Anche in Piemonte gli infetti nelle Rsa

La delibera non è più fantasma. Le “misure emergenziali per far fronte all’epidemia Covid-19 e le modalità di attivazione di posti in Rsa autorizzate o accreditate”, adottate dalla giunta regionale del Piemonte il 20 marzo scorso, ci hanno messo ventuno giorni a veder la luce. E alla fine, ciò che molti sospettavano e altri denunciavano (come il capogruppo regionale di Liberi e Uguali e Verdi, Marco Grimaldi) ora è confermato. In Piemonte, come in Lombardia, la Regione ha, se non direttamente disposto, quantomeno consigliato il ricovero di pazienti positivi al Covid-19 nelle Rsa del territorio. “La Giunta regionale unanime – si legge – delibera di disporre che le Aziende Sanitarie Locali potranno reperire, nell’ambito di Rsa autorizzate, posti letto dedicati a pazienti Covid positivi con bisogni sanitari compatibili con l’assistenza in Rsa”.

Insomma, esattamente come in Lombardia, anche in Piemonte la scelta di liberare posti letto negli ospedali, dirottando i malati meno gravi (anche) nelle residenze per anziani attrezzate, potrebbe essere all’origine dell’altissimo tasso di decessi che si registra anche a ovest del Ticino (si sospettano ormai oltre 450 morti).

Se l’opzione poteva dirsi rischiosa il 20 marzo, ora appare suicida, dal momento che la pubblicazione sul bollettino regionale rende la delibera operativa. Ma il testo della “delibera fantasma” era comunque arrivato da tempo alle Ats, le Agenzie per la tutela della salute che hanno sostituito le Asl, e alle Rsa. E il sospetto è che la delibera sia stata operativa: “Sappiamo che il Commissario dell’Azienda Sanitaria locale di Biella, Avv. Diego Poggio – dichiara Grimaldi – ha assunto la DGR n. 14 con deliberazione n. 126 del 23.03.2020 e proceduto ad applicarla”.

Il testo della delibera rappresenta comunque un problema politico per la giunta Cirio che – per voce del suo assessore alla Sanità Luigi Icardi – aveva sempre smentito: “Nessuno ha trasferito o ha intenzione di trasferire pazienti positivi dagli ospedali alle Rsa”, aveva dichiarato nei giorni scorsi. “L’idea semmai è di impiegare strutture nuove e inutilizzate”. E qui, sul punto delle strutture nuove, si innesta un piccolo giallo. Nella stesura originale non vi si fa alcun accenno, mentre nel testo diffuso ieri si prescrive che “gli organismi di vigilanza certifichino per le Rsa in possesso della sola autorizzazione alla realizzazione, il possesso dei requisiti”. Non esattamente un’esclusione delle Rsa già esistenti, nonostante questa continui a essere la linea dell’assessorato: “Per noi la delibera vale per le nuove Rsa, anche se è possibile che la formulazione del testo dia adito a qualche problema di interpretazione. E comunque il requisito fondamentale sono spazi e aree separati e personale dedicato, non basta candidarsi. Le condizioni vanno verificate”. Oggi alle 12 la consueta conferenza stampa giornaliera dell’assessore alla Sanità avrà sicuramente un argomento in più all’ordine del giorno.

Alzano, contagi dal 15 febbraio I ras regionali: “Non chiudete”

Contrasti, urla, lettere di fuoco, nei giorni bollenti in cui l’ospedale di Alzano Lombardo fu lasciato diventare il cluster infettivo più micidiale d’Europa. Tra mille bugie e reticenze ufficiali, comincia a emergere la verità su ciò che è successo in quell’ospedale, sulle scelte dell’Azienda socio sanitaria territoriale (Asst) Bergamo Est da cui dipende e, su su, dei vertici della Regione Lombardia. È dal cluster di Alzano e Nembro, paesi a pochi chilometri da Bergamo, che il contagio da Covid-19 è partito probabilmente verso Bergamo, poi Brescia, infine Milano: l’area con più infettati e morti d’Europa. È dall’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano che tutto parte, già prima del 20 febbraio.

Ora sappiamo che qualcuno voleva chiudere (il direttore medico Giuseppe Marzulli e i medici della struttura) e qualcuno impose invece di andare avanti (il direttore generale della sanità lombarda Luigi Cajazzo, il direttore generale della Asst Bergamo Est Francesco Locati, il direttore sanitario della Asst Roberto Cosentina). Mentre i vertici della Regione (il presidente Attilio Fontana e l’assessore al Welfare Giulio Gallera) temporeggiarono, non chiusero subito, come potevano fare, l’area di Alzano e Nembro in una zona rossa che avrebbe potuto bloccare o almeno ridurre il contagio, aspettando invece l’intervento del governo, che arrivò l’8 marzo, con l’intera regione dichiarata zona arancione.

È la giornalista Francesca Nava, del sito Tpi.it, a rivelare che Marzulli, direttore medico del presidio ospedaliero di Alzano, ha provato a bloccare il contagio, in quei giorni del 23-24-25 febbraio, urlando contro i “superiori” delle direzioni generale e sanitaria. E ha poi messo nero su bianco il suo allarme in una lettera datata 25 febbraio: “Presso il Pronto soccorso stazionano tre pazienti senza che vengano accolti né dall’ospedale di Seriate né da altre strutture aziendali”. Sospetti Covid-19. “È evidente che in queste condizioni il Pronto soccorso di Alzano Lombardo non può rimanere aperto”. Gli ordini sono: aspettare l’esito del tampone: “Tale indicazione è assurda (ed uso un eufemismo) in quanto, come noto, i tempi di refertazione sono mediamente intorno alle 48 ore e ciò vuol dire far stazionare tali pazienti per 48 ore presso il Pronto soccorso, cosa contraria a qualunque protocollo e anche al buon senso”, scrive il dottor Marzulli. Concludendo con un secco: “Ritengo indispensabile un intervento urgente”.

