La natura è più forte di un giardino incolto

Spiegare il dolore ai bambini non è mai attività semplice. Perché il dolore è buio, scuro, è il luogo in cui non ci si prende cura di nulla e in cui le spine prendono il posto dei petali. Il luogo in cui le erbacce si sostituiscono al prato. Se il giardino dell’Eden sa tanto di Paradiso, allora il suo capovolgimento puzza d’inferno Ecco, il modo per spiegare il dolore ai bambini forse è proprio attraverso queste metafore. E allora ci riesce benissimo la firma del New York Times Brian Lies, ne Il giardino di Evan, vincitore del Caldecott Honor Book, che arriva in Italia con Harper Collins (data di pubblicazione prevista: 30 maggio, segnatelo sul calendario). Evan è una magnifica volpe rossa, maestra di giardinaggio insieme con il suo cagnolino, dal quale mai si separa. “Giocavano e mangiavano dolcetti, condividevano musica e avventura”: il rapporto simbiotico che si crea con un animale. Fino a quando, all’improvviso, accade “l’impensabile”: il cane muore ed Evan prova così tanta rabbia che abbandona le cure del suo giardino. “Lo fece completamente a pezzi e buttò tutto in un mucchio”. L’abbandono, la sterpaglia, i toni scuri delle magnifiche illustrazioni, fino a quando – carica di speranza – la natura torna a bussare portando con sé nuova vita (e buonumore). In un periodo come questo, in cui non si trovano le parole per raccontare ai bambini cosa sta accadendo, gli occhi di Evan possono essere più efficaci.

 

Il giardino di Evan

Brian Lies (dal 30 maggio)

Pagine: 40

Prezzo: 16

Editore: Harper Collins

La morte in corsia: nuovi casi per Delgado

Mentre le librerie restano chiuse per l’emergenza sanitaria, arriva sulla Rete in forma di eBook La Sirena delle Azzorre, il nuovo romanzo di Giovanni Valentini, giornalista e scrittore. Ambientato come i due precedenti fra il Portogallo e l’Italia, anche questo noir ha per protagonista il giornalista italiano Alfonso Delgado che vive a Lisbona con la moglie Marianna. È una storia di fantasia ispirata liberamente a due clamorosi casi di cronaca giudiziaria: quello della presunta “infermiera-killer”, Daniela Poggiali, accusata di aver ucciso con un’iniezione di cloruro di potassio una paziente di 78 anni nell’Ospedale Umberto I a Lugo di Romagna, poi condannata in primo grado per omicidio volontario e assolta in appello, ora in attesa della sentenza della Cassazione; e quello di Fausta Bonino, infermiera presso l’Ospedale di Piombino, accusata di aver ucciso addirittura 13 pazienti e poi scagionata. Il racconto incrocia un tema che in questi giorni è diventato drammaticamente di grande attualità a causa dell’epidemia di coronavirus: quello delle case di riposo che nel nostro Paese ospitano circa 300 mila fra anziani e operatori e dove centinaia di persone sono decedute nelle ultime settimane per effetto del contagio. Pubblicato nella collana “Human” della casa editrice PubMe, per i primi tre mesi l’eBook sarà disponibile in lettura gratuita per gli abbonati al servizio Kindle Unlimited e in vendita online, in esclusiva su Amazon. Nei prossimi giorni il romanzo sarà presente anche in formato cartaceo sui maggiori store online (Amazon, Mondadori, Feltrinelli, Ibs ecc.), con stampa on demand e consegna a domicilio. Superata l’emergenza sanitaria, si potrà ordinare presso le librerie reali che avranno riaperto i battenti. I diritti d’autore saranno devoluti alla Residenza per anziani “Villa Giovanna” di Bari.

