“Criminale, bugiardo, irrilevante, traditore”: è la “leale collaborazione” delle opposizioni

Matteo Salvini è allibito e amareggiato, mentre secondo Giorgia Meloni l’Italia ha fatto la fine della Corea del Nord. Per i gemelli della destra italiana è inconcepibile che Giuseppe Conte abbia risposto alle provocazioni. Addirittura in diretta televisiva. Salvini e Meloni però sono gli stessi che hanno definito (a turno) il premier così: “Criminale”, “irrilevante”, “Marchese del Grillo”, “bugiardo”, “traditore dello Stato”, “dittatore”. Di seguito, un compendio delle sobrie invettive sovraniste, prima e durante la crisi del Coronavirus.

10 settembre 2019, Salvini: “Da Conte non comprerei neanche un cono gelato”.

18 settembre 2019, Salvini: “Da avvocato del popolo a traditore del popolo, che misera fine”.

28 novembre 2019, Salvini: “Conte ha commesso un atto gravissimo, un attentato ai danni del popolo italiano… Mi ricorda una celebre frase del Marchese del Grillo, ‘io so io e voi non siete un cazzo’”.

2 dicembre 2019, Meloni: “Lei è un presidente che ci riempie di menzogne. Ha svenduto gli interessi italiani per la poltrona”.

2 dicembre 2019, Salvini a Conte, in aula: “Cito Confucio: ‘L’uomo da poco è arrogante senza essere calmo, l’uomo superiore è calmo senza essere arrogante’. Aperta parentesi: si vergogni”.

28 dicembre, Meloni: “Questo governo prima va a casa e meglio è”.

2 gennaio 2020, Salvini: “Se pensano che Conte possa essere il candidato del centrosinistra sono proprio alla canna del gas. Conte non ha un voto, non esiste. È irrilevante: si goda il potere finché può”.

24 gennaio, Meloni: “Lunedì citofoniamo a Conte. Scusi, fa gli scatoloni?”.

27 gennaio, Salvini: “Vive male quel signore (Conte, ndr). Vive di rabbia, di odio”.

24 febbraio, Meloni: “Conte non si illuda che questa emergenza possa salvare il governo. Non si inventino scuse per tirare a campare”.

28 febbraio, Salvini (dalle piste di Madonna di Campiglio, mentre buona parte degli italiani avevano iniziato la quarantena): “Qualcuno si permette di dire i prodotti italiani no, i camionisti italiani no, gli studenti italiani no. Qui servirebbe un governo, un presidente del Consiglio con le palle, che sappia difendere gli interessi italiani”

5 marzo, Meloni: “Giuseppe Conte è un criminale, ha responsabilità gravissime”.

29 marzo, Meloni: “Presidente Conte, servono soldi subito sul conto corrente. A che serve l’umiliazione dei buoni e delle derrate alimentari?” (Pochi minuti prima elogiava il presidente siciliano Musumeci per i buoni pasto e le derrate alimentari).

29 marzo, Meloni: “Solidarietà a tutti i sindaci, chiamati a gestire una situazione esplosiva per colpa degli annunci roboanti di Conte, che ha fatto credere agli italiani di aver ricoperto i Comuni di miliardi, ma è una bugia colossale. Un irresponsabile gioco delle tre carte fatto sulla pelle di chi è in prima linea”.

10 aprile, Salvini: “Il Mes è un sistema di strozzinaggio legalizzato. Siamo alla dittatura nel nome del virus”.

10 aprile, Meloni: “Ora Conte, Gualtieri e Di Maio dovranno affrontare il Parlamento, dove siamo già schierati per impedire questo atto di alto tradimento verso il popolo italiano”.

Farnesina, il piano contro l’Olanda “paradiso fiscale”

Se l’Italia vuole ottenere un risultato in Europa dovrà ammorbidire la posizione dell’Olanda. Così alla Farnesina stanno studiando un piano per fare in modo che il tema del “dumping fiscale” diventi centrale. Fino a immaginare modifiche al Patto di Stabilità. Lo scontro tra Italia e Olanda ha tenuto banco all’ultimo Eurogruppo e probabilmente è destinato a durare. A Nord, la linea rigorista è indisponibile a concedere niente che possa assomigliare agli eurobond, obbligazioni comuni che l’Italia chiede per rispondere alla crisi da Coronavirus.

Ora la battaglia potrebbe arricchirsi della questione “paradiso fiscale”, una delle caratteristiche che spiegano il “miracolo” olandese. Nei Paesi Bassi sono stimate circa 15mila società che hanno una sede legale, spesso presenti ad Amsterdam solo per ridurre le imposte sui dividendi. La perdita per gli altri Paesi europei oscillerebbe, secondo le varie stime, tra i 10 e i 50 miliardi all’anno. L’Italia, come ha ricordato sul Fatto Nicola Borzi, se ne serve molto: hanno sede legale ad Amsterdam, infatti, la Fca (ex Fiat), MediaforEurope (Mediaset), Campari, Cementir del gruppo Caltagirone. Ci sono poi controllate o partecipate di Eni, Enel, Exor, Ferrero, Prysmian, Saipem, Telecom, Illy, Luxottica, Barilla e molte altre.

Un documento arrivato sul tavolo del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, suggerisce la possibilità di “inserire il concetto di dumping fiscale nel Patto di Stabilità e Crescita, come obiettivo da proporre tra le ‘raccomandazioni specifiche per Paese’ che annualmente il Consiglio raccomanda ai singoli Stati membri di raggiungere”. Dopo il via libera di Di Maio, la Farnesina si è messa ad approfondire il tema anche interpellando il Mef, il ministero di Roberto Gualtieri.

Proporsi di modificare il Patto di stabilità (formalmente una risoluzione del Consiglio europeo del 1997) potrebbe essere una missione impossibile, ma alla Farnesina tra gli obiettivi su cui si sta lavorando c’è quello di introdurre nel Patto di stabilità dei criteri cui si deve ispirare la politica di bilancio degli Stati membri, con parametri anche per quanto riguarda la fiscalità. Per superare il problema della decisionalità del Consiglio, che in materia fiscale prevede l’unanimità, si pensa di spingere per il ricorso alla clausola “passerella” (articolo 48.7 del Trattato sull’Unione europea) per consentire decisioni a maggioranza qualificata (in questo caso, visto che la proposta è di un singolo Paese, il 72% dei membri per il 65% della popolazione europea, 21 su 28 paesi). Di Maio è pronto a investire il Consiglio in formazione Affari esteri della questione e ieri ha dato un assaggio della sua iniziativa in una lettera al Financial Times in cui invita i Paesi europei a intervenire con la dovuta “solidarietà”: “È tempo di stare insieme e di lottare insieme”.