Alcune testimonianze confermano il conflitto di quei giorni. Un dipendente della Asst: “La riapertura dell’ospedale di Alzano è avvenuta per ordini superiori. Il direttore, il dottor Marzulli, era chiaramente contrario e si è espresso più volte in questo senso. Quel lunedì 24 febbraio io ero in servizio e dal suo ufficio lo si sentiva urlare con la direzione generale, la direzione sanitaria, la direzione strategica di Seriate che gli hanno imposto la riapertura. C’è stata una situazione di conflitto, ma ha eseguito gli ordini”. Racconta il dipendente: “A partire dal 15 febbraio, erano già stati accolti pazienti poi risultati positivi al Covid-19”. Sabato 22, un paziente infetto transita dal Pronto soccorso e due vengono trasferiti al Giovanni XXIII di Bergamo, dove muoiono. Domenica 23: è il caos. Il Pronto soccorso chiude e “riapre senza nessuna sanificazione specifica e senza che venissero predefiniti percorsi di sicurezza”, con i pazienti coronavirus accolti “insieme agli altri”. E ancora: “La gente sintomatica ha continuato a lavorare, il personale sanitario circolava liberamente e la sera faceva rientro a casa”. Lunedì 24, l’ospedale riapre. “C’era un clima quasi di panico, di paura generale, più che altro c’era una corsa al tampone, tutti i dipendenti volevano fare il tampone”. Martedì 25 febbraio vengono accolti altri tre pazienti con sintomi Covid-19. Marzulli scrive ai suoi capi. Invano.

Drammatica la testimonianza anonima al Tg1 di un primario dell’ospedale di Alzano: “Il 23 febbraio è arrivata la chiamata del direttore generale Cajazzo, che ha detto: non si può fare, non possiamo chiudere oggi Alzano, tra due ore Cremona… Quindi riaprite tutto”. Conclude il primario: “Abbiamo pensato: se noi tecnici dobbiamo dipendere da loro, siamo morti”. Un’infermiera racconta invece al sito Valseriananews.it: “La sanificazione dell’ospedale è stata fatta quattro giorni dopo. Siamo stati obbligati a tenere i pazienti infetti insieme agli altri ricoverati per 72 ore cruciali. Il nostro direttore ha chiuso subito il pronto soccorso, ha avvisato i vertici… Nel frattempo abbiamo fatto una lista di pazienti transitati nel Pronto soccorso e nei reparti, i ricoverati, i famigliari, il personale entrato in contatto, lo abbiamo fatto con la caposala, noi autonomamente, mentre i vertici si confrontavano sul da farsi. I giorni successivi, il delirio! Comunicazioni/direttive che cambiavano di ora in ora”.

“Noi caduti come mosche, ma abbiamo dato il culo”

“La mamma del signor Denti, il signore del primo piano, è morta di Coronavirus, lo sa?”. Nashat, il portiere egiziano del mio palazzo a Milano lo sussurra con la voce triste, mentre controlla la pila di lettere arrivate ieri. Da quando vivo qui ho incontrato non so quante mattine il signor Denti – un uomo gentile sulla sessantina – mentre usciva dal portone. “Vado a trovare la mamma, è qui davanti, ricoverata al Palazzolo Don Gnocchi. Le hanno dovuto amputare una gamba, non posso tenerla in casa con me purtroppo”, mi aveva spiegato una volta. Lina, sua mamma, aveva 95 anni. Lascio un biglietto sotto la porta del signor Denti, non è tempo di abbracci, questo: “Siamo dispiaciuti per sua mamma, sappiamo che le è stato sempre vicino”, scrivo.

La mattina dopo, il signor Denti mi telefona. “Grazie per il biglietto. Mia mamma era lì da due anni, io andavo da lei tutti i giorni. A fine febbraio hanno chiuso le visite ai parenti, ma io mia mamma la sentivo tante volte al giorno al telefonino. Dal 3 o 4 marzo al suo cellulare non rispondeva più. Chiamavo il Palazzolo e mi dicevano che aveva avuto un po’ di febbre, ma stava bene. Io chiedevo che le accendessero il cellulare, rispondevano sì, ma niente. Il 22 mi telefona la dottoressa Russo che lavorava al piano di mia mamma e mi dice che lei è a casa col Covid e che anche mia madre lo ha. Tre giorni dopo chiamano e mi dicono che mamma è morta col Coronavirus, non per. Di fatto mia madre aveva i suoi problemi, ma stava bene, ho il senso di colpa di non essermela portata a casa. E sicuramente il virus lo aveva da settimane, ma la direzione non ci ha informati. Lo ha detto al telefono a mia sorella una dottoressa chiamando da casa sua, assurdo”.

Il signor Denti mi spiega che la dottoressa ammalata abita nel palazzo di fianco al nostro. Trovo il nome “Antonella Russo” sul citofono, mi faccio aprire e suono alla sua porta. Ha i guanti e la mascherina, ha avuto 39,5 di febbre. “Sono ancora positiva”, mi premette subito. Resto fuori dalla porta, ci parliamo a distanza. “Ho fatto il tampone il 14 marzo. Ho saputo che ero positiva il 21 marzo e a quel punto ho avvisato tutti, anche il signor Denti. Con i miei pazienti ho un rapporto forte, li curo per anni, non è che poi vado a casa e mi scordo chi siano. Però guardi, non vedo più la tv per non arrabbiarmi, voi non potete capire cosa succede nelle Rsa”. “Me lo spieghi”, le dico. “Alla protezione civile non è fregato niente delle case di riposo. Noi abbiamo 1.400 pazienti, 700 in casa di riposo, il resto in medicina. Di protezioni non ne abbiamo mai avute. Ci hanno dato 100 mascherine a fine marzo per 400 dipendenti, ma io già ero a casa col Covid. Le usava chi aveva i sintomi”.

