Con le mani in pasta (madre): un batterio ci salverà dal virus

Dal Vangelo secondo Wikipedia: il lievito è un impasto di farina e acqua sottoposto a una contaminazione spontanea il cui sviluppo crea una microflora batterica. Se sostituiamo lievito con Adamo ed Eva, farina con argilla, contaminazione con Dio e infine batteri con genere umano, otteniamo una pagnotta a forma di religione rivelata. Da qui nasce il sospetto che le persone non stanno razziando il lievito dagli scaffali dei supermercati per farci pane e pizza, ma perché sono in crisi religiosa. Dopotutto immaginare che la gente stia cercando di contenere la paura del virus con il Saccharomyces cerevisiae – il comune lievito di birra – ha qualcosa di primigenio. Una cosa tipo gli oceani infiniti del Panthalassa e il primo vagito silenzioso del brodo primordiale. Una roba talmente potente che mette paura. Come la religione.

Sarà che nessuno tranne Burioni sa bene come si faccia il lievito, sarà che pasticciare con batteri e muffe ti fa sentire una divinità creatrice, ma i fornai si stanno diffondendo molto più in fretta della malattia e questo fa riflettere. È capitato anche a me di averne bisogno. Si è trattato di una specie di groppo che mi è esploso poco sopra lo stomaco, tra il cuore e lo sterno. Assomigliava un po’ a quell’emozione che provavo quando ero a scuola e sapevo che stavano per interrogarmi su un argomento che avevo imparato a memoria, ma del quale non avevo capito assolutamente niente. Mi sono sentito così quando ho cercato un qualsiasi agente lievitante nel banco frigo, quando ho chiesto al commesso di fianco a me: “Mi scusi, non riesco a trovare il lievito. Saprebbe dirmi dov’è?”. Una domanda che prevedeva una replica semplice, tipo “A sinistra, di fianco alle torte in busta”, ma che ha sortito il verdetto: “Nessuno ci riesce. È esaurito ovunque”. Asciutto come una condanna a morte. Ci siamo guardati come due personaggi scritti male, entrambi in attesa di una battuta che ci tirasse fuori dall’impasse. Io con le mani sul carrello e lui con il suo carico di yogurt al tamarindo da sistemare, entrambi a chiederci se esistesse una risposta alla domanda non posta: “Che diavolo se ne faranno di tutto quel lievito?”. Già, perché a quesiti complessi preferiamo risposte semplici, tipo il lanciafiamme di De Luca o gli aperi-bollettini della Protezione civile delle diciotto. Necessitiamo di certezze più del pane e, quando ogni cosa diventa incerta, quando neppure i grandi esperti sanno dove sbattere la testa, torniamo alla base della nostra civiltà, ossia stare fermi e cucinare l’essenziale.

Non credevo che sarei vissuto abbastanza a lungo da vedere i forni di casa trasformarsi in chiese elevate al culto dell’autosufficienza. In fondo chi avrebbe mai immaginato che quei morbidi, giallognoli e puzzolenti cubetti di lievito di birra sarebbero diventati merce rara ai tempi del Covid-19? Nessuno, nemmeno gli scrittori più lisergici. Eppure eccoci qua: metà di noi che augura la muffa a chi è riuscito a procurarselo e l’altra metà che inforna come se nella pagnotta calda ci fossero le risposte alla vita, all’universo e a tutto quanto. Siamo tornati al passato senza nemmeno accorgercene e nei prossimi giorni, ancora orfani di un futuro noto e quindi confortevole, creeremo nuovi miti e ci ritrarremo come veneri dell’età della pietra, con pance gonfie di carboidrati e zuccheri polisaccaridi. I magri saranno i nuovi reietti e cacceremo dalle nostre tribù coloro che non sono stati capaci di infornarsi il pane quotidiano e credere in un nuovo rito. Fidatevi, quando tutto questo sarà finito, avere le mani in pasta assumerà un significato molto meno sinistro. Saremo buoni come il pane, candidi come la farina e puri come il sale. Ogni cosa cambierà: i capoccia di Netflix, Amazon Prime Video e Disney+ daranno mandato ai loro stagisti di mettersi a caccia di una sceneggiatura panificante. Ne usciranno successi come La casa di pasta e Breaking Bread, mentre gli apostoli di YouTube, che per primi hanno predicato il Verbo delle ricette per farsi il lievito di birra in casa, mieteranno consensi dalle legioni di adepti e innalzeranno templi alla pasta madre, unica e vera salvatrice della Patria. L’arena della prossima campagna elettorale sarà il panificio e i complottisti si chiederanno che fine hanno fatto i celiaci e riveleranno anonimamente chi sta dietro la lobby del glutine e che la terra non solo è piatta, ma ha pure una crosta croccante intorno. E noi, che abbiamo vissuto tutto questo, ci ritroveremo a pensare che tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come briciole sulla tovaglia e ci chiederemo se in fondo il virus non abbia paralizzato il mondo, ma l’abbia invece, finalmente, messo in fermentazione.

Dal palco alle grandi opere, un gioco da “backliner”: “Ora chiamate noi”

“Hai visto che roba? In Cina hanno tirato su un ospedale in una settimana”. “Be’, se ci pensi, noi montiamo e smontiamo San Siro in tre giorni, tutto sommato ce la giochiamo”. “Già”. Scene di un dialogo in pieno lockdown tra un backliner e un rigger, meglio noti ai più come membri della famiglia dei tecnici dello spettacolo. Quelli che, per intenderci, portano in giro per il mondo piccoli e grandi tour rock e altro. Il backliner, banalmente, è il tecnico degli strumenti musicali, quello dietro le quinte che tra un pezzo e l’altro spunta con le chitarre in mano, il rigger, invece, è quella specie di uomo ragno che si arrampica tra corde, tubi, fili e luci.

