Strana sorte quella della festa di Pasqua: è la prima e più importante festa cristiana, il suo racconto è all’origine del primo annuncio apostolico e della formazione dei quattro Vangeli, ed è anche origine del passaggio dal sabato (ebraico) alla domenica (cristiana) come “giorno del Signore”. Ma Pasqua è stata progressivamente messa in secondo piano dalla festa di Natale, nata secoli dopo e basata su un “racconto perfetto” (la nascita verginale, la notte stellata, il re in una stalla, i tentativi di eliminare il bambino) e su antiche tradizioni che dovevano aiutare a esorcizzare il timore del buio delle notti di dicembre, le più lunghe dell’anno (le luci, le famiglie raccolte nelle case, i canti).
In tempi di (post)secolarizzazione e multiculturalismo, il Natale resiste in cime alla classifica delle feste più amate (ma anche di quelle più odiate), sebbene a costo della perdita dei suoi elementi più genuinamente evangelici, mentre la Pasqua torna a essere sempre di più una festa per i soli cristiani confessanti. Come alle origini, quando i seguaci del Risorto erano una piccola minoranza nel grande e composito impero romano.
D’altra parte, l’evento della risurrezione richiede un certo tempo di preparazione e di accettazione. Il Vangelo di Giovanni (20,1-9), per esempio, ci descrive un percorso di fede non immediato perfino per coloro che erano stati vicini a Gesù per molto tempo: Maria Maddalena scopre la tomba vuota e corre subito da Simon Pietro e dal “discepolo che Gesù amava” per denunciare il furto della salma; i due discepoli corrono al sepolcro e constatano che in effetti il corpo di Gesù non c’è più, il discepolo amato – dice il Vangelo – “vide, e credette” (v.8). Ma che cosa credette? E Pietro? Il Vangelo annota che “non avevano ancora capito la Scrittura, secondo la quale egli doveva risuscitare dai morti” (v.9). Insomma, al massimo una fede a metà, incompleta, immatura.
E poi la svolta: Maria Maddalena vede Gesù che sta in piedi davanti a lei, “ma non sapeva che era Gesù” (v.14). Anche a questo sconosciuto spiega, sconsolata, l’accaduto, fino a quando questi la chiama per nome: “Maria”. Ora Maria comprende, Maria crede, Maria smette di piangere e corre ad annunciare, per prima, la risurrezione di Gesù (v.18). Maria, l’incredula di fronte alla tomba vuota, è la prima a incontrare il Signore risorto. Maria che cerca la salma del suo Signore e non sarà consolata fino a quando non l’avrò trovata, è cercata per prima dal Risorto che la consola e la rende apostola: “va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro. Maria di Màgdala andò subito ad annunciare ai discepoli: ‘Ho visto il Signore’ e anche ciò che le aveva detto” (v.17s).
Il Vangelo mette in primo piano questa donna che, pur affranta dal dolore, non si chiude in casa come invece fanno gli apostoli; non attende gli eventi, come fanno gli apostoli, ma quasi forza la situazione con la sua domanda: “Dov’è, dov’è il suo corpo, ditemelo”. Come le madri e le nonne di Plaza de Majo, come le donne che nel mondo chiedono i corpi dei loro cari assassinati anche di fronte ai loro assassini. Esempio e invito a non arrendersi, a non cedere, a cercare finché si trova, a chiedere finché non si ottiene risposta.
Non sarà che l’annuncio di Pasqua, per essere veramente creduto, richiede prima di tutto tenacia nella ricerca, coinvolgimento personale, disponibilità a farsi raggiungere da una chiamata (“Maria”, nel testo di Giovanni) che consente alla vita di tornare a fluire anche là dove aveva abitato la morte? Forse per questo Pasqua sta diventando sempre più una festa per cristiani professanti (ma non arroganti), estranea a quello spirito del tempo presente (e forse di ogni tempo) che non vuole o non può coglierne la portata dirompente di vita nuova e di speranza.