Quando è entrato il Coronavirus al Palazzolo? “Sa, a un certo punto ti giri e dici ‘Cacchio il paziente ha la febbre…’, ma non si pensava ancora al Covid”. Scusi, ma lì quando sono iniziate le febbri nei pazienti?. “A fine marzo..”. Dico che la data non torna visto che a fine marzo c’erano già dei morti e che la madre di Denti aveva febbre dai primi di marzo. “Il 10 di marzo un nostro medico era stato a casa con la febbre, ma nessuno aveva pensato al Covid”. Ma come è possibile? “Lei li sa tutti i sintomi del Covid?”. Abbastanza, il 10 di marzo poi le informazioni c’erano. Detto ciò, chi di voi operatori aveva i sintomi andava a lavorare? “Eh magari con la congiuntivite.. uno che ne sapeva”. Ma certo che si sapeva a marzo che la congiuntivite è un sintomo. “Ci sono anche le congiuntiviti allergiche. Noi siamo caduti come mosche e abbiamo dato il culo!”.

Quanti suoi colleghi si sono ammalati? “Tantissimi. Alcuni ora sono intubati o sotto ossigeno. Molti invece erano asintomatici. Quando dal 14 al 21 abbiamo fatto a tappeto i tamponi, nel mio reparto 8 su 15 erano positivi”. Se la media è questa e ci sono 400 operatori lì dentro, chissà quanti contagiati. E i pazienti? “Non puoi fare il tampone a 1.400 pazienti”. Quanti ne sono morti? “Boh. Io sono stata fino al 21 marzo, ne ho visti due nel mio reparto”. Se fino a quella data non avevate neppure le mascherine, chissà quanti oltre i 27 ufficiali.

“Guardi, anche la Asl mi ha chiamata chiedendomi quando ci hanno dato le protezioni. Ma a noi a che servivano le protezioni se non avevamo i sintomi? Nelle case di riposo non si devono mica mettere le mascherine”. C’era un’epidemia in corso. “Tanto non c’erano. Abbiamo lavorato un mese senza alcuna protezione, ci dicevamo: ‘Ragazzi tra un po’ ce l’avremo tutti’”.

Alcuni dipendenti del Palazzolo hanno depositato denuncia contro la direzione. “Sono quelli della cooperativa Anpals. Degli idioti. Perché denunciano il Palazzolo e non la cooperativa?”. Non ci sono state carenze da parte della direzione? “Io ho visto la disperazione in tutti, anche nella direzione”.

Perché la direzione non informava i parenti? “È così importante? La direzione non sa neppure chi siano i pazienti. I miei li chiamavo io. Guardi, è come se per forza qui si volesse trovare l’errore”.

Beh, la gestione della direzione ha avuto gravi lacune.

“Secondo me ha avuto lacune il Covid”.

Scusi?

“Ha sintomi difficili da riconoscere, dopo 20 giorni un po’ li riconoscevo, ma la prima settimana no”.

E mica si devono riconoscere i contagiati ad occhio, servono i tamponi.

“Anche in aeroporto si misura la febbre eh, mica si fa altro”.

Ma voi eravate una struttura con dentro migliaia di pazienti fragili. Alcune strutture da febbraio usavano precauzioni.

“Non le avevamo. Dovevamo abbandonare i pazienti?”.

La struttura poteva denunciare la situazione alla Asl. Ai parenti.

“Senta, io per 21 giorni al lavoro andavo in bagno e sentivo piangere tutti. Chiamavo i parenti e il dialogo era: ‘Tuo marito morirà’. ‘Di Covid?’. ‘È possibile, tuo marito ha 91 anni, è possibile che muoia di Covid come di tante altre cose’. ‘Gli avete fatto il tampone?’. ‘No, cosa glielo facciamo a fare. Anche fosse che cambia?’”.

E quando i pazienti stavano male chiamavate il pronto soccorso?

“Il pronto soccorso? Ma va. Io da me avevo un paziente di 52 anni, tra l’altro un comico abbastanza famoso, positivo al Covid, ho chiamato in ospedale e mi hanno detto che se non era in insufficienza respiratoria non lo prendevano. Una paziente è caduta, si è fratturata un braccio e mi hanno detto, dottoressa, il braccio glielo sistemi come può, non ce la mandi. Se la manda qui ora è morta”.

E gli anziani Covid in insufficienza respiratoria?

“Ma noi tendenzialmente un anziano non lo mandiamo al pronto soccorso. So curarlo meglio io”.

E se va intubato?

“Non li intubano. Il papà di una mia amica, 78 anni, solo perché lei è di una famiglia molto importante lo hanno intubato. Alle Betulle, però, a 1.500 euro al giorno”.

La ’ndrangheta punta agli appalti per le nuove Rsa

Il comparto sanitario travolto dallo tsunami Covid-19 è oggi un’allerta per l’Antimafia. In una prospettiva molto vicina, se non già attuale, di capitali mafiosi che inquinano la fase 2 della ripresa, c’è un nuovo dato da approfondire: l’opera di ristrutturazione delle Residenze sanitarie per anziani rivelatesi troppo fragili e inadeguate. Se Covid è il terremoto, le Rsa rappresentano una delle zone più colpite, e che dovrà essere ripensata anche nella prospettiva di una seconda ondata di contagi. E dunque ci saranno appalti da assegnare, materiale da acquistare. Tutte necessità nelle quali la ’ndrangheta si è sempre dimostrata molto attiva. Come ha raccontato l’inchiesta Mentore della Dia di Milano su un cartello di ’ndrine, supportate da massoneria e politica, entrato nell’affare milionario delle case di riposo in Lombardia. Oggi “la mobilità” delle cosche, soprattutto calabresi, è continua. La conferma arriva da una serie di dossier investigativi strettamente riservati.