Emilio è un backliner e a questa conversazione fa risalire la nascita di #chiamatenoi, piattaforma “di rappresentanza indipendente partita dal basso” – online da dieci giorni – che raccoglie professionisti e aziende del comparto dell’organizzazione di eventi radunando in un unico elenco “professionalità spendibili in settori diversi da quello dello spettacolo”: “Abbiamo già raccolto più di 600 adesioni”, racconta Emilio.

Cosa sia e cosa voglia proporre #chiamatenoi è presto detto: “Il nostro è il primo settore che ha chiuso – ancora Emilio – e verosimilmente sarà l’ultimo a ripartire. Montare, allestire un megapalco significa avere la capacità di realizzare un’opera logistica temporanea. Il nostro skill è fatto di montaggio strutture, di comparti tecnici di altro livello, di servizi di logistica e trasporto. Esattamente quello che si stanno sforzando di realizzare in breve tempo le amministrazioni regionali per fronteggiare l’epidemia Covid-19”.

Emilio e la sua piattaforma dal basso hanno subito puntato in alto scrivendo direttamente al ministro dello Sviluppo economico Patuanelli: “Chi le scrive è un tecnico dello spettacolo – si legge nella lettera pubblicata su chiamatenoi.it – (…). In questi giorni stiamo vedendo grandi opere realizzate da parte della Protezione civile, opere che noi conosciamo bene, allestimenti da completare in tempi ristretti tra innumerevoli difficoltà, rispetto di norme, imprevisti, lavoro in sicurezza e risultato ottenuto in una manciata di ore… Ecco questo è quello che per noi è pane quotidiano. Mi creda, ci prudono le mani. Ieri ho scritto ai colleghi chiedendo la loro opinione, e la risposta è stata univoca: Chiamate Noi. Abbiamo un valore immenso – conclude la lettera – che purtroppo le nostre istituzioni non conoscono ed è giunto il momento che invece sappiano che ci siamo e siamo disponibili. Pensiamoci, noi siamo pronti”.

Risposte? “In via informale sì – ancora Emilio –. Sappiamo bene che lo sforzo in atto è grande e gli spazi di manovra sono minimi. Ma siamo pronti a dare il nostro contributo”. Ma se nessuno chiama, non basterà… “Cosa accadrà nessuno può saperlo, ma ci stanno contattando diversi privati – conclude Emilio –. Il nostro sito sta diventando un luogo di incontro tra domanda e offerta. Ci sono molti settori in cui possiamo spendere le nostre professionalità: l’agroalimentare, nei campi manca la manodopera, abbiamo specialisti dell’imballaggio e nel trasporto di materiale; i rigger sono specializzati nell’andare in quota, possono essere utili per il giardinaggio, abbiamo una rete di autisti che può ricollocarsi nel delivery… Io sono fiducioso”.

Una strana qualità di questi tempi: “No – conclude Emilio – ma in 20 anni di esperienza in questo ambiente non ho mai conosciuto una persona che non fosse entusiasta del suo lavoro. Probabilmente sono stato fortunato”.

Wight 1970, su quell’isola (quasi) tutto era concesso

Erano più di seicentomila. Furono le Ferrovie Britanniche a calcolare gli hippies sbarcati a Wight in quell’ultima settimana di agosto 1970. Cosa ci si aspettava, dalla terza edizione del Festival rock? Che rinverdisse il mito dell’estate precedente della “Woodstock nation”, l’utopia di Pace, Amore & Musica? O che cancellasse l’incubo di Altamont del dicembre ‘69, la kermesse per mezzo milione di strafatti con gli Stones sul palco e gli Hell’s Angels a uccidere tra le prime file? Wight si prospettava come un rituale di riconciliazione con l’idea di una comunità alternativa, due stracci, uno spinello e sesso libero. Era anche un ghiotto business per i promotori, i fratelli Foulk, che avevano previsto la quota di pareggio a 170mila biglietti: tre sterline per cinque giorni con le più grandi star dell’epoca, entravi nella spianata di East Afton con un timbro sul polso, e ti godevi un cartellone che includeva Jimi Hendrix, The Who, Doors, Miles Davis, gli appena formati Emerson, Lake & Palmer, Leonard Cohen, Joni Mitchell, Chicago, Moody Blues, Free, Taste, Ten Years After e decine di altri. Roba mai vista. Eppure qualcosa andò storto.

