L’intesa (per adesso) non serve: il nodo del Recovery Fund

Quando un accordo viene letto diversamente da tutti i suoi contraenti, è chiaro che il problema è solo rinviato. L’intesa siglata giovedì notte all’Eurogruppo dai 27 ministri delle Finanze dell’Ue è un esercizio di equilibrismo linguistico. “È il primo passo verso l’emissione di debito comune”, secondo il ministro Roberto Gualtieri. Per il suo omologo olandese, Wopke Hoekstra, è “volutamente” vago in modo che l’Italia possa vederci ciò che vuole, ma la sostanza è chiara: “In nessuna parte si può leggere una condivisione del debito” (contro cui peraltro il Parlamento dell’Aia ha già votato ben due volte). Quindi cosa è stato approvato?

L’accordo segna una tregua tra l’asse dei Paesi del Nord (Germania e i suoi satelliti, Olanda in testa) – convinti che la risposta alla crisi innescata dall’epidemia debba essere nazionale o in forma di prestiti condizionati – e quelli del Sud, capitanati da Italia, Spagna e i sette che hanno sottoscritto una lettera per chiedere “uno strumento europeo di debito comune”. L’accordo è in tre punti più un quarto, l’unico davvero utile all’Italia ma anche il più vago e su cui l’accordo resta lontano. Premessa: si tratta del ventaglio di soluzioni tecniche che i ministri affidano al Consiglio dei leader Ue del 23 aprile. Nulla è ancora deciso e, prima di allora, il Parlamento italiano dovrà fornire un indirizzo vincolante al governo.

Il primo strumento individuato riguarda i lavoratori. È il piano “Sure”, un fondo gestito da Bruxelles che si indebiterà fino a 100 miliardi: soldi da prestare ai Paesi per finanziare sussidi anti-disoccupazione in cambio di 25 miliardi di garanzie. Ogni Stato membro può ottenere al massimo 10 miliardi. L’Italia, per dire, dovrebbe versare 2 miliardi di garanzie per un prestito netto di 8 miliardi, a un tasso che, se anche fosse zero, permetterebbe un risparmio che vale lo 0,02% del Pil.

Il secondo schema è il piano di liquidità della Banca europea degli investimenti: un aumento di capitale da 25 miliardi versato da tutti gli Stati membri dovrebbe permettere alla Bei di dispiegare 200 miliardi di prestiti per 27 Paesi, soldi che non si possono usare per la spesa corrente (pensioni, sussidi, eccetera)

La terza gamba, la più controversa, riguarda il Meccanismo europeo di stabilità. Il Mes metterà a disposizione una linea di credito “precauzionale” da 240 miliardi per i Paesi dell’Eurozona. Può fornire risorse fino al 2% del Pil per ogni singolo Stato membro (36 miliardi per l’Italia) che non dovrebbe essere soggetto a condizionalità solo per le spese legate “al finanziamento dell’assistenza sanitaria diretta e indiretta”. Se invece le spese sono destinate al sostegno economico, resta il Mes finora conosciuto: prestiti in cambio di pesanti condizionalità (tagli e riforme strutturali) per rientrare dal debito, che peraltro diventerebbe creditore privilegiato rendendo meno sicuro il debito pregresso. Finita la crisi sanitaria, si legge nel testo finale, gli Stati “dovranno rafforzare i fondamentali economici, coerentemente con le regole fiscali Ue”. Modello Grecia.

L’Italia aveva chiesto di “snaturare” il Mes, eliminando qualsiasi condizionalità. Il fondo resta e crea un binario parallelo di cui nessuno vede l’utilità, visto che le spese sanitarie sono la parte meno rilevante dei 1.500 miliardi di costi stimati della crisi: perché un Paese dovrebbe lanciare ai mercati il segnale di essere insolvente per usufruire di pochi fondi e iper-vincolanti? L’Italia non ha firmato il Mes, come accusano Lega e Fdi, ma non lo ha neanche snaturato.

La vera novità riguarda lo European recovery fund chiesto dalla Francia e appoggiato da Italia e Spagna: secondo Parigi dovrebbe emettere debito garantito da tutti i Paesi per finanziare la ripresa economica. L’Olanda è contraria. Berlino pure e peraltro vuole legarlo al bilancio Ue (che oggi vale solo 140 miliardi e viene negoziato ogni 7 anni con lunghe e complesse trattative). Secondo l’ex vicepresidente della Bce, Vitor Constancio, Bruxelles dovrebbe utilizzare i fondi raccolti sul mercato come linea di budget per pagare direttamente alcune spese degli Stati membri. Il loro debito pubblico non aumenterebbe nell’immediato e potranno ripagare i prestiti a lungo termine contribuendo maggiormente al budget europeo. Sarebbe l’unica vera soluzione. Ma oggi sembra un miraggio.

