Pasqua, il ritorno alla vita per i cristiani professanti (ma non arroganti)

Strana sorte quella della festa di Pasqua: è la prima e più importante festa cristiana, il suo racconto è all’origine del primo annuncio apostolico e della formazione dei quattro Vangeli, ed è anche origine del passaggio dal sabato (ebraico) alla domenica (cristiana) come “giorno del Signore”. Ma Pasqua è stata progressivamente messa in secondo piano dalla festa di Natale, nata secoli dopo e basata su un “racconto perfetto” (la nascita verginale, la notte stellata, il re in una stalla, i tentativi di eliminare il bambino) e su antiche tradizioni che dovevano aiutare a esorcizzare il timore del buio delle notti di dicembre, le più lunghe dell’anno (le luci, le famiglie raccolte nelle case, i canti).

In tempi di (post)secolarizzazione e multiculturalismo, il Natale resiste in cime alla classifica delle feste più amate (ma anche di quelle più odiate), sebbene a costo della perdita dei suoi elementi più genuinamente evangelici, mentre la Pasqua torna a essere sempre di più una festa per i soli cristiani confessanti. Come alle origini, quando i seguaci del Risorto erano una piccola minoranza nel grande e composito impero romano.

D’altra parte, l’evento della risurrezione richiede un certo tempo di preparazione e di accettazione. Il Vangelo di Giovanni (20,1-9), per esempio, ci descrive un percorso di fede non immediato perfino per coloro che erano stati vicini a Gesù per molto tempo: Maria Maddalena scopre la tomba vuota e corre subito da Simon Pietro e dal “discepolo che Gesù amava” per denunciare il furto della salma; i due discepoli corrono al sepolcro e constatano che in effetti il corpo di Gesù non c’è più, il discepolo amato – dice il Vangelo – “vide, e credette” (v.8). Ma che cosa credette? E Pietro? Il Vangelo annota che “non avevano ancora capito la Scrittura, secondo la quale egli doveva risuscitare dai morti” (v.9). Insomma, al massimo una fede a metà, incompleta, immatura.

E poi la svolta: Maria Maddalena vede Gesù che sta in piedi davanti a lei, “ma non sapeva che era Gesù” (v.14). Anche a questo sconosciuto spiega, sconsolata, l’accaduto, fino a quando questi la chiama per nome: “Maria”. Ora Maria comprende, Maria crede, Maria smette di piangere e corre ad annunciare, per prima, la risurrezione di Gesù (v.18). Maria, l’incredula di fronte alla tomba vuota, è la prima a incontrare il Signore risorto. Maria che cerca la salma del suo Signore e non sarà consolata fino a quando non l’avrò trovata, è cercata per prima dal Risorto che la consola e la rende apostola: “va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro. Maria di Màgdala andò subito ad annunciare ai discepoli: ‘Ho visto il Signore’ e anche ciò che le aveva detto” (v.17s).

Il Vangelo mette in primo piano questa donna che, pur affranta dal dolore, non si chiude in casa come invece fanno gli apostoli; non attende gli eventi, come fanno gli apostoli, ma quasi forza la situazione con la sua domanda: “Dov’è, dov’è il suo corpo, ditemelo”. Come le madri e le nonne di Plaza de Majo, come le donne che nel mondo chiedono i corpi dei loro cari assassinati anche di fronte ai loro assassini. Esempio e invito a non arrendersi, a non cedere, a cercare finché si trova, a chiedere finché non si ottiene risposta.

Non sarà che l’annuncio di Pasqua, per essere veramente creduto, richiede prima di tutto tenacia nella ricerca, coinvolgimento personale, disponibilità a farsi raggiungere da una chiamata (“Maria”, nel testo di Giovanni) che consente alla vita di tornare a fluire anche là dove aveva abitato la morte? Forse per questo Pasqua sta diventando sempre più una festa per cristiani professanti (ma non arroganti), estranea a quello spirito del tempo presente (e forse di ogni tempo) che non vuole o non può coglierne la portata dirompente di vita nuova e di speranza.

 

Il 25 aprile è l’antifascismo

Il 25 aprile non è una festa scomponibile, una festa per uno persuaso e partecipe, ma anche l’altro, un po’ scettico o smemorato, da dividere fra chi la ama e chi non la ama, fra chi la comprende, chi la ignora e chi la rifiuta, uniti dalla buona volontà di essere cittadini che accettano e rispettano le festività prescritte, anche se si tratta di eventi un po’ dimenticati.