Per dare sostanza all’iniziativa serviranno le alleanze e l’attenzione è posta di nuovo sulla Francia con cui l’Italia ha fatto sponda all’Eurogruppo. Il Recovery fund, il fondo di ricostruzione inserito tra le quattro proposte del vertice economico finanziario di giovedì scorso, è stato avanzato dalla Francia, ma oggi è il puntello italiano per evitare un ricorso al Mes che Roma non vuole come ha ribadito ieri il viceministro dell’Economia, il dem Antonio Misiani. “Faremo ricorso – ha assicurato – al programma della cassa integrazione europea, ai 200 miliardi della Bei e anche alle altre possibilità che l’Europa ha deciso in queste settimane”. Un riferimento al Recovery fund chiamato direttamente in causa dal commissario europeo, l’italiano Paolo Gentiloni che su Twitter scrive: “Il piano per la rinascita, con il #RecoveryFund per finanziarla, non può aspettare che tutto sia finito. È il tempo delle scelte”. A parte l’infelice definizione di “piano per la rinascita” (do you remember Gelli?), Gentiloni tiene il punto sul progetto che, se finanziato con obbligazioni comuni, darebbe vita a una forma di eurobond privi, si immagina, di quelle condizionalità che invece caratterizzano il Mes (quelle, per intendersi, che hanno strozzato la Grecia).

A dare manforte a questa strategia c’è la lettera che il presidente dell’Eurogruppo, il portoghese Mario Centeno, ha inviato ieri al presidente Ue, Charles Michel, per illustrare l’accordo raggiunto dall’Eurogruppo. Centeno sottolinea l’accordo dei 19 ministri della zona euro “a lavorare sul Recovery fund, anche se alcuni Stati membri sono dell’opinione che dovrebbe essere basato su emissioni comuni di debito, mentre altri sono per soluzioni alternative, in particolare nel contesto del bilancio Ue”. In ogni caso “siamo guidati da un senso di urgenza nel creare un Recovery Fund nel contesto di un piano di ripresa generale”. Ma prima occorre ammorbidire l’Olanda (e la Germania).

La Rai genuflessa alle destre Conte: “Niente reti unificate”

Salvini e Meloni chiedono, Rai e Vigilanza eseguono. Da un lato, Viale Mazzini, dando più spazio a Lega e FdI nei tg. Dall’altro, il presidente Alberto Barachini, esortando la tv pubblica a un riequilibrio, che la Rai concede, e convocando una Vigilanza su richiesta dell’opposizione. Le polemiche a seguito della conferenza stampa di venerdì, in cui il premier ha attaccato Meloni e Salvini sul Mes, ha provocato un corto circuito tra politica, istituzioni e tv pubblica.

Già la sera stessa Meloni e Salvini hanno protestato per quello che hanno definito “un attacco da regime sudamericano”, “senza contraddittorio”. Proteste che il leader leghista ha avuto modo di esternare, con una telefonata, al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nel frattempo ci si muoveva anche in Vigilanza. Sabato, con una lettera al presidente della Vigilanza Alberto Barachini (Forza Italia), i capigruppo del centrodestra Santanchè (FdI), Mulè (Fi) e Tiramani (Lega) hanno chiesto “la convocazione oggi stesso per discutere delle gravi dichiarazioni del premier Conte”. Invito accettato da Barachini, che poi ha convocato la Vigilanza per domani, martedì 14. Nel frattempo Meloni e Salvini chiedono alla Rai “un riequilibrio”, per dare modo “ai leader dell’opposizione di replicare alle false accuse del presidente del Consiglio”. Richiesta che, in maniera assai anomala, viene fatta propria anche da Barachini. Il quale scrive ai vertici della tv pubblica per chiedere “che sia garantito, quanto prima, un proporzionato diritto di replica ai leader dell’opposizione citati dal premier”.

Così ecco che sabato a Meloni vengono concessi 3 minuti nel Tg1 delle 13.30 e a Salvini 3 minuti nel Tg1 delle 20. Più svariati minuti nelle diverse edizioni di Tg2 e Tg3. Un “riequilibrio” che evidentemente soddisfa il centrodestra, come ha ammesso ieri il presidente Marcello Foa all’AdnKronos: “Mi sembra che il caso sia risolto. È normale che, se il premier cita criticamente in tv esponenti politici nell’ambito di una conferenza stampa istituzionale, costoro abbiano poi la possibilità di replicare”.

Intendiamoci: che Meloni e Salvini abbiano reclamato spazio per rispondere alle parole del premier è legittimo. Meno lo è che la richiesta venga fatta propria dalla presidenza della Vigilanza (che dovrebbe essere super partes) con una lettera ai vertici della Rai di cui non vengono informati nemmeno tutti i membri della commissione. Altra anomalia è che l’ad Fabrizio Salini e il presidente Foa non rendano noto ai membri del Cda Rai, nonostante le loro richieste, il contenuto della missiva. “La sensazione è che vi sia stata una gestione privata della vicenda, con il Cda tenuto all’oscuro. I consiglieri non sono stati messi in condizione di svolgere la loro funzione di controllo e garanzia”, afferma Rita Borioni, consigliere che, insieme a Riccardo Laganà, ha chiesto all’azienda di pubblicare la lettera di Barachini.

Sempre ieri, sulla vicenda è intervenuto anche Palazzo Chigi. Che, con una nota, ha ricordato come la conferenza stampa di Conte “non sia stata trasmessa a reti unificate” e che la decisione di mandare in onda il segnale della presidenza del Consiglio spetta “sempre e solo ai responsabili delle singole testate giornalistiche”. Inoltre non si poteva evitare di affrontare “il tema del Mes e delle relative fake news veicolate dall’opposizione, visto che poi è stato oggetto delle domande dei giornalisti, a conferma del fatto che si tratta di argomento d’interesse generale”. Comunicato che in un certo senso tira in ballo le polemiche giornalistiche, compresa quella di Enrico Mentana, che ieri ha puntualizzato: “Il premier ha tutto il diritto di parlare al Paese in questo momento di emergenza e io sono dell’idea che vada sempre ascoltato, ma non per favorire polemiche politiche”, ha detto il direttore del Tg di La7. Che ha aggiunto: “Il modo con cui Salvini e Meloni sono intervenuti sul Mes è stato anche sguaiato, ma il premier poteva rispondere utilizzando altri strumenti, non quella conferenza stampa. Il mio è stato un modo per dire che a nessun capo del governo può esser data la facoltà di intervenire su tutto, anche attaccando l’opposizione”. Oggi sulla vicenda andrà in scena la Vigilanza.

