Quando un accordo viene letto diversamente da tutti i suoi contraenti, è chiaro che il problema è solo rinviato. L’intesa siglata giovedì notte all’Eurogruppo dai 27 ministri delle Finanze dell’Ue è un esercizio di equilibrismo linguistico. “È il primo passo verso l’emissione di debito comune”, secondo il ministro Roberto Gualtieri. Per il suo omologo olandese, Wopke Hoekstra, è “volutamente” vago in modo che l’Italia possa vederci ciò che vuole, ma la sostanza è chiara: “In nessuna parte si può leggere una condivisione del debito” (contro cui peraltro il Parlamento dell’Aia ha già votato ben due volte). Quindi cosa è stato approvato?
L’accordo segna una tregua tra l’asse dei Paesi del Nord (Germania e i suoi satelliti, Olanda in testa) – convinti che la risposta alla crisi innescata dall’epidemia debba essere nazionale o in forma di prestiti condizionati – e quelli del Sud, capitanati da Italia, Spagna e i sette che hanno sottoscritto una lettera per chiedere “uno strumento europeo di debito comune”. L’accordo è in tre punti più un quarto, l’unico davvero utile all’Italia ma anche il più vago e su cui l’accordo resta lontano. Premessa: si tratta del ventaglio di soluzioni tecniche che i ministri affidano al Consiglio dei leader Ue del 23 aprile. Nulla è ancora deciso e, prima di allora, il Parlamento italiano dovrà fornire un indirizzo vincolante al governo.
Il primo strumento individuato riguarda i lavoratori. È il piano “Sure”, un fondo gestito da Bruxelles che si indebiterà fino a 100 miliardi: soldi da prestare ai Paesi per finanziare sussidi anti-disoccupazione in cambio di 25 miliardi di garanzie. Ogni Stato membro può ottenere al massimo 10 miliardi. L’Italia, per dire, dovrebbe versare 2 miliardi di garanzie per un prestito netto di 8 miliardi, a un tasso che, se anche fosse zero, permetterebbe un risparmio che vale lo 0,02% del Pil.
Il secondo schema è il piano di liquidità della Banca europea degli investimenti: un aumento di capitale da 25 miliardi versato da tutti gli Stati membri dovrebbe permettere alla Bei di dispiegare 200 miliardi di prestiti per 27 Paesi, soldi che non si possono usare per la spesa corrente (pensioni, sussidi, eccetera)
La terza gamba, la più controversa, riguarda il Meccanismo europeo di stabilità. Il Mes metterà a disposizione una linea di credito “precauzionale” da 240 miliardi per i Paesi dell’Eurozona. Può fornire risorse fino al 2% del Pil per ogni singolo Stato membro (36 miliardi per l’Italia) che non dovrebbe essere soggetto a condizionalità solo per le spese legate “al finanziamento dell’assistenza sanitaria diretta e indiretta”. Se invece le spese sono destinate al sostegno economico, resta il Mes finora conosciuto: prestiti in cambio di pesanti condizionalità (tagli e riforme strutturali) per rientrare dal debito, che peraltro diventerebbe creditore privilegiato rendendo meno sicuro il debito pregresso. Finita la crisi sanitaria, si legge nel testo finale, gli Stati “dovranno rafforzare i fondamentali economici, coerentemente con le regole fiscali Ue”. Modello Grecia.
L’Italia aveva chiesto di “snaturare” il Mes, eliminando qualsiasi condizionalità. Il fondo resta e crea un binario parallelo di cui nessuno vede l’utilità, visto che le spese sanitarie sono la parte meno rilevante dei 1.500 miliardi di costi stimati della crisi: perché un Paese dovrebbe lanciare ai mercati il segnale di essere insolvente per usufruire di pochi fondi e iper-vincolanti? L’Italia non ha firmato il Mes, come accusano Lega e Fdi, ma non lo ha neanche snaturato.
La vera novità riguarda lo European recovery fund chiesto dalla Francia e appoggiato da Italia e Spagna: secondo Parigi dovrebbe emettere debito garantito da tutti i Paesi per finanziare la ripresa economica. L’Olanda è contraria. Berlino pure e peraltro vuole legarlo al bilancio Ue (che oggi vale solo 140 miliardi e viene negoziato ogni 7 anni con lunghe e complesse trattative). Secondo l’ex vicepresidente della Bce, Vitor Constancio, Bruxelles dovrebbe utilizzare i fondi raccolti sul mercato come linea di budget per pagare direttamente alcune spese degli Stati membri. Il loro debito pubblico non aumenterebbe nell’immediato e potranno ripagare i prestiti a lungo termine contribuendo maggiormente al budget europeo. Sarebbe l’unica vera soluzione. Ma oggi sembra un miraggio.
Il testo finale parla di un fondo “temporaneo, mirato e commisurato ai costi” della crisi e toccherà ai leader Ue “definire gli aspetti giuridici e pratici, comprese le sue relazioni con il bilancio dell’Ue, le sue fonti di finanziamento e gli strumenti finanziari innovativi, coerenti con i trattati dell’Ue”. Per Germania e Olanda non potrà essere finanziato con debito comune: gli “eurobond” che il governo italiano considera l’unica via per assicurare una risposta adeguata alla gigantesca recessione in arrivo.
L’intero pacchetto vale 500 miliardi, a fronte dei 1.500 necessari secondo i calcoli di Bruxelles. Servono risorse ingenti e un modo per evitare di rendere insostenibili i debiti pubblici dei Paesi più vulnerabili. Obiettivo, al momento, lontano. La palla, ora, passa ai leader europei.