Come sappiamo, il 25 aprile ha un altro nome, Liberazione. La Liberazione è un atto definitivo, non resta in bilico fra un prima e un dopo e fra opzioni, anche solo da discussione, su come si potrebbe suddividere fra opinioni diverse quell’evento definitivo che ha cambiato il mondo. Ci sono momenti in cui la storia diventa pietra e atti irreversibili che non si possono più cambiare, non tanto e non solo per ciò che hanno spinto fuori dalla storia, ma perché è cambiato in modo irreversibile tutto ciò che è accaduto dopo. La Liberazione, infatti, non è una opzione sull’esito di un grande scontro armato. Lo scontro armato, nella sua gravità e nel suo orrore, è stato il travestimento fisico di una contrapposizione ben più profonda delle armi, dei territori e dei confini. Era sulla gestione fondamentale della vita: schiavi, con vittime sacrificali, anche in numero immenso da un lato; libertà, diritti e dignità per tutti, dall’altro. La Liberazione non è una festa che consacra la prevalenza (diciamo pure vittoria) dei liberi sugli schiavi. La Liberazione conferma (non “ricorda”, conferma) che la vita come potere e schiavitù è finita e non può ritornare perché aveva già preteso e realizzato tutto, non era una prova o una tentazione. Era – è stata – la realizzazione del massacro.

Il punto fondamentale da tenere in mente quando si dice 25 aprile e Liberazione – e che un immenso sforzo di esseri umani che da tutto il mondo si sono uniti e alleati per rendere impossibile l’orrore che il mondo stava già vivendo – è che non tutti gli eventi della storia sono transitori e dimenticabili. Non quelli che cambiano radicalmente la continuazione degli eventi. 25 aprile e Liberazione hanno accertato che il fascismo ha portato in dote il razzismo nel suo senso più profondo e incurabile. E ha portato la sua partecipazione attiva e molto utile alla Shoah, ovvero complicità e ininterrotto sostegno al progetto della distruzione radicale e disumana del popolo ebraico. Si è trattato, per il fascismo, di una militanza allo scoperto, senza scuse o pretesti bellici o politici, usando carte false come “Il manifesto della razza” per unirsi a una vasta azione infame. Per questo le obiezioni contro il 25 aprile e contro la Liberazione sono respinte da ciò che è accaduto prima ancora che da ogni argomentazione. Quella argomentazione non ha senso e non può avere avvocati, salvo coloro che credono di rappresentare ancora persecuzione e strage e, in questa veste, chiedono l’assurdo diritto di essere rispettati.

Ci sono alcune domande o affermazioni che vengono buttate in mezzo, o come equivoco o come folle bocca a bocca sul cadavere fascista. Ne elenco alcune. Quando si dice e si celebra la “Liberazione” vuol dire che ci siamo liberati da soli o ci hanno liberato gli americani? Sono vere entrambe le risposte. Gli italiani (i partigiani) hanno disperatamente combattuto rappresentando, per fortuna, la rivolta italiana . Gli americani (e tutti gli alleati, compresa la Russia sovietica) hanno vinto eliminando il nazismo e il fascismo in tutta Europa.

È giusto chiamare la Resistenza “guerra civile”? No. Non c’è niente di civile nella Decima Mas che risale le valli a nome dei tedeschi, in cerca di italiani da uccidere e di ebrei da consegnare ai campi di sterminio.

Si può dire che, dopo tanti anni di contrapposizione fascismo-antifascismo, gli italiani possono (qualcuno dice “devono”) “fare la pace?”. No. Se un fascista vuole essere fascista, resta un nemico. La vittoria dei partigiani, il 25 aprile, ha rimosso i fascisti dalla storia, che avevano infangato di delitti, da Matteotti ai fratelli Rosselli, alle Fosse Ardeatine. Sì. Quando un fascista ripudia il fascismo e vuole partecipare alla vita democratica, noi, che ci riconosciamo nella lotta dei partigiani, avremo un amico in più.