L’Angelo delle ore 18 che ama il trattore e odia le polemiche

Non inganni la faccia sorniona e il tratto bonario: chi lo conosce bene sa che il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, è affidabile come i trattori che ama guidare nel tempo libero. Ma pure a determinazione, nel bene o nel male, non scherza. “Se deve dirti di no oppure tagliarti la testa lo fa, ma è dispiaciuto sul serio e ci tiene a dirtelo”, azzarda chi lo ricorda dai tempi di Guido Bertolaso di cui è stato il braccio destro. Anzi la metà della mela, nonostante modi e caratteri che più diversi non si potrebbe.

A ogni modo, Borrelli, con i piedi ben piantati a terra e l’arte di saper fare da conto, si è rivelato indispensabile in quell’epoca in cui la Protezione civile pesava come due ministeri o forse più. Tutte qualità che gli sono tornate buone anche nei dieci anni di traversata nel deserto seguita al depotenziamento progressivo del Dipartimento testimoniato pure dal fuggi-fuggi generale di chi tra le prime linee ha scelto di cercare migliore fortuna altrove.

Nominato da Gentiloni, confermato da Conte

Lui, invece, a divorziare dalla Protezione civile, dove era arrivato nel 2002, dopo aver lasciato la Ragioneria generale dello Stato, non ci ha pensato mai neppure quando altri, prima Franco Gabrielli e poi Fabrizio Curcio, gli sono stati preferiti per prenderne la guida. Alla fine è arrivato anche il suo turno: quando Curcio ha deciso di dimettersi per un problema familiare grave e improvviso nell’agosto del 2017, Borrelli, già vice capo dipartimento da tempo, è stato la scelta naturale per la sua successione in attesa di nuove elezioni e un altro premier dopo Paolo Gentiloni che lo aveva scelto. Fatto sta che quando il boccino è passato di mano, Giuseppe Conte ha deciso di confermarlo intanto perché non inviso al Movimento 5 Stelle. Ma pure per un merito non da poco: aver sminato il primo possibile intralcio al nuovo inquilino di Palazzo Chigi. Quello legato alle polemiche montanti per il post-terremoto del Centro Italia che in quel momento rischiavano di deflagrare. La prima uscita pubblica del premier fu proprio ad Accumoli e Amatrice al fianco di Borrelli che da quelle parti è ricordato con affetto.

C’è da dire che l’attuale capo della Protezione civile è aiutato anche dalla temperanza di chi non sgomita per primeggiare. Empatico il giusto, di certo ha pudore dei suoi sentimenti: l’unica volta che lo hanno visto piangere è stato con i parenti delle vittime del crollo del ponte Morandi. Cinquantasei anni e originario di Latina, non è sposato, ma ha una compagna di vita che è l’epicentro della sua famiglia: i due anziani genitori che vivono nel basso Lazio, suo fratello e infine una sorella che gli ha regalato due nipoti ancora bambini.

Le stilettate in riunione al ministro Speranza

Pure loro lo seguono ogni giorno in tv da quando il Coronavirus lo ha catapultato – lui che non è esattamente un animale mediatico – nelle case degli italiani incollati al bollettino delle ore 18 per la conta dei morti e dei contagiati. Un appuntamento drammatico di suo che ha riservato a Borrelli l’amarezza di finire nel tritacarne delle polemiche per la gestione di un’emergenza che anche i sassi hanno capito essere tutta di natura sanitaria più che di protezione civile.

Borrelli, per la verità, non è tipo da togliersi i sassolini dalle scarpe in pubblico. Ma nelle sedi riservate, come la videoconferenza quotidiana con le regioni sorprese dal virus a corto di tutto, è abituato a parlare con franchezza. Anzi, a dire “pane al pane e vino al vino”.

A dieta dopo un ricovero d’urgenza

Come ha fatto pochi giorni fa, a proposito dei dispositivi di protezione che ancora scarseggiano: “C’è una sproporzione tra i fabbisogni e le disponibilità: sul mercato mondiale questi beni sono spariti, specie quelli che vanno ai medici. Il ministero della Salute faccia la sua parte: ci dicano se siamo in grado o no di riutilizzare quello che abbiamo”.

Insomma, la verve non gli mancherebbe, ma le polemiche gli fanno venire l’orticaria e sono un danno per la pressione, suo punto debole insieme alla glicemia e alla tiroide. Forse per questo tende a sdrammatizzare ogni volta che può. “Al mare in burrasca da cavalcare con il surf, lui senz’altro preferisce il pedalò” sintetizza chi gli sta a fianco, che giura: l’uomo non ama la ribalta anche se non disdegna gli attestati di stima. Come la cittadinanza onoraria di Ischia per i soccorsi prestati dopo la scossa che devastò una parte dell’isola nel 2017. Giorni in cui Borrelli se la vide peraltro bruttissima: con un ricovero d’urgenza in ospedale che lo ha convinto a dimagrire, nonostante sia un buongustaio a tavola. A ogni modo, da allora ha perso chili, indossa perennemente la maglietta bardata con il tricolore, è diventato più operativo.

Una pila di carte da firmare

La sua giornata da oltre due mesi è questa: alle 7.30 è nella sede del dipartimento in via Vitorchiano per un rapido punto della situazione, la lettura dei giornali prima che inizi il comitato operativo, poi un susseguirsi di staff, sotto-riunioni, la conferenza stampa delle 18 e a seguire una pila di carte da firmare fino a tarda serata.

Il suo futuro è nella scommessa che ripete ai suoi: “Non è il pesce più grande a mangiare il più piccolo, ma quello più veloce”.

