentro Base Riformista ormai molti considerano il Movimento una battaglia persa. Un problema. Con “contorcimenti” al quale non è il caso di andare troppo dietro, per dirla con un big.

Per capire qual è il clima nei dem, bastava fare un giro ieri mattina tra i capannelli dei Grandi elettori a Montecitorio, mentre veniva calato il nome di Elisabetta Belloni. “Niente da dire sulla persona, ma davvero il capo dei Servizi segreti può diventare capo dello Stato?”, il ragionamento un po’ di tutti. “Su di lei, non posso dire niente”, la frase più gettonata. Anche questo, un segnale. Letta, però, all’ipotesi non aveva chiuso né durante la notte, quando era uscita la carta, né ieri. A metà mattinata “fonti del Pd” parlavano di “nome spendibile”. Mezzo endorsement, poi subito corretto dal Nazareno: “Tutte le ipotesi sono ancora in campo”. Ma al netto delle perplessità e dei dubbi, se alla fine l’accordo sulla Belloni si fosse fatto (o si dovesse ancora fare) non sarà Letta, né il Pd a mettersi di traverso. Franchi tiratori in agguato compresi.

A cercare di bloccarla sul nascere è stato Renzi, che ha ricominciato a lavorare con Franceschini per convincere Salvini ad andare su Pierferdinando Casini. Ancora ci spera di vincere, anche ai danni di Letta. E ieri, a sera, dal Nazareno, insieme alla preoccupazione del “paese che ci guarda” arrivava la richiesta di fare due voti al giorno. A rischio, oltre alla tenuta della legislatura, c’è quella dei partiti. Pd compreso.

Conte insiste su Belloni, Di Maio frena e tifa ancora per il premier

Resistere e tenere la linea: no a Mario Draghi, comunque vada. La scelta definitiva anche in un giovedì intossicato, una rotta che non si può invertire per Giuseppe Conte. Anche se di fronte ai mille ostacoli pure qualche contiano tentenna, temendo l’uscita dal governo. Anche se la faida con i dimaiani succhia alternative e energie, e sembrano già prove di scissione. Anche se mercoledì sera il trasloco di Draghi al Colle sembrava scongiurato, e invece no. A metà giornata, dopo che l’assemblea congiunta del M5S era saltata per il ritardo di 40 minuti proprio dell’avvocato, Conte sparisce per ore, quasi volesse sfuggire a un assedio. “È preoccupato” sussurrano, mentre l’avvocato consulta tutti i giocatori della partita del Colle, ma soprattutto quello che è l’ago della bilancia, Matteo Salvini, che in serata ributta in mezzo Franco Frattini. Ma sembra solo un altro bluff, “o magari un modo per far capire al Pd di smetterla con Draghi” butta lì un big grillino.

L’avvocato invece sonda e ridiscute varie ipotesi, da Paola Severino a Filippo Patroni Griffi. Confida nell’ultimo rifugio, cioè il bis di Sergio Mattarella, su cui sicuramente pungola, ancora, Salvini. Ma soprattutto rilancia e insiste fino a sera, con tutti, su Elisabetta Belloni: la direttrice del Dis, la carta su cui lavorava da settimana. Ieri mattina per un paio di ore Belloni era parsa la soluzione quasi di tutti. Il tempo di registrare le aperture di Enrico Letta e di Giorgia Meloni, e di confusi segnali positivi dalla Lega. Poi erano subito riemerse a galla le obiezioni di Salvini e di parecchi dem. E si era fatto sentire Luigi Di Maio, l’avversario, affilato come un bisturi: “Elisabetta è un profilo alto, ci ho lavorato insieme alla Farnesina ma non bruciamo nomi e non spacchiamo la maggioranza di governo”.

Sillabe lette come un agguato dai contiani: “È Luigi a volerla bruciare, in testa ha solamente Draghi”. In serata, Di Maio fa arrivare al Fatto la sua versione: “Elisabetta è più che valida, magari venisse eletta, ma noi non giochiamo con nomi di spessori come il suo per meri tatticismi politici”. Un altro segno della distanza, tra l’avvocato che vuole tenere Draghi a Palazzo Chigi, e il ministro che ha avuto decine di incontri ma che tanto lì voleva arrivare, a eleggere al Colle l’ex presidente della Bce. Uno scontro totale, che frantuma il M5S in gruppi che ormai si controllano a vicenda, con tanto di rispettivi emissari a prendere nota di chi parla con chi. Una faida che si manifesta anche nella quarta chiama, perché contiani e dimaiani prima danno la consegna di scheda bianca, poi cambiano idea e si rincorrono, tentando di intestarsi i voti a Mattarella, come prova di forza in un campo di battaglia dove tutti sono deboli. Di sicuro dai vertici avevano prima ordinato scheda bianca e poi virato sulla libertà di coscienza, fiutando i voti in arrivo per il presidente. E anche i dimaiani dovrebbero aver cambiato in corsa. Chi non ha invece cambiato idea è un gruppo di senatori del M5S, che invocano il Mattarella bis da settimane. Eletti come Primo Di Nicola e Danilo Toninelli, per ora neutrali. Ore più tardi, il Pd e la dimaiana Laura Castelli bocciano Frattini (“Salterebbe il governo”). Ma anche il contiano Ettore Licheri si espone: “Non è questo l’approccio giusto.