 

La Sirena delle Azzorre

Giovanni Valentini

Pagine: 159

Prezzo: eBook 2,99 – cartaceo 9 Editore: PubMe

La Commedia disumana del perfido Balzac

In una dote eccelle il grande romanziere: la cattiveria. Il perfido Balzac – per cui l’umanità è una specie di commedia, neanche troppo riuscita – trova “la miseria grottesca” e intravede “qualcosa di comico” persino nella carneficina. È questo il tragico scenario di Addio, riedito ora da Passigli: l’autore licenziò il racconto nel 1830, inserendolo poi, nel 1846, tra gli Studi filosofici della Comédie humaine. La cornice storica è la disfatta, nel novembre del 1812, della Grande Armée sulla Beresina, un fiume nell’attuale Bielorussia. Per i francesi fu una specie di Caporetto e ancora oggi è sinonimo di “catastrofe”: la ritirata dai russi costò ai sudditi di Napoleone 45.000 uomini, tra morti e prigionieri, dei 200.000 soccombenti nell’intera campagna di Russia.

Nella torrenziale produzione balzachiana i “fatti d’arme” non sono molti, preferendo egli come campo di battaglia il cuore dell’uomo, e invidiando l’amico Stendhal per le sue impeccabili descrizioni di guerra; ricorda il curatore Maurizio Ferrara. Adieu fa appunto eccezione, custodendo al centro della novella una lunga scena militare: la ritirata dalla Beresina.

Balzac restituisce fotogrammi truci della “città dolente” (in italiano, con esplicita eco dantesca): ponti sul fiume crollati; sbandati che si lasciano morire nelle neve; saccheggi; lotte fratricide pur di scappare; cavalli squartati pur di nutrirsi; omicidi pur di sopravvivere. La fame e il freddo mettono tutto a tacere, “cuore e amore”, parole che in bocca al sardonico francese hanno sempre un retrogusto sgradevole. La sua è una umanità regredita al rango di bestia, stupida ma felice, in attesa solo del sonno o della morte, è lo stesso.

Protagonisti sono due di questi derelitti e amanti: il colonnello Philippe de Sucy e la contessa (maritata a un altro) Stéphanie de Vandières, divisi nella fuga da una zattera di salvataggio. Una scena da Titanic, ma un po’ meglio: sopravvivono, infatti, entrambi, mentre il marito conte, caduto dalla barca, viene decollato da un pezzo di ghiaccio galleggiante nell’acqua.

Sentimentale, sì, ma pur sempre crudele, Balzac fa ritrovare i due spasimanti anni dopo: lei è una povera pazza, una “selvaggia” simile agli animali, ora daino, ora gatta, ora scimmia. Col senno, la contessa ha perso la memoria e la favella: non le è rimasto che uno zio medico, che si prende cura di lei in un eremo incantato, in stile “Bella addormentata nel bosco”, con “alberi che vietano al rumore del mondo di avvicinarsi”.

Philippe tenterà in ogni modo di far rinsavire la ninfa divenuta strega, una donna perduta che abita il mondo di ombre e fantasticherie dei folli, una bambina impudica che sgambetta nei prati, si arrampica sugli alberi e si lascia addomesticare con le zollette di zucchero. Eppure lei è felice e incosciente, proprio come la massa di disgraziati assiderati nel fiume; serena e altrettanto brutale: soffoca i merli a mani nude e poi li lascia lì “senza pensarci più”. Come extrema ratio il colonnello metterà in scena il dramma della Beresina: rivivere il trauma farà guarire la pazza, ma sarà troppo tardi. Per lei e per lui, “come se la contessa avesse ormai trasmesso a Philippe la sua terribile malattia” mentale.