“Così siamo pronti anche noi”

Da oggi librerie, cartolerie e negozi di abbigliamento per i bambini rialzano le saracinesche, tranne che in Lombardia e Campania. Non sarà certo la Fase 2, ma è almeno il primo timido passo di un nuovo inizio nel segno di gel, mascherine e tutte le precauzioni del caso. Le riaperture graduali dopo il 3 maggio sono nelle mani della task force guidata da Vittorio Colao, tra gli appelli alla cautela del mondo scientifico, preoccupato dal rischio del riacuirsi del contagio e il pressing incessante di imprese e commercianti che chiedono di ripartire al più presto per evitare il collasso dell’economia. Ma i tempi sono ancora incerti. Così sono in molti a chiedersi quando si potrà tornare a guardare un film al cinema, andare dal parrucchiere o al mare e mangiare al ristorante. Nei limiti del rispetto delle normative che tutelino lavoratori e clienti, abbiamo chiesto a 6 associazioni di diverse filiere produttive cosa verosimilmente succederà dopo il lockdown e la loro proposta per poter riaprire in sicurezza.

 

Negozi
La strada è segnata: estendere le nuove regole a tutti gli altri

La strada per la riapertura di tutti i negozi, restituendo servizi ai cittadini è già segnata dalle nuove disposizioni sanitarie messe a punto dall’ultimo Dpcm: distanziamento, sanificazione due volte al giorno, uso di mascherine, guanti e gel disinfettanti. Gli accessi vanno scaglionati: nei piccoli negozi, entro i 40 metri quadri, l’entrata è uno per volta e con due operatori al massimo. Estendere queste regole anche a tutti gli altri esercizi che presentano modalità di vendita simili è la proposta del segretario generale di Confesercenti Mauro Bussoni, secondo cui con il lockdown fino al 3 maggio andranno in fumo fino a 30 miliardi di consumi. Per le attività con un livello di interazione umana maggiore, come estetiste o nail artist, occorre mettere a punto soluzioni ad hoc in accordo con le parti sociali. Ma va sempre prima garantito agli esercenti l’accesso ai dispositivi di protezione individuale, sostenendone gli investimenti per la sicurezza sanitaria con agevolazioni al credito e benefici fiscali.

 

Bar e ristoranti
Facilitare l’utilizzo dei dehors e distanziamento dei tavoli 

Bar e ristoranti sono pronti a ripartire mettendo al centro la sicurezza grazie alla formazione del personale e all’utilizzo di dispositivi di protezione individuale (mascherine, guanti e prodotti igienizzanti) su banconi, tavoli e bagni, alla sanificazione degli ambienti. Per Fipe, la Federazione che riunisce gli imprenditori della ristorazione, vanno razionalizzati i flussi della clientela attraverso sistemi di prenotazione online, con un’attenta gestione dei menu e tovaglie e tovaglioli igienizzati. Imprescindibile il distanziamento dei tavoli sulla base di un coefficiente che tenga conto della relazione tra coperti e superficie. E, nel caso del bar, tra lunghezza del bancone e clienti serviti. Una misura che va gestita sulla base del buonsenso: marito e moglie vanno distanziati al ristorante? Vanno anche dematerializzati i pagamenti e facilitato l’uso dei dehors (gli spazi all’aperto) per compensare la perdita dei coperti all’interno, ma i Comuni dovrebbero eliminare i vincoli per il rilascio delle autorizzazioni per l’occupazione di suolo pubblico.

 

Trasporto pubblico locale
Rimodulare gli orari delle città e offrire servizi dedicati ai clienti 

È un settore che non si è mai fermato: autobus, tram e metropolitane stanno mantenendo il servizio con corse ridotte e distanza di sicurezza di un metro tra i passeggeri. Che però sono assai pochi, tanto che a marzo c’è stato un crollo verticale della domanda di mobilità pubblica (-80%) con una perdita di ricavi stimabile in oltre 200 milioni di euro, mentre oltre l’86% delle aziende ha fatto ricorso a forme di ammortizzatori sociali. Se verrà richiesto di aumentare le frequenze dei mezzi pubblici, l’Associazione trasporti Asstra chiede una cabina di regia per il ripensamento globale dei servizi che tenga conto sia del reale potenziale di mobilità oggi disponibile, sia di una diversa e nuova organizzazione della vita lavorativa e della vita scolastica attraverso un ridisegno degli orari delle città e dei territori. Va prevista la possibilità di offrire servizi di trasporto dedicati (ad esempio collegamento con le fabbriche) e anche i servizi a chiamata che possono rappresentare una risposta efficace per rispondere alla rimodulazione degli orari delle città.

 

Parrucchieri e barbieri
Appuntamento online, visiera protettiva e orari più flessibili

Per consentire alle 105.000 imprese di acconciatura di riaprire, Confartigianato Benessere punta a una combo: alle consuete misure igienico-sanitarie va abbinata una nuova organizzazione del lavoro. Le attività vanno svolte esclusivamente su appuntamento per garantire la presenza di un solo cliente per volta nell’area reception, negli spogliatoi, nei servizi igienici con la delimitazione degli spazi con applicazione sul pavimento di scotch di colore ben visibile. A parrucchieri e barberie, per le imprese maggiormente strutturate, vanno concessi orari di apertura flessibili con turnazione dei dipendenti. L’utilizzo delle postazioni va alternato sia nella zona del lavaggio che in quelle dei trattamenti con la distribuzione della clientela tra gli addetti affinché ciascun operatore abbia in carico un massimo di due clienti contemporaneamente qualora uno dei due sia in fase di attesa tecnica (tempo di posa del colore). Oltre a mascherine e guanti, gli operatori devono utilizzare occhiali protettivi o visiera in plexiglas per i trattamenti per cui non può essere garantita la distanza di un metro.

 

Cinema
In attesa del ritorno in sala, più arene e la riscoperta dei drive-in

La riapertura dei cinema è quella più complicata, come dimostra l’esperienza della Cina, che è stata costretta a richiuderli dopo aver fatto riaccendere le luci in sala. Per il presidente di Anica, Francesco Rutelli, si deve ragionare sulla sicurezza e sulla tenuta di un comparto che nel 2019 ha staccato oltre 100 milioni di biglietti, partendo benissimo (+20%) anche a inizio 2020, per poi registrare una fortissima crisi di esercenti e distributori con il lockdown. La difficoltà di prevedere una riapertura nelle sale tra distanziamenti e misure di sicurezza, potrebbe essere superata con due proposte che Anica ha presentato all’associazione dei Comuni (Anci): se ci saranno le condizioni necessarie, grazie alla bella stagione si potranno aumentare le arene all’aperto o si potranno riscoprire i drive-in di una volta con gli spazi adeguati per le automobili di oggi. Anica sta anche aspettando dal Mibact l’autorizzazione a far trasmettere in tv o sulle piattaforme a pagamento alcuni film che sarebbero usciti in queste settimane al cinema, con l’impegno che parte del ricavato venga dato agli esercenti.