Il testo finale parla di un fondo “temporaneo, mirato e commisurato ai costi” della crisi e toccherà ai leader Ue “definire gli aspetti giuridici e pratici, comprese le sue relazioni con il bilancio dell’Ue, le sue fonti di finanziamento e gli strumenti finanziari innovativi, coerenti con i trattati dell’Ue”. Per Germania e Olanda non potrà essere finanziato con debito comune: gli “eurobond” che il governo italiano considera l’unica via per assicurare una risposta adeguata alla gigantesca recessione in arrivo.

L’intero pacchetto vale 500 miliardi, a fronte dei 1.500 necessari secondo i calcoli di Bruxelles. Servono risorse ingenti e un modo per evitare di rendere insostenibili i debiti pubblici dei Paesi più vulnerabili. Obiettivo, al momento, lontano. La palla, ora, passa ai leader europei.

“È ancora tutto da discutere Il pacchetto va migliorato”

Il giudizio sulla partita di cui tutti discutono è sospeso: “Io aspetto il Consiglio europeo, quello a cui parteciperanno il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e gli altri leader. Sarà come il quarto tempo nella pallanuoto, in cui puoi decidere l’esito di una gara che fino a quel momento era in bilico”. Davide Crippa, capogruppo dei Cinque Stelle alla Camera, schiva la richiesta di dare un voto all’esito dell’Eurogruppo per l’Italia. Ma ripete più volte: “Abbiamo piena fiducia in Conte, che ha assunto chiari impegni in Parlamento”.

Cioè no sempre e comunque al Mes?

Il presidente ha detto chiaramente che l’Italia non vi farà mai ricorso, e lo ha ribadito oggi in conferenza stampa. Non è uno strumento adeguato, perché è stato pensato per altre tipologie di crisi. E comunque noi eravamo già contrari a suo tempo al Mes.

Però nel documento finale dell’Eurogruppo il fondo salva Stati c’è, i coronabond no, o almeno non in maniera esplicita.

Il pacchetto non è ancora chiuso, ci sarà il Consiglio europeo. I coronabond per noi sono uno strumento necessario, e vanno messi sul tavolo.

Senza i bond, il M5S respingerà il pacchetto della Ue?

Per noi sono la strada da seguire. Se poi Conte troverà altri strumenti li valuteremo. Ma la nostra linea è questa.

Sul tavolo europeo ci sono già il Sure, il fondo contro la disoccupazione, e le garanzie della Bei, la Banca europea per gli investimenti. Ma per molti, anche del M5S, il Sure è un’insidia, perché si basa su prestiti con condizionalità. Mentre la Bei si sarebbe impegnata per una cifra troppo bassa.

Bisogna discutere delle condizionalità, nel dettaglio, e soprattutto della tempistica con cui restituire determinate somme. Imporre agli Stati una restituzione in tempi brevi renderebbe impossibile adottare il Sure: semmai va potenziato. Quanto alla Bei, è importante che la Banca centrale europea provveda ad aumentare la sua liquidità in una fase come quella attuale.

Alcuni 5Stelle di peso, come l’europarlamentare Ignazio Corrao, sono critici sull’esito dell’Eurogruppo.

Giovedì sera ho letto commenti fatti sulla base di agenzie, quando il documento finale non era ancora disponibile. E li ho trovati inopportuni. Ma soprattutto sono inaccettabili le reazioni di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che hanno incolpato Conte per un’inesistente attivazione del Mes. Piuttosto, il fondo salva Stati venne votato quando loro erano parlamentari.

Però dentro il M5S c’è diffuso nervosismo. Per esempio due giorni fa 22 parlamentari del Movimento hanno diffuso un documento in cui chiedono di rivedere i vincoli di bilancio della Ue e aprono a trattative per “la stabilizzazione monetaria” con Stati Uniti, Giappone e Cina. Una fuga in avanti?

Ogni contributo al dibattito è ben accetto, ma c’è un tema di metodo. Avevamo stabilito di raccogliere nelle varie commissioni le proposte dei parlamentari per misure da inserire nel decreto aprile. Diffondere due giorni fa un documento non condiviso dalle commissioni non è stato giusto, perché rischia di indebolire il peso delle nostre proposte.

Pare che il governo non abbia gradito.

Trovo la tempistica del documento sbagliata. Renderlo noto a ridosso dell’Eurogruppo non è stata una buona idea.

Avete parlato con i firmatari? E pensate a sanzioni?

Abbiamo chiesto spiegazioni.

E al Pd, avete chiesto spiegazioni sulla proposta di un contributo di solidarietà?

(Sorride, ndr) Ho già abbastanza da fare come capogruppo per interpretare le proposte altrui.

Voi 5Stelle siete tutti contrari.