Gli alert sono contenuti in due circolari inviate ai questori da Francesco Messina, direttore della Direzione anticrimine (Dac). La prima viene inviata il 27 marzo, seguirà una seconda del 4 aprile. “Superata la fase critica – si legge – appare ineludibile predisporre strumenti in grado di prefigurare lo scenario sotto il profilo evolutivo della criminalità organizzata mafiosa” visto che le cosche “operano nelle pieghe delle criticità sociali”. E in modo ancora più concreto: “Tale scenario potrà evidenziare ampi margini di inserimento per le mafie nella fase di riavvio di molteplici attività economiche, tenuto conto che la crisi attuale si configurerà come portatrice di un deficit di liquidità”. Tra i settori bersaglio degli interessi mafiosi c’è proprio quello “sanitario” e “la gestione degli approvvigionamenti specie di materiale medico”. La corruzione, in questo settore, è un alert specifico rispetto “all’erogazione di misure economiche di sostegno emergenziale”. A seguire c’è “il comparto agro-alimentare” e “quello della ristorazione” che a Milano si è allargato in modo sospetto. Collegato a questo, il rischio che i piccoli imprenditori si “espongano al reclutamento economico e al finanziamento illecito con modalità di interposizione fittizia”.

Da qui una indicazione chiara alle squadre Mobili affinché “si attivino subito alla ricerca di un patrimonio informativo circa l’attuale realtà economica”. In particolare si richiede un rapporto più stretto con le associazioni di categoria, da Confindustria e Confcommercio “al fine di potenziare il monitoraggio dei casi di default economico”. Attività alla quale potranno dare un contributo i poliziotti patrimonialisti voluti dalla direzione della Dac per aggredire i capitali mafiosi che inquinano l’economia legale. La seconda nota del 4 aprile individua in modo preciso gli “alert situazionali”. Il primo riferimento è al fenomeno che viene dopo l’usura ovvero “la fagocitazione di impresa favorita dal bisogno impellente di denaro”. Dopo questo c’è l’aspetto più tradizionale del riciclaggio e “del riutilizzo di provviste in nero”. E ancora “il trasferimento fraudolento di beni e le truffe per il conseguimento di erogazioni pubbliche”. Ma non c’è solo economia, c’è anche la manovalanza criminale. Scrive il dottor Francesco Messina: “Il rallentamento dell’economia potrebbe rappresentare per le mafie terreno fertile al reclutamento dei nuovi componenti”. Non a caso “si sta già registrando un progressivo intensificarsi delle attività di spaccio e delle condotte predatorie in danno degli istituti bancari”. Insomma il lockdown oggi vale per tutti, ma non per le mafie.

Da Nord a Sud, le procure indagano su morti-Covid

Tanti sono i fascicoli che, in questi giorni, da Nord a Sud, i pm stanno aprendo sul Covid-19. Tante le indagini che per i prossimi mesi terranno banco e su cui il virus continuerà a gettare la sua sinistra ombra.

 

Lombardia

Dal Trivulzio di Milano alla mancata zona rossa

Sono 1882 i morti per Covid-19 nelle Rsa della Lombardia, solo 700 a Milano città, e in Procura sono diversi i fascicoli. “L’intero sesto dipartimento della procura, competente per la salute pubblica – ha detto l’aggiunto Tiziana Siciliano – sta lavorando alle varie segnalazioni: contestiamo reati di diffusione colposa di epidemie e omicidio colposo”. Per ora si procede soprattutto sul piano documentale. Si acquisiscono cartelle cliniche, esposti: molte sono denunce di familiari o di sigle sindacali. Ieri al Pio Albergo Trivulzio, finito nella bufera per diverse morti sospette, sono arrivati i Nas per acquisire documenti. L’indagine penale segue parallela a quella della commissione d’inchiesta regionale. Altre indagini sono in corso sull’Istituto Palazzolo Fondazione Don Gnocchi, sulla Casa famiglia di Affori, sull’istituto Golgi Redaelli, ma anche su altre Rsa in città e in provincia. In Procura si segue anche il dossier mascherine: al momento venti gli indagati nel filone che riguarda la vendita dei Dpi su Amazon e eBay. E c’è l’indagine della procura di Bergamo per epidemia colposa che riguarda il pronto soccorso di Alzano Lombardo. L’indagine punta anche a definire responsabilità sulla mancata apertura della zona rossa. Tema allo studio anche da parte della Procura di Milano. Infine, c’è l’indagine della Procura di Lodi, aperta pochi giorni dopo il 20 febbraio, sulla diffusione del virus all’ospedale civile di Codogno: l’accusa è di epidemia colposa.

 

Piemonte

Tredici fascicoli sui ricoveri per anziani

Oltre 23 decessi sospetti dai primi di marzo su 214 ospiti. Venti operatori sanitari malati, due in ospedale, un organico dimezzato. L’ultimo focolaio che sta esplodendo in Piemonte è a Rivoli, alle porte di Torino. Nella Rsa Bosco della stella ieri Cgil, Cisl e Uil hanno protestato contro la gestione dell’emergenza. Anche in questo caso tamponi e protezioni per gli operatori sanitari sono stati chiesti più volte, ma non sarebbero mai arrivati per tutti. È solo l’ultimo caso di una Regione dove le inchieste della magistratura sulle Rsa sono già arrivate a oltre 13. Non ci sono ancora ipotesi di reato né indagati, ad eccezione di Vercelli. Ma si lavora su centinaia di esposti e segnalazioni. Solo nella provincia di Torino i Nas hanno effettuato oltre venti blitz ed avviato l’inchiesta sui 33 morti della Rsa di Grugliasco.