Si può dire, come hanno detto pubblicamente Vittorio Emanuele di Savoia (che sarebbe stato erede al trono se non ci fosse stato il referendum repubblicano) e Silvio Berlusconi, a quel tempo primo ministro, che “quel che ha fatto il fascismo è stata ben poca cosa”? No. Quella frase è una ripetizione del delitto. Il fascismo e Mussolini sono stati agenti di sterminio della Shoah. E così il re, che ha firmato la “Legge per la difesa della razza” creando un Paese assassino. Tutto ciò dobbiamo sapere e ricordare. Questa è la differenza fra fascismo e antifascismo. Non ci sono posizioni intermedie. Non si è antifascisti in silenzio.

“Soluzione Draghi” di fantasia. Più che al governo serve in Ue

 

“Draghi in cinque minuti risolverebbe tutto”.

Alessandro Sallusti a “Otto e Mezzo”

 

Non occorre uno scienziato della politica per capire che la rottura dei rapporti tra Giuseppe Conte e l’opposizione di Salvini e Meloni, oltre a mandare in frantumi quel difficile tentativo di unità nazionale auspicato dal Quirinale, sembra fatta apposta per restituire forza mediatica alla “soluzione Draghi”. Ipotesi suggestiva ma di non semplice attuazione anche perché non si riesce a comprendere attraverso quali straordinarie magie l’ex presidente della Bce potrebbe un domani mettere d’accordo maggioranza e opposizione. Ma soprattutto spargere di petali di rosa l’accidentato cammino dell’alleanza Pd-5Stelle. Il punto però è un altro: il silenzio di Draghi. Che da una parte appare obbligato, e non soltanto per il naturale riserbo dell’autorevole personaggio. E poi parlare per dire cosa? Che si candida? Che non si candida? Via, non scherziamo. Pur tuttavia, per effetto dei giochi e dei giochini di palazzo (e dei giornali) che considerano con crescente sospetto la popolarità di Conte, l’assoluto mutismo del possibile uomo della Provvidenza viene cavalcato con assoluta spregiudicatezza. L’ultima che abbiamo sentito è che Draghi si aspetterebbe la nomina a senatore a vita da parte di Sergio Mattarella: lo stesso cursus honorum che nel 2011 consentì a Giorgio Napolitano di mandare a palazzo Chigi Mario Monti. Al di là delle congetture più o meno infondate, nel presente momento l’assenza della voce di Draghi pesa eccome sulle questioni che contano. È così assurdo immaginare un secondo appello, dopo quello rivolto all’Europa dello scorso 25 marzo con l’intervista al “Financial Times” ,“sull’agire subito senza preoccuparsi del debito pubblico”? Un altro Draghi doc, dedicato questa volta alla trattativa cruciale su Mes e Coronabond, il cui risultato significa moltissimo per il futuro del nostro (e del suo) Paese, potrebbe essere decisivo. Comunque, auguri.

 

Risorgeremo

Il lavoro frenetico di mesi non concede distrazioni. Una terapia alla stanchezza è senz’altro la lettura. “Pandemia e Resurrezione” è il libro del professore Giulio Sapelli. Nulla di più opportuno parlarne in questi giorni. Sapelli è un economista, ma anche raffinato intellettuale ed evidenzia, da un punto di vista personale, una possibile resurrezione storica dopo la pandemia. Da non economista, mi fermo ad apprezzare il noto acume dell’autore, senza rinunciare però a cogliere spunti applicabili anche in altri campi, nei quali inevitabilmente un cambiamento epocale. Prendo in prestito il concetto di Resurrezione: passaggio, cambiamento. Dopo questa pandemia non potremo ignorare di trovarci in un’altra epoca, nella sanità e nella scienza. Non sarà più possibile pensare a una sanità frammentata in nazioni, men che meno in regioni. Una resurrezione che possa assumere il significato di nuovi modo di intendere gli strumenti di salute. La sanità non solo come cura della malattia, ma come strumento per il benessere. E qui si colloca la prevenzione. Si spera che si abbandoni il modello “fare in emergenza tutto ciò che non ho pensato o voluto fare prima”. Tuttavia, pur ammirando Sapelli, non sono d’accordo quando afferma che la globalizzazione mangia gli Stati e che solo il sentimento nazionale (inteso come nazionalismo) può darci un mezzo per risorgere. Da questo punto di vista, la sanità e la scienza corrono in senso opposto. Basti guardare alle collaborazioni internazionali nella ricerca, ai risultati ottenuti in tempi brevi. La globalizzazione c’è, basta saperne fare un mezzo di civiltà e benessere.

