Mibact contro Regione Lazio: alla Consulta il Piano paesistico

Il governo ha deciso di impugnare davanti alla Corte costituzionale il ‘Piano territoriale paesistico regionale’ (Ptpr) del Lazio approvato dall’amministrazione guidata da Nicola Zingaretti i primi di agosto. Lunedì, infatti, il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al ricorso alla Consulta per conflitto di attribuzione. La richiesta è partita dal ministro per i Beni e le attività culturali (Mibact), Dario Franceschini, su proposta del ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, entrambi compagni di partito del segretario dem.

Il Ptpr, strumento che organizza la normativa relativa alle tutele del territorio e quindi anche alla sua pianificazione urbanistica, è stato approvato la scorsa estate dopo anni di elaborazione e dopo mesi di discussioni nelle commissioni consiliari e un infuocato dibattito in Consiglio regionale. Un Ptpr nato male che già lasciava intravedere profili di incostituzionalità, oggetto di forti critiche anche da parte di alcune associazioni ambientaliste per l’esclusione del centro storico di Roma dalle tutele previste, per la possibilità di ampliare gli immobili fino al 20% in più del loro volume e per altri ‘allentamenti’ eccessivi delle misure di tutela dei beni paesaggistici del Lazio.

Dal Mibact fanno sapere che il ricorso è un atto dovuto perché “il testo così come uscito dal Consiglio regionale non tiene conto delle prerogative in capo al Mibact, previste dal Codice dei Beni culturali del paesaggio”. Inoltre esiste anche un protocollo d’intesa tra Zingaretti e l’ex ministro dei Beni culturali Massimo Bray, firmato nel 2013, che rafforza tale intento di co-pianificazione tra i due enti ma il Ptpr è stato approvato in Consiglio regionale senza seguire questo percorso. Il ricorso era stato già ipotizzato, all’indomani dell’approvazione in Regione Lazio del Ptpr, anche dal precedente ministro dei Beni culturali Alberto Bonisoli che, al Fatto, annunciò che avrebbe impugnato il Ptpr proprio perché non era stata rispettata la co-pianificazione prevista. “In realtà – proseguono dal Mibact – poi gli uffici regionali hanno espresso l’intenzione di modificare il testo proprio per venire incontro alle nostre indicazioni, tant’è che il Ptpr è stato pubblicato sul bollettino ufficiale a metà febbraio, sei mesi dopo l’approvazione. Ora però l’unica via percorribile è la Corte Costituzionale”. Dalla Regione Lazio sottolineano invece che “il Ptpr è frutto di un lavoro di co-pianificazione con il Mibact”.

Preoccupati i consiglieri regionali M5S che quest’estate si erano opposti al Piano e ora temono il far west se la Regione non intervenisse. “Bisogna evitare che l’atto decada lasciando senza tutele l’ambiente e i beni paesaggistici e culturali del Lazio, gettando così i territori della nostra regione in pasto ai palazzinari. Il Ptpr – aggiungono – è uno strumento fondamentale per valorizzare il capitale naturale e il patrimonio artistico, culturale e paesaggistico”. Il senso è: meglio un Ptpr con poche regole piuttosto che nessuna regola. “Noi avevamo già sollevato le pregiudiziali costituzionali – spiega Gaia Pernarella, consigliere regionale M5S – all’epoca della discussione del provvedimento in Consiglio regionale ma non ci hanno ascoltato. Ora la cosa più urgente è trovare una soluzione che eviti lo stallo e corregga eventuali incongruenze prima che si esprima la Consulta”.

“È una vicenda incomprensibile e assurda”, aggiunge Laura Corrotti, consigliere regionale della Lega. “Per sei mesi l’assessore all’Urbanistica Massimiliano Valeriani ha raccontato che il Ptpr non veniva pubblicato per problemi tecnici mentre nel frattempo la Giunta cercava un’intesa con il Mibact. Una volta trovato l’accordo per modificare la delibera, la Giunta si rimangia la parola data al Mibact e pubblica l’atto rendendo inevitabile l’impugnativa del Consiglio dei ministri”.

Sanders e Corbyn, scomparsi mentre torna il “socialismo”

Mentre il mondo si interroga sul ritorno dello Stato, della sanità pubblica e delle stesse idee socialiste, due campioni della sinistra mondiale escono di scena.

In Gran Bretagna Jeremy Corbyn, ex leader del Partito laburista, era già stato messo da parte dalla sconfitta elettorale alle ultime elezioni politiche e la sua stagione è definitivamente tramontata dopo l’elezione, la scorsa settimana, del nuovo leader del Labour party, il più moderato Keir Starmer.

Bernie Sanders, invece, ha abbandonato l’altroieri la corsa per la nomination presidenziale lasciando il campo libero a Joe Biden, vice di Obama e ormai quasi sicuro front-runner di Donald Trump. La mossa di Sanders ha già portato un gran beneficio all’ex vicepresidente, che in un sondaggio della Cnn è dato 11 punti sopra Trump e che in tutti gli altri sondaggi oscilla tra i 3 e gli 8 punti di vantaggio sull’attuale presidente.

Il filosofo Slavoj Zizek, intervistato qualche giorno fa da Repubblica, si diceva convinto che in questa crisi stia emergendo “un nuovo senso di comunità”: “Una sorta di nuovo pensiero comunista, la banale scoperta che per battere il virus servono coordinamento e cooperazione globale”. La constatazione è vera, tanto che a destra si osservano i primi mal di pancia (si veda Marcello Veneziani pochi giorni fa su La Verità).