Gli impresari chiusero il botteghino dopo aver toccato il break even, ma i ragazzi continuavano ad arrivare. A decine di migliaia. Occupavano la collinetta laterale (ribattezzata “Devastation Hill”) dove il vento trasportava il suono più nitidamente che in platea. Stavano accampati lassù, a sbafo. Si infrattavano nel “boschetto della perdizione” dietro la tendopoli. Altri scendevano fino al mare: l’acqua della baia era gelida, ma se la godevano senza costume. Gli unici pudichi erano gli italiani. I residenti di Wight erano inorriditi. I contadini temevano per i raccolti: in tanti si fregavano i covoni di fieno e ci costruivano capanne. I golfisti chic vedevano i prati devastati, i diportisti dell’alta borghesia temevano che “quegli zozzoni” tagliassero le cime agli yacht ancorati. A bocce ferme, la contea promulgò il Wight Act con cui, dal 1971, si proibivano altri assembramenti: e fino al 2002 il Festival fu sospeso. Anche perché, dal punto di vista economico, il ‘70 era stato un bagno di sangue. I fratelli Foulk lamentarono un rosso di 90mila sterline; il manager che arringava la folla, Rikki Farr, vaticinò che “un evento simile non si sarebbe mai più visto”. Farr cercava di blandire quell’esercito di fattoni. Ma li insultava: “Siete dei maiali. Abbiamo lavorato un anno per darvi tutto questo!”. Ce l’aveva con gli imbucati, che avevano costretto la produzione ad erigere un muro di lamiera ai piedi della collina. I più attivi nel boicottaggio erano i maoisti e gli anarchici francesi. La polizia osservava, ma era più interessata a beccare i pusher: 40 sterline di multa e un mese di prigione. Furono celebrati matrimoni hippy dai sacerdoti anglicani ai margini del raduno. Faceva freddo, e come a Woodstock pareva di vagare in una immensa discarica. Qualcuno parlò di “campo di concentramento psichedelico”: più volte oratori improvvisati invasero il palco. Joni Mitchell tenne botta con un set acustico prudentemente anticipato al pomeriggio (“Mi avete dato in pasto alla bestia”, si lamentò poi con gli organizzatori) ma fu interrotta da un tal Yogi Joe che voleva fare un comizio ai presenti. Stesso attacco lo subirono i Pentangle. Uno della band di Sly & The Family Stone fu centrato in testa da una lattina; Kris Kristofferson fu cacciato a suon di ululati. Cohen attese il suo turno all’alba, uscendo in pigiama dal camper. Conquistò quei morti di sonno chiedendo a tutti di accendere un fiammifero come aveva visto fare al circo da bambino. Prima di suonare, Hendrix disse che si sentiva “ispirato dalla gente”. Morì tre settimane più tardi. I Doors provenivano da Miami, dove Jim Morrison aveva subito un processo per atti osceni ad un concerto. A Wight Jim pretese che non vi fossero luci, durante la performance. I Doors suonarono avvolti nelle tenebre.

Dopo la tappa sull’isola erano attesi da un tour europeo che prevedeva anche date a Roma e Milano, ma il giudice li richiamò in Florida. A Morrison restavano pochi mesi di vita.

Michel Delpech celebrò Wight in un brano ricantato in Italia dai Dik Dik. Murray Lerner girò un film sull’avvenimento.

L’edizione 2020 del Festival, che prevedeva Chemical Brothers, Lionel Richie, Lewis Capaldi, Primal Scream, Duran Duran e Black Eyed Peas è stata annullata per l’emergenza coronavirus.

“Favelas del Brasile, chi ci vive è la vittima ideale dell’epidemia”

Cosme Vinícius Felippsen è un attivista evangelico dell’Assemblea de Deus, molto conosciuto nelle favelas, dove, prima dell’emergenza Covid-19 guidava i turisti nel Rolé dos Favelados, un modo per conoscere uno dei volti reali di Rio. Oggi, Cosme – nato nello storico Morro da Providência, la prima favela del Brasile, eretta 125 anni fa da ex schiavi e reduci della guerra di Canudos – vede che la gente è cambiata; seppure abituati a convivere con la miseria, la violenza e la morte, gli ospiti dell’immensa casbah carioca temono l’invisibile piaga che, dai quartieri ricchi, ha iniziato la sua prevedibile marcia verso le 1018 favelas, dove vive il 22 per cento degli abitanti della città.

Chi vive nei ghetti di Rio diffida della teoria del presidente Bolsonaro sulla scarsa pericolosità del virus.

Lei è un pastore, come giudica il tele-evangelista Silas Malafaia, sostenitore del presidente Bolsonaro, che come lui predica la riapertura dei luoghi di culto?

Hanno entrambi un pensiero super neoliberale che nulla ha a che vedere con la fede, la spiritualità, bensì con l’avidità, il potere e il denaro. Agiscono per mantenersi ricchi. La loro è un’attitudine maligna, non cristiana; questa non è certamente l’essenza del Vangelo.

Come si organizzano le favelas per affrontare l’epidemia del Covid-19?

Il virus aggrava una disperata carenza sociale che dura da cinquecento anni. Le autorità non sanno come affrontare l’epidemia nella zona Sud, figuriamoci se riescono a farlo nelle favelas. Chi vive nei ghetti di Rio segue una filosofia principale che era evocata anche da Marielle Franco, l’attivista uccisa qualche anno fa in un agguato; ossia, ‘noi per noi’. Inutile aspettare aiuto da chi ha sempre voltato le spalle. Ci muoviamo, come sempre, da soli, perché siamo stufi di chiedere i nostri diritti a chi dovrebbe assicurarli ma non lo fa.

In che modo vi organizzate?

Assieme a me, altre guide turistiche specializzate nei giri in mezzo alle favelas hanno immediatamente interrotto i tour, prima che il governatore Witzel ordinasse la quarantena, e abbiamo convertito il nostro network per creare una rete di solidarietà e informazione sull’epidemia. Abbiamo anche inviato una lettera al governatore con varie proposte, tra cui quelle per potenziare il trattamento medico e soluzioni per il problema dell’acqua, dato che la carenza d’approvvigionamento idrico spaventa più della mancanza di spazio nelle sovraffollate comunità, dove non è possibile mantenere qualsiasi tipo d’isolamento e quarantena.

Lei crede ai dati ufficiali sulle vittime?