 

Addio

Balzac

Pagine: 98

Prezzo: 9,50

Editore: Passigli

La domanda perfetta davanti a un’eclissi

“Il suo progetto puntava dritto all’oscurità per cogliervi una luce. Era inesplicabile a lui stesso. Eppure era il progetto più forte e preciso che avesse mai formulato in vita sua”. Si può lasciare in libreria un romanzo con un incipit così? No. Sarebbe un peccato. E non veniale. L’Eclissi di Ezio Sinigaglia gronda scrittura. Profumata, colorata, immaginifica, intensa. Una silenziosa Luna che – in sole 107 pagine – riesce a eclissare molti dei fin troppo pallidi soli posticci, che affollano, insensatamente (e, talvolta, proditoriamente), scaffali di librerie, quotidiani e salotti tv. Un’eclissi che, come una cometa, chiama all’annuncio di una rivelazione. Del passato, però, non del futuro.

Protagonista, un architetto settantenne – Eugenio Akron – che vola su un’isoletta sospesa in un “visibile nulla”, per vivere i “due minuti e quarantasette secondi” di una “notte straordinariamente luminosa” (di stelle, naturalmente) e cercare di “estrarre alla reticenza del mondo una domanda”. Non sfugge all’anima tutt’altro che ordinaria in dotazione a Sinigaglia che le domande sono infinitamente più importanti delle risposte. Se ci poniamo quelle sbagliate, le risposte – ancorché corrette – saranno del tutto inutili. Akron cerca “la domanda perfetta, penetrante e temprata come una punta d’acciaio”. Se riuscirà a formularla al momento giusto, “la risposta a tutte le domande possibili” rimbalzerà subito a lui “come un raggio dallo specchio del mare”. La perfezione si è persa cinquantun anni e due mesi prima, dopo una lite, lacerante, con Beniamino, l’amico con il quale ha diviso “la più meravigliosa estate” mai vissuta. “Eu” e “Ben” – “due prefissi di eccellente qualità, in cerca di vocaboli da nobilitare” (“eu”, in greco, significa “bene, buono”) – come Eurialo e Niso, sono due metà di un’unica anima. Se possibile, però, il loro destino sarà ancora più tragico di quello dei due eroi virgiliani, perché li separerà, privando entrambi del sinonimo più prezioso. “Còpate!” (“Ammàzzati”) urla Eu, quando l’amico decide di uscire in barca a vela, malgrado lui (“anemometro vivente”), presagendo l’irreparabile, lo preghi di non farlo. Ben non tornerà. Mezzo secolo dopo, sarà la bostoniana Mrs. Wilson – “ottant’anni meno un soffio”, “amabile, imprevista, insidiosissima”, alla “diciassettesima eclissi totale” – la dea ex machina che, replicando, inconsapevolmente, un gesto chiave nella storia del legame totalizzante tra Eu e Ben, consentirà all’architetto triestino di ritrovare ciò che, “a scopo di sopravvivenza”, aveva eluso e rimosso ma mai obliato. Più dell’oceano, del vento, delle coloratissime case, del rudere di una cattedrale gotica, è il basalto il vero protagonista della storia. Riaffiora ben 32 volte, a formare una costellazione di terra che guida Akron a disseppellire dalla coscienza una verità, semplice e dirompente, come solo la verità sa essere. Trentadue rintocchi di un conto alla rovescia che, attraverso crescendo descrittivi che sembrano strappati a La cognizione del dolore, conduce sulla verticale di una “perfetta ellisse di luce, come se la forza creatrice avesse voluto rivelare al mondo, per un fuggevole attimo, l’uovo dal quale era nato”. Eclissiamoci.

 

Eclissi

Ezio Sinigaglia

Pagine: 112

Prezzo: 15

Editore Nutrimenti

Uccidete Meredith, ponete fine all’inutile agonia di “Grey’s Anatomy”