Controlli in strada, quell’elenco dei contagiati difficile da consultare

In questa settimana, da lunedì a venerdì, sono state 101 le persone positive al Covid-19 denunciate dalle forze dell’ordine per non aver rispettato la quarantena. Dodici nella giornata di venerdì. Ed è un numero davvero limitato se si considera che dall’11 marzo all’9 aprile su tutto il territorio nazionale ci sono stati oltre sei milioni di controlli (con 230 mila sanzionati).

Scovare i positivi infatti per le forze dell’ordine è parecchio complicato. Per due motivi. Il primo, più banale, riguarda i positivi asintomatici che magari neanche sanno di esserlo. E quindi ovviamente non possono dichiarare ciò che non conoscono.

Ma c’è un altro ostacolo che riguarda le verifiche in strada. In via eccezionale, per affrontare questo periodo, infatti, sono stati creati degli elenchi, conservati con la massima attenzione, in cui si raccolgono i nomi di coloro che dovrebbero essere in quarantena: possono accedervi pochi operatori di polizia selezionati e solo in determinate fasce orarie. È un elenco che viene trattato con i guanti proprio per la delicatezza delle informazioni che contiene. Ed è su questa lista di nomi che l’agente in strada dovrebbe chiedere di fare le verifiche per capire se denunciare o meno il “controllato”. Verifiche che quindi non sono agevoli né rapide.

Tuttavia, non si potrebbe fare altrimenti: resta prioritario tutelare i dati sanitari delle persone, che mai potrebbero finire in database accessibili ai più.

È tra queste difficoltà quotidiane che continuano i controlli delle forze dell’ordine su tutto il territorio nazionale, rafforzate ancora di più in questo ponte di Pasqua. Venerdì sono stati effettuati in tutta Italia 301.708 controlli – il numero più elevato di questa settimana –, mentre i sanzionati sono stati 10.442. Si tratta di coloro che sono stati trovati in strada senza alcun “comprovato motivo” e che ora dovranno pagare multe da 400 a 3 mila euro.

Nelle prossime 48 ore quindi l’obiettivo è scoraggiare quanti vogliono approfittare del ponte per raggiungere le seconde case o le località di mare e montagna. Per questo sono stati disposti, anche di notte, posti blocco ai caselli autostradali e all’interno delle città. E poi ci sono i droni, che volano nei cieli di molte città, da Palermo a Verona, fino a Firenze. In alcune zone il dato sulla mobilità resta alto. A Genova, ha spiegato il questore Vincenzo Ciarambino, è stato registrato “un aumento della voglia di evadere da questa detenzione legata all’emergenza”. C’è poi la Lombardia: “I dati non sono positivi: ieri è stato raggiunto un record rispetto a più di 2 settimane fa – ha spiegato il vicepresidente della Regione Lombardia Fabrizio Sala – perché siamo arrivati al 41% di mobilità. Sicuramente ci sono persone che hanno fatto la spesa per Pasqua, così come altri si sono spostati in quanto legati alle attività produttive essenziali, quindi autorizzati, ma così non va per niente bene”. Riscontrati spostamenti verso località turistiche: “Abbiamo notato dati superiori al 5, 6, 7 per cento rispetto al resto della Lombardia”, aggiunge Sala.

“Colpa dell’app”, “ho un ruolo istituzionale”: i politici multati

Le sanzioni non risparmiano la politica. Tra gli italiani ai quali sono state inflitte multe per aver violato le restrizioni imposte per contrastare il Coronavirus si contano anche gli amministratori locali. E non sono servite a nulla le giustificazioni legate al proprio ruolo istituzionale, di sindaco o assessore che sia: non hanno convinto le forze dell’ordine che hanno emesso la sanzione. Ma c’è anche chi, scarpe da corsa ai piedi, non ha potuto neanche richiamare il proprio ruolo.

