App: task force che fai, idea che trovi

C’è un’anima interventista per ogni task force per l’emergenza, dunque al momento sono molte le anime che – tra le altre cose – devono pensare a come dovranno essere tracciati i cittadini, i loro contatti e i contagiati una volta che si entrerà nella fase 2. C’è, ad esempio, la task force istituita al ministero dell’Innovazione che ha scelto ed elaborato una soluzione orientata alla privacy degli utenti, in linea con le indicazioni dell’Ue (che saranno completate domani). E poi c’è la task force guidata da Vittorio Colao che sembra vedere nella tecnologia e nella localizzazione spinta dei cittadini la soluzione. L’incognita, che dovrebbe essere sciolta questa settimana, è come possano convivere le due linee.

Sul tavolo del premier Conte, al momento, c’è una relazione elaborata dal gruppo di lavoro che in queste settimane ha analizzato le proposte per il contact tracing digitale arrivate al ministero di Paola Pisano e che indica le due soluzioni (una principale e una “di riserva”) migliori. Entrambe non prevedono la geolocalizzazione dell’utente ma solo la tracciabilità dell’eventuale “contatto” con un contagiato che sarà identificato con l’interazione dei segnali bluetooth degli smarphone. È l’orientamento della Gran Bretagna, che ha annunciato a Pasqua di star lavorando sulla sua applicazione, nonché quello di Germania e Francia che hanno aderito al progetto paneuropeo Pepp-pt (Pan-European Privacy Preserving Proximity Tracing Initiative) e a cui, in Italia, fanno capo sia la società della prima app selezionata (Bending Spoons) sia la Fondazione Isi di Torino, attiva nel campo della data science. Il fatto che il governo non abbia aderito ufficialmente al Pepp-pt è, appunto, riflesso di questa discordanza di anime.

Resta infatti il dubbio su come implementare il sistema: ciclicamente l’idea di dover tracciare col maggiore livello di dettaglio possibile torna a riproporsi a seconda che a prendere la parola siano rappresentanti di una o di un’altra filosofia di intervento. Si dovrà poi valutare se l’adozione resterà su base volontaria, come suggerito dal gruppo di lavoro del ministero dell’Innovazione (anche se per essere efficiente, l’app dovrebbe essere scaricata almeno dal 60% della popolazione) e se ci sarà un periodo di test su una porzione limitata per numero di persone e area geografica. Ma anche su cosa si baserà la campagna di comunicazione e come si integrerà con le altre misure e con una rete di intervento efficiente; quale sarà l’infrastruttura su cui poggerà, quali dati si raccoglieranno e dove saranno custoditi.

Nel frattempo, anche il resto del mondo sembra aver trovato la sua direzione, tanto che Apple e Google hanno avviato una partnership per fornire agli sviluppatori una soluzione unica per entrambi i sistemi operativi (Ios e Android) basata, anche in questo caso, sul Bluetooth. A sorpresa, invece, qualche giorno fa il direttore dei servizi digitali governativi di Singapore, a capo del primo sistema di tracciamento dei contatti Bluetooth riportato come esempio da tutti i media nel mondo, ha detto che nessuna app potrà mai sostituire il tracciamento umano, l’unico in grado di considerare tutte le variabili e quindi di aiutare a prendere decisioni più efficaci di quanto possa fare qualsiasi tracciamento digitale.

Ripartenze in ordine sparso. Ogni Regione fa di testa sua

Riaprono librerie, cartolerie e negozi di abbigliamento per bambini. “Un banco di prova, per controllare quanto movimento si genera”, nella definizione dell’epidemiologo dell’Università di Pisa Pier Luigi Lopalco. Ma non accade ovunque e con le stesse modalità. Anzi, in alcune Regioni le loro serrande resteranno abbassate. Perché anche nel seguire le indicazioni contenute nel Dpcm firmato il 10 aprile dal premier Giuseppe Conte i governatori confermano la tendenza ormai consolidata a procedere in ordine sparso.

Veneto e Liguria allentano le maglie

Luca Zaia, ad esempio, continua ad andare per la propria strada. Non appena si è capito che il “modello Vo’ Euganeo” per la tracciatura dei contagi ha funzionato, il presidente del Veneto si è spinto oltre annunciando il tampone diffuso. Ora il governo riapre alcune attività e lui fa ancora a modo suo. Il contenimento nella sua Regione sembra funzionare: passato dai+523 casi totali del 9 aprile ai+174 di ieri, Zaia ha rimosso il limite dei 200 metri da casa entro cui si poteva fare l’attività motoria (“è un atto di grande fiducia”, ha commentato, “non si può arrivare a 4-5 km, serve il buonsenso”), ma la distanza di sicurezza nelle file per entrare al supermercato passa da uno a 2 metri. Resta, inoltre, in vigore l’obbligo di entrare nei negozi con guanti e mascherina, e chi ha più di 37.5 di febbre non potrà scendere in strada. Le scampagnate del 25 aprile e del 1 maggio, poi, saranno possibili per il nucleo familiare ristretto e solo “nel giardino di casa”.

Anche la Liguria sceglie la strada di una cauta riapertura. In base al decreto di Protezione civile firmato ieri da Giovanni Toti, nella Regione – in cui resta stabile l’aumento di morti e contagi – i “piccoli cantieri edili” potranno ripartire, così come quelli navali. I giardinieri potranno riprendere il loro lavoro. I gestori di stabilimenti balneari e chioschi sono autorizzati a fare manutenzione e ripascimento delle spiagge, così come chi ha un orto o un frutteto potrà raggiungerlo per curarlo.

Lombardia e Campania, misure più stringenti

Anche la Lombardia si discosta ancora una volta dalla linea del governo, ma per motivi opposti. “Le nostre ordinanze sono sempre state più restrittive di quelle nazionali e hanno portato a una flessione del contagio”, ha detto ieri l’assessore al Welfare Giulio Gallera. Ma i bollettini pomeridiani non lasciano ancora intravedere la fine della tempesta. In 24 ore la Regione ha registrato altre 280 vittime, mentre l’aumento dei casi totali resta ben al di sopra delle mille unità: ieri sono stati 1.262. Già l’11 aprile il presidente Attilio Fontana aveva firmato un’ordinanza che prevede che fino al 3 maggio libri, penne e quaderni potranno essere acquistati solo al supermarket. Ma restano aperti i “negozi di articoli per neonati e bambini”. È confermato, poi, l’obbligo di coprire naso e bocca con mascherina o “qualunque altro indumento” per uscire di casa.