Il numero è superiore a quello diramato dalle autorità, tengono le cifre basse per non allarmare la gente.

Come giudica il comportamento delle classi sociali agiate?

La prima persona a morire per il coronavirus a Rio, è stata una donna di colore, nera, una domestica. I suoi datori di lavoro, dopo essere tornati dall’Italia, nonostante fossero ammalati, non le hanno permesso di stare a casa, e lei non è sopravvissuta. Sono in molti a non liberare dagli impegni le proprie domestiche. Si comportano così perché sanno che non riceveranno proteste; chi lavora al servizio di queste famiglie ha troppa paura di perdere il lavoro.

Il presidente Bolsonaro non crede alle misure di chiusura anzi vorrebbe riaprire le attività commerciali…

Sono senz’altro a favore della quarantena, ma c’è da dire che sono anche un lavoratore autonomo, come lo sono molte persone della favelas. Sono ambulanti, raccoglitori di rifiuti, gente che lavora in spiaggia. Disperati e senza risparmi. Contano nella fortuna, su un amico, su un vicino di casa o parenti. La situazione su cosa sia meglio fare in una città come Rio è molto complessa.

Secondo lei, come sarà il mondo dopo l’epidemia?

Questo virus è un disastro, ma ci fa guardare in noi stessi, alle famiglie e all’ambiente. Il capitale è in crisi, per cui ripenseremo anche alla disuguaglianze sociali. Se non freniamo il modo in cui siamo vissuti fino a ora, qualcosa ci obbligherà a farlo. Se non abbiamo cambiato fino a oggi per amore e altruismo o valori sociali, forse lo faremo per il dolore patito a causa dell’epidemia.

Oms e virus, tutte le giravolte per non inguaiare la Cina

Più che un virus letale capace di uccidere centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo, il 26 gennaio per l’Organizzazione mondiale della Sanità il Covid-19, allora generico coronavirus, era solo una postilla del punto tre a piè di pagina della prima di nove del rapporto sul nuovo virus. Il rischio globale è “elevato” e non “moderato” come pubblicato nei precedenti rapporti, scrive piccolo l’agenzia dell’Onu. Eppure la correzione non significa ancora “emergenza sanitaria internazionale”. Quella, come spiegherà dopo il direttore del Dipartimento Malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità italiano, Gianni Rezza, “sarebbe stata una dichiarazione politica nei confronti della Cina”.

Passano le settimane, è l’11 marzo: con 100 Paesi interessati dal virus, oltre 100mila casi di contagio e 4mila morti e l’Oms dichiara la “pandemia”. Ora di “gestione politica” a favore di Pechino torna a parlare non solo il presidente degli Usa, Donald Trump, accusando l’agenzia dell’Onu di “pendere per la Cina”, ma anche il Wall Street Journal, nemico giurato di Trump, che ne sottolinea in un editoriale tutte le incongruenze. Il primo errore di Tedros Ghebreyesus risale al 31 dicembre scorso, quando funzionari di Taiwan lo avvisano di avere prove che il virus si trasmetta da uomo a uomo, ma il 14 gennaio l’agenzia twitta ancora l’esatto contrario: “Le indagini preliminari condotte dalle autorità cinesi non hanno trovato prove chiare della trasmissione umana”. Poi arriva il 22 gennaio, Ghebreyesus e il comitato scientifico volano a Pechino: “Gestione esemplare dell’epidemia”, riferirà il direttore generale. “Un viaggio politico più che di salute”, accusa il Wsj. Inizia febbraio e l’Oms ci rincuora, il virus si trasmette da uomo a uomo, ma “solo dai sintomatici”. Ghebreyesus è costretto a rettificare il primo aprile: “È necessario tracciare anche i casi asintomatici per prevenire la diffusione” e anzi, due giorni fa – dopo aver elogiato anche il nostro Paese per la lotta al Covid-19 – avvisa: “In Italia c’è un serbatoio di asintomatici che continua a garantire la circolazione del virus. Finché non si traccia non si può uscire”. Intanto inizia il balletto delle mascherine. Fino al 3 aprile per l’Oms “indossate dalle persone sane non servono a niente, servono ai malati e al personale sanitario”. Il 4: “L’uso di mascherine all’interno di una comunità può aiutare nella risposta complessiva alla malattia”. Ma attenzione, “possono creare un falso senso di sicurezza”. Tutto chiaro.

 

Francia
Obitorio, gestore chiedeva 50  per l’ora di raccoglimento

In piena epidemia l’arrivo della Pasqua implica più controlli per evitare partenze e assembramenti. In Corsica si deve fare la spesa da soli, mentre a Nizza il coprifuoco scatta alle 20. Ieri, Venerdì santo per i credenti, una breve cerimonia si è tenuta nella cattedrale di Notre-Dame, a un anno dall’incendio che l’ha devastata. Il bollettino resta pesante: le vittime del Covid sono 13.197, di cui 8.598 (+554) negli ospedali e 4.599 nelle case di riposo. Ma per la prima volta ieri Jérôme Salomon, direttore generale della Sanità, ha parlato di “leggero rallentamento dell’epidemia”. Continua a calare il numero di ammessi in rianimazione (-62). Intanto uno scandalo ha scosso il Paese: si è saputo che il gestore dell’obitorio temporaneo aperto a Rungis, il mercato all’ingrosso di Parigi, avrebbe fatturato alle famiglie i suoi servizi (gratuiti in un ospedale): 150 euro per il deposito delle bare, 35 euro a giorno oltre i sei giorni e 50 euro per un’ora di raccogliamento. Di fronte alle tante reazioni, il governo ha annunciato controlli, ma preso nella bufera l’operatore ha fatto marcia indietro e si farà carico di tutte le spese.
Luana De Micco