Non si ridicolizza così un amore, soprattutto se si tratta di una relazione cominciata nel lontano 2005. E va bene che gli ultimi anni – pardon, stagioni – sono state un’agonia, va bene che abbiamo dovuto subire ogni tipo di attacco – bombe, disastri aerei, sparatorie, tempeste di neve, gambe finte magicamente in grado di correre –, va bene che abbiamo visto andar via, piano piano, le persone che amavamo, ma adesso – lasciatecelo urlare – è troppo! Adesso che non si è avuta neanche la dignità di farci salutare Alex Karev, una delle colonne portanti di questi quindici anni, lasciato scivolare nell’ombra del “ma che fine ha fatto?” fino a una puntata dedicata a quattro paradossali lettere d’addio; adesso, cara Shonda Rimes, l’atto d’amore lo chiediamo a te: uccidi Meredith Grey. Suggerisci ai tuoi sceneggiatori il modo più cruento che si possa concepire: dalla in pasto a una tribù cannibale, falla precipitare in un burrone mentre tenta il bungee jumping per salvare i figli, falla suicidare con la tequila. Noi fan del primo giorno, quelle che da quindici anni il lunedì non si può uscire né consegnare il telecomando, noi innamorate ancora perdutamente del Dottor Stranamore e del post-it che vale un matrimonio, noi vogliamo mettere fine a quest’agonia. Abbiamo pianto quand’è morto George, quand’è andata via la Yang (e prima Burke), quando si è ammalata Izzie (ah, Izzie, ma che cattiveria è citarla per tutta una puntata senza mai mostrarla nella sua nuova vita?), quando non ce l’hanno fatta Mark e Lexie, abbiamo accettato la separazione – incomprensibile – tra Callie e Arizona, il tumore di Amelia, persino l’assurdo personaggio di Koracik. Il nostro era amore per forza d’inerzia, come quando si condivide il letto con la stessa persona per troppi anni. Ma, esattamente così, un giorno la si guarda negli occhi e non la si riconosce. Ecco, cara Shonda, quello che ormai ci state propinando non è Grey’s Anatomy: è la brutta, bruttissima versione di Dallas. Ma almeno lì, nell’ultimo episodio della quindicesima stagione, si lascia intendere che J.R. si sia suicidato. Qui, trattandosi di un ospedale, basterebbe staccare la spina.

Chi era Sordi? Ma soprattutto, quanto lo conosciamo?

La domanda del bel documentario di Fabrizio Corallo, in onda domenica 12 aprile su Sky Arte alle 21.15 e su Sky Cinema Comedy alle 21.45, non è retorica: malgrado le apparenze, non lo siamo. Non perché Albertone, di cui il prossimo 15 giugno celebriamo il centenario della nascita, non abbia soggiogato l’immaginario nazionale, non ci abbia plasmato a sua immagine e somiglianza, ma perché è stato infinitamente di più: la questione è un’altra, chi è Alberto Sordi? Prodotto da Surf Film e Dean Film con La7, Sky Arte, Istituto Luce Cinecittà e 3D Produzioni, Siamo tutti Alberto Sordi? si bea di qualche illuminata risposta, da Carlo Verdone a Walter Veltroni, da Marco Risi a Francesco Rutelli, ma tiene fede alla domanda, fino in fondo: dalla beneficenza nascosta alle donne celate, l’identikit di Corallo è puntiglioso, eppure l’uomo – e il divo riluttante – continua a fuggire dal ritratto. È il mostro che incarna, ed emenda, le italiche colpe o il fustigatore col sorriso a mezz’asta, è Il marito o Il vedovo, il dissacratore o il democristo, e che cosa rivelano i suoi 187 film se non una teoria di capolavori e un’altra – più lunga – di esiti inferiori al talento? Meno affettuoso e partecipato del precedente Sono Gassman! Vittorio re della commedia, ricco d’archivio e talking heads quali Maurizio Costanzo a Pierfrancesco Favino, il doc fotografa un mistero senza fine: dietro le tapparelle a tre quarti della villa-mausoleo, sicuri ci fosse l’italiano medio? E se avessimo messo prima sul piedistallo e poi nel sarcofago un irriducibile segreto: Corallo indaga, Maurizio Liverani suggerisce la pista, giacché quella di Sordi “più che una storia degli italiani è una loro imitazione allucinata e iperrealista che diventa disturbante”. Così disturbante da doverlo museificare per non farci più del male?