Librerie e cartolerie non riaprono neanche in Campania, che è solo la nona delle Regioni più colpite ma conta 248 morti e 3.670 casi totali. Poiché “risultano diffusi sul territorio nuovi e diversi cluster familiari e locali”, il giorno di Pasqua Vincenzo De Luca ha firmato un’ordinanza che dà un via libera limitato ai negozi di vestiti per bimbi, che potranno aprire solo il martedì e il venerdì, dalle 8 alle 14.Nonostante le pressanti richieste avanzate da pizzerie e pasticcerie, resta in vigore lo stop alla produzione e alla consegna del cibo da asporto. Per chi viola le norme sulle uscite da casa è confermata, oltre la multa, anche l’obbligo di quarantena domiciliare per due settimane.

Serrande abbassate per cartolai, librai e negozi per bimbi anche in Piemonte: 17.134 casi totali e 1.826 morti, la situazione della terza Regione più colpita dal morbo venuto da Wuhan continua a peggiorare. Il presidente Alberto Cirio ha prorogato fino al 3 maggio le restrizioni in vigore. In Trentino negozi per l’infanzia e librerie restano chiusi, ma potranno riprendere le attività produttive all’aperto e le attività nei cantieri, stradali ed edili a patto che sui luoghi di lavoro siano garantiti i termoscan e le mascherine.

Lazio, la terza via di Zingaretti

Nel Lazio le librerie potranno riaprire dal 20 aprile per dare tempo ai negozianti di trovare il modo per garantire la distanza minima tra le persone, reperire guanti monouso e favorire l’igienizzazione dei locali. Il 25 aprile e il 1º maggio, poi, gli esercizi resteranno chiusi.

L’indagato e i magistrati nell’unità di crisi contestata dai medici

Un’unità di crisi contestata dai medici. Una situazione che peggiora, al punto che il Piemonte potrebbe diventare la seconda regione più colpita d’Italia nonostante l’emergenza abbia varcato il Ticino dopo aver colpito Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Marche. Anche ieri i nuovi casi registrati sono aumentati più che nel resto d’Italia: ne hanno contati 473, il totale sale così a 17.134 (+474, +2.8%)

E poi c’è una situazione strana. Nell’Unità di crisi, come coordinatore sanitario è stato chiamato un dirigente Asl coinvolto in due indagini contro la pubblica amministrazione. Si chiama Flavio Boraso ed è il direttore generale dell’Asl Torino 3. Una prima inchiesta è per turbativa d’asta. Riguarda un maxi-appalto da 56 milioni di euro dell’Asl Torino 3 da lui diretta: la Althea Italia, azienda di apparecchiature biomedicali, aveva proposto all’azienda sanitaria l’innovativa formula del partenariato pubblico-privato per una serie di servizi. C’erano in ballo la fornitura di un sistema di archiviazione e gestione in rete delle immagini delle apparecchiature diagnostiche, ma anche il rifacimento del laboratorio di emodinamica dell’ospedale di Rivoli e della radiologia di Pinerolo. Boraso e il rappresentante legale della Althea, Antonio Marino, allora capo del comparto Sanità dell’Unione industriale di Torino, sono finiti indagati per turbativa d’asta. L’inchiesta è alle fasi finali. Boraso è poi coinvolto in un’inchiesta su un presunto concorso truccato

Accanto a Boraso, nell’ampia task force, l’amministrazione ha chiamato due magistrati: c’è Antonio Rinaudo, ex pm della Procura di Torino che ora coordina l’area giuridica dell’Unità di crisi, e il sostituto procuratore generale Marcello Tatangelo, componente del comitato tecnico-scientifico guidato da Roberto Testi, direttore della Medicina Legale dell’Asl Città di Torino e spesso consulente della Procura. Insomma, un indagato dalla Procura di Torino si trova a lavorare accanto a persone che hanno avuto o hanno a che fare con gli investigatori torinesi. Ma in città non vola una mosca. E chissà cosa accadrà se l’operato dell’Unità di crisi finisse un giorno, per qualche motivo, sotto la lente dei colleghi magistrati della Procura.

Ieri il consigliere regionale Pd Mauro Salizzoni, ex direttore del centro di trapianti di fegato dell’ospedale Molinette del capoluogo, è tornato all’attacco: “Si vuole negare l’esistenza di un caso Piemonte. Eppure se dopo la Lombardia, la nostra Regione sta pagando il prezzo più alto in termini di decessi, non credo sia causa del destino cinico e baro”, ha detto all’Ansa. Obiettivo delle sue dichiarazioni non erano i componenti della task force, ma la politica: “L’Unità di crisi sta facendo il suo, le Asl pure. Gli ospedali stanno reggendo grazie a sanitari che fanno miracoli in strutture in molti casi decrepite. Quello che manca è l’assessorato alla Sanità”, in mano al leghista Luigi Genesio Icardi: “Nell’analisi comparativa elaborata dall’Università Cattolica – ha detto ancora Salizzoni – emerge con chiarezza, dati alla mano, come il Piemonte non abbia tenuto il passo non solo del Veneto, ma neppure di altre Regioni di Nord e Centro Nord. Indietro sul numero di tamponi, indietro su mascherine e dispositivi di protezione individuale, indietro sull’attivazione delle Usca”, le Unità speciali di continuità assistenziale.

Fa riferimento all’analisi dell’Alta scuola di management dei sistemi sanitari dell’Università Cattolica, secondo la quale il Piemonte segue molte regioni sia per numero di tamponi eseguiti in rapporto alla popolazione, sia per l’incremento di posti letto in terapia intensiva al punto che il tasso di saturazione è di poco inferiore a quello della vicina Lombardia, con cui condivide un altro tasso simile: quello di contagiati che si rivolgono al pronto soccorso.

“È la solita polemica politica – replica Icardi –. Oggi i laboratori per i tamponi sono diventati diciotto (dei due iniziali, ndr), i posti in terapia intensiva più che raddoppiati e quelli in terapia sub-intensiva triplicati”. Molti giudizi negativi sulla gestione erano arrivati dai medici, ragione per cui sabato pomeriggio la task force ha voluto rispondere: “Sono arrivate critiche dai colleghi, quei medici dai quali non mi aspettavo critiche fatte senza essere sul campo – ha detto Testi –. Ci siamo sentiti un po’ colpiti alle spalle in battaglia”. La replica dell’Anaao, dirigenti medici: “Noi non diamo la colpa a quelli che erano sul campo. Diamo la colpa a voi che dovevate dirigere da dietro una scrivania. Che dovevate dare i camici idrorepellenti e le protezioni agli operatori sanitari ed i caschi Cpap (respiratori, ndr) ai pazienti. Che dovevate sorvegliare le Rsa invece che trasformarle in obitori. In battaglia ci vanno da sempre solo i soldati, non i generali. Noi siamo stati colpiti alle spalle, ancora una volta.”. Per l’ex pm Rinaudo le critiche sono “fondate sulla sabbia”.