Per noi una patrimoniale non può essere la soluzione, per di più in un momento di forte calo dei consumi. I contributi di solidarietà avevano un senso se applicati in altri contesti. Piuttosto lavoriamo per detassare il più possibile le donazioni.

Vito Crimi ha rilanciato: “Il Pd si tagli gli stipendi come noi”. Ma finora nessun partito vi ha dato retta.

Noi insistiamo. Ci andrebbe bene anche una delibera che preveda il taglio in forma volontaria. Sarebbe un gesto simbolico, ma oggi servirebbe al Paese.

Conte sbugiarda le destre: “Non firmerò senza bond”

L’unico problema che avrà dopo la sfuriata di ieri sera Giuseppe Conte è portare a casa un risultato europeo. “Non firmerò fino a quando non avrò uno strumento adeguato”, ha detto alludendo chiaramente agli Eurobond. Per il resto, i sassolini tolti dalla scarpa nel suo messaggio agli italiani (in realtà, una conferenza stampa) rilanciano il profilo del presidente del Consiglio (il cui gradimento secondo Ipsos giunge al 67%), compattano la maggioranza (tranne il solito Renzi) e mettono all’angolo Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Sono stati proprio loro a scatenare la reazione del premier. Quando Conte ha visto le accuse di “tradimento” che Lega e Fratelli d’Italia hanno iniziato a far circolare la notte successiva all’accordo dell’Eurogruppo ha deciso che avrebbe reagito: “Quelle falsità non indeboliscono me, ma l’Italia” è stato il suo commento.

Quindi giù botte contro i propalatori di menzogne ricordando che “il Mes non l’ho certamente firmato io” e che “questo governo non lavora con il favore delle tenebre”. Anzi, il premier ha voluto ricordare proprio che il sostegno fu dato dal governo Berlusconi di cui faceva parte come ministra della Gioventù, Giorgia Meloni (Berlusconi istruì il trattato, ma l’approvazione avvenne con il governo Monti).

L’opposizione l’ha ovviamente presa male, protestando per la diretta tv con cui Conte ha potuto lanciare le sue accuse: “È facile per il presidente del Consiglio fare il bullo con la televisione di Stato”, ha commentato Giorgia Meloni definendo l’Italia “più vicina alla Corea del Nord che alla Cina”. Meloni poi ricorda che nel 2012, quando effettivamente il Mes fu approvato dal Parlamento, c’era Monti e non Berlusconi, ma il Pdl, di cui lei faceva parte, sosteneva quel governo e a quella votazione lei stessa fu assente, non votò contro.

L’unico a votare contro, come rivendica orgogliosamente, fu certamente la Lega Nord. Il suo leader si mette sulla stessa posizione di Meloni e insieme fanno l’ennesimo appello a Mattarella affinché tuteli le prerogative delle opposizioni.

Lo scontro con la destra compatta la maggioranza. Gli attestati di sostegno ricevuti da Nicola Zingaretti – “condividiamo fatti e obiettivi del governo” –, Vito Crimi – “sostegno pieno dal M5S” – ma anche dai vari esponenti di LeU non sono mai stati così presenti e il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, ci ha tenuto a far sapere la sua soddisfazione per la conferenza di Conte che conferma in pieno la linea dell’Italia all’Eurogruppo, la priorità agli Eurobond e il giudizio sul Mes come strumento inadeguato.

Con una conferenza stampa, Conte sgombra il tavolo anche dalle varie ipotesi di unità nazionale, costringe Renzi di nuovo a una posizione più defilata e si mette al centro della scena. Rischiando in prima persona.

Molto chiaro sui punti dello scontro europeo, infatti, ora non avrà più vie d’uscita: “A noi il Mes non serve – ha detto Conte – perché non è adeguato e se abbiamo acconsentito alla eliminazione delle condizionalità per le spese sanitarie è solo perché serve ad altri Paesi europei”. “Il nostro strumento è l’Eurobond” e il punto che Conte tiene a sottolineare è la presenza “nero su bianco” del paragrafo che fa riferimento al Recovery Fund, quello che “può accogliere la prospettiva degli Eurobond”. Quel paragrafo, in effetti, è scritto nel politichese di Bruxelles e può diventare il risultato pieno a cui punta Conte, se sarà finanziato con emissione di bond europei, oppure una disfatta, se rimarrà una scatola vuota. È questo il nodo dello scontro che andrà in atto da qui al Consiglio europeo del 23 aprile sul cui esito Conte si gioca molto del capitale politico accumulato finora.

“Noi, librai a Torino: adesso riapriamo, ma non sappiamo come comportarci”

Si può essere “una” libreria oppure “la” libreria. Per una certa borghesia intellettuale (o supposta tale) torinese, la Luxemburg di piazza Carignano è “la” libreria. E non solo perché è la più antica della città. Da oltre un mese, come quasi dappertutto, le serrande delle due vetrine affacciate sulla centralissima piazza sono abbassate. Da martedì si rialzeranno.