 

Ultraortodossi sì, ma tanto umani

C’è sempre una nuova serie tv di cui tutti parlano. Di solito spunta un po’ in sordina, come un piccolo fiore segreto di cui soltanto gli esperti conoscono l’esistenza. Poi arrivano gli articoli sui giornali e il passaparola (“La stai guardando? Non la stai guardando? Ma come…”): e in pochi giorni il piccolo segreto è sulla bocca di tutti. Il nuovo titolo di cui si parla di più, in questo momento, è una miniserie in quattro episodi uscita un paio di settimane fa su Netflix. Si chiama Unorthodox ed è davvero un fiore prezioso.

Basata sul memoir Ex ortodossa. Il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche, scritto da Deborah Feldman, la serie ruota attorno a una ragazza cresciuta a New York che decide di scappare a Berlino per sfuggire dalla comunità chassidica di cui fa parte. L’autrice è Anna Winger, nota per Deutschland 83; la protagonista, invece, è la bravissima 25enne israeliana Shira Haas, già nel cast della celebrata Shtisel. La stessa Shtisel forma, insieme con Unorthodox e il documentario One of Us (tutti e tre disponibili su Netflix), una sorta di “triangolo” dedicato al mondo degli ebrei ultraortodossi: chi volesse capire chi sono, e cosa significa esserlo oggi, nel 2020, non può che passare da qui.

Il fascino di Unorthodox sta proprio nel raccontare una comunità fuori dal tempo. Siamo a Williamsburg, il quartiere di Brooklyn dove, al termine della Seconda guerra mondiale, la comunità ebrea chassidica crebbe accogliendo i sopravvissuti dell’Olocausto. Esty Schwartz è una 19enne cresciuta con i nonni dopo che la madre, quando lei era molto piccola, ha lasciato il marito alcolista e si è trasferita a Berlino. Alle donne della sua comunità non è permesso leggere la Torah e nemmeno scegliere chi sposare: i matrimoni sono combinati e il loro scopo, praticamente l’unico scopo, è la procreazione (“Dobbiamo fare figli per recuperare i sei milioni di ebrei uccisi dai nazisti”).

Il marito che tocca a Esty si chiama Yanky Shapiro ed è un ragazzo molto insicuro, che non è mai uscito da Williamsburg e non sa nulla di come funziona il mondo, ma che è convinto di dover essere il “re” della casa perché così dice sua madre. Come previsto, le cose non vanno bene. Dopo un anno Esty non è ancora rimasta incinta e Yanky le chiede il divorzio. La ragazza allora scappa in Germania, nella città dove vive la madre, ma prima di andare da lei entra in contatto con un ambiente nuovo e completamente diverso da quello che conosceva: la sua passione per la musica la porta nelle aule del conservatorio di Berlino, in mezzo a coetanei così uguali e nello stesso tempo così diversi da lei.

Unorthodox non è perfetta: Anna Winger e la co-creatrice Alexa Karolinski hanno forse esagerato nel romanzare l’autobiografia di Deborah Feldman. Ma nonostante i difetti rimane una serie potente, che ricostruisce un percorso di liberazione e rinascita in cui tutti si possono immedesimare. Alcune scene fanno sorridere: come le lezioni di “fisica elementare”, cioè di sesso, che vengono impartite alla giovane Esty, oppure le scoperte di Yanky, che viaggia fino a Berlino per riportare a casa la moglie e qui scopre gli smartphone, le prostitute e tutto un universo di cui non immaginava nemmeno l’esistenza. La forza di Unorthodox, però, è raccontare gli ultraortodossi senza ridicolizzarli né demonizzarli. I protagonisti non sono macchiette: sono persone piene di umanità, che nascondono dietro i riti arcaici, i lunghi boccoli e le parrucche le stesse fragilità che abbiamo anche noi.