Una corsetta all’alba è costata la carica a Giovanni Ciarlantini, ormai ex vicesindaco di Caldarola, uno dei paesini del maceratese colpiti dal sisma del 2016. Ciarlantini è stato multato per 560 euro. A tradirlo, secondo quanto ricostruito dalle agenzie, sarebbe stata un’app che registra le corse con pubblicazione involontaria su Facebook. Ciarlantini, contattato via social, ci ha diffidato dallo scrivere articoli sulla sua persona. “Non sono più un personaggio pubblico per cui occhio alla mia privacy e a tutto il resto”. Poi ha aggiunto: “Ora la pandemia ci tiene chiusi in casa nonostante il territorio di alta collina a ridosso di pochissimi abitanti e tanto spazio libero attorno. Avere fatto una corsa in montagna dalle 5.30 alle ore 8.00 mi ha trasformato in un terrorista. (…) Ho sbagliato, mi sono assunto le mie responsabilità”.

È andata peggio a un consigliere comunale di Fabrizia, piccolo centro montano in provincia di Vibo Valentia: è stato denunciato perché dopo i provvedimenti del governo non ha chiuso il proprio locale di scommesse.

Ci sono poi quegli amministratori che, davanti ai controlli, hanno apposto il ruolo istituzionale come motivazione del loro spostamento. A cominciare dal consigliere comunale della Lega a Genova con delega agli Affari legali, Federico Bertorello. Nei primi giorni di aprile è stato fermato in Corso Italia con il proprio cane: 280 euro di multa. “Mi avevano segnalato la presenza di numerose persone a correre – ha dichiarato il consigliere nei giorni scorsi all’Ansa – (…). Ero uscito col cane ed ero andato a comprare il pane e così invece di tornare a casa sono andato a controllare”. Le forze dell’ordine non gli hanno creduto: “Ho detto ai vigili che ero un consigliere e che tra i miei compiti rientra anche quello di verificare una segnalazione. Pagherò la multa, ma non ero lì a correre o passeggiare”.

Un consigliere comunale di Aversa, Roberto Romano, invece si è beccato una multa di 400 euro (sulla quale ha presentato ricorso). “Ero di rientro dal palazzetto dello sport perché è stato adibito come sede per fare un dislocamento di pacchi alimentari e quant’altro”, è stata la giustificazione. “Avevo anche l’auto-certificazione che spiegava la mia presenza – chiarisce –. Stavo svolgendo il mio ruolo istituzionale”. Il suo sacrificio non è stato inutile, assicura: “Il sindaco poi ha iniziato a dare disposizioni ai consiglieri di poter circolare in base a un suo permesso personale”.

Un sit-in invece è costato 400 euro a otto sindaci di paesini vicino Chiaravalle (Catanzaro), che nei giorni scorsi si sono radunati davanti alla Rsa “Domus Aurea”. “Erano lì perché vi erano pazienti residenti nei loro comuni – spiega il consigliere regionale Francesco Pitaro che non era presente –, stavano seguendo l’andamento del trasferimento dei pazienti. Invece di fargli un encomio, si sono visti recapitare multe da 400 euro”.

Ma le multe di questi tempi fioccano e quando non riguardano la violazione delle restrizioni, tornano i tanto odiati ticket per i parcheggi. Per non averne pagato uno Sergio Foria, assessore di Castelfidardo (Ancona) è finito sulle cronache. “Ero ad Osimo. Non c’era nessuno in giro – ha spiegato al Fatto –, i posti erano vuoti e ho parcheggiato per andare in ufficio e mi hanno multato. Ho contestato che in un periodo così era bene non fare le multe. Il giorno dopo, con un’ordinanza, hanno reso libere le zone con il parcometro”. Ma occhio, “non c’entra nulla il fatto che io sia assessore: lo sono a Castelfidardo, con Osimo non c’entro nulla”.

A ciascuno la sua pena.

L’assessore si sfoga: “Conte? Se viene qui ne prende tante”

Alessandro Mattinzoli, l’assessore allo Sviluppo economico della Regione Lombardia, è un po’ un simbolo di questa emergenza. Coi sintomi del Covid-19 a fine febbraio, è risultato positivo a inizio marzo: purtroppo le sue condizioni di salute si sono presto aggravate ed è finito intubato in terapia intensiva agli Spedali Civili di Brescia. Fortunatamente ne è uscito: “È stato come essere travolto da due Tir, il secondo dovuto a un peso emotivo che si somma a quello fisico”, ha raccontato due giorni fa al Corriere della Sera.