 

Stabilimenti balneari
Ombrelloni lontani e sanificati in spiaggia. E tutti in mascherina

Non c’è stato ancora nessun incontro con il governo, ma le imprese balneari hanno già le loro proposte per consentire agli italiani di andare al mare nel rispetto della sicurezza e delle normative. Per questo è necessario prevedere una cartellonistica con tutte le informazioni necessarie. “E che nessuno faccia differenziazioni tra spiagge pubbliche e private: dovranno riaprire entrambe per evitare una disparità sociale”, sottolinea Maurizio Rustignoli, il presidente delle imprese balneari di Fiba-Confesercenti. Più facile nel caso dei lidi attrezzati e con la presenza dei bagnini: garantiranno il distanziamento di 1 metro di tutte le attrezzature, come lettini, ombrelloni e sdraio che saranno sanificati prima e dopo l’uso. Sotto ogni ombrellone potranno stare al massimo tre persone. Nel caso delle spiagge pubbliche sarà necessaria la presenza di volontari della Protezione civile o della Guardia costiera per delimitare con delle corde quelle troppo grandi e per far rispettare il distanziamento.

“Virus, il vero ‘disturbato’ è chi non si fa domande”

Interpelliamo lo psicoanalista Luigi Zoja già presidente della IAAP, l’Associazione degli analisti junghiani nel mondo, per capire cosa succede nel nostro mondo mentale e commentare il dato della manciata di suicidi legati a Covid-19.

Gli chiediamo se è da considerare più normale (meno patologico) provare l’angoscia di essere sopraffatti da qualcosa di sconosciuto, o stare tutto sommato bene e aspettare che passi la notte. “Il suicidio è classificato fra i disturbi mentali: ma, a ben guardare, potrebbero essere più disturbati quelli che continuano a sopravvivere senza farsi domande”, dice Zoja.

Svilupperemo tutti un disturbo da stress post-traumatico?

Su questo non so rispondere oggettivamente, perché i miei pazienti, e in generale i pazienti in analisi, si pongono domande, esercitano l’autocritica, quindi non sono rappresentativi della popolazione. Anzi, si può notare che a molti pazienti adesso vada meglio.

È vero che gli psicotici si trovano più a loro agio in uno scenario in cui tutte le loro paure si sono realizzate?

No. Le “paure degli psicotici” sono soprattutto una proiezione di noi “massa normale”, sempre in cerca di diversi, sempre all’erta perché abbiamo paura di scoprire che il mondo psichico è un po’ più complicato di quello che fanno vedere la tv e Hollywood. Chi è veramente psicotico soffre, ma è influenzato soprattutto dal suo mondo interiore. Se il caos esterno aumenta, di solito ne patisce, ma non è il fatto decisivo.

La paura che proviamo è paura di morire o solo la veste attuale di paure inconsce che emergono sotto stress?

È la paura degli incredibili limiti che abbiamo. In un mondo così perfezionato e tecnologico, qualcosa scappa completamente di mano. Ci sono 3 miliardi di persone in clausura, cosa mai successa, nemmeno nel XIV secolo con la peste nera. C’è un elemento di sorpresa, più che di paura.

Sta cambiando la nostra percezione dell’altro? Ci sono manifestazioni di solidarietà, ma il vicino è allo stesso tempo quello che può contagiare noi o i nostri cari.

Il Covid è il fattore scatenante, ma questo aspetto era già favorito dall’abuso dei social, i messaggi brevi tendono ad essere aggressivi e si prestano al messaggio paranoico. I social causano assassinî nel Terzo Mondo: si postano informazioni calunniose e una persona viene massacrata.

Ci sono dei suicidi legati ai contagi: due infermiere, il ministro delle Finanze dell’Assia, il medico del Reims. Cosa succede nella mente in questi casi?

Sono le persone più sensibili, non le più rozze, a sentire un grande senso di impotenza. Questo mi conferma che è per un pregiudizio occidentale che il suicidio sia inserito nel DSM, il manuale delle patologie. In un ideale mondo libero dovrebbe essere una possibile libera scelta; in alcuni Paesi laici non solo è un diritto, ma si può compiere con assistenza medica. Piuttosto, gli ultimi ministri della Sanità dovrebbero “suicidarsi” tutti: se vede il TED talk di Bill Gates del 2015, vede che aveva previsto tutto, addirittura il costo di questa pandemia.

Agli inizi si disse che la paura del virus era in realtà paura dello straniero, dei cinesi, e che faceva più danni la psicosi del virus. Lei che sulla paranoia ha scritto un libro fondamentale, pensa fosse giusta quella lettura? O una reazione di maggiore allerta ci avrebbe evitato contagi e morti?

Una sana prevenzione avrebbe semplificato le cose e reso possibili delle chiusure parziali, limitando il danno. Un atteggiamento più serio avrebbe preparato più terapie intensive, invece che distribuire mance elettorali a destra e sinistra. Certo, il razzismo è un tema da affrontare in futuro. Ma in quel momento la prima cosa era affrontare il problema: in Cina si era visto che era un virus estremamente contagioso e rapido, chiunque avesse autorità medica doveva vederlo. Essere un po’ paranoici a volte può essere utile.

Secondo l’Oms 17 milioni di persone in Italia soffrono di disturbi mentali. Ha dati sul consumo attuale di psicofarmaci?

Temo che sia esploso. Io stesso mi sono munito.

Gli ansiolitici sono utili o aggravano la depressione?

Alla lunga aggravano la depressione. Bisogna trattarli come rimedi d’emergenza. Nel linguaggio comune non distinguiamo tra depressione e malinconia: la depressione è un concetto negativo e privativo; la malinconia è il polo opposto di una cultura maniacale. Siamo sbilanciati sulla maniacalità e la velocità eccessiva. Prenderci tempo per pensare alle cose ci fa bene.

Molti stanno perdendo i loro cari senza un saluto; saltano le fasi dell’elaborazione del lutto. Siamo abituati a rimuovere la morte, si allontana il cadavere prima possibile; ma così si perde di vista il vivo.

Dico una cosa brutta ma vera: non è escluso che ci faccia anche “comodo” non vedere. Molti non vogliono vedere il morto, portandosi dietro un senso di colpa per aver rinviato la visita al genitore o all’amico malato. Ora ci pensa la disorganizzazione all’italiana. In certi casi non si sono ritrovati i resti. Questo, pur essendo dovuto al caos e non a un’intenzione, evoca degli scenari nazisti.