A margine, una considerazione. La serie si sviluppa su quattro episodi raccontando una storia che inizia e finisce in meno di quattro ore. In un panorama che tende sempre di più ad allungare il brodo e moltiplicare le stagioni, forse il giusto equilibrio è rappresentato proprio dalle miniserie, che rappresentano l’anello di congiunzione fra il cinema e la serialità. The Night Of, Chernobyl e ora Unorthodox: le grandi miniserie uscite negli ultimi anni dimostrano che quantità non sempre fa rima con qualità, anzi.

 

Unorthodox

Quattro episodi disponibili su Netflix

C’è pure “Il buco” con (molta) utopia intorno

Il quarantenne Goreng (Ivan Massagué) si sveglia al trentatreesimo piano di una prigione brutale e brutalista, Il Buco, attraversata da una Piattaforma discendente che trasporta un lauto banchetto destinato a consumarsi progressivamente. Due detenuti per cella che cambiano livello ogni mese con assoluta casualità, i residenti ai piani superiori gozzovigliano, quelli ai piani inferiori trovano solo le stoviglie, e si ingegnano come possono: l’istinto di sopravvivenza impera, il cannibalismo è nel menu.

Alcuni come l’anziano e spietato compagno Trimagasi (Zorion Eguileor) hanno portato con sé delle armi, Goreng ha scelto un libro, il Don Chisciotte della Mancia, e come il cavaliere di Cervantes combatterà contro i mulini a vento: per mandare all’aria i piani di sterminio dell’organizzazione, serve razionare il cibo, affinché tutti ne abbiano, e riportare al primo piano un piatto – per esempio, una panna cotta – per dimostrare che la solidarietà ha trionfato sulla sperequazione. La rivoluzione, si sa, non è un pranzo di gala: accompagnato dal nero e nerboruto Baharat (Emilio Buale) e protetto da una temibile asiatica, Miharu (Alexandra Masangkay), che cerca il figlio per gli oltre duecentocinquanta piani del Buco, Goreng decide di arrivare fino in fondo, di scendere nell’inferno di cemento e costrizione per far brillare l’utopia e deflagrare il riscatto. Scritto da David Desola e Pedro Rivero, diretto dall’esordiente Galder Gaztelu-Urrutia Munitxa, lo spagnolo Il Buco (El hoyo, The Platform) è un film distopico a voltaggio horror: presentato all’ultimo festival di Toronto, transitato per Torino, è da poco disponibile su Netflix, e merita senz’altro di essere visto. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà: Goreng sarebbe piaciuto a Gramsci, e malgrado qualche ingenuità dell’opera prima e un finale messianico un poco indebito piacerà, e molto, ai teorici della lotta di classe (ma con il caso come la mettiamo?), ai fautori di un altro mondo (è) possibile, nonché ai cinefili dallo stomaco forte, capaci di digerire lo splatter.

Già, pur dotato di una certa originalità, Il Buco non lesina su rimandi, simmetrie, ascendenze: da Metropolis a Fahrenheit 451, da Matrix a Hunger Games, da Delicatessen a Children of Men, da The Cube a Snowpiercer, l’imbarazzo è della scelta, non di una sceneggiatura pesante e pensante, che spesso – va detto – sembra essere superiore alla trasformazione cinematografica.

Su Netflix lo stanno vedendo in tanti, tantissimi, e chiedersi se la quarantena abbia voce in capitolo, e non solo per l’aumentato consumo audiovisivo domestico, non è peregrino: reclusione, cibo, homo homini lupus, riduzione delle libertà fondamentali, controllo governativo, il Panopticon 2.0 di Galder Gaztelu-Urrutia dice qualcosa del nostro (soprav)vivere in regime di lockdown. Ovviamente, per la distopia che è: “La panna cotta è il messaggio”, ma la dieta letale. PS: il cibo è magnifico ma dà la nausea, e di ‘sti tempi forse aiuta.