L’ospedale nel deserto alla Fiera di Milano: tanto rumore per nulla

Al momento sono una dozzina gli ospiti della grande struttura di terapia intensiva che Regione Lombardia ha voluto costruire alla Fiera di Milano affidandone la gestione al Policlinico. Ora però che, a parità di ricoveri ospedalieri da Covid-19, la pressione sulle terapie intensive, peraltro raddoppiate da inizio marzo, diminuisce (circa 200 pazienti da lunedì 6 aprile a ieri) è lecito farsi qualche domanda sul mega-investimento fatto da Attilio Fontana e soci: funziona o è l’ennesima cattedrale nel deserto? Il dubbio, come vedremo, è più che lecito.

I numeri. Ad oggi, come detto, sono una dozzina i pazienti assistiti in Fiera da una cinquantina di persone che turnano su 24 ore: impossibile far crescere i ricoverati senza aumentare decisamente il personale, che però scarseggia in tutta Italia e in particolare al Nord. Le mille figure professionali necessarie (tra cui 200 medici e 500 infermieri) secondo la Regione sono ad oggi solo un desiderio: per coprire i turni, dicono fonti interne, ad oggi qualche infermiere viene addirittura spostato dal Policlinico in una sorta di gioco a somma zero. Se l’andazzo fosse questo, Fiera aggiungerebbe pochissimi letti alle terapie intensive lombarde e il resto sarebbe solo una partita di giro tra posti già esistenti.

I letti. Dovevano essere 600, ora l’obiettivo è 205, anche se ormai è chiaro a tutti – anche in Fiera – che a quella cifra non ci si arriverà: al momento sono stati completati 53 posti letto; un secondo lotto da 104 posti è in via di costruzione è sarà pronto se va bene tra una o due settimane; gli ultimi 48 posti letto nel Padiglione 2 – dicono fonti qualificate – semplicemente non verranno mai costruiti. Insomma, 157 posti a fine aprile per la maggior parte dei quali manca personale.

I trasferimenti. L’idea è fare di Fiera l’hub regionale per i malati Covid-19, svuotando gli ospedali ordinari (ma la convenzione su cui lavora la struttura è di sei mesi per ora). Ad oggi ci sono almeno un paio di grossi problemi: 1) le ambulanze hanno meno di tre ore di autonomia di ossigeno e arrivare in Fiera in tempo, ad esempio, da Sondrio o Mantova è molto difficile (si parlava di un eliporto, ma non è alle viste); 2) spostare i malati intubati vuol dire esporli a rischi enormi, una cosa che ovviamente nessuno vuole fare se non è costretto.

L’isolamento. Ha scritto su Facebook il 6 aprile, giorno dell’inaugurazione, il cardiologo Giuseppe Bruschi, dirigente medico di I livello del Niguarda: “L’idea di realizzare una terapia intensiva in Fiera non sta né in cielo né in terra… Una terapia intensiva non può vivere separata da tutto il resto dell’ospedale. Una terapia intensiva funziona solo se integrata con tutte le altre Strutture Complesse che costituiscono la fitta ragnatela di un ospedale”. In sostanza, quel tipo di pazienti tendono ad avere anche altri problemi e c’è bisogno “non solo di infermieri e rianimatori, ma degli infettivologi, dei neurologici, dei cardiologi, dei nefrologi e perfino dei chirurghi….”: in ospedale ci sono, in Fiera no.

L’alternativa. Ancora Bruschi: “Perché costruire un corpo a se stante, quando si sarebbe potuto potenziare l’esistente? Sarebbe stato più logico spendere le energie e le donazioni raccolte per ristrutturare o riportare in vita alcuni dei tanti padiglioni ‘abbandonati’ degli ospedali lombardi (Niguarda, Sacco, Varese…). Si sarebbe investito nel sistema in essere e quanto creato sarebbe rimasto in dotazione alla Sanità Lombarda”. Un sindacalista dei Cobas a metà marzo aveva sostenuto che l’ex Ospedale Civile di Legnano “ha tutte le potenzialità per accogliere velocemente nuovi pazienti”. L’assessore al Welfare, Giulio Gallera, rispose il 18 marzo con un parere chiesto agli uffici tecnici il giorno prima: “Ci vorrebbero sei mesi”. In realtà il parere si riferisce al rifacimento dell’intero monoblocco, cosa ovviamente non necessaria.

Il costo. Fiera di Milano ha creato una Fondazione molto snella (3 membri tra cui il presidente di Fiera Enrico Pazzali) per poter usare le cospicue donazioni arrivate: 21,3 milioni. Quanti soldi sono stati spesi per la nuova struttura, però, non si sa: c’è chi sostiene che il costo sia più vicino ai 50 milioni che ai 20.

Bergamo. Un paragone utile. Una struttura molto simile, quella alla Fiera di Bergamo (peraltro più vicina agli ospedali della zona), è stata creata in meno tempo con l’obiettivo di avere 72 posti in terapia intensiva e 70 in sub-intensiva: ha già 50 posti operativi e oltre venti pazienti seguiti da medici russi, norvegesi, di Emergency e degli alpini; al momento mancano circa 50 infermieri su un fabbisogno indicato in 130; il costo è stato assai inferiore a quello di Milano. Il 18 marzo la Regione tentò di bloccarlo: “Manca il personale per gestirlo: è inutile creare una cattedrale nel deserto”. Appunto.

Ancora troppi morti: 566. E la Lombardia arranca

Al giorno di Pasqua in cui i morti erano scesi per la prima volta a 430, tornando ai dati di metà marzo prima del picco, è seguito un Lunedì dell’Angelo con 566 decessi. Così superiamo un’altra soglia psicologica e siamo a 20.465 vittime in Italia dall’inizio dell’epidemia. Ieri 280 solo in Lombardia contro i 110 di domenica: totale 10.901. I numeri della regione più colpita restano allarmanti anche per i nuovi casi: 1.262 in un giorno, totale 60.314, l’aumento è del 2,1 per cento e quindi superiore al dato nazionale. L’attenzione è alta soprattutto a Milano, che come provincia registra 481 casi in più (412 domenica) e 296 (contro i 193 di domenica) in città. Dati “non molto soddisfacenti”, ha detto l’assessore regionale Giulio Gallera, ricordando che sui social c’è tensione e chiamando in causa forze dell’ordine e polizia locale. Sono aumentati anche i ricoverati in regione: 59 in più per un totale di 12.028, ma continuano a scendere i pazienti in terapia intensiva: 33 in meno per 1.143 totali.