Una buona notizia, ma gli interrogativi sono giganteschi e ben si prestano a fare da paradigma per la vita economica e sociale che ci aspetta: “In teoria avremmo potuto rimanere aperti – raccontano Tonino Pittarelli e Gigi Raiola, i due librai che nel 2004 hanno rilevato la Luxemburg da Angelo Pezzana, storico fondatore del FUORI (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) – siamo anche un’edicola, ma abbiamo scelto di chiudere ugualmente per solidarietà con i colleghi ‘solo’ librai”.

Ora l’ingresso di via Cesare Battisti riaprirà, ma chi – e soprattutto come – potrà entrarci è il problema: “Non siamo solo un negozio – racconta Raiola – siamo un luogo dove la gente passa anche senza comprare un libro o un giornale. Ogni sabato, per dire, eravamo abituati a 2 mila ingressi. Duemila persone in 140 mq su due piani, in un posto in cui l’umanità del libro, consigliare, sfogliare, scambiare, difficilmente potrà replicarsi secondo le regole del distanziamento sociale. Dovrò fare entrare tre persone alla volta badando che stiano a un metro di distanza? Oppure torneremo alla libreria pre-Carlo Feltrinelli, dove il libraio stava dietro al bancone come un salumiere?”.

Le indicazioni sul “come fare” sono ancora piuttosto nebulose. A chiedere lumi si rischia di essere rimpallati tra Prefettura, Protezione civile e Vigili urbani.

La sola certezza è che la principale vittima a lungo termine del Covid sarà l’economia ad alto tasso di umanità, ossia quella che postula il contatto, sia esso in una libreria, un bar o un ristorante: “Noi ci siamo già giocati il 40-50% del fatturato fino a Natale – conclude Raiola –. In quanti possono permettersi di rinunciare a un mese e mezzo di liquidità? Come si può mantenere lo stesso livello occupazionale? Il commercio garantisce una quantità di posti di lavoro spaventosa. Le associazioni e la politica devono trovare una soluzione. Di certo le domande se le stanno facendo, spero che trovino delle buone risposte o sarà davvero difficile”.

La classifica dei furbi E in Lombardia ancora circola il 40%

Inizia oggi il weekend di Pasqua e con esso i controlli ancora più serrati lungo le strade. Aumentano i posti di blocco per frenare quanti stanno raggiungendo località di mare e montagna, mentre alle forze dell’ordine si chiede maggiore severità. E intanto nelle maglie dei controlli ci sono finite anche due senatrici del M5S: Barbara Floridia e Grazia D’Angelo. Per loro niente multa, sono state solo controllate allo Stretto di Messina mentre erano in partenza per Roma per partecipare ai lavori parlamentari.

Sanzioni: 10 mila giovedì L’anomalia di Siena

Dall’11 marzo all’9 aprile su tutto il territorio nazionale ci sono stati oltre sei milioni di controlli. 295.554 nella giornata di giovedì, con 10.105 persone multate perché trovate a spasso senza alcun “comprovato motivo”.

I dati provinciali raccolti in queste settimane sulle sanzioni (con multe da 400 a 3 mila euro) raccontano come la maggior parte siano state inflitte al Nord. In Lombardia la mobilità è aumentata. “Ieri abbiamo confermato purtroppo un dato in salita rispetto alla scorsa settimana: abbiamo il 40% delle persone che si spostano”, ha detto il vicepresidente della Regione Lombardia Fabrizio Sala. A Milano il dato di questa settimana – stabile rispetto a quelle precedenti – è del 35% di mobilità, ma, sottolinea Sala, “va molto male a Lodi e Varese, con 67 e 68%”.

In generale, stando ai dati provinciali, valori elevati di multe si registrano a Milano, Brescia, Bergamo, Torino, Genova. Il gran numero di sanzioni è il frutto sia dell’estensione che della densità abitativa di queste città, ma anche di una maggiore severità nei controlli.

Un confronto si può fare anche tra le città metropolitane di Roma e Milano, la prima molto più estesa e popolata. A Roma stando ai dati dei giorni scorsi, ci sono stati quasi il doppio dei controlli di Milano, ma le sanzioni tra le due città sono state più o meno le stesse. Un’anomalia è invece Siena, più piccola rispetto ad altre città, dove però i dati provinciali riportano parecchie multe. C’è poi il Sud: nella città metropolitana di Napoli ci sono state più sanzioni rispetto a Catania, Palermo e Bari. Nella città metropolitana di Napoli, per esempio, si sono registrate il doppio delle multe di Bari.