 

Israele
Polemiche, Netanyahu e Rivlin non rispettano l’isolamento

Polemiche verso i leader che non rispettano l’isolamento e governo in alto mare. Per Israele il periodo difficile non è finito e non è solo legato all’epidemia. Dopo aver chiesto con insistenza alla popolazione di rispettare l’isolamento anche durante l’inizio della Pasqua ebraica, sia il premier Benyamin Netanyahu che il capo dello Stato Reuven Rivlin hanno celebrato mercoledì la ricorrenza con familiari che non abitano con loro. Netanyahu è stato ripreso al tavolo di Pesach col figlio minore Avner, mentre Rivlin ha passato la festa con una figlia. I due hanno dato la loro versione dei fatti, il più sincero è stato il presidente Rivlin; a 80 anni, rimasto vedovo, ha chiesto la compagnia della figlia. Altri guai invece riguardano la formazione del governo; l’accordo fra Netanyahu e Benny Gantz prevedeva i primi 18 mesi di guida al capo del Likud e il resto all’ex generale, con l’impegno che se l’attuale premier nel suo turno iniziale fosse stato impedito per una ragione qualsiasi – leggasi il processo a suo carico – allora sarebbe toccato a Gantz e non a uno del Likud. Ora sembra che l’accordo sia saltato e il mandato affidato dal presidente Rivlin a Gantz sta per scadere.

 

Spagna
Al via le attività non essenziali, ma senza l’ok degli esperti

Entrano in vigore da oggi, ma saranno attive da lunedì le nuove norme del governo spagnolo per la “fase due”, cioè la ripresa delle attività non essenziali. Esclusi i luoghi di aggregazione, vedi bar, chioschi e ristoranti, da lunedì riapriranno dalle fabbriche agli studi legali. “Con le dovute precauzioni e sempre favorendo il telelavoro”. Un piano che il premier Sanchez aveva promesso ai cittadini con il primo piano di emergenza il 14 marzo e che ha voluto mantenere nonostante poi l’esecutivo abbia optato per il prolungamento del lockdown nel decreto del 29 marzo. Peccato che il premier non abbia consultato il comitato di esperti scientifici che con uno dei membri ha fatto sapere che “sarebbe stato più sensato proseguire con lo stop delle attività oltre questa settimana”. Intanto le vittime del coronavirus in Spagna scendono ancora: 605 in 24 ore, la cifra più bassa dal 24 marzo, cala a 3 la percentuale dei nuovi contagi e i guariti arrivano a 50 mila. Ma “è ancora presto per scendere in strada”, ha avvisato il ministro della Salute, Salvador Illa. Motivo per il quale da lunedì sui mezzi pubblici si distribuiranno mascherine.

 

Stati Uniti
Grande Mela, 10 mila casi in più e le fosse comuni nel Bronx

Nel giorno in cui il totale dei deceduti da coronavirus nel mondo supera i 100 mila, Melania Trump sfida il marito presidente e, sui social, appare con la mascherina, che Donald, invece, non vuole mettere, nonostante le raccomandazioni del Centers for Disease Control and Prevention. I decessi per coronavirus nell’Unione hanno ormai superato quota 17 mila, calcola la Johns Hopkins University; i casi di contagio avvicinano il mezzo milione, quasi un terzo di quelli in tutto il mondo. Lo Stato di New York, con meno di 20 milioni di abitanti, conta da solo più positivi di ogni Paese eccetto gli Usa: oltre 160 mila. New York City ne ha 87 mila. Qui, il ritmo di diffusione del virus – 10 mila casi in più nelle ultime 24 ore – impone misure straordinarie, come l’allestimento di fosse comuni in aree riservate alle sepolture degli indigenti. Trump guarda ai dati di Wall Street e sogna la riapertura a maggio ma gli esperti avvisano: le restrizioni riducono la diffusione del coronavirus, rimuoverle dopo 30 giorni si tradurrebbe in un balzo delle infezioni durante l’estate e un numero di morti senza paragoni.
Giampiero Gramaglia

Biagi-Benigni, la tv senza distanziamento sociale

Don Chisciotte e Sancho Panza? Fuocherello. Geppetto e Pinocchio. Ecco, appunto. Non poteva non cominciare dalla coppia naturale Enzo Biagi-Roberto Benigni la riproposta delle interviste di Biagi nel centenario dalla nascita a cura della lunga fedeltà di Loris Mazzetti (Rai3, domenica, alle 13. Ma perché? per non disturbare Domenica in? Esiste qualcuno al mondo che sceglie di abbandonare un’intervista di Biagi per un’intervista di Mara Venier?). Quando Benigni esce dal ceppo di legno della tv degli anni 70 (Onda libera, ma si doveva chiamare Televacca) nasce l’artista più refrattario al distanziamento sociale mai apparso sui palcoscenici. Biagi ne è attratto in puro istinto paterno, e i faccia a faccia diventeranno un appuntamento fisso. Non interviste ma duetti tra l’uomo scrivania e il pupazzo a molle. “Qual è il suo atteggiamento verso le donne?” “Dottor Biagi, io gli salto addosso!” “Cosa ha pensato quando Berlusconi ha detto ‘Scendo in campo?’” “Dottor Biagi, mio padre era contadino e non si capacitava. Ma come, con tutti i soldi che ha non se l’è fatto un bagno privato?”. Il rapporto prosegue, i botta e risposta su Silvio pure, finché Pinocchio mette nei guai il pur adorato Geppetto. Cacciato dalla Rai nel 2002, Biagi ci tornerà solo cinque anni dopo, nel 2007, quando però Benigni non ha quasi più niente del Pinocchio che era stato. Il resto è storia nota: “Com’ero buffo quando ero un burattino! E come sono contento di essere diventato un ragazzino perbene”.