In Lombardia come altrove la discesa è molto lenta a partire da un picco senz’altro più alto di quanto indicato dalla Protezione civile per la presenza, rilevata dall’Istat, di migliaia di morti in eccesso, tanto sulle medie del periodo quanto sui numeri attribuiti al Covid-19. Su base settimanale si capisce meglio. In Italia negli ultimi sette giorni abbiamo avuto una media di 563 morti al giorno, contro gli 813 tra il 31 marzo e il 6 aprile. Lo stesso vale per i nuovi casi di positività, sui quali ieri il professor Gianni Rezza dell’Istituto superiore di sanità ha ricordato che “possono essere registrati anche contagi di 10 giorni fa, quindi non sono nuovi contagi”, a ulteriore conferma dell’estrema imprecisione dei dati. Ieri ne hanno conteggiati 3.153 in più su domenica, totale 159.516: l’aumento è del 2,02%, in percentuale è il più basso dall’inizio dell’epidemia, però bisogna tener conto del numero non elevato di tamponi registrati, 36 mila contro una media attorno ai 50 mila negli ultimi giorni. Però su base settimanale siamo passati da 4.465 nuovi casi (31 marzo-6 aprile) a 3.852 negli ultimi sette giorni. I ricoverati tornano ad aumentare in tutta Italia dopo sei giorni di diminuzione (+176, 28.023 totali), calano ormai da dieci giorni i posti occupati in terapia intensiva (-83, 3.260 totali).

Commissariateli

Sarebbe bello uscirne tutti insieme, ma più passano i giorni e più si comprende che sarà impossibile: non uscirne, ma farlo tutti contemporaneamente. È sempre più difficile convincere un cittadino del Molise o del Veneto che deve restare ai domiciliari chissà fino a quando perché in Lombardia e in Piemonte i contagi e i morti, anziché scendere, salgono. O meglio, si potrebbe convincerlo se, dopo i disastri fatti nei primi due mesi, le giunte lombarda e piemontese mostrassero uno straccio di strategia per aggredire il virus. Invece continuano a subirlo, inerti e in balia degli eventi, senza un orizzonte né una linea d’azione chiara. Passano il tempo a chiacchierare, a lodarsi, imbrodarsi e scaricare barile su “Roma”.

Esemplare l’assessore forzista lombardo Mattinzoli che, mentre le destre accusano Conte di rompere l’unità nazionale, lo insulta dandogli del “pezzo di merda”, minacciandolo di “riempirlo di botte”: ed è ancora al suo posto. Indimenticabile l’assessore forzista Gallera, così garrulo fino all’altroieri malgrado il record mondiale di morti nella sua regione, e ora silente dopo la scoperta dello scandalo di Alzano (i suoi fedelissimi che vietano la chiusura dell’ospedale dopo i primi focolai) e dell’ordinanza che riversa nelle Rsa i malati Covid dimessi dagli ospedali, ma ancora infetti. Leggendario lo sgovernatore leghista Fontana, che accusa il governo di negare la cassa integrazione a 1 milione di lombardi senz’averla mai chiesta. Poi si dice stupito perché “ero convinto che la curva rallentasse più velocemente”, ma fa poco o nulla per frenarla: scarsa mappatura dei contagi, nessuna campagna aggressiva di tamponi, niente sorveglianza attiva sui contagiati, nessun piano di test sierologici, ignorata la medicina territoriale, isolamento tutto da dimostrare nelle Rsa fra reparti con sani e con malati Covid. Nulla di ciò che fa il Veneto di Zaia, leghista anche lui, ma con la testa sul collo. Solo chiacchiere e propaganda, incluso il Bertolaso Hospital che doveva creare alla Fiera “600 posti letto” e, a due settimane dall’inaugurazione e a una dall’apertura, ospita 10-12 malati con 50 medici e infermieri rubati agli ospedali pubblici. Per questo gli Ordini dei medici di tutta la Lombardia hanno lanciato un j’accuse che fa a pezzi la politica sanitaria per il passato remoto, per il passato prossimo e per il presente. E denunce simili fanno, anche in sede penale, i medici piemontesi contro le analoghe politiche (su Rsa e zero strategie) della giunta gemella del forzista Cirio, con un comitato di crisi (vedi pag. 2) che definire imbarazzante è un eufemismo.

Provate per un attimo a immaginare se la Lombardia e il Piemonte, o Milano e Bergamo, maglie nere dell’emergenza Coronavirus in Italia, fossero governate non dai “competenti” di destra&Pd, ma da “incompetenti” dei 5Stelle, tipo Appendino e Raggi. In tv e sui giornali non si parlerebbe d’altro e tutti invocherebbero le dimissioni delle due grilline, fino alla loro impiccagione sulla Mole Antonelliana e sulla Madunina. Invece non solo nessuno chiede la testa di Fontana, Cirio, Gallera, Mattinzoli, Sala, Gori e di tutta la fallimentare classe politica lombardo-piemontese. Ma i giornaloni continuano a menarla con l’“incompetenza” dei 5Stelle, che almeno stavolta non c’entrano. Su Repubblica, Francesco Merlo arriva a sostenere che la task force nominata dal premier, con “Vittorio Colao, 17 manager e professori, prima del Covid sarebbe stata derisa e calunniata dagli asini saputi che, cacciando i competenti dalla politica e dalle professioni, hanno instaurato la Cretinocrazia”: primi della lista “Grillo e Casaleggio” (che ospitano da sempre sul blog e ai V-Day premi Nobel come Stiglitz e Krugman, scienziati, esperti di nuove tecnologie ecc.).