 

Veneto

La prof. di Treviso e il tampone in ritardo

È stata aperta un’inchiesta a Treviso già il 27 febbraio sulla morte di una professoressa 76enne molto popolare in città. È un caso simbolico perché oltre a essere uno dei primi sarà verificato dai magistrati il rispetto dei protocolli sanitari: il test per scoprire se la donna fosse positiva sarebbe stato eseguito nella stessa giornata in cui è morta. Altre inchieste sono state aperte dopo denunce ed esposti di familiari delle vittime.

 

Emilia-Romagnia

Le mascherine a Bologna e le strutture nel caos

La Procura di Piacenza sta indagando sulla vicenda – rivelata dal Fatto – delle case di cura “Piacenza” e “Sant’Antonino” e sui motivi della carenza di mascherine e dispositivi di protezione per i sanitari degli ospedali cittadini. Gli ospedalieri dell’Anaao hanno denunciato alla procura della Repubblica la carenza di maschere filtranti a Bologna: “I contagi tra i medici e gli operatori della sanità rischiano di svuotare gli ospedali”.

 

Lazio

L’allarme a Civitavecchia e i test non effettuati

La Procura di Civitavecchia indaga sulla Rsa “Madonna del Rosario”, dove finora sono deceduti 14 anziani: su 55 persone assistite risultano essere 42 i contagiati, oltre a diversi lavoratori. Anche l’Rsa Giovanni XXIII di Roma è finita in una denuncia, quella dei parenti di un anziano deceduto nei giorni scorsi. I familiari ritengono che l’uomo sia stato abbandonato dagli operatori intimoriti di poter essere contagiati. I vertici della struttura respingono ogni accusa.

 

Campania

Operatori sanitari derisi per la richiesta di Dpi

Secondo un report-denuncia dell’Anaao finito sulle scrivanie dei pm l’alto numero di medici contagiati è il risultato di “un’organizzazione ospedaliera regionale che ha fallito, ha creato promiscuità incomprensibili tra pazienti infetti e non infetti e ha terrorizzato il personale sanitario” deridendo medici e infermieri, si legge, “quando reclamano una sostituzione della mascherina usata per giorni”. Tra gli ospedali più colpiti c’è il Cardarelli di Napoli.

 

Puglia

Fascicoli sui contestati “ritorni” al paese

I magistrati di Lecce hanno aperto un’inchiesta sulla Residenza sanitaria per anziani di Soleto, almeno dodici vittime e l’incubo degli scambi di persona: “Non sappiamo se nostra nonna è morta”, hanno riferito ai giornali locali familiari di una degente. C’è un fascicolo a Bari sul caso di una partoriente arrivata dall’Emilia-Romagna, senza dichiararlo, che avrebbe contagiato un medico e cinque infermieri.

 

Sicilia

Pozzallo, morto 15enne Inchieste a Enna e Siracusa

C’è un’inchiesta per epidemia colposa a Ragusa, a seguito della morte di un quindicenne egiziano (risultato positivo) all’hotspot di Pozzallo. La Procura di Siracusa indaga per omicidio colposo sulla morte di Calogero Rizzuto, direttore del parco archeologico della città, e le possibili responsabilità mediche nel ritardo di diagnosi e ricovero. C’è un’indagine anche sul contagio all’Umberto I. Ad Enna si indaga per epidemia colposa, dopo la morte di una paziente trasferita da un ospedale a un altro, senza tampone. A Caltanissetta aperto un fascicolo sulla situazione sanitaria provinciale.

 

Calabria

Nicola Gratteri sul caso Chiaravalle

Sulla scrivania di Nicola Gratteri c’è il fascicolo sulla Rsa Domus Aurea di Chiaravalle, 20 anziani morti.

Quei riaperturisti in tv all’attacco di Galli

Professor Galli, abbia pazienza: lei ha studiato per una vita i virus e la loro diffusione, sta lavorando indefessamente, ma qui si sta facendo una cert’ora, a casa ci annoiamo, il Pil crolla… O ci dà una data certa sulla riapertura, o per favore non parli più, altrimenti ci deprime.

Più o meno è stato questo il senso del dibattito che si è svolto giovedì sera a Otto e mezzo, con Lilli Gruber che cercava di mediare tra la scienza e le inferocite invettive della vicepresidente di Confindustria e del giornalista Luca Telese che si è accorto che così non si può andare avanti.

L’infettivologo del Sacco ha detto ai riaperturisti: “Se siete capaci di convincere il virus a darci una data certa…”. La vice di Confindustria è montata su tutte le furie: Fare i test! Fare i tamponi! Negli Usa (dove non c’è il nostro tipo di lockdown, ndr) il contagio è molto più lieve! Tutto falso: i tamponi dicono se uno oggi è positivo e contagioso, non se lo sarà domani; i test dicono se ha avuto il Covid-19, ma non si sa quanto duri l’immunità; gli Usa, primo Paese al mondo per contagi, hanno un ritardo di tre settimane e già i nostri morti, e tra un mese staranno come staremmo noi se avessimo dato retta a Confindustria invece che agli scienziati.

Tra interruzioni continue e intimazioni (“La sua risposta non è più ricevibile!”, ha detto Telese), Galli è riuscito a dire: “Se apriamo troppo presto e malamente ci risiamo dentro da capo, questo è il rischio dei rischi”. Un punto talmente elementare che possono capirlo pure a Confindustria.