La verità dei fatti nello strano caso di Bruno Contrada

L’Araba Fenice è un favoloso uccello: rinasce, mentre sembra stia morendo nel fuoco, da un uovo generato dalle sue stesse ceneri. Una favola che ricorda le sequenze del caso Contrada.

A beneficio dei disinformati, si rammenta che Bruno Contrada, un alto funzionario di polizia, è stato condannato in ragione di numerosi gravi fatti di costante supporto a Cosa Nostra e di molteplici specifici favori a boss di assoluto rilievo. Fatti accertati con prove granitiche: pentiti, ma anche documenti, intercettazioni e tantissimi testimoni (fra cui Caponnetto, “padre” del Pool antimafia, e il giudice svizzero Del Ponte, insieme a poliziotti, carabinieri e vedove di mafia).

Nel 2007, Contrada è condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa (artt.110 e 416 bis Cp). Ma dopo questa definitiva pronunzia si ricomincia, con cadenze che ricordano appunto l’Araba Fenice. E la Corte d’appello di Palermo (aprile 2020) arriva a liquidare a Contrada la cospicua somma di 667 mila euro per ingiusta detenzione.

Tutto nasce da un ricorso alla Cedu (Corte europea dei Diritti dell’uomo) e da una sua sentenza del 2015 che non pone minimamente in discussione i fatti e la ricostruzione dei giudici italiani, e tuttavia condanna lo Stato italiano a risarcire un danno in base all’assunto che Contrada non poteva essere condannato.

Perché? Per il paradossale ragionamento che secondo la Cedu il reato di concorso esterno in associazione mafiosa nasce soltanto nel 1994, in virtù di una sentenza della Cassazione (Demitry) che lo avrebbe meglio definito dopo alcune oscillazioni giurisprudenziali. Perciò sarebbe, sempre secondo la Cedu, un reato di origine giurisprudenziale. E poiché le gravi condotte di Contrada (realizzate dagli anni Settanta al 1992) sono anteriori, egli non poteva sapere che erano illecite e nel contempo esse non erano ancora riconducibili al reato di concorso esterno.

Questo ragionamento è fragile per tutta una serie di motivi.

A parte l’assurdità di un poliziotto del livello di Contrada, che non poteva percepire l’illiceità delle sue condotte, la Cedu cade in un grosso equivoco. La tesi di un reato che sarebbe stato creato ex novo nel 1994 dall’interpretazione giurisprudenziale, si infrange contro la logica. La quale insegna che la giurisprudenza può intervenire soltanto se preesistono reati già codificati. Altrimenti, per usare un’espressione volgare, non c’è trippa per gatti. La verità è che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa esiste nel nostro codice penale da molto tempo, in forza di due articoli che paradossalmente cita la stessa Cedu (p. 4) come pertinenti al caso, il 110 e il 416 bis Cp.

Il 110 stabilisce la “pena per coloro che concorrono nel reato” ed è norma di carattere generale, presente nel codice fin dalla sua emanazione (1930). Per cui il concorso esterno non è altro che la combinazione del 110 con l’articolo del codice che, di volta in volta, punisce questo o quel reato specifico. Per la mafia è il 416 bis, inserito nel codice nel 1982 (dopo l’omicidio di Dalla Chiesa), che si è aggiunto al 416 (associazione a delinquere) da sempre nel codice.

In altre parole, il concorso esterno in associazione mafiosa scaturisce dalla combinazione di norme del codice operative ben prima che Contrada ponesse in essere le sue condotte e ben prima della sentenza Demitry cui si aggancia la Cedu per un’improponibile origine giurisprudenziale.

Che è poi ciò che affermano in modo inequivocabile sia la nostra Corte costituzionale (poco dopo la Cedu, nel 2015) sia la Cassazione nel 2016, smentendo i giudici di Strasburgo.

La Cedu, poi, scivola quando ignora del tutto come il concorso esterno compaia addirittura in sentenze della Cassazione di Palermo del 1875, per essere ripreso in molti casi successivi fino al “maxi ter” di Falcone e Borsellino (1987). In ogni caso, la sussistenza dei fatti rilevati a carico di Contrada non è stata mai scalfita. Né dalla Cedu né dai giudici (di Caltanissetta e della Cassazione, di recente anche le Sezioni Unite) che dopo la Cedu si sono occupati di Contrada, rigettando ogni tentativo di ridiscuterne la condanna.

Ciò vale anche per la Corte di Palermo, che ha deciso il risarcimento, ma nel contempo ha escluso l’applicabilità dell’art. 643 cpp (riparazione dell’errore giudiziario), ricordando anche che la Cassazione ha respinto in via definitiva un ricorso per la revisione del giudicato penale di condanna. E che arriva addirittura a citare – par. 5.2, p. 27 – la testimonianza di Gilda Zino, vedova dell’ing. Roberto Parisi, secondo cui “il dott. Contrada mi disse, con fermezza, che qualunque cosa io potessi sapere che riguardava la morte di Roberto dovevo stare zitta, non parlarne con nessuno e ricordarmi che avevo una figlia piccola… mi disse solo queste testuali parole”.