E così, mentre tutti parlano d’altro per fare propaganda e/o non doversi smentire, si perdono di vista due Regioni totalmente fuori controllo che, non certo per colpa dei cittadini, rischiano di prolungare il lockdown di tutt’Italia anche dopo il 4 maggio. È vero, il virus nei primi giorni è stato sottovalutato in tutto il mondo. Ma sono trascorsi quasi due mesi e non si può più accettare che Fontana si trinceri ancora dietro “il virus particolarmente violento in Lombardia”, perché la sua violenza è stata direttamente proporzionale a vari fattori, in primis gli errori dei vertici sanitari della sua Regione: all’inizio (sull’ospedale di Alzano e la mancata zona rossa in Bassa Val Seriana), in seguito (con le Rsa e la rincorsa all’ospedalizzazione selvaggia) e oggi (zero strategie per aggredire l’emergenza). Né si può lasciare il Piemonte in balìa di una giunta di inetti che si ispirano all’unico modello da non seguire: quello lombardo. Non lo diciamo noi: lo dicono i medici, con denunce documentate a cui nessuno ha neppure tentato di replicare (se non col decisivo argomento che gli Ordini dei medici sono “al servizio del Pd”). La politica non c’entra nulla: c’entra la pelle dei lombardi e dei piemontesi e anche la sorte di un intero Paese ancora bloccato per i numeri spaventosi di quelle due regioni. Il governo, se può, pensi seriamente a commissariare le due Regioni, o almeno le loro Sanità allo sbando. Per il bene di tutti.

“Hey Jude”, la canzone della discordia ora vale (quasi) un milione di dollari

Stava andando tutto in pezzi. L’arte, gli amori, il mondo intero. I Beatles erano appena tornati dall’India, con la certezza che il Maharishi fosse un furbo di tre cotte e non un Maestro.

Sull’aereo che li riportava a Londra, John informò la moglie Cynthia che fosse il tempo di separarsi. Si era innamorato di quella stravagante artista giapponese, Yoko, che ogni giorno gli scriveva lettere con frasi cariche di suggestione. Tipo: “Quando vedi una nuvola in cielo pensami”. Anche Paul navigava tra le acque insidiose della crisi con Jane Asher, e il suo umore non era dei migliori. C’era poi da trovare la quadra per il disco che avrebbe dovuto tenere botta con quel capolavoro psichedelico di Sgt. Pepper’s e la svalvolata colonna sonora del Magical Mystery Tour. Ma i lavori per il White Album procedevano tra mille tensioni, manie di protagonismo e la percezione, via via più concreta, che i Fab Four fossero quattro galli in un pollaio, e non una band coesa.

Intanto trascorrevano i giorni tumultuosi del maggio 1968, l’Occidente in fiamme, gli studenti in rivolta. A giugno, McCartney si decise per una visita a sorpresa a Kenwood, nel Sussex, per consolare Cynthia Lennon e il piccolo Julian, che aveva appena cinque anni. Paul era affezionato al figlioletto di John, ci giocava spesso. Non sopportava che soffrisse per lo strappo dal genitore. Così, in auto sulla via del ritorno, immaginò una specie di filastrocca consolatoria. Il titolo provvisorio era Hey Jules, ma ci sarebbero stati inciampi nella pronuncia, così il bassista ripiegò su Hey Jude. Fece tappa in un remoto villaggio del Bedfordshire, entrò in un pub e la suonò di fronte a quegli increduli beoni, tra boccali vuoti e giri di pinte per raccontarla meglio. Quando Paul la fece sentire agli altri tre Beatles, John fraintese: pensava che l’avesse scritta per lui, non per il frugoletto. Era convinto che quel brano così enfatico e ispirato fosse una sorta di “benedizione di McCartney per la mia storia con Yoko”, disse molto tempo dopo. In ogni caso, sentenziò che fosse la miglior cosa mai scritta dal collega-rivale.

Ma dopo mille consultazioni interne, fu deciso che Hey Jude non dovesse trovar posto nel doppio White album, bensì nel primo singolo della loro etichetta Apple. L’altro pezzo sarebbe stato Revolution: Lennon avrebbe voluto fosse il lato A, ma la sua opinione restò minoritaria. I 7 minuti e 11 secondi di Hey Jude, con quell’interminabile coda intonata da tutti (meno uno) gli orchestrali ingaggiati per la registrazione, smantellarono i recinti del pop radiofonico e conquistarono le classifiche. C’era stato spazio anche per uno spiacevole incidente, quando Paul e una sua amica decisero di fare pubblicità al 45 giri scrivendo con la vernice Hey Jude/Revolution sulla vetrina della Apple Boutique, all’incrocio fra Baker e Paddington Street. Qualcuno pensò a un commento antisemita e prese a sassate il cristallo.

Julian Lennon seppe solo nel 1987 che la canzone fosse dedicata a lui. Glielo raccontò Paul in un hotel di New York. Eppure i due erano rimasti in contatto: “A ogni Natale e ogni compleanno McCartney mi spedisce una cartolina di auguri”, commentò Julian, che considerava Hey Jude un “cimelio di famiglia”. E fu proprio lui, nascosto sotto l’anonimato, ad acquistare il manoscritto del testo ad un’asta, nel 1996, per 25 mila sterline. Lo stesso foglio è stato rivenduto nelle scorse ore, tra altri reperti da collezionisti, per celebrare il cinquantesimo anniversario dello scioglimento dei Beatles. La californiana Julien’s Auctions ha battuto all’incanto per 910 mila dollari quei versi di speranza vergati dalla mano di Paul. Per un inno senza tempo. Mentre, di nuovo, il mondo va in frantumi.

Oltre il “Giardino”, Bassani scovò l’inedito Gattopardo

Domani saranno vent’anni dalla morte di Giorgio Bassani, uno degli autori del secondo Novecento che resiste alla falce del tempo. Certo, grazie alle letture scolastiche (l’analisi del suo testo più celebre, Il giardino dei Finzi-Contini, è stata una traccia della maturità appena due anni fa), ma soprattutto per il valore etico delle sue pagine. Se Primo Levi racconta l’orrore dei campi di concentramento, Bassani si muove ai margini della Shoah privilegiando il “prima” e il “dopo” della persecuzione ebraica e sempre con il passo del narratore puro. Non è un testimone ma appunto un affabulatore: la tragedia degli ebrei italiani è tanto più autentica perché reinventata; Ferrara, la sua città, è tanto più universale perché esplorata fin nel suo angolo più distintivo.

Bassani aveva 84 anni quando nel 2000 si spense in un letto di ospedale a Roma. Il suo finale di vita – scandito da una battaglia legale che contrappose figli e compagna americana tra richieste di interdizione e perizie psichiatriche – fu una nemesi beffarda per uno scrittore che, smarrito nell’oblio di sé, aveva eletto la memoria a matrice di tutta la sua produzione narrativa. Produzione consacrata in un Meridiano del 1998 e oggi disponibile in libreria grazie a una sistematica ripubblicazione nei tascabili Feltrinelli. Editore fatale per Bassani che, nell’inaugurare una collana da lui diretta, scelse di pubblicare nel 1958 Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Recuperò il dattiloscritto da un portiere nel palazzo di Elena Croce, nella guardiola lesse subito la prima pagina e fu una folgorazione. Forse anche questo gli rimproverarono – oltre al successo de Il giardino dei Finzi-Contini (Einaudi, 1962) – gli avanguardisti del Gruppo 63 quando lo bollarono con la sprezzante etichetta di “Liala”.