Mattinzoli, 60enne da Desenzano del Garda, ora è sulla via della guarigione, ma le scelte del governo nazionale non gli fanno bene all’umore. Diciamolo, l’assessore berlusconiano è incazzato nero e non si perita a farlo sapere. Ieri, per dire, ha voluto mandare un messaggio vocale via Whatsapp – che Il Fatto Quotidiano ha potuto ascoltare – ai coordinatori di Forza Italia della sua provincia in vista del prossimo direttivo del partito. I toni sono assai sopra le righe e – pur dando per scontato lo stress e la legittima arrabbiatura – passano e di parecchio il confine della legittima critica.

Mattinzoli non sopporta il presidente del Consiglio: “Io vi dico una cosa; non sono mai stato per la pena di morte, mai stato violento, sono contro ogni forma di violenza, ma mi auguro che Conte, finita questa emergenza, venga e ne prenda tante. Perché i bergamaschi e i bresciani hanno voglia di dargliele, cioè la gente grezza ne ha voglia, ma anche la gente più sensibile come me la fa diventare grezza. Mandate pure questo messaggio ai giornali…” (invito ripetuto un paio di volte ed evidentemente preso sul serio da qualcuno dei destinatari). Comunque, non siamo certo ai bergamaschi pronti a prendere le armi di Umberto Bossi, ma la zona è quella.

Quanto al resto, espressioni colorite o trivali a parte, pare che nella rabbia dell’assessore qualche spazio lo abbiano le polemiche continue tra Palazzo Chigi e Attilio Fontana: “Quel pezzo di m… di Conte facesse a meno di criticare Regione Lombardia. Qualche errore potremmo averlo anche commesso, ma abbiamo lavorato, lavorato, lavorato (…). Qui c’è un’intera Regione che sta andando a puttane e quel c… sta seduto dietro la scrivania e non viene a dire a noi ammalati ‘guardate che ci sono’ e ‘vi siamo vicini’. Vergogna”.

Mattinzoli, imprenditore nel settore del turismo e della ristorazione, tra i più colpiti dalla crisi, non ha particolarmente gradito il cosiddetto “decreto liquidità”: “Hanno fatto un provvedimento da 200 miliardi, peccato che non dicano che tra autonomia delle banche e delle agenzie titolate a controllare, l’iter di assegnazione non sia cambiato molto rispetto a prima. Questo mette a disposizione 200 miliardi ma li nasconde. In Svizzera 48 ore ti danno i soldi: averli fra due mesi o tre mesi per un’azienda adesso vuol dire la fine. Quello è un decreto che dovresti fare in tempi normali, non in emergenza”.

La situazione della piccola azienda dell’assessore, come quella di molte altre imprese in questo periodo, è nera e spiega forse l’enormità detta sul premier e le botte che dovrebbe prendere: “Io sto pagando gli stipendi perché la Cassa integrazione in deroga arriverebbe fra quattro mesi. Siamo riusciti a pagare marzo e aprile, poi pagherò maggio e poi è finita, chiusa, perché non avrò più i soldi, ma io non in merda i miei collaboratori, perché non sono una m… come Conte che lascia in merda i suoi cittadini, che si vergogni che lui e nessun rappresentante del governo – ma mandatelo ai giornali questo messaggio – siano venuti in Lombardia” (non proprio esatto, ma l’incazzatura non è parente della precisione).

Mascherine: prezzo per decreto o senza Iva contro gli speculatori

C’è chi chiede che sia l’Agcom a dire il prezzo è giusto e chi è invece convinto che si debba lasciar fare al mercato. Ma sarà probabilmente il decreto di aprile atteso dal governo a tentare di dare un taglio ai costi con una norma, per dirla con la sottosegretaria allo Sviluppo economico Alessia Morani, “che eviti speculazioni e che fissi soglie massime per i prezzi di vendita”. Intanto in Parlamento c’è chi preme per un intervento sull’iva che consenta di tenere a bada i costi di vendita per un bene di prima necessità come le mascherine che dovremmo abituarci a indossare nel ritorno alla normalità dopo la fine del lockdown.

Ieri della questione dei prezzi ha parlato anche il commissario per l’emergenza Coronavirus Domenico Arcuri: “Stiamo ragionando su qual è il prezzo giusto a cui le mascherine devono essere vendute e se questo prezzo non debba essere in qualche misure predeterminato: per calmierare il prezzo di un bene c’è bisogno di una norma che ancora non c’è. Lavoreremo per comprendere se, quando e come chiedere al governo prima e al Parlamento poi di valutare se emanarla” ha spiegato mentre da tempo le associazioni dei consumatori premono per una regolamentazione e Federfarma attende indicazioni sul margine di ricarico consentito sui lotti in vendita.