Contagiati denunciati: tanti a Roma e Verona

Ci sono poi coloro che violano la quarantena nonostante risultino positivi al Covid-19: se sorpresi in strada vengono denunciati. Questa settimana, da lunedì a giovedì, sono state denunciate 89 persone, 32 giovedì. Stando ai dati provinciali dei giorni scorsi, la maggior parte di queste si concentrano tra Bergamo, Brescia, Verona, ancora Siena, Roma e Nuoro. Pochi denunciati al sud.

Controlli anche di notte: la fuga verso il mare

Massima allerta dunque durante questo ponte di Pasqua. E a preoccupare è l’ondata di spostamenti verso le seconde case e verso località di mare o montagna. Ci saranno ancora più controlli, anche di notte, sia all’interno delle città che ai caselli autostradali. Si sono infatti registrati flussi di persone verso Como o verso la riviera ligure. Più forze di polizia saranno dislocate anche nelle zone di mare.

E la Casellati chiede una norma ad ok

Intanto nei giorni scorsi le senatrici del M5S Barbara Floridia e Grazia D’Angelo, entrambe elette in Sicilia, sono state controllate, come altri passeggeri, all’imbarco di Messina. Hanno mostrato il tesserino. Sono poi scattati dei controlli in questura a Messina per verificare che stessero davvero andando a Roma per i lavori parlamentari. “Trovo inaccettabile – ha detto la presidente del Senato Elisabetta Casellati – che due senatrici, sottoposte a regolare controllo di polizia mentre si stavano recando a Roma per partecipare ai lavori del Senato, siano state oggetto di segnalazioni dalla Questura di Messina e Roma, nonostante avessero dimostrato di essere parlamentari nell’esercizio delle loro funzioni”. La Casellati, che chiede una disposizione di legge ad hoc, ha poi aggiunto: “Ho richiesto che il governo faccia piena chiarezza perché non sia ostacolata una attività che ha fondamento costituzionale”.

Colao, il manager “carabiniere dentro”

Chi lo conosce bene racconta che Vittorio Colao è un uomo così metodicamente rigoroso che, in vista di un incontro importante, scrive in testa agli appunti sulle cose da dire anche “Buongiorno, come sta?”. In questa Italia – che conta i morti dovuti all’approssimazione e all’attesa del “colpo di culo” come strategia – conforta che il governo affidi il futuro immediato e prossimo dell’economia a un manager così ottusamente serio.

Colao è anche, a suo modo e grazie a Dio, l’immagine rovesciata di ciò che non funziona in Italia: è l’unico manager di autentico successo internazionale, però è sconosciuto ai più perché giornali e tv servilmente decantano solo i meriti di chi manda avanti le aziende dei loro editori. Quindi corre l’obbligo di informare i lettori che il governo ha scelto il (fino a prova contraria) più bravo. E, particolare che non guasta, l’uomo è ormai ricchissimo grazie alle centinaia di milioni (tracciabili) accumulati successo dopo successo fino a due anni fa, quando ha lasciato la Vodafone.

Nato a Brescia 58 anni fa, naja come ufficiale dei Carabinieri e soprattutto carabiniere dentro, Colao è stato allevato nel gigante della consulenza McKinsey come molti manager di successo, da Corrado Passera ad Alessandro Profumo. Cresce rapidamente: a 35 anni è direttore generale di Omnitel, futura Vodafone, nel 1999 è numero uno.

Nel 2004 c’è il suo incontro ravvicinato e tempestoso con il capitalismo all’italiana. Lo nominano amministratore delegato della Rcs-Corriere della Sera, ma subito capisce che, in quel litigioso salotto cosiddetto buono, agli azionisti che l’hanno voluto (Intesa Sanpaolo e Fiat) si contrappongono quelli che non lo sopportano. Il suo computer subisce l’assalto del Tiger Team: gli abilissimi hacker di Telecom Italia riescono a copiare tutti i documenti del suo hard disk prima di finire in galera.

Agli occhi di certi imprenditori italo-furbetti Colao ha due difetti che insieme sviluppano una miscela esplosiva: è onesto e affronta gli ostacoli con la rigidità del carabiniere. Infatti gliela fanno pagare, poco più di un anno dopo la nomina: si mette di traverso sull’acquisto dell’editore spagnolo Recoletos, operazione suicida che verrà portata a termine dal successore Antonello Perricone e innescherà l’autodistruzione di Rcs. I padroni, inflessibili, gli dimezzano le deleghe e lui si dimette.

A Londra i capi di Vodafone non aspettavano altro. Nel giro di 24 ore lo richiamano offrendogli il posto di capo dell’Europa e numero due mondiale. Non risulta che a nessuno dei nostri manager tromboni con l’intervista solenne sempre in canna sia mai stato offerto un posto al vertice di una grande multinazionale. In meno di due anni, Colao nel 2008 diventa amministratore delegato: un italiano a capo del maggior gruppo mondiale della telefonia mobile, 50 miliardi di fatturato, per lui una trentina di milioni all’anno. Nel 2013 il capolavoro: vende alla Verizon la quota di Vodafone nella telefonia Usa, e porta 130 miliardi nelle casse del colosso di Londra. Per lui c’è un premio sufficiente a rendere ricca la famiglia per le prossime generazioni. E a rassicurarci che non tornerà in Italia per fare la cresta sulle mascherine.