Bassani, sul banco degli imputati per la sua fede irriducibile nel romanzo tradizionale, masticò amaro e quando Giangiacomo Feltrinelli pubblicò, ignorando le sue obiezioni, Fratelli d’Italia di Arbasino (nome illustre della neoavanguardia), lasciò la casa editrice. Segno di un temperamento fermo e passionale, lui che nato a Bologna da una agiata famiglia ferrarese di origine ebraica, dopo l’esperienza del carcere e la partecipazione alla Resistenza si trasferì a Roma dove tentò l’avventura del cinema come sceneggiatore e persino come attore (lo si ricorda in un piccolo ruolo nel film Le ragazze di Piazza di Spagna di Emmer) fino a diventare redattore di riviste come Botteghe Oscure e Paragone, cofondatore di Italia nostra, docente di storia all’Accademia nazionale d’arte drammatica, vicepresidente della Rai. In mezzo una parabola letteraria consacrata al tema dell’esclusione.

Non c’è sua pagina che non sia il referto di una solitudine e di un’emarginazione senza rimedio. Pensiamo a Geo Josz del racconto Una lapide in via Mazzini in Cinque storie ferraresi: deportato che fa ritorno in città e che finisce per essere evitato come un appestato; a Athos Fadigati in Gli occhiali d’oro: medico indiziato di omosessualità che dopo essere stato emarginato e ingannato si toglie la vita; allo studente narratore in Dietro la porta che sconta l’infedeltà di un compagno e che non sa riscattare il suo sentimento di delusione; a Edgardo Limentani in L’airone: avvocato che in una domenica d’inverno, sopraffatto da un senso di insoddisfazione per la sua esistenza, medita e si prepara a un gesto estremo.

Forse è proprio ne Il giardino dei Finzi-Contini – con la figura memorabile di Micòl – che questo sentimento dell’esclusione deflagra: giovani ebrei benestanti che, ignari della minaccia della Storia, dilapidano i loro fragili destini fino alla morte anonima in un lager. C’è una tara ineluttabile che ossessiona Bassani: “La memoria delle cose”. Nell’Odore del fieno scrive: “Il passato non è morto, non muore mai”. Non c’è dramma, privato o collettivo, che non affondi in un peccato originale che attraversa le generazioni. La vita, sembra suggerirci Bassani, resta inafferrabile, sempre un passo avanti a noi.

“I fantasmi di Dalla, i portinai di Arbore e il mito della Ferri”

Nuda davanti a se stessa. Pochi fronzoli, nessun trucco sul viso, i capelli scompigliati come una ragazza delle medie che si è svegliata tardi, la felpa con il cappuccio, il sorriso intatto, e alcuna maschera protettiva, di quelle che ognuno, nei momenti di debolezza, impara a costruire davanti agli ostacoli; a 52 anni, in arte Tosca, resta Tosca nella vita, ma non nasconde Tiziana, il pudore per la sua infanzia (“quando uscivo con un ragazzo non rivelavo mai il mio quartiere di provenienza”), i problemi con il cibo, i contrasti con la discografia, la sua dedizione alla canzone romana, gli stornelli, Gabriella Ferri, il guru Lucio Dalla (“croce e delizia”), le aspettative degli altri, e la scoperta delle proprie priorità. Alla fine sottolinea qualcosa di semplice con tono semplice, ma con il sottotesto non così scontato: “Mi piace la vita. Mi piace la musica che affronto oggi. Amo gli stornelli”.

I romani li conoscono?

Solo quelli volgari, definiti “a dispetto”, come le “osterie” e “Pierino”; meno i poetici, detti “a rispetto”.

Come è nato tutto?

Anni fa avevo iniziato con la sperimentazione del teatro-canzone, un’esperienza poco frequente in Italia, troppo faticosa, e i primi tempi non sapevo dove aggrapparmi, fino a quando in un teatrino romano arrivò Gabriella…

La Ferri.

Precedentemente, e più volte, le avevo manifestato il mio amore per lei e quando ha accusato la prima grave crisi di nervi, chiamò Pingitore per il Bagaglino: “Prendi lei al posto mio”. Io avevo solo 23 anni.

E poi?

Mi diceva sempre: “Lassa perde, non sono un esempio. Meglio Mina”.

Insomma, in quel teatrino…

Sale sul palco e inizia a cantare con me; non me lo aspettavo, tanto da non aver preparato nessun altro microfono. Io dall’emozione balbettavo, per me era un emblema unico di arte e libertà, di come si affronta questo mestiere solo per il piacere dell’arte.

La Ferri cosa le diceva?

Mi raccontava il dolore, di quanto fosse complicata quella libertà, della lotta non solo verso gli altri ma pure verso se stessi. (silenzio) ; alla fine di quella serata mi ha spronata ad affrontare la canzone romana, e io: “Ci sei tu, Gabriella. Mi vergogno”. Risposta: “Sono tanto stanca. E ci deve sempre stare qualcuno che la riprende, altrimenti muore”. “Ma è roba vecchia…”. “No! Sono le nostre radici, la nostra casa di appartenenza”.

E da lì?

Una sera mi chiama Nicola Piovani per uno spettacolo dedicato a Roma. E ci sono cascata dentro, un richiamo ancestrale, poi condiviso e sviluppato grazie a Massimo (Venturiello, il compagno).

L’interpretazione della Ferri proveniva da una sofferenza forte…

Esistono vari tipi di dolore, e quello di Gabriella era molto più scoperto, con grossi ed evidenti down, in alcuni momenti era come una donna senza pelle; mentre quelli della mia generazione hanno un po’ più di pudore nel mostrarsi, ma anche io ho vissuto fasi complicate come l’anoressia.

A che età?

Intorno ai 22 anni; allora il mio fulcro era tra l’essere e l’apparire, divisa anche rispetto alle richieste del sistema-musica e il mio reale “io”.

Tradotto.

I primi lavori andavano a saziare un gap che a quel tempo credevo di sentire…

Che gap?