Oltre alla paura di ammalarsi di Covid-19, c’è la paura di non ricevere un’assistenza adeguata per altre malattie. È l’incubo degli ipocondriaci.

Questo è un problema reale, non si è detto abbastanza chiaramente. Un amico cardiologo al Sacco mi dice che è diventato tutto Covid. Il New England Journal riportava che in Lombardia i medici già prima dicevano: dobbiamo fare la scelta tra chi lasciar morire.

Che consiglio dà a chi sta male?

Di essere serio. Di non dire “rimpiango l’happy hour”. Un tempo l’analfabeta sapeva di essere analfabeta. Oggi, e dipende anche dall’abuso dei social, troppe persone si credono competenti. Con questa botta che abbiamo preso, in mezzo a questi idioti che parlano in Tv e a conduttori di una superficialità devastante, il nuovo protagonista è lo scienziato, che viene ascoltato e rispettato.

E ai non idioti, ai sensibili che stanno male, cosa consigliamo di leggere? Marco Aurelio?

Marco Aurelio va bene. Anche un po’ di psicoanalisi. Di solito gli analisti non ne consigliano la lettura, ma in questo momento farei un’eccezione.

Mascherine: in Toscana slitta l’obbligo, in Lombardia ne mancano 5 milioni

Quella della Toscana che prevede l’obbligo di indossare mascherine nei luoghi pubblici è di fatto un’ordinanza a metà: perché se in alcune città – quelle più piccole – è già in vigore, in molte altre bisognerà aspettare ancora qualche giorno. Negli uffici del governatore Enrico Rossi oggi sarà fatto un primo bilancio: si saprà quanti e quali Comuni sono riusciti effettivamente a recapitare alle famiglie le mascherine ricevute dalla Regione. Ma già si sa che la distribuzione non è completa. Per questo oggi stesso il governatore potrebbe decidere di rinviare l’entrata in vigore dell’obbligo di almeno altri quattro giorni. A parte piccoli paesini e medie città, tra i capoluoghi di provincia solo Arezzo ha consegnato a tutte le famiglie le mascherine monouso. Sempre oggi potrebbero riuscire a completare la distribuzione anche i Comuni di Livorno e di Lucca. Ma mancano ancora città grandi come Firenze (l’ordinanza dovrebbe entrare in vigore il 18) o anche Pisa, dove si prevede la conclusione della consegna dei dispositivi di protezione entro giovedì.

La Toscana, con la Lombardia, è stata una delle prime a decidere per l’obbligatorietà delle mascherine. L’ordinanza del governatore Rossi del 6 aprile sarebbe diventata valida “per ciascun comune a decorrere dalla data in cui avrà provveduto al completamento della distribuzione delle mascherine”, anche se poi si specificava che l’obbligo sarebbe partito “a decorrere dal settimo giorno successivo alla data di adozione dell’ordinanza”.

In realtà si tratta di un termine perentorio e non obbligatorio: oggi infatti l’obbligo non sarà in vigore in tutta la Toscana, dove la Regione ha quindi distribuito oltre otto milioni e mezzo di mascherine ai diversi Comuni.

C’è poi la Lombardia: la Regione guidata da Attilio Fontana, stando ai dati pubblicati sul sito, ha distribuito 3,3 milioni di mascherine (su dieci milioni di abitanti). Non oltre 120 mila sono quelle arrivate alla città di Milano, che di abitanti ne ha 1,3 milioni: queste sono state destinate a mille medici di famiglia (120 a testa) che a loro volta le daranno ai pazienti.

L’ordinanza di Fontana però è diversa da quella toscana. Perché in Lombardia si è stabilito che la mascherina è sì obbligatoria, ma in alternativa i cittadini possono ricorrere a “qualunque altro indumento a copertura di naso e bocca”. Insomma vanno bene anche foulard e sciarpe.

Sulla stessa linea il governatore del Veneto Luca Zaia. Ieri ha annunciato: “Per gli spostamenti da casa propria devono essere utilizzati mascherine, o qualsiasi altro dispositivo idoneo per la protezione di naso e bocca, i guanti o gel igienizzanti”.

I casi di Lombardia e Toscana però insegnano, seppur per motivi diversi tra loro, quanto il reperimento dei dispositivi di protezione resti complicato per i singoli cittadini e per le amministrazioni pubbliche, che poi trovano altrettante difficoltà nella distribuzione.

In Corea del Sud trovati 91 pazienti ritornati positivi

I pazienti guariti dal coronavirus potrebbero tornare positivi e riammalarsi. Lo ha dichiarato il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc) di Seoul, Corea: due settimane dopo essere stati dichiarati guariti, 91 pazienti sono tornati a essere positivi al tampone. Un caso c’è anche in Italia: una paziente dimessa dall’ospedale Sacro Cuore di Negrar di Verona perché guarita dal Covid e negativa al virus, è tornata a essere positiva al tampone ed è stata nuovamente ricoverata.

Secondo l’Oms, un paziente è guarito se non ha più sintomi da Covid e se risulta negativo a due tamponi, uno a distanza di 24 ore dall’altro. Dopodiché, il paziente resta altre due settimane in quarantena. Al termine delle quali, in Corea – ma non in Italia, e qui sta il problema – viene effettuato un terzo tampone di controllo. Anche a Wuhan, questa prassi ha permesso di scoprire che tra il 5% e 10% dei pazienti dimessi dagli ospedali perché guariti, sono risultati di nuovo positivi. Alcuni di loro si sarebbero riammalati e sarebbero deceduti. Ma lo studio scientifico coreano su 91 pazienti è ancora in corso. Anche se “le segnalazioni di pazienti guariti che tornano positivi sono sempre più frequenti,” dice al Fatto Massimo Andreoni, presidente della Società italiana di malattie infettive. “Sebbene non ci sia ancora chiarezza, è un campanello d’allarme”. Ad oggi, in Italia sono 34.211 i guariti da Covid. Ma non sono stati sottoposti a ulteriori tamponi di controllo dopo la quarantena. Quanti di loro sono tornati al lavoro, nei settori ancora produttivi? “Serve una sorveglianza più attenta”, aggiunge Andreoni. Non basta che un paziente guarito venga sottoposto al solo controllo clinico al termine della quarantena, come avviene ora. “Bisogna prevedere ulteriori tamponi di controllo”, conclude Andreoni per escludere che i guariti non siano contagiosi.