 

“Il virus può tornare”: ecco la task force per la Fase Due

Altre sei ore di riunione, questa volta con i capidelegazione della maggioranza, dopo gli incontri di giovedì con le parti sociali e gli enti locali. E per il premier Giuseppe Conte, la sintesi politica con i giallorosa è quella più ostica, perché sul tavolo c’è sì il nuovo decreto del presidente del Consiglio sul lockdown, ma pure la trattativa con l’eurogruppo sul Mes e anche la discussione con il Pd, assai nervoso perché i fondi per autonomi e imprese e la cassa integrazione per i dipendenti tardano a diventare realtà.

Tanta carne al fuoco, che di concreto per ora produce solo un piccolissimo allentamento delle misure che scadevano a Pasquetta. Nulla di nuovo: da due giorni era chiaro che l’andamento dei contagi, seppur in calo, non avrebbe consentito alcun sostanziale ritorno alla normalità. Riaprono le cartolerie, le librerie, i negozi di articoli per l’infanzia. E festeggia soprattutto la ministra della Famiglia, Elena Bonetti, che, come il resto della pattuglia renziana, è quella che dentro e fuori il governo preme di più per la ripartenza economica, costi quel costi.

Per il resto cambia poco e niente. Il nuovo elenco dei codici Ateco non muta la sostanza di quello che era allegato al Chiudi Italia, fatta salva la filiera della silvicoltura, dei fertilizzanti, la manutenzione di aerei e treni, la produzione di computer, periferiche e schede elettroniche.

Conte sa che non sta dando buone notizie. E promette che se avrà qualche novità incoraggiante riaprirà altre attività prima del 4 maggio, che è la prossima data di scadenza del lockdown. Più un pannicello caldo che altro, dato che la lista dei prossimi “ponti” – Pasqua, festa della Liberazione e festa del Lavoro – in cui chiede agli italiani di restare a casa, coincide esattamente con le tre settimane che ci separano dall’ipotesi di ricominciare a uscire.

Allora, è il messaggio che lascia Conte, qualcosa si muoverà. Perché “non possiamo aspettare che il virus scompaia del tutto”.

Ma la fase 2, la lunga convivenza con il Covid-19, sarà molto diversa dall’esistenza che abbiamo lasciato a fine febbraio. Anche qui, il premier assicura che “terrà conto della qualità della vita”. E per questo si farà affiancare da un’altra squadra, una specie di comitato di saggi, che consiglierà il governo su come strutturare il prossimo futuro della società italiana. Per guidarla ha personalmente voluto uno dei manager più conosciuti nel mondo, Vittorio Colao (qui in basso Giorgio Meletti vi racconta chi è, ndr): sarà lui a coordinare non solo sociologi, psicologi, esperti di organizzazione del lavoro che faranno parte della task force, ma pure le indicazioni che arriveranno dal comitato tecnico-scientifico, quelle già contenute nel protocollo firmato da Confindustria e sindacati e quelle che derivano dalla struttura guidata da Domenico Arcuri, in particolare per quanto riguarda l’approvvigionamento e la distribuzione dei dispositivi di protezione personali. Dalle catene di montaggio in fabbrica alle aule scolastiche, dagli autobus all’ingresso dei negozi, dal taglio dei capelli alla cura di un dente cariato: tutto dovrà essere riveduto e corretto alla luce dell’epidemia che, se anche dovesse finire, può sempre ritornare. Lo dice con una certa enfasi, il premier, soprattutto quando immagina la ripartenza del turismo in Italia. Così Colao, per dirla con le parole che già usano a Palazzo Chigi, diventerà “il principale consulente del premier”. Non solo per le regole della fase 2, ma pure per la “ricostruzione” del tessuto economico terremotato dal coronavirus.