Dunque, l’Araba Fenice nasce dalla Cedu e da una sua applicazione a fini risarcitori che qui registriamo.

Qui interessa soprattutto: ribadire che i fatti sono stati tutti e sempre confermati da chi li ha analizzati; smentire coloro che – contro la verità – parlano di un “secondo caso Tortora”, di ”smacco” e “frana della tesi accusatoria” della Procura di Palermo; evidenziare l’ennesimo attacco livoroso a quella Procura che in certi anni ebbe il torto di applicare la legge (vigente!) a tutti, senza accomodamenti per gli uomini infedeli degli apparati statali. Perché la mafia è una cosa seria e va affrontata in modo serio: non è una favola come l’Araba Fenice.

Da ultimo, alcuni interrogativi. La condanna di Contrada resta e si fonda sulla prova provata di fatti gravi: agevolazione della latitanza di vari boss, tra cui Riina; provvidenziali “soffiate” su indagini in corso; interventi per il rilascio abusivo di patenti e porto d’armi; ripetuti incontri con mafiosi.

Ciò posto, è proponibile la domanda se sia giusto oltre ogni dubbio gratificare il responsabile di quei fatti con una barca di soldi? Non significa (al di là delle intenzioni) svuotare la mafia della sua terribile pericolosità, che si nutre proprio di relazioni esterne?

E ancora: se la fonte di tutto è una sentenza Cedu nata da un fraintendimento interpretativo, deve proprio la giustizia italiana prestarvi comunque pedissequo ossequio? Oppure, viste le tante illogicità e stranezze che accostano la vicenda giudiziaria alla favola dell’Araba Fenice, ci sono spazi per rivolgersi alla Corte costituzionale (la stessa che ha smentito quel fraintendimento) per verificare se sia rispettato il criterio di ragionevolezza che molte sue decisioni si preoccupano di testare?

Tra poco e troppo ha ragione il poco

Siamo nei giorni in cui non ci possiamo scambiare abbracci, ma malattie. Forse qui dobbiamo restare, in questo dolore. Il dolore va lenito e poi pianto quando muore alla vita e non sappiamo dove arriva: non sappiamo cosa accade nell’invisibile, non sappiamo se ci portano rancore i morti inceneriti, non sappiamo quando si chiuderà questa crepa, quando ne arriverà un’altra.

Occupiamoci del nostro dolore e del dolore del mondo, non per distrazione, per intrattenimento, il dolore è l’unica pancia che ci può partorire veramente: il mondo non è di chi nasce, ma di chi sa rinascere, cercare chi non c’è, capire che non siamo qui per restare nel tempo, ma per attraversarlo.

Non dobbiamo avere fretta di guardare avanti e neppure l’impazienza di tornare indietro. E non è un problema se restiamo ancora un poco fermi, se ne approfittiamo per svuotar le nostre vite che si erano fatte troppo piene, troppo esigenti. Tra il troppo e il poco ora è molto chiaro che ha ragione il poco, e non è male qualche felice indugio in mezzo al mondo, fino a quando passeremo dal poco al niente.

La conversione paraideologica della pubblicità

“La pubblicità opera insomma come autentica agenzia di influenza sociale: una influenza portatrice di una vera e propria ideologia che ha come riferimenti caratterizzanti la competizione, il successo, la sessualità, l’esaltazione esasperata dell’avere e del consumare”.

(da “Pubblicità: effetti collaterali” di Adriano Zanacchi – Editori Riuniti, 2004 – pag. 132)

 

Sarà pure una trasformazione più o meno opportunistica, d’ispirazione commerciale o propagandistica; un adattamento alla situazione e alle tensioni esistenziali; o un cambio di codice promozionale. Ma in questa emergenza sanitaria ed economica può essere interessante osservare – sia per chi fa informazione, sia per chi la riceve – come stanno mutando rapidamente i contenuti e il linguaggio della comunicazione pubblicitaria.

Sui giornali, in televisione, alla radio e su Internet, sembra quasi di assistere a una conversione paraideologica della pubblicità. Dalla sequenza del consumismo più esasperato – esci di casa, entra in un negozio o in un supermarket, paga e acquista – le inserzioni e gli spot si stanno evolvendo in una forma contagiosa di condivisione e di solidarietà. E cioè: restate a casa; vi portiamo noi quello che vi serve; non c’è bisogno che facciate scorte; ci pensiamo noi a rifornire il Paese ogni giorno, di latte, pane e parmigiano, perché “una comunità è più grande di un supermercato” e via di questo passo.

Oggi la pubblicità, dopo averci bombardato di slogan e di tentazioni, vuole restituirci “l’orgoglio e il coraggio di essere italiani”. Assicura che “torneremo presto a essere effervescenti” e che perfino “il pet food pensa positivo”. Predica che “ci sono valori che stiamo riscoprendo: quello della parola grazie”. Ricorda che “non c’è bisogno di stare insieme per essere uniti”. E comunque, garantisce che “la vita tornerà ad avere un sapore meraviglioso”, magari con il gusto del grana padano.

Affiora, dunque, uno slancio socio-pedagogico nella comunicazione pubblicitaria; un anelito di sobrietà; un richiamo alla consapevolezza e alla responsabilità. Il marketing e il merchandising sembrano lasciare il posto, per il momento, all’educazione civica, all’autocontrollo e all’autodisciplina. E questo, in qualche misura, può fare da antidoto o da contrappeso all’incubo collettivo che stiamo vivendo.