La situazione dei prezzi è stata finora davvero incontrollata, come rivelato da Altroconsumo: in media le mascherine chirurgiche vengono vendute a 2 euro al pezzo, ma l’associazione ha scovato anche il caso di una farmacia di Napoli dove viene proposta a 6 euro e 50, ben il 1200% in più rispetto ai 50 centesimi del prezzo minimo registrato. Per tacere delle differenze sui filtranti FFP2 e le FFP3 che toccano cifre folli, per decine di euro al pezzo o delle vendite on line che hanno indotto l’Autorità per la concorrenza e il mercato a intervenire aprendo alcune istruttorie per l’ingiustificato e consistente aumento dei prezzi fatto registrare per la vendita dei prodotti nelle ultime settimane su Amazon e Ebay.

E così la questione dei costi dei dispositivi di protezione personale che entreranno nella quotidianità della fase 2 dell’emergenza, sarà centrale anche in vista del prossimo decreto atteso in Parlamento. Il senatore Massimo Mallegni chiede per esempio di azzerare l’iva sulle mascherine e il capogruppo di LeU alla Camera, Federico Fornaro di limarla drasticamente: “Le mascherine chirurgiche – spiega Fornaro – sono diventate un oggetto d’uso quotidiano e lo saranno ancora per molto tempo. Non sono un bene di lusso. È giusto quindi portare subito l’Iva sulle mascherine dal 22 al 4 percento come pane e latte, beni di prima necessità”. Una misura per rendere accessibile a tutti le mascherine è allo studio al Mef da diverse settimane dove il nodo è quello dell’impatto sui conti dal momento che il fabbisogno di mascherine mensile è di circa 90 milioni di pezzi: per introdurre un’Iva agevolata al 5 percento, ad esempio, serve una misura che vale non meno di 400 milioni di euro.

Nel frattempo le regioni cercano di attrezzarsi anche loro per evitare fenomeni speculativi e mercato nero. L’altro giorno il presidente della Campania Vincenzo De Luca ha annunciato che da fine aprile le mascherine saranno parte dell’abbigliamento in Regione come già disposto in Lombardia. L’obbligo scatterà quando saranno a disposizione i circa 3,5 milioni di pezzi che servono e che, dopo le distribuzioni gratuite per i meno abbienti, verranno messi in vendita a prezzo tra 1,5 e 2 euro.

A Verona screening per 2.060 con test del sangue e tampone

Dopo il caso di Vò Euganeo, dove il virologo Andrea Crisanti ha sperimentato il tampone a tappeto sui 2.800 abitanti, ecco Verona, con una indagine epidemiologica su un campione di popolazione dai dieci anni in su (in tutto 2.060 persone) per verificare quanti sono i portatori asintomatici del Covid-19, la percentuale di popolazione sana (che non ha mai contratto il virus), e chi invece ha già sviluppato la memoria immunologica. “A differenza del metodo usato a Vò noi utilizziamo uno studio campionario e sottoponiamo le persone sia al tampone sia all’analisi del sangue”, spiega Carlo Pomari, responsabile del reparto Pneumologia dell’Irccs Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar. E’ questa struttura, accreditata dalla Regione Veneto, a realizzare l’indagine in collaborazione con il Comune di Verona, l’azienda sanitaria, quella ospedaliera e il dipartimento di Diagnostica e Sanità pubblica dell’università scaligera.