Arriva la madama

Avete presenti i vampiri quando vedono una treccia d’aglio o un filo di luce? Ecco: sono bastate le notizie sulle prime indagini giudiziarie, nate dalle prime denunce di medici, infermieri e parenti delle vittime nella Regione che ne detiene il record mondiale (la Lombardia “modello”), per seminare nel centrodestra (inclusa Italia Viva) e nei suoi house organ un misto di terrore e panico. Uno spettacolo impagabile. Da due giorni, sul Giornale, Libero, il Foglio e il Riformatorio, nonché nelle dichiarazioni dei forzaleghisti, serpeggia un terrore incontrollato, seguito da un fuggifuggi mediatico al grido di “mamma li pm!”, “si salvi chi può!”, “arriva la pula!”, “occhio alla madama!”, “me stanno a carcerà!”, “quelli ce se bevono a tutti!”. Roba che nemmeno in Parlamento agli albori di Mani Pulite o nei covi dei latitanti quando le sirene in lontananza annunciano il passaggio delle forze dell’ordine. “Datevi uno scudo dal virus dei giudici. Cari politici, varate fino a che siete in tempo per voi e per chiunque sia stato al fronte… uno scudo penale e civile a prova di Davigo (che non è più in servizio perché sta al Csm, ma fa lo stesso, ndr). Non sarà per salvare le vostre persone (noooo, ndr), ma il Paese dalla furia giustizialista che aggiungerebbe solo nuovi danni a quelli provocati dal virus… Fatevi giudicare dagli elettori” (Alessandro Sallusti, il Giornale). “Il virus e l’orrore del processo sommario” (Giuliano Ferrara, Il Foglio). “Sul virus piombano i pm. Aiuto, si salvi chi può. Parte la mattanza giudiziaria” (Pietro Senaldi, Libero). “Quello spettro delle manette facili che rischia di soffocare la ripresa. I funzionari potrebbero rinviare le decisioni per timore dei pm” (Luca Fazzo, il Giornale). “Ora serve l’immunità. La Fase 2 non diventi un processo a tutti” (Massimo Mallegni, senatore FI, il Giornale). “La sinistra sfrutta il virus per invocare Mani Pulite” (il Giornale), “Il virus da sanitario si sta già trasformando in virus giudiziario” (Tiziana Maiolo, Il Riformista).

Per dire quant’è lunga la coda di paglia di lorsignori, basta pensare che tremano persino alla notizia che Gherardo Colombo, ex pm in pensione da 13 anni e ormai convertito all’abolizione delle carceri, farà parte della commissione d’indagine creata da Comune di Milano e Regione Lombardia per indagare su eventuali anomalie nella gestione del Covid al Pio Albergo Trivulzio. Fosse un pregiudicato, tipo Formigoni, passi: ma un incensurato come Colombo proprio no. Pazienza se, oltre alle vittime dell’epidemia impossibili da salvare, ci sono migliaia di persone condannate a morte dalle scelte scellerate della giunta lombarda e delle sue autorità sanitarie.

Tipo: la mancata chiusura dell’ospedale di Alzano; la mancata zona rossa in Val Seriana dopo i primi casi del 22 febbraio per non disturbare Confindustria; l’ordinanza che apre le porte dei centri anziani ai pazienti infetti usciti dalle rianimazioni; i medici e gl’infermieri mandati in corsia senza tamponi né protezioni. E pazienza se tutto questo si chiama, nel Codice penale, “epidemia colposa”. Lorsignori fingono di ignorare l’obbligatorietà dell’azione penale in presenza di notizie di reato così gravi ed evidenti su una strage che evitare era impossibile, ma limitare era possibilissimo. E reagiscono scomposti e disuniti come nelle fughe alla spicciolata, fra bagagli raffazzonati alla meglio che si sfaldano per strada, grimaldelli e piedi di porco che rotolano giù dalle tasche, mutandoni (di ghisa) che svolazzano dal cofano legato con lo spago. C’è persino chi, dando ormai giustamente per spacciati Fontana, Gallera e gli altri cabarettisti della Regione Modello, invoca il silenzio stampa sulle loro tragicomiche gesta, nella speranza che i terribili pm non le abbiano notate. L’altroieri, a Piazzapulita, un Sallusti visibilmente provato intimava a Padellaro, che aveva osato rispondere a una domanda di Formigli, di “stare zitto”. Al che Padellaro faceva notare di essere stato invitato per parlare, come del resto Sallusti, che infatti parlava per dire agli altri di tacere. Il suo problema erano le critiche al duo Fontana & Gallera, peraltro certificate non dai manettari del Fatto, ma dagli Ordini dei medici di tutta la Lombardia. Infatti sfidava Padellaro a denunciare “il tuo amico Zingaretti”, che, oltre a non essere amico di Padellaro, c’entrava come i cavoli a merenda.
Intanto un tal Alessandro Morelli, nientemeno che “deputato e responsabile Editoria della Lega” (per via di quella volta che lo beccarono a consultare l’elenco telefonico), emana una “nota” per denunciare “una vicenda incresciosa” di “sciacallaggio indegno sui morti e i professionisti che combattono una battaglia difficile” (i medici che hanno inchiodato la giunta lombarda alle sue boiate): un’intervista del Tg1 a un primario di Alzano (coperto dall’anonimato per evitare rappresaglie dai giannizzeri forzaleghisti) sull’ordine del braccio destro di Gallera di riaprire l’ospedale infetto. Al censore Morelli, che minaccia “esposti” non si sa bene a chi, forse alla Bestia, fanno eco due geni forzisti, il noto Gasparri e tal Alessandra Gallone, che gridano alle “fake news” del “presunto primario” (sic) e all’assenza di “contraddittorio” (quella strana cosa per cui, se un primario critica uno di destra, subito dopo parla Gasparri). E minacciano di investire “immediatamente la Commissione di Vigilanza”, come se questa potesse sindacare i contenuti giornalistici e impedire a un tg del servizio pubblico di svolgere eccezionalmente un servizio pubblico. Ma è bello sapere che lorsignori sono nervosetti. Vuol dire che la resa dei conti è vicina. Come diceva don Abbondio dopo la peste di Milano: “È stata un gran flagello, ma è stata anche una scopa; ha spazzato via certi soggetti che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più”