 

L’abbraccio. Come l’arte ci può salvare dal virtuale

Qual è l’ultima volta che siamo stati abbracciati? Che siamo stati toccati per davvero? Fra i cinque sensi, il tatto è il più antico, il più archetipico, poiché esso è prima di noi, precede cioè la nascita, e la nostra esperienza cosmogonica ha inizio attraverso il calore di due corpi a contatto. Per questo “abbracciare” è un verbo esigente, arduo da illustrare, che racchiude un fascio di significati inattesi che vanno dal sentire qualcosa al toccare qualcuno. Oggi viene giustamente ascritta alle espressioni corporee da evitare, uno dei territori eletti di contagio, ma non è solo questo. L’abbraccio non è una parola-spettro che ci trasforma in tanti Atteone che profana la seduttiva e fatale Diana al bagno.

Chi ha la fortuna di trascorrere questa quarantena in famiglia, può rifugiarsi nella vicinanza di qualcuno, ma chi tra noi è solo, lontano dagli affetti più cari, come fa, destinato com’è a smarrire la memoria del corpo, il proprio e quello altrui? Di un bacio, certo importante ma in qualche modo confinato nell’amore a due, anche per colpa dell’apostrofo rosa e compagnia bella di Cyrano de Bergerac. Del sesso, piacevole, ovvio, ma una volta appagato esso è troncato (e non è retorica, è biologia). È invece l’abbraccio nella sua metonimia insaziabile – il gesto, la carezza, la durata, la ripetizione –, è lui la specie di amore di cui necessitiamo: l’amore civile.

Sapremo ancora abbracciarci dopo aver attraversato questo scenario di solitudine forzata nelle nostre esistenze a due metri di distanza? Oppure il fantasma del virus ingofferà un atto così naturale, primario? Primario, sì, ma anche materno, come mostra tutta l’iconografia mariana nell’Arte: la confidenza giocosa nella Madonna Benois di Leonardo, in cui Maria sorride e gioca con il piccolo Gesù, o lo stretto e fisico legame nella Madonna della Seggiola di Raffaello, in cui il Bambino poggia serafico la fronte sulle gote della Vergine che lo serra d’istinto a sé.

All’Arte chiediamo ai tempi del Coronavirus di tenere vivo il ricordo di cos’è un abbraccio, un’immagine così universale da essere letterale. Se dal Rinascimento facciamo un salto di secoli fino alla Secessione Viennese di Gustav Klimt e al suo Le tre età della donna, vedremo come la tenerezza resta immutata: una madre, gli occhi chiusi in estasi, coccola un neonato portandoselo al corpo nudo, niveo, le gote imporporate e le labbra rosee come i capezzoli appena accennati. Tutto, nel loro abbandono, ci dice che l’abbraccio è bisogno e, scriveva Lacan, “il bisogno è sempre bisogno dell’altro”.

Anche gli innamorati si abbracciano con le gote imporporate dal desiderio come Paolo e Francesca di Artemisia Gentileschi. In Amore e Psiche di Antonio Canova si rincorrono, mentre in Fugit Amor di Auguste Rodin due figure sono aggrappate una all’altra, come trascinate da una corrente invisibile a cui non sanno opporsi. La stessa forza ancestrale sembra, invece, incollare gli amanti delle sculture di Cristian Brancusi che nel gruppo Il bacio si fondono in modo embrionale: due blocchi vagamente antropomorfi che solo nella nudità della pietra si allacciano da due coppie di braccia. Il disarmo davanti all’altro, la rinuncia a ogni di possesso di sé per offrirsi all’altro nell’abbraccio, è quanto ci permette di volare, come in Capra che suona il violino di Marc Chagall, in un cielo blu sopra la città in compagnia dell’amato; o di deflagrare il nostro corpo e ricomporlo nell’altro come in L’Abbraccio di Picasso.