Lo studio partirà il 21 aprile. I risultati dovrebbero arrivare ai primi di maggio, per poi essere messi a diposizione delle istituzioni per indirizzare le scelte della fase 2, quella delle graduali riaperture. “Un’alto tasso di portatori asintomatici può rappresentare un problema, perché potenzialmente sono fonte di contagio – prosegue Pomari -. Viceversa un’ampia fetta di popolazione sana, che non ha mai contratto il virus, dovrebbe indurci a opportune valutazioni in prossimità del prossimo inverno, per il timore che possano ripresentarsi focolai”. Il risultato migliore sarebbe invece una percentuale significativa di persone che hanno sviluppato immunità. “Pur essendo molto improbabile che una persona che ha sviluppato memoria immunologica possa nuovamente ammalarsi, ancora non abbiamo la certezza scientifica per rilasciare la cosiddetta patente di immunità”, dice Massimo Guerriero, biostatistico, nel comitato scientifico insieme all’infettivologo Zeno Bisoffi. Lo studio avrà un margine di errore dell’1,5%. Sarà preceduto da un questionario per rilevare anche i sintomi meno conosciuti, dalla congiuntivite al mal di testa. Le analisi del sangue saranno effettuate con il test Elisa dell’azienda tedesca Euroimmun. Per rilevare la presenza degli anticorpi IgA (le immunoglobuline che si attivano subito quando viene attaccato l’apparato respiratorio) e IgG (quelle tardive, che costituiscono la memoria immunitaria). I cittadini saranno estratti casualmente dall’elenco dell’anagrafe e poi invitati con una lettera del sindaco a partecipare all’indagine.

Don Gnocchi, indagati tre dirigenti Fari sugli ex Covid mandati nelle Rsa

Aumentano gli indagati e i fascicoli aperti sulla gestione delle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) in Lombardia e sui troppi morti in queste strutture nelle ultime settimane: si avvicinano ormai al numero record di 2 mila gli anziani deceduti dall’inizio della pandemia da Covid-19.

Indagati tre dirigenti dell’Istituto Don Gnocchi, oltre al direttore generale del Pio Albergo Trivulzio, Giuseppe Calicchio. Reati ipotizzati: epidemia colposa e omicidio colposo. Sotto osservazione le mancate precauzioni sanitarie, ma anche l’arrivo in alcune Rsa dei pazienti Covid mandati dalla Regione per alleggerire gli ospedali.

Al Trivulzio sono morte in un mese e mezzo, dall’inizio della pandemia, circa 150 persone. Molte testimonianze di famigliari raccontano di ospiti, ma anche di operatori sanitari, non sufficientemente protetti contro il virus. Ora i pm Mauro Clerici e Francesco De Tommasi, coordinati dall’aggiunto Tiziana Siciliano e dal procuratore Francesco Greco, stanno raccogliendo elementi per verificare le responsabilità nella gestione degli ospiti e le carenze che potrebbero aver contribuito ad alimentare il contagio al Trivulzio: dall’assenza di tamponi e mascherine, alle minacce che qualche infermiere denuncia di aver ricevuto perché le utilizzava; dalla non separazione tra ospiti della Baggina e pazienti arrivati dagli ospedali, fino a eventuali omissioni nelle cartelle cliniche e nelle cure fornite. Sotto osservazione anche il ruolo della Regione nella predisposizione di linee guida e piani contro la pandemia. Il difensore di Calicchio, l’avvocato Vinicio Nardo, ha dichiarato che il suo assistito “è a disposizione per qualsiasi chiarimento”. Venerdì sera ha già spiegato in videoconferenza agli ispettori del ministero della Salute, affiancati dai carabinieri dei Nas, “di aver rispettato tutte le procedure, i protocolli interni e le direttive ministeriali e della Regione Lombardia”.

Gli ispettori hanno ascoltato anche un medico che lavora al Trivulzio, il professor Luigi Bergamaschini, che ha rivolto critiche ai vertici della struttura sulla gestione dei pazienti e sul mancato uso delle mascherine.

Altri fascicoli sono stati aperti sull’istituto Palazzolo-Don Gnocchi, sulle residenze per anziani del Comune di Milano al Corvetto, sulla “Anni azzurri” di Lambrate, sulla Sacra Famiglia di Cesano Boscone, sulla “Monsignor Bicchierai” dell’Istituto Auxologico italiano. Del Don Gnocchi sono indagati dalla pm Letizia Mocciaro – per diffusione colposa dell’epidemia e omicidio colposo – il direttore generale Antonio Dennis Troisi, il direttore sanitario Federica Tartarone e il direttore dei servizi medici Fabrizio Giunco. Indagato anche il presidente della Ampast, la cooperativa che raggruppa i lavoratori della struttura.

Sessanta i morti alla Rsa di Mediglia, la prima in cui è stato segnalato un aumento impressionante di decessi tra gli anziani. Anche su questo istituto è stata aperta un’inchiesta per epidemia colposa e omicidio colposo, dopo le denunce di alcuni familiari. Il fascicolo è stato trasmesso alla Procura di Lodi, competente per territorio.