Tutto ciò non può che essere apprezzato da chi considera la pubblicità – oltre che “l’anima del commercio”, come si suol dire – una risorsa primaria per tutta l’editoria, per il pluralismo dell’informazione e la libera concorrenza. Ma proprio per questo ne ha sempre contrastato, in forza dei principi antitrust, l’overdose e la concentrazione nelle mani del vecchio “duopolio televisivo”. La “buona pubblicità” non dev’essere necessariamente una pubblicità buona né tantomeno buonista.

Nel libro Uno spot ci salverà, scritto con Sergio Luciano e pubblicato prima della pandemia, l’ex presidente dell’Upa (Utenti pubblicità associati) e dell’Auditel, Giulio Malgara, dice: “Quando osservo la situazione dell’industria pubblicitaria italiana, quando misuro la distanza siderale che c’è tra la pubblicità emozionante e incisiva di trent’anni fa e quella algida e irrilevante di oggi, mi chiedo: ma quanti italiani ricordano ancora lo polemiche di quegli anni?”. Pochi o tanti che siano, “la scopa di don Abbondio” – come la chiama lo storico Luciano Canfora nel titolo di un suo saggio – e cioè “il moto violento della storia”, ha spazzato via ormai qualsiasi inclinazione nostalgica. E questo, dopo il coronavirus, vale anche per la comunicazione pubblicitaria.

Export, l’unica strada è quella del digitale

Caro direttore, i recenti articoli di stampa, da ultimo il Fatto Quotidiano del 06.04, mi portano a condividere la strategia che sta ispirando questa febbrile opera di pianificazione che da qualche tempo ho avviato, insieme al ministro Di Maio, con ICE e il gruppo Cassa Depositi e Prestiti.

L’internazionalizzazione e la promozione del commercio estero, cuore delle mie deleghe in Farnesina, sono una componente fondamentale della nostra azione perché insistono su quella parte di Pil, derivante dall’export, che crescendo costantemente negli ultimi anni ha contribuito a tenere a galla la nostra economia con un volume complessivo di 475.8 mld di euro nel ’19 (+2,3% sul ’18), pari al 32% dell’intero Pil del nostro Paese.

Gli scenari che emergono da questa crisi pandemica di portata epocale, con un inevitabile condizionamento delle abitudini dei cittadini/consumatori, prevedono uno “sparigliamento” di carte senza precedenti tanto nella società quanto nel business.

Basta vedere il cambiamento che, già oggi, il Covid-19 ha comportato al nostro modo di lavorare (smart working), di fare riunioni e persino lezioni a scuola (videoconference), di comprare beni (ecommerce). È già in atto un inesorabile, per quanto forzato, spostamento delle nostre società verso una cultura del digitale.

Con un occhio all’Estremo Oriente, che parte già da un’esperienza di isolamento sanitario (dai tempi della Sars) e di digitalizzazione delle proprie economie più avanzate della nostra (in Cina con Wechat e Alibaba e in Giappone con Rakuten), possiamo trarre alcuni indicatori di cosa potrà portare, applicato all’Occidente, il post-Covid: uno stile di vita più chiuso e sparagnino di prima, un globale “new frugal” che rischia di investire le nostre economie, riducendo incassi, giri d’affari, movimento di circolante, e con la prospettiva che le imprese più piccole, impreparate a questi nuovi scenari, siano spazzate via dal mercato.

In tale fosco contesto, uno spiraglio di luce si intravede proprio nel digitale, quel digitale cui ci stiamo aggrappando in tempo di pandemia e da cui rischiamo di dipendere sempre di più di qui a qualche mese. Noi irriducibili ottimisti siamo quindi portati a pensare che non tutto il male venga per nuocere: finalmente l’Italia potrà dotarsi di quelle infrastrutture digitali che le consentiranno di rinnovarsi!

Per attrezzarci, non rimane molto tempo. Bisogna avviare uno spostamento, epocale quanto questo maledetto virus, delle nostre Pmi verso forme di digitalizzazione del commercio e della prestazione dei servizi, che diverranno un prerequisito ancora più indispensabile rispetto all’era pre-Covid per l’internazionalizzazione della stessa economia. Per aumentare la presenza delle Pmi nell’eCommerce globale abbiamo bisogno di colmare con soluzioni all’avanguardia l’arretratezza italiana (ed europea) nei pilastri dell’eCommerce ovvero logistica, pagamenti, protezione dei dati e piattaforma. Uno sforzo congiunto e multilivello che, ad esempio, potrebbe partire dall’immenso patrimonio di presenza sul territorio rappresentato da Poste Italiane e da altre realtà virtuose specialmente nel mondo della moda. Dobbiamo favorire la digitalizzazione delle imprese a tutti i livelli con investimenti pubblici a sostegno (voucher innovazione), diffondere la cultura del digitale con campagne specifiche di formazione e abbassare drasticamente i costi di accesso ai marketplace globali. Su questi pilastri abbiamo stanziato ingenti risorse a partire dal decreto Cura Italia e, recentemente, ho avviato con ICE una riflessione sulla fattibilità di un nuovo portale integrato italiano di promozione ed eCommerce, che non replichi gli errori del passato e consenta alle nostre micro imprese di accedere, in modo equo e al riparo da forme di monopolio e concorrenza sleale, ai mercati mondiali. Un portale che sfrutti a 360 gradi tutte le componenti dell’irresistibile appeal che risiede non solo nel prodotto Made in Italy, ma anche nelle bellezze paesaggistiche, culturali e turistiche.

Un nuovo Rinascimento ‘digitale’ italiano dalle ceneri del Covid-19.