Suggerimento: appena qualcuno, come la vice di Confindustria, dice “noi abbiamo a cuore la salute di cittadini e lavoratori, però allo stesso tempo abbiamo a cuore il futuro del Paese” al “però” togliere subito il collegamento. Cominceremo a considerare autorevoli lorsignori quando lavoreranno insieme agli operai, negli stessi ambienti, con le stesse protezioni, o quando cominceranno a pagare di tasca loro tamponi e test per ripartire in tutta sicurezza.

Conflitti d’interessi Nessuna richiesta al Super Comitato

La cautela è massima e i verbali delle riunioni, per stare più sicuri, sono secretati. Il Comitato tecnico scientifico incaricato di indicare al governo il quadro in cui muoversi per l’emergenza coronavirus è asserragliato nel “fortino” di via Vitorchiano sulla Flaminia a Roma. Perché il rischio di mettere per iscritto anche una virgola fuori posto o che l’interpretazione delle indicazioni possa indirettamente provocare danni, è ben presente a tutti. Il resto, al Dipartimento della Protezione civile dove il Comitato si riunisce dai primi di febbraio dopo la nomina, lo fa la paura di ripiombare nell’incubo del processo per le vittime del terremoto de L’Aquila alla Commissione Grandi rischi. Di cui il Comitato tecnico-scientifico è una sorta di riproduzione, per quanto oggi l’emergenza sia soprattutto di natura sanitaria e non di protezione civile in senso stretto.

Riaprire quando e come dopo il lockdown? E le mascherine che non si trovano devono diventare obbligatorie per tutti o no? I nodi da sciogliere non sono solo questi, perché servono parole chiare sui test sierologici, su chi sottoporre a tampone e via dicendo, mentre il vaccino è ancora solo una speranza. L’incarico è delicatissimo: le loro indicazioni potrebbero fare la fortuna di aziende impegnate nella ricerca, nella diagnostica e pure nella produzione di dispositivi di protezione, per non dire di macchinari costosi come i ventilatori, farmaci e reagenti. Basti guardare il balzo in Borsa della DiaSorin che produce i test. Eppure ai membri del Comitato finora non è stato chiesto di sottoscrivere alcuna specifica dichiarazione sui possibili conflitti di interessi.

Nella fase iniziale, secondo l’ordinanza del 3 febbraio del direttore della Protezione civile Angelo Borrelli, i sette membri del Comitato erano il Segretario generale del ministero della Salute Giuseppe Ruocco, il direttore generale della Prevenzione sanitaria Claudio D’Amario e quello del coordinamento degli Uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera dello stesso ministero, Mauro Dioniso. C’è poi il direttore scientifico dell’Istituto nazionale per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani” Giuseppe Ippolito, il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro, un rappresentante della Commissione Salute designato dalla Conferenza delle Regioni, Alberto Zoli (Lombardia), più un coordinatore del Comitato che appartiene agli alti ranghi del Dipartimento della Protezione civile, Agostino Miozzo. Quasi subito sono stati integrati da altri due dirigenti del ministero della Salute. Dopo la metà di febbraio e i primi casi in Lombardia e Veneto dal professor Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità e a seconda delle esigenze da numerosi altri specialisti e professori a seconda delle esigenze, consulenti di cui è difficile anche fare un elenco completo. Per la pmneumologia Luca Richeldi del Gemelli di Roma, per le rianimazioni Massimo Antonelli sempre della Cattolica di Roma, per la geriatria Roberto Bernabei ancora del Gemelli, per la pediatria Luca Villani del Bambin Gesù di Roma. A volte c’è anche Ranieri Guerra dell’Organizzazione mondiale della sanità. C’è il generale Massimo Sebastiani per la Sanità militare. Insomma un organismo a geometria variabile.

Come spiegano dal ministero della Salute i componenti istituzionali, tenuti per legge, hanno già dichiarato i propri rapporti retribuiti del triennio precedente con soggetti privati nell’ambito dei loro incarichi abituali, ma non tutti sono in questa condizione. Vista la rilevanza dei compiti, ci si attenderebbe il massimo della trasparenza, curricula e dichiarazioni su Internet, come per i consulenti del ministero o della Protezione civile stessa. “Tutti comunque sono tenuti al dovere d’ufficio”, assicurano dal ministero della Salute.

Almeno nella composizione iniziale del Comitato, peraltro, si è scelto di indicare la funzione e non le persone, anche qui sulla scorta dell’esperienza della Grandi rischi dove c’è stato un prima e un dopo: lì si era scelto di indicarli per nome e cognome, ma nel 2011 si era creato un problema perché Domenico Giardini, che rappresentava l’Istituto di geofisica e vulcanologia, nel frattempo si era dimesso dalla presidenza dell’Ingv.

Come per la Grandi rischi, i membri del Comitato tecnico-scientifico non ricevono compensi, né gettoni. E avendo funzioni consultive, non hanno compiti di comunicazione pubblica. Anche per questo le riunioni si svolgono a porte serrate e le trascrizioni fin qui sono rimaste sotto chiave. Anche perché, al solo sentire la parola “verbale”, alla Protezione civile ricordano la riunione del 31 marzo 2009 nella Grandi rischi alla caserma della Guardia di Finanza de L’Aquila e soprattutto le dichiarazioni pubbliche del giorno dopo. Ne seguì un processo lunghissimo ai membri della Commissione, poi tutti assolti in Cassazione a eccezione dell’ex vice capo dipartimento della Protezione civile, Bernardo De Bernardinis, condannato a due anni per una comunicazione di contenuto “inopportunamente e scorrettamente tranquillizzante” che sarebbe risultata fatale per alcune vittime del 6 aprile.