Ma l’abbraccio esprime soprattutto un sentimento plurale, basta pensare ai cortei di putti e fanciulli che ornano i sarcofagi romani, o anche bacchico come ne Il baccanale degli Andrii di Tiziano dove il contatto fisico, insieme al vino, narra la festa del corpo. Tuttavia, non occorre per forza serrarsi per abbracciarsi davvero. L’Arte, il cui compito non è solo piacerci – il piacere è un mediatore così inaffidabile – ma modificarci, lo spiega in opere quali Bal au moulin de la galette di Pierre-Auguste Renoir: uomini e donne, si toccano, si guardano, sorridono, danzano, parlano, tubano, si amano socialmente. Chi potrebbe dire che non s’abbraccino?

La potenza dell’insieme, di un insieme sociale oggi così vivo, la emana anche Il quarto stato di Giuseppe Pelizza da Volpedo, uno dei quadri che meglio ci offre l’essenza dell’amore civile: il popolo che avanza verso il futuro.

Certo la lezione dell’arte, planando in una zona indefinita del cuore, può aiutare a riparare le nostre esistenze, ma non smettiamo mai di avanzare verso il futuro. Poiché solo la vita supera la vita.

Ponte crollato, l’ipotesi è disastro colposo

Gli avvisi di garanzia dovrebbero arrivare a breve. “A ore”, fanno sapere dalla Procura, il tempo che serve per identificare tutti coloro che negli ultimi anni si sarebbero dovuti occupare della manutenzione del ponte crollato ad Albiano Magra (Aulla).

I pm di Massa ieri mattina hanno aperto un fascicolo con l’accusa di disastro colposo: secondo il procuratore facente funzione Marco Mansi si può immaginare una “negligenza, o comunque un’imprudenza o imperizia nella omessa manutenzione del ponte”. Gli investigatori stanno individuando le generalità di tecnici e amministratori che hanno avuto a che fare con la manutenzione del ponte e poi partiranno le iscrizioni nel registro degli indagati.

Il cuore dell’inchiesta riguarderà il carteggio intercorso negli ultimi due anni tra il Comune di Aulla e l’Anas, che gestisce il ponte dal 2018: il Fatto ieri ha pubblicato le cinque lettere che il sindaco Valettini aveva inviato all’ente per sollecitare interventi e le relative risposte di Anas, che aveva tranquillizzato sulla tenuta del viadotto.

Il pm titolare dell’inchiesta, Alessandra Conforti, ha dato mandato ai carabinieri del comando provinciale di Massa Carrara di acquisire tutto il carteggio che riguarda la storia del ponte, dal 1949 a oggi.

Tra questi documenti c’è anche una perizia sullo stato del terreno dopo le recenti scosse di terremoto in Lunigiana. La tragedia sfiorata ha messo paura alle province di Massa Carrara e La Spezia e ieri quest’ultima ha fatto partire i controlli su due ponti gemelli che hanno caratteristiche simili a quello di Albiano Magra: quello di Piana Battolla nel comune di Follo e quello di Martinello nel comune di Calice al Cornoviglio, entrambi sulla provinciale 10. Anche in Toscana nei prossimi mesi potrebbe partire uno screening di 632 tra ponti e viadotti che richiedono manutenzione.

Ieri intanto sono partiti i primi lavori degli escavatori che dovranno avviare il cantiere del nuovo ponte: il presidente del Consiglio regionale Eugenio Giani ha chiesto che si faccia un “ponte provvisorio” entro un mese per non isolare i piccoli Comuni e poi ricostruirlo con estrema urgenza. “Un anno” al massimo, dice il governatore Enrico Rossi che ha chiesto al governo di nominare un commissario ad hoc sul modello del ponte di Genova. Scartata l’ipotesi dell’ad di Anas Massimo Simonini, Rossi si è autocandidato: “Sono a disposizione”.