Salvini va al potere nella nuova fattoria degli animali versione sovranista

Quando George Orwell ha scritto La fattoria degli animali nel 1945 voleva far capire l’essenza perversa dello stalinismo e a quali conseguenze inevitabili porta la combinazione tra promesse di uguaglianza e competizione per il potere. Stefano Antonucci e Daniele Fabbri, con i disegni di Maurizio Buscarol, adattano il romanzo di Orwell ai tempi del sovranismo e all’Italia di Matteo Salvini, seguendo il canovaccio del celebre sermone “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano….”. Un maiale che si fa chiamare Capitano – nell’originale era Napoleone – riesce a prendere il potere nella fattoria dopo aver cacciato il fattore che si arricchiva mentre gli animali morivano di fame e dopo aver eliminato il rivale. Dopo un illusorio benessere, la fattoria si avvita in una spirale che la porta al disastro: ogni problema viene attribuito a una categoria che ha tradito la ricerca del benessere comune, ora i cani ora i conigli, ora le tartarughe. I nemici del popolo vengono additati, perseguitati ed espulsi, ma dopo la loro cacciata i problemi rimangono e tocca individuare un nuovo nemico. Il tratto morbido, da cartoon, di Maurizio Buscarol attenua l’effetto didascalico della sceneggiatura costruita sulle parole di una voce fuori campo invece che attraverso l’interazione tra i personaggi. Rispetto all’originale di Orwell, questa versione a fumetti è ovviamente meno sorprendente e più prevedibile, oltre che leggermente fuori fuoco: i nuovi nazionalismi europei hanno costruito il nemico nell’altro che vuole entrare, non nell’espulsione del traditore. Chissà, forse quello schema – che invece è stata la matrice tradizionale dell’antisemitismo – tornerà nella crisi da Covid-19 e La fattoria dell’animale otterrà quello status profetico a cui ambisce.

 

La fattoria dell’animale

S. Antonucci, D. Fabbri e M. Buscarol

Pagine:128

Prezzo: 16

Editore: Feltrinelli Comics

 

La sporca bellezza di Glasgow, dove il sole fa male e le bimbe si perdono

Il sole fa male a Glasgow. A metà luglio, quindici gradi per gli autoctoni sono già troppi e insopportabili. “E poi Glasgow non era abituata a queste temperature, in qualche modo non le si addicevano. Il sole implacabile metteva a nudo la città com’era – niente nuvole e pioggerella a indorare la pillola. Il sole evidenziava il declino, l’immondizia per le strade, la rovina sulle facce degli individui tremanti che aspettavano che la bottiglieria aprisse i battenti”. Sembra un mondo capovolto ma è così, del resto non sono pochi i padani nostrani che prediligono la nebbia ai tropici.

Detto questo Glasgow è la città dove lavora l’ispettore Harry McCoy, protagonista della serie avviata da Alan Parks con Gennaio di sangue e Il figlio di febbraio (colpevolmente mancato da questa rubrica). Le storie di McCoy hanno quella sporca se non marcia bellezza tipica dell’hard boiled yankee. Non a caso il genere cui appartiene Parks è definito dagli appassionati come il tartan noir per il suo accento scottish. McCoy fa parte di una polizia in maggioranza corrotta e complice dei clan e lui stesso ha come migliore amico sin dall’infanzia un boss. Eppure, nonostante tutto, l’ispettore ha una sua morale fatta di lealtà e ricerca della verità. In questo terzo volume della saga, L’ultima canzone di Bobby March (traduzione di Marco Drago), si comincia da uno dei crimini peggiori che possa capitare a chi indaga: la scomparsa di una bambina tredicenne. Quanto al titolo, Bobby March è una promessa mancata del rock: il cantante viene ritrovato morto in una stanza d’albergo. Overdose oppure omicidio? E McCoy scarpinerà dannatamente solo per trovare i cattivi.

 

L’ultima canzone di Bobby March

Alan Parks

Pagine: 399

Prezzo: 18

Editore: Bompiani