Calo record dei ricoveri Ma ancora 570 morti

Continuano a diminure i ricoveri negli ospedali e le persone che lottano per la vita nei riparti di terapia intensiva. Ma il numero delle vittime resta ancora drammaticamente alto. È una nuova giornata di luci e ombre quella fotografata dai dati della Protezione civile, nelle ore in cui il governo comunica agli italiani la decisione di prolungare le misure necessarie a contenere l’epidemia di Covid-19.

“La curva ci mostra chiaramente una situazione di decrescita e questo è un segnale positivo – ha spiegato ieri mattina il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro –, ma non deve farci abbassare la guardia”. La strategia di contenimento basata sull’isolamento sociale ha dimostrato la sua efficacia ed eccetto pochissime eccezioni sarà prorogata fino al 3 maggio, come confermato ieri pomeriggio dal premier Giuseppe Conte. “Le misure – ha aggiunto Brusaferro – sono essenziali per mantenere la curva quando sarà scesa sotto la soglia di R0 per i contagi”. La cui crescita continua a tendere verso il basso: nel giorno che ha fatto registrare il nuovo record di tamponi (53.495 quelli comunicati ieri), l’incremento è stato di 3.951 unità (+2,75%), per un totale di 147.577 casi totali comprese le persone positive, quelle decedute e quelle dimesse o considerate guarite. Giovedì erano stati 4.204 in più (+3,02%), mercoledì 3.896 (+2,83%), martedì 3.039 (+2,29%), tappe di un “plateau” che continua, seppur molto lentamente, a declinare.

Anche dati che arrivano dagli ospedali “confermano il calo della pressione iniziato una settimana fa”, ha commentato il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli nel consueto punto delle 18. Diminuiscono sia i ricoverati con sintomi, scesi di 157 unità (0,55%) a quota 28.242, che quelli nelle terapie intensive (anche in parte per via dei decessi): ieri erano 3.497 ed è stato il giorno in cui si sono liberati più letti, 108 (-3%), ultimo dato di un trend iniziato il 4 aprile e che vedeva il precedente primato di 106 posti (-2,72%) risalire il 7. Mentre salgono a 66.534 le persone in isolamento domiciliare (+2,56%). Sull’altro lato del crinale ci sono quelle dichiarate guarite, 30.455 in tutto, 1.985 (6,97%) in più di giovedì quando l’aumento era stato di 1.979 unità (+7,47%). Segnali di miglioramento arrivano anche dalla Lombardia, dove scendono a 1.202 i ricoveri in rianimazione (-34), mentre quelli nei reparti non critici sono 11.877 (+81). Rallenta anche la crescita dei decessi: 10.238, con 216 nuove vittime a fronte delle 300 di giovedì. E resta alta l’attenzione su Milano: in provincia sono 26 i nuovi contagi (a fronte dei 440 di giovedì) per un totale di 12.748, mentre il focus sulla città dà una diminuzione meno netta con 127 nuovi casi rispetto ai 155 delle 24 ore precedenti, per un totale di 5.106.

Resta, invece, alto il numero delle vittime: 570 quelle di ieri, poco meno delle 610 di giovedì. Ma lo stillicidio non si ferma: arrivati a 18.849, i decessi viaggiano verso le 20mila unità. Un traguardo che, se il trend non cambierà in modo drastico, verrà verosimilmente raggiunto a inizio settimana.

“Serve il prelievo forzoso, come Amato nel ’92”

“Il problema è il nome. Sentiamo patrimoniale e mettiamo mano alla pistola. Allora chiediamo a qualche creativo di cambiar nome e proseguiamo sulla strada più naturale e conveniente per noi”.

Oscar Farinetti versione comunista. Chiama gli italiani ricchi a saldare il conto del Covid.

È una situazione di emergenza? Sì. Abbiamo tutti paura di finire col culo per terra? Sì. È vero che abbiamo un grande debito pubblico? Sì. È vero che abbiamo un grande risparmio privato? Sì?

Chiediamo a Conte di prelevare dal nostro conto corrente e risolvere così la questione. Questo lei dice?

Una famiglia quando ha problemi finanziari e ha in cascina dei risparmi cosa fa? Va in banca e li utilizza. Noi abbiamo in banca, parlo di noi italiani, 4.117 miliardi di euro. Siamo risparmiatori fortissimi, tra i migliori al mondo. Abbiamo nelle nostre mani il 5,4% della ricchezza mondiale. Se contribuissimo alla ricostruzione versando il 2% di questa bella montagna di quattrini, manderemmo nelle casse dello Stato – una tantum – 82 miliardi di euro. Una cifra rispettabile con la quale possiamo sfangarla e ripartire.

La patrimoniale fa venire così tanta angoscia agli italiani che Berlusconi, per vincere le elezioni, la scovò dietro ogni siepe.

Perciò la chiameremmo con un altro nome. Però la logica di questa azione di autotutela è inattaccabile.

La logica.

Chi ha 500 mila euro in banca mette 10 mila euro. Chi ne ha 5 mila mette cento euro. È troppo?

I ricchi possiedono il 60 per cento del risparmio privato. Quindi non saranno d’accordo.

Mica penso che brinderanno… Dico solo che fatti due conti ci conviene di più.

Così possiamo mandare l’Europa a quel Paese.

Non si fidano. Non vogliono mutualizzare il debito. E un po’ di ragione l’avrebbero. Abbiamo troppa burocrazia che brucia ricchezza, sugli sprechi di cui siamo protagonisti non mi dilungo e anche la corruzione, la filiera criminale, è protagonista quasi quotidiana delle cronache. Non è che gli altri vivano in paradiso, se la mettono così.

Gli imprenditori vorrebbero il fondo perduto.

Il governo ha scelto bene, la formula del prestito a tasso basso è giusta. Il fondo perduto è diseducativo. Però rientrare del prestito in soli sei anni è impossibile. Bisogna dare speranze e un orizzonte più lungo.