La Corea ha rilevato le potenziali recidive grazie al più ampio programma di tamponi del mondo. Non a caso, include anche il monitoraggio virologico dei guariti.

In Italia, alla disomogeneità dei programmi di tamponi delle Regioni, si aggiunge ora il pericolo dei pazienti guariti che potrebbero ritenersi immunizzati senza esserlo: nessuno li ha sottoposti a un terzo tampone di controllo. Se lo studio coreano confermasse che quei 91 casi non siano frutto di errore dei test, allora in Italia i guariti potrebbero rappresentare un’incontrollabile fonte di contagio. E non una delle categorie a cui conferire il lasciapassare per la fase due. Ma secondo Jeong Eun-Kyeong, direttore del Cdc coreano, i pazienti non si sarebbero reinfettati. Si tratterebbe di riattivazione del virus contratto la prima volta. Quei pazienti sarebbero, cioè, dei falsi negativi: a guarigione avvenuta, la carica virale si potrebbe essere ridotta grazie all’azione di contrasto dei cosiddetti anticorpi IgG, ritenuti in grado di neutralizzare il virus. Ma non sarebbe sparita del tutto. E sarebbe, a un certo punto, tornata a crescere. “Potrebbe voler dire che il Sars-Cov2, come altri coronavirus, non garantisce la possibilità di un’immunità protettiva a lungo termine” spiega al Fatto Maria Rita Gismondo, virologa al’ospedale Sacco di Milano. La carica virale si potrebbe ridurre temporaneamente grazie agli anticorpi IgG. I quali, contrariamente a quanto finora ipotizzato, potrebbero perdurare poco tempo nell’organismo. Quando si esauriscono, il virus tornerebbe a proliferare. “Questo metterebbe in discussione anche i test di screening immunologico basati sulla rilevazione delle IgG, di cui tanto si parla”. Quelli che il governatore del Veneto Luca Zaia vorrebbe usare per conferire una patente di immunità, come lasciapassare per la libera circolazione dei guariti. Ma se fosse confermato che gli anticorpi protettivi non permangono a lungo, i test immunologico, da soli, non certificherebbero l’assenza di contagiosità.

C’è anche uno scenario peggiore: “Se i risultati dello studio coreano ci dicessero che quei 91 casi non sono dei falsi negativi, ma che si sono invece infettati una seconda volta, questo ci farebbe preoccupare ancora di più”, conclude la Gismondo. Per capirlo, si dovrebbero intanto mettere a punto tamponi in grado di catturare quantità di virus molto piccole, controllare i pazienti già guariti con tampone a intervalli regolari di tempo, e non procedere con le “patenti di immunità”, almeno fino alla pubblicazione dei risultati dello studio coreano.

“Il vaccino Pomezia-Oxford sarà pronto per settembre”

Pomezia chiama e Oxford risponde. “A fine mese sarà possibile partire con la sperimentazione sull’uomo del vaccino elaborato in Italia dalla Advent-Irbm insieme col Jenner Institute della Oxford University”. Ad annunciarlo ieri è Piero Di Lorenzo, presidente della Irbm, azienda che si occupa di ricerca per nuovi farmaci, già nota per il vaccino contro Ebola. E Gianni Rezza dell’Istituto superiore di sanità definisce lo studio “promettente”.

Sul sito web della Irbm è facile trovare foto e video di Piero Di Lorenzo nella sede di Pomezia con l’allora premier Matteo Renzi (marzo 2016) o con il governatore del Lazio Nicola Zingaretti (gennaio 2017) o più recentemente a Palazzo Chigi con l’attuale premier Giuseppe Conte (febbraio 2020). Ma l’accelerazione al progetto arriva da Londra, perché le autorità del Regno Unito, ora travolto dalla pandemia col primo ministro Boris Johnson dimesso da appena tre giorni dopo esser finito in terapia intensiva, hanno deciso di accorciare i tempi necessari alla sperimentazione. Tanto da partire, appunto già a fine aprile in Inghilterra, dove si stanno completando le procedure di scelta delle 550 persone sane a cui il vaccino verrà somministrato. E se tutto filerà liscio sarà possibile nel Regno Unito “rendere utilizzabile il vaccino già a settembre con le dosi sufficienti per categorie a rischio, personale sanitario e forze dell’ordine in modalità di uso compassionevole, non su larga scala”, afferma Di Lorenzo.

L’uso compassionevole di un farmaco “è previsto – si legge sul sito del ministero della Salute italiano – al di fuori della sperimentazione stessa, in pazienti affetti da malattie gravi o rare o che si trovino in pericolo di vita, quando, a giudizio del medico, non vi siano ulteriori valide alternative terapeutiche”. Il successo dell’operazione, spiega Matteo Liguori, managing director dell’Irbm, “è valutato all’80 per cento, che per la realizzazione di questo tipo di vaccini nell’attuale fase è molto incoraggiante”. L’alta probabilità di efficacia del vaccino è stata annunciata al Times da Sarah Gilbert, vaccinologa del Jenner Institute. E sono due le donne alla guida delle squadre di ricercatori impegnate su questo vaccino: Sarah Gilbert a Oxford, appunto, e Stefania Di Marco a Pomezia, che spiega: “Il vaccino si basa su un adenovirus che viene modificato e reso innocuo. All’interno di questo adenovirus viene inserito un pezzo di Dna che corrisponde alla proteina di superficie del coronavirus Sars-Cov2. Quindi non lavoriamo con il virus ma con un pezzo di Dna sintetico che viene reso innocuo e che funziona come molecola contenitrice”.

Rispetto ai costi, racconta Liguori, “sono in corso discussioni con un pool di investitori privati internazionali e con diverse realtà istituzionali non solo europee tra cui il governo italiano”. E riguardo all’Italia “molto dipenderà dall’approvazione dell’Agenzia del farmaco e dai passi che, appunto, deciderà di fare il governo”, aggiunge Liguori, con la speranza di poter allineare i tempi a quelli inglesi. Il mondo rimane col fiato sospeso e alla fine poco importa se a sconfiggere Covid sarà il farmaco italo-inglese, quelli delle società americane Moderna e Inovio o della cinese CanSino, che hanno già cominciato i test sull’uomo, dagli israeliani o dall’Università di Pittsburgh col professore barese Andrea Gambotto impegnato nella realizzazione del vaccino-cerotto a basso costo.