Abitavo a Garbatella, in quegli anni quasi una periferia romana, e non avevo grandi possibilità economiche: se non eri famosa, voleva dire che non facevi parte della realtà musicale. All’inizio ho assecondato tutte queste debolezze.

I suoi genitori?

Sono buonissimi (cambia voce, tono d’amore), non mi hanno mai fatto mancare nulla, anzi si sono ammazzati per me, e sono figlia unica.

E dopo quell’inizio?

Sono andata in crisi, a un certo punto ho capito che non ero io, è crollata la costruzione mentale, e nonostante un contratto discografico importante e una prospettiva dorata soprattutto dopo la vittoria a Sanremo. (riflette, cambia sguardo) Quel contratto era terribile.

Addirittura.

Per loro ho cantato brani che trovavo orridi, anzi provavo schifo e quando ho chiuso sono dovuta restare ferma sei anni, e la stessa casa discografica pretendeva di tenere il nome “Tosca”. Che è il mio.

Com’è possibile?

Mi chiamo Tiziana Tosca Donati, ma nella loro tesi, “Tosca”, era una creazione a tavolino da assegnare ad altri.

In quei sei anni?

Ho studiato tantissimo e andavo, in veste di apprendista, da tutti i più grandi cantautori come Lucio Dalla, Renato Zero, Ivano Fossati o Riccardo Cocciante; l’aspetto più grave non era la trappola nella quale ero caduta, ma il non sapere cosa volevo; ma quello è stato un periodo bellissimo.

Cosa le dicevano?

Erano molto incazzati con il sistema e mi invitavano a non mollare. Non si possono prendere in giro i ragazzi di vent’anni, c’è bisogno di onestà.

Lei ha definito i talent come “un Colosseo”.

In assoluto non sono contro, di per sé è una finestra, ma l’uso è sbagliato, e la discografia ha svenduto la musica alla televisione: la musica si è adattata al sistema degli sponsor, dei parrucchieri, dei truccatori, ed è all’ultimo posto; la mia generazione aspettava l’uscita dei dischi fuori dai negozi…

Dove trovava i soldi?

Avevo una paghetta e poi mi ingegnavo con qualunque tipo di lavoretto, dalle ripetizioni alla baby sitter, e poi giocavo nella serie B di pallavolo.

Quale squadra?

Era ancora amatoriale, poi a 17 anni mi chiamarono per un provino con la Nazionale e le ragazzine di 14 anni avevano venti centimetri più di me. Lì ho capito, ho posato il pallone e ho detto “basta”. (pausa) Perché l’ho raccontato?

Per i soldi.

Sì, mi arrabattavo, ma il lavoro più brutto è stato quello di chiamare gli anziani per la vendita delle enciclopedie, mi sono beccata una serie infinita di parolacce. Ho retto cinque giorni.

Ma com’era Garbatella?

L’amo tanto, è un pezzo del mio cuore, ma non era un bel quartiere e quando uscivo con un ragazzo, alla domanda dove vivi? rispondevo “l’Eur”, e per l’appuntamento mi piazzavo sotto il Fungo (uno dei punti centrali dell’Eur). Alla fine, quando mi salutavano, prendevo l’autobus.

Torniamo al momento di rottura con la casa discografica…

Esce Incontri e passaggi, uno dei dischi che amo di più, con dentro tutti grandi autori come Dalla, Fossati, Bubola e Morricone.

E…

In coppia con Ron avevo già vinto il Sanremo del 1996, e da lì ero avvolta da una popolarità incredibile, talmente incredibile da impedire ogni altra decisione rispetto alle mie volontà musicali.

Ma…

Con quell’album torno al Festival da solista, la casa discografica sceglie un pezzo bello ma non adatto, spiegandomi una presunta strategia. Macché. Dopo Sanremo si sgonfia tutto. Così mi organizzano un appuntamento a Uno mattina, io dubbiosa: “Come posso cantare alle sei del mattino una canzone del genere?”.

Alla fine?

Entro in studio per le prove, mi trovo un microfono troppo alto e azzardo: “Mi scusi, così non riesco a cantare”; a quel punto compare l’autore che stupito mi domanda: “Ma nun dovemo fa’ Tosca?”. “Sì”. “E alla Tosca ‘ndo lo metto il coro?”; poi riflessivo aggiunge: “La Tosca senza coro che cazzo de opera è?”. Sono uscita da lì, ho pianto all’infinito, e ho detto basta.

Canta ancora “Vorrei incontrarti tra cent’anni”?

Sì, mi piace ancora tanto, ha una bella melodia e di quel Sanremo ho un bel ricordo.

Vittoria inaspettata arrivata mentre eravate a cena…

Loro a cena, io non mangio niente, al massimo mi nutrivo di pasta al pesto; (sorride) ma sono rinomata, Fiorella (Mannoia) quando mi invita a cena domanda: “Che te faccio?”; comunque sì, non lo sapevamo, eravamo andati via, poi all’improvviso la chiamata e la corsa all’Ariston.

A Ron è arrivata grazie a Lucio Dalla.

Croce e delizia. Rido quando lo vogliono far passare come un santino, mentre era tremendo ed era il suo bello…

Cioè?

Un dissacratore, un imprevedibile; ci ho lavorato insieme due anni e non ho mai capito cosa pensava, mi spiazzava continuamente e mi chiamava “maestrina”; (ride) ed ero uno dei soggetti per i suoi scherzi…

Tipo?

Dormivo a casa sua, una notte sento della musica, così la mattina gli domando: “Questa notte hai suonato?”. E lui: “No, no”. Insisto, ma nega. Poi lancia uno sguardo ai suoi inservienti: “Allora è tornato. È tornato! Morandi lo ha visto nello specchio mentre si tagliava la barba”. “Ma chi?”, intervengo io. “Il fantasma!”. “Lucio, non ti offendere ma vado in hotel”.

Un modo garbato per mandarla via.

Ci ho pensato, ma qualche giorno dopo mi chiama Morandi: “Ho saputo che hai sentito il fantasma suonare”.

Diceva croce e delizia. Anche per altro?

Mi voleva portare in tournée europea con lui, ma non gi davo una risposta. Così durante gli spettacoli, quando presentava la band, con me attuava un rituale: “Signore e signori, Iscra”. Salivo sul palco e precisavo: “Tosca”. Il problema è che la stessa punizione mi è toccata a Roma, con tutta la mia famiglia presente…

E lei?

Non sono entrata; però ogni suo soundcheck era una lezione di vita e forse non sarei quella che sono se non avessi conosciuto Lucio.

Un consiglio importante che ha ricevuto?