Chi si oppone a questo prelievo, non so se forzoso o volontario, afferma che in questo modo il risparmio invece di essere indirizzato agli investimenti viene succhiato dall’emergenza.

Ma sbaglia di certo. Uno che ha i soldi adesso perde il 7% in Borsa. Meglio lasciarne due allo Stato e ritrovarne cinque sul conto titoli, non crede?

Il prelievo dev’essere forzoso?

Un po’ come fece Giuliano Amato nel 1992. Troviamo i modi migliori, il nome più suadente per dire patrimoniale, ma dev’esserci una norma che ci obblighi. Gli italiani sanno essere generosi. Sanno fare la loro parte. Il problema purtroppo è un altro.

Ecco il problema.

Chi spenderà quei soldi? Saranno maciullati dalla burocrazia oppure torneranno in circolo nel corpo degli italiani?

Lei ha una bella rogna con Eataly.

Finora ho perso il 25% del fatturato. Ne perderò un altro 30% nel corso dell’anno. A New York siamo a -80. Una catastrofe.

I supermercati fanno affari d’oro.

Sono stati fortunati, e nella vita ci vuole fortuna. Ma non tutti guadagnano. Quelli che hanno la distribuzione nelle città certo che fanno affari d’oro, penso a Esselunga. Quegli altri, come Coop, che hanno gli iper nei centri commerciali invece compensano appena le perdite.

Lei però è un ottimista impenitente.

Questa storia finirà. Quando arriverà il vaccino faremo tutto ciò che oggi non ci è permesso, anzi raddoppieremo. Sono certo che ci sarà un grande rimbalzo nell’economia, come nel Dopoguerra. L’unica preoccupazione è quando questo cavolo di vaccino sarà pronto…

Ora Farinetti si fa pessimista.

I soldi ce li hanno in pochi, i debiti in tanti. E vedo che purtroppo questa è una gran brutta rogna…

Ecco l’idea suicida del Pd: la Corona Tax sui redditi

Non è una patrimoniale, meglio dirlo subito. L’emendamento che il Pd ha annunciato ieri alla Camera al decreto Cura Italia è invece una tassa sul reddito, un contributo di solidarietà temporaneo sulla quota di guadagni superiore agli 80mila euro: perché occuparsi di “coperture” nel momento in cui si approva un decreto, e un altro se ne attende a breve, per dare in deficit sollievo a milioni di italiani bloccati in casa non è chiaro. Fatto sta che si tratta di una proposta già morta visto che tanto il M5S quanto i renziani di Italia Viva hanno detto che non passerà mai, mentre il centrodestra festeggiava l’autogol.

Nel merito, ieri i deputati Graziano Delrio (capogruppo) e Fabio Melilli hanno fatto sapere che “il gruppo del Pd della Camera, in piena sintonia con il partito” propone una nuova tassa per il 2020 e 2021 da cui si attendono un gettito da 1,3 miliardi di euro (in una crisi che costerà forse 100 volte tanto). Come che sia, funzionerebbe così: il contributo andrebbe dal 4 all’8% della parte di reddito eccedente gli 80mila euro coi contribuenti interessati (circa 800mila) divisi in fasce. Il prelievo sarebbe del 4% oltre 80.000 euro per salire al 5% oltre i 100.000, al 6% oltre i 300.000 e al 7% sopra i 500mila; chi guadagna da un milione in su pagherà l’8%.

Secondo la tabella che accompagna il testo, la coronatax costerebbe 110 euro l’anno in media per i 200mila contribuenti che guadagnano tra 80 e 90mila euro (200 euro lordi, ma con la possibilità di dedurre 90 euro); 331 euro tra 90 e 100mila; 718 euro da 100.000 a 120.000 euro; 1408 euro da 120.000 a 150.000 e così via fino ai 54.001 euro per i soli 796 contribuenti che dichiarano più di un milione.

Se il Pd si concentra sui redditi, va detto che anche la famosa “patrimoniale” – tipologia di tassa peraltro già in vigore in diverse forme in Italia – è stata proposta ieri. Ci hanno pensato alcuni parlamentari di LeU anche se in modi diversi. Nicola Fratoianni, per dire, lancia un’imposta dell’1,5% sui patrimoni (mobiliari e immobiliari) superiori al milione di euro, una platea – contando anche le case – non così piccola; Francesco Laforgia invece lancia “una patrimoniale sulle grandi ricchezze, non sui piccoli risparmiatori: i giganti del web, le multinazionali con sede nei paradisi fiscali, le grandi rendite finanziarie”. Anche la patrimoniale comunque, in qualunque forma, al momento ha zero possibilità di passare, ma queste proposte hanno contribuito ad avvelenare il clima nella maggioranza: per molti 5 Stelle, ad esempio, l’uscita del Pd serve solo a togliere i riflettori dal cedimento italiano sul Mes.

Oltre all’impossibilità politica, ci sono non pochi problemi di merito. La tempistica, con l’Italia bloccata da settimane che ancora aspetta i primi aiuti stanziati, è sbagliatissima, tanto più che fino a qualche giorno tutti si riempivano la bocca con “in questo caso bisogna fare debito” e non sottrarre risorse a cittadini e imprese. Questo senza contare che una crisi mai vista in tempo di pace potrebbe aver reso invecchiata la fotografia dei redditi 2019 su cui si baserebbe la tassa per il 2020. In generale poi misure di questo genere – che aggrediscano i redditi o i patrimoni – difficilmente riescono a colpire i molto ricchi: il denaro e i beni di questi ultimi non conoscono frontiere, la tassazione sì. In serata, comunque, Giuseppe Conte ha sepolto la corona tax: “Il governo non ha fatto propria quella proposta e non la vedo all’orizzonte.