L’azienda vuole il test nazionale e paga il San Matteo che lo valida

“Non lo sapevo”. Il direttore generale della prevenzione del ministero della Salute, Claudio D’Amario, membro del Comitato scientifico ministeriale sul Coronavirus, è sorpreso quando gli comunichiamo che il Policlinico San Matteo ha firmato il 20 marzo un accordo con la Diasorin Spa. Prevede la valutazione, sotto la supervisione del virologo Fausto Baldanti, di due test per il coronavirus (un tampone e uno sul sangue) in cambio di royalties sul solo test del sangue, quando sarà venduto. Anche il professor Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore della Sanità, è sorpreso quando il Fatto gli rivela l’accordo: “No, il professor Baldanti non mi aveva mai informato di queste royalties per la Fondazione. Sarebbe stato opportuno condividere questa informazione”.

La ricerca pubblica, come è noto, si nutre anche di finanziamenti privati però la questione di opportunità e trasparenza rilevata anche da Locatelli e D’Amario si pone. C’è un potenziale conflitto d’interessi del professore che a Roma e Milano fa parte dei gruppi di lavoro di Stato e Regione sui test. Il fatto è che proprio la tecnologia Diasorin sui test sierologici (dopo essere stata promossa dal San Matteo) sembra essere in pole positionper diventare la piattaforma scelta dal Governo come test nazionale per accertare quanti italiani hanno avuto il coronavirus e quanti possono tornare al lavoro. Un passaggio cruciale per la ripartenza del paese.

Fausto Baldanti, virologo di grande fama, è membro del gruppo di lavoro sul coronavirus del Consiglio Superiore Sanità a Roma presieduto da Locatelli, e del gruppo di lavoro per la sperimentazione in Regione Lombardia sui test di entrambi i tipi, tampone e sangue. Avrebbe dovuto comunicare le royalties del suo Policlinico a D’Amario? Quest’ultimo tronca così: “O astenersi. Non in generale su tutto ma su una cosa specifica. Se io sto in una fondazione e mi si pone un quesito che riguarda la mia fondazione, mi astengo. Comunque dell’accordo sulle royaltiesnon sapevo nulla”.

Era noto che la multinazionale piemontese Diasorin (fondata e controllata da Gustavo Denegri) avesse sviluppato una tecnologia con il San Matteo per tracciare gli anticorpi immunizzanti del coronavirus nel sangue. Dopo l’annuncio della società (“DiaSorin ha completato presso il Policlinico San Matteo di Pavia gli studi necessari al lancio di un nuovo test sierologico”) in quattro sedute di Borsa il valore totale della società è aumentato di circa 800 milioni di capitalizzazione fino a 7 miliardi e 460 milioni, due terzi del valore di Fiat-Chrysler.

La terza notizia, finora sconosciuta a tutti è che, 20 giorni prima del lancio mediatico, il San Matteo ha siglato un contratto con Diasorin. L’accordo è stato firmato il 20 marzo dal manager Diasorin Fabrizio Bonelli e dal direttore generale del San Matteo Carlo Nicora e, per conoscenza, dal responsabile scientifico dello studio: il professor Fausto Baldanti.

Le royalties riguardano solo lo studio sui test sierologici, ma “l’accordo quadro” riguarda anche “sviluppo e valutazione del test molecolare”, cioè il tampone rapido Symplexa già in commercio. Le royalties dell’1 per cento sono calcolate sul prezzo netto praticato al cliente finale, eseguita da DiaSorin o dalle sue affiliate, “a partire dalla data della prima vendita verso corrispettivo del kit sierologico messo a punto a seguito dell’accordo” e “per i successivi 10 anni” con “un minimo di euro 20 mila l’anno”. Diasorin si è impegnata a pagare “50 mila euro per le valutazioni previste nell’accordo”, 25 già pagate per lo studio fatto sul tampone e 25 mila da pagare al termine dello studio del test sierologico. Più altri 5mila per “il trasferimento dei materiali” cioé il siero dei pazienti.

A Sky Tg24 Baldanti ha promosso il prodotto della Diasorin sotto gli occhi del manager dell’azienda Bonelli, collegato anche lui, così: “Un test su larga scala è fondamentale per sapere quante persone possono ritenersi protette da un nuovo incontro con il virus e quindi immuni. Questa patente non può basarsi su tutti gli anticorpi, ma solo su questi che sono in grado di uccidere il virus”.

Per il professore “bisognava sviluppare una tecnologia che servisse veramente a tutta l’Italia per adottare le strategie migliori di protezione dei cittadini e avevamo bisogno di qualcosa che ci misurasse quanto di buono c’è in questo plasma. Ce l’abbiamo”. Su tutto questo venerdì si è espresso anche Locatelli durante la consueta conferenza stampa delle 18. Dopo aver tessuto le lodi del professor Baldanti Locatelli ha però specificato: “Sarà fatta una valutazione comparativa per scegliere nel modo più trasparente, obiettivo, rigoroso possibile la migliore piattaforma”.

Baldanti, al Fatto, che gli ricorda la sua partecipazione ai gruppi di lavoro a Roma e Milano e anche uno studio pubblicato il 31 marzo nel quale valuta un kit di un’altra società “inadeguato” per la diagnosi dei pazienti acuti, replica con gentilezza: “Non prendo un euro dalla Diasorin. Le royalties andranno al San Matteo che è un soggetto pubblico: pagheremo gli specializzandi di biologia. Sono stato l’ideatore di quella tecnologia, è ovvio che ci creda molto e lo dica in tv”. Perché non dire delle royalties allora? “Non era certo quello il luogo giusto”. E la mancata comunicazione al ministero? “Io ho comunicato che il San Matteo aveva rapporti con Diasorin ma non sono entrato nei dettagli economici. Mi hanno chiesto di partecipare al comitato al ministero e lo faccio con spirito di servizio ma non ho alcun ruolo decisionale. Anche in Regione coordino il gruppo di lavoro ma non valuto i prodotti di altre società proprio per evitare conflitti di interesse”.

Infine lo studio che bocciava il kit dell’altra società? “Era solo la risposta a un precedente studio cinese già pubblicato”.

Il presidente del Policlinico, Alessandro Venturi, “rivendica” le “royalties che sono il trasferimento dei risultati della ricerca all’istituto che l’ha generata, nulla di male”.

Diasorin precisa: “Il contratto è con un ente pubblico non una persona fisica: il Prof. Baldanti non riceve e non riceverà nessun beneficio economico”.