Da Renzo Arbore. Ho iniziato con lui, ero la vocalist della band, e vuol dire la Serie A; lui mi ha insegnato il valore della curiosità, oltre a permettermi di vedere dal vivo artisti come Murolo o Miles Davis, dei fuoriclasse da respirare; non solo, una sera dopo una cena mi accompagna alla macchina, una vecchia 500, e all’improvviso si ferma a parlare con il parcheggiatore. E a lungo.

Quindi?

Il giorno dopo gli chiedo il perché, e lui: “Ma da dove pensi che prendo ispirazione? Queste sono le persone più belle, la gente vera, quella che fa fatica a vivere. Quella è linfa. E se non sai qualcosa del tuo prossimo, della tua vicina, della tua portiera, non andrai da nessuna parte”.

Filosofia pura.

Non solo, un giorno mi chiede: “Ma tu, in una scala da uno a dieci, dove sei?”. “A 9”. “Quindi tra un anno o due sei a 10!”. “Sì”. “Allora dopo scendi, perché l’11 non c’è”. A quel punto sono io a ribaltare: “Tu Renzo dove sei?”. “A 6, massimo 6 e mezzo”. Eppure aveva appena finito Quelli della notte. A quel punto ho capito.

Le manca la tv?

Il pubblico televisivo è spietato, ogni tanto qualcuno mi incontra e si stupisce: “Ma lei non canta più?”; oppure: “Che mestiere fa?”; a una signora ho risposto: “Io non vado più in televisione, ma lei non frequenta il teatro”.

Difficile.

Alla fine il mio percorso è questo, non rinnego neanche i momenti di crisi, perché mi piace dove sono arrivata, amo il mio percorso attuale.

A cosa ha rinunciato?

Oltre allo status di popstar e allo status economico?

Sì.

Ai figli. Ho rimandato, ho rimandato ancora, poi quando credevo fosse giunto il momento, oramai era tardi.

La prima cosa che farà post-quarantena.

Dirigo un centro culturale, Officina Pasolini, ed è la mia seconda casa: voglio salvarlo, è un polmone, il nostro futuro; ma non cambierà molto la mia vita, talebana ero e talebana resto.

Cosa le ha insegnato il virus?

Sono stra-cambiata, ho imparato a cucinare, ho preparato la pizza e le melanzane alla parmigiana, e ogni venerdì su Instagram c’è Fiorella che mi dà lezioni.

Ha un carattere forte?

Sembra. (Pausa) Diciamo che mi piace molto la vita.

(Canta Tosca in “Ho amato tutto”: “Se tu mi chiedi in questa vita cosa ho fatto, io ti rispondo ho amato. Ho amato tutto”)

 

Kaczynski & Duda: elezioni subito, prima che crolli il consenso

La curva della pandemia in Polonia continua a impennarsi. Il lockdown imposto dal governo non sortisce ancora effetti. Ieri i contagi hanno superato quota 6 mila. Le vittime sono 208; le persone in quarantena 166 mila. Il sistema sanitario rischia di implodere, l’economia pure. A fine anno il Pil avrà probabilmente il meno davanti: non succede dal 1991.

In questo scenario fragile, Diritto e Giustizia (PiS), il partito populista di Jarosław Kaczynski, al governo dal 2015, continua a seguire la logica di sempre: potere per il potere.

Il 10 maggio ci sono le presidenziali e Andrzej Duda, capo dello stato uscente, è favorito. Eletto nel maggio 2015, Duda è a tutti gli effetti un uomo del PiS e ne ha avallato tutte le scelte, alcune ispirate dall’agenda illiberale di Viktor Orbán in Ungheria. Kaczynski, leader de facto della Polonia, benché tecnicamente sia solo un deputato, ha dunque tutte le ragioni per blindare Duda.

Elezioni classiche, con una situazione del genere, sono un rischio sanitario enorme. È così che il PiS ha escogitato l’alternativa del voto postale. Per consentirlo, martedì la camera bassa del parlamento, il Sejm, ha approvato una legge che emenda il codice elettorale. Ora è all’esame del Senato, dove il PiS non dispone della maggioranza. Ci saranno diverse modifiche al testo, ma il Sejm – l’aula dove si concentra il vero potere – avrà facoltà di respingerle. L’iter potrebbe terminare proprio alla vigilia del voto. In un’assurda situazione di vacuum legale, le poste polacche hanno iniziato a organizzare la procedura per invio e raccolta delle schede, con un nuovo direttore. È l’ex viceministro della difesa Tomasz Zdzikot, esponente PiS. Il predecessore, Przemysław Sypniewski, si è dimesso perché riteneva impossibile questa corsa contro il tempo.

Un passo indietro lo ha fatto anche il ministro dell’Educazione, Jarosław Gowin, in disaccordo con Kaczynski e il premier Mateusz Morawiecki sulle elezioni a ogni costo. Sono un colpo di mano, e tra l’altro sarà impossibile fare campagna elettorale, accusano invece Małgorzata Kidawa-Błonska e Robert Biedron, i candidati liberale e di sinistra. E perplessità sono giunte anche dalla Commissione elettorale, che ha ricordato che un’elezione è un meccanismo complesso che necessità di regole e tempi chiari.

La presidenza della repubblica è un tassello importante nell’architettura del potere. Il capo dello Stato può bloccare le leggi con il veto, superabile soltanto con i tre quinti dei voti al Sejm. Se le presidenziali fossero spostate molto più avanti nel tempo e nel frattempo l’economia andasse a rotoli, costringendo il governo a tagliare il robusto welfare messo in campo in questi anni, vera chiave del consenso, la riconferma di Duda vacillerebbe. E un presidente non organico bloccherebbe, veto dopo veto l’agenda illiberale di Varsavia. Il PiS non ha i numeri per ribaltarli. La partita cruciale di questi anni si è giocata sulla magistratura. Con la benevolenza di Duda, i populisti ne hanno svuotato l’indipendenza occupandone uno dietro l’altro gli organi cruciali: Tribunale costituzionale, Consiglio nazionale giudiziario (equivale al nostro Csm) e Corte Suprema, quest’ultima “vigilata” da una camera disciplinare istituita ex novo. Mercoledì la Corte di giustizia dell’Ue ne ha sollecitato la sospensione, pena sanzioni pecuniarie. Varsavia ha bollato la richiesta come un’ingerenza. Ora non c’è tempo di discutere con Bruxelles. Salvo ripensamenti, politicamente l’obiettivo è confermare Duda a palazzo. Per posta.