Conte invece tratta, innanzitutto su Belloni. Matteo Renzi ovviamente dice no. “Invece Pd e Lega sono combattuti al loro interno, perché lei verrebbe dai Servizi” racconta un maggiorente. Ma c’è chi accusa Letta: “Anche lui vuole solo arrivare a Draghi”. Continua a dilatarsi la faglia tra i giallorosa, aperta dalle ambizioni del premier. Così con il passare delle ore ci si aggrappa ancora al piano B, Mattarella. “Però è un casino” riassumono dal M5S. A sera inoltrata Conte batte un colpo: “Non ho incontrato o sentito Frattini né potenziali candidati, serve una soluzione condivisa per non complicare ancora il quadro”. Una via d’uscita, per l’avvocato che si gioca tutto.

Tajani per conto di B. va a dire no a Draghi, ma tratta sul governo

Mentre Antonio Tajani, coordinatore di Forza Italia, esce da Palazzo Chigi, accompagnato da una nota nella quale si parla di “incontro cordiale”, pur ribadendo che il partito continua a preferire che il premier rimanga a Palazzo Chigi, arriva l’indiscrezione per cui Matteo Salvini sarebbe pronto a fare il nome di Franco Frattini.

Un uno-due che dice che in realtà la strada del premier al Colle non è ancora sbarrata. Perché Frattini sembra l’ennesimo nome da bruciare (o il grimaldello per rompere, visto che Pd e Iv sono fermamente contrari). Serve tempo per capire se un ipotetico governo del dopo Draghi prende quota. Tra gli azzurri, le versioni divergono: c’è chi racconta che il segnale “vero” è che il dialogo tra Draghi e FI si è riaperto, che è in corso una trattativa sul governo. Chi dice che invece no, che il partito è fermissimo sul no all’elezione del premier. A Palazzo Chigi in questi giorni dicono il meno possibile. Ma il premier ieri ha chiamato Silvio Berlusconi al San Raffaele per fargli gli “auguri di pronta guarigione”, come dicono fonti di FI, che hanno reso nota la telefonata. Non si è parlato di Quirinale, chiariscono. E anche se nessuno davvero sa come stia Berlusconi e quanto sia in grado di decidere, è chiaro è che il premier ha voluto lanciargli un segnale.

Dal punto di vista del trasloco al Colle del premier, il colloquio non è stato certo risolutivo. A Palazzo Chigi ancora non escludono che dal fu Caimano possa arrivare il placet a Draghi al Quirinale. Che è poi quello per cui stava lavorando Gianni Letta. Il premier ancora non ha rinunciato alla corsa.

Se anche il canale è aperto, l’esito è incertissimo. E dipende dalla difficoltà dei partiti di trovare soluzioni alternativa.

Ma sulla strada di Draghi al Colle c’è il no di Matteo Salvini e Giuseppe Conte. E poi il lavoro – che va avanti – intorno alle candidature di Elisabetta Belloni, capo del Dis, e di Pier Ferdinando Casini, sul quale Matteo Renzi e Dario Franceschini non mollano. Oltre a quello sullo stesso Frattini. E l’incognita di un eventuale coniglio dal cilindro che il leader del Carroccio continua a promettere di tirare fuori, ma al quale nessuno crede troppo.

Quel che è certo è che Draghi continua a tener fermo un punto: non resterà a Palazzo Chigi, se non con un capo dello Stato eletto dalla stessa maggioranza con la quale governa. Questo esclude Frattini. Ma esclude anche Casini, che viene considerato un candidato che porterebbe automaticamente a un “allargamento” dell’importanza politica del centro. Diverso il caso della Belloni, che lui stesso ha voluto a capo del Dis. E che forse immaginerebbe capo del governo, in caso di salita al Quirinale. Nonostante la criticità che è stata evidenziata anche a lui rispetto al passaggio di una figura che guida i Servizi al Colle.

In ogni caso la trattativa su un eventuale nuovo esecutivo va avanti. Anche se Draghi l’ha affidata ai leader dei partiti. Ai quali, però, è stata recapitata anche un’altra informazione: nell’ipotesi di un Mattarella bis, il governo resterà quello che è. Senza nessuna concessione ai leader. Tradotto: se Draghi resta in gioco in uno dei due ruoli, le sue condizioni sono molto diverse. Da capo dello Stato asseconderà l’iniziativa dei partiti e un rimpasto “conveniente” ai leader, da premier (con Mattarella presidente) non concederà nulla neanche in termini di rimpasto.