La visione di Zizek trova riscontro in un nuovo discorso pubblico che si sta affermando e in cui sostenere, come fece Margareth Thatcher nel mezzo degli anni 80, in piena fase neoliberista, che “la società non esiste” oggi è praticamente impossibile.

Risulta dunque ancora più straniante osservare il declino di una parabola “socialista” come quella impersonata dai due leader anglosassoni negli ultimi cinque anni. Ma si possono dare per superati quei messaggi e si può dichiarare conclusa una versione più radicale della sinistra socialdemocratica in nome di un nuovo centrismo alla Blair?

La sinistra americana e inglese sembrano per ora in lutto. Ma le cose sono più movimentate di come può apparire ai nostalgici del centrismo. Intanto perché l’elettorato influenzato dal messaggio socialista è ancora molto ampio e sarà decisivo nella battaglia che, almeno quest’anno negli Usa, dovrà essere ingaggiata.

Biden ha già aperto ad alcune istanze di Sanders anche se l’impresa di spostare l’elettorato più giovane su un candidato che viene definito come “l’uomo di ieri” (dal titolo di un libro di Branko Marcetic), sarà difficile. Alcuni ex perdenti delle primarie come Gary Hart o Howard Dean, intervistati da Politico.com, si augurano che Sanders possa “mobilitare” i giovani democratici, ma la convinzione con cui lo farà spetta allo stesso Sanders. E lui stesso sta osservando attentamente il dibattito nel suo campo.

Il modo con cui Trump sta gestendo il Coronavirus probabilmente lo aiuterà. Ma sarà soprattutto la crisi spaventosa che sembra colpire gli Stati Uniti arrivati già a 10 milioni di disoccupati a indicare se il Partito Democratico saprà recuperare le istanze più radicali. Anche perché la destra populista sembra già pronta

Il tweet con cui Trump ha salutato l’abbandono di Sanders può sembrare cinico, ma contiene una verità: “Sanders è fuori grazie a Elizabeth Warren… I sostenitori di Bernie dovrebbero venire nel Partito Repubblicano” ha scritto il presidente Usa, che cercherà di incassare una parte del sostegno del senatore socialista che difficilmente finirà a Biden. Già nel 2016 circa il 12% dei supporter di Sanders preferirono Trump.

Ma Corbyn e Sanders, anche se fuori, lasciano sul campo cospicue reti di giovani militanti e di centri culturali. Figure come Alexandria Ocasio Ortez o la rivista Jacobin negli Usa, realtà come Momentum o Common Wealth in Gran Bretagna che, come nota il Guardian, “sono il prodotto della crisi economica prodottasi dopo il 2008”. E che sta per tornare in peggio. Per questo quelle idee, passati i vecchi leader, non sono destinate a scomparire.

Carceri e contagio, l’amnistia non vale per gli oppositori

L’Iran prima e la Turchia tre settimane dopo, stanno tentando di combattere la diffusione del Covid-19 dopo averne minimizzata l’aggressività, mentre il numero reale dei morti viene tenuto nascosto. Come in tutti i regimi religiosi – quale la teocrazia sciita iraniana e la ‘democratura’ turca presieduta con pugno di ferro da Recep Tayyip Erdogan, leader attuale della Fratellanza Musulmana – i dogmi fideistici vengono messi sullo stesso piano della scienza, così come la stampa indipendente viene zittita fino a quando la crudezza della realtà straripa dalle maglie della censura di Stato e svela la cinica ipocrisia degli ayatollah e dei dittatori -profeti.

Basti dire che lo scorso anno Erdogan ha fatto abolire l’insegnamento della Teoria di Darwin nelle scuole e a distanza di 12 mesi si trova a incoraggiare gli scienziati turchi ad analizzare il Coronavirus per scoprire un vaccino o delle terapie con cui debellarlo. Sia l’Iran sia la Turchia si erano definiti paesi esenti dal coronavirus per poi passare all’isolamento della popolazione. Martedì la Turchia si è classificata al secondo posto, dopo gli Stati Uniti, nel numero di nuovi contagiati. C’è un altro aspetto però che accomuna la risposta dell’Iran e della Turchia all’emergenza pandemia: il trattamento dei detenuti, in particolare quelli politici. Posto che le carceri iraniane e turche pullulano di detenuti accusati di spionaggio e terrorismo attraverso prove inconsistenti e fabbricate per poter mettere a tacere giornalisti e oppositori politici o per avere di fatto ostaggi (quasi sempre persone dalla doppia nazionalità) da scambiare, l’Iran prima e ora la Turchia stanno scarcerando con permessi o “congedi temporanei” solo i detenuti per reati comuni e i detenuti politici condannati a meno di 5 anni di carcere. Tradotto: pochi detenuti per questioni di sicurezza usciranno dalle prigioni e ancora meno quelli dietro le sbarre per reati di opinione, di stampa e di “terrorismo”. Dal 2016, per esempio si sta spegnendo, in attesa di essere impiccato per spionaggio, il medico iraniano naturalizzato svedese Ahmadreza Djalali. È un ricercatore in medicina dei disastri che ha lavorato alcuni anni anche in Italia. “Chi è stato condannato a morte non può godere nemmeno del congedo temporaneo”, sottolinea Riccardo Noury , portavoce di Amnesty International. “L’Iran vuole uccidere con accuse fabbricate uno dei più preparati scienziati in ambito di disastri e pandemie . Anche la Turchia continua a tenere in carcere intellettuali come Ahmet Altan, Osman Kavala e parlamentari tra cui Selahattin Demirtas , oltre a decine di giornalisti. “Anche se dovesse passare l’amnistia carcerari , loro rimarranno dietro alle sbarre per crimini mai commessi”, spiega Noury dopo aver ricordato che le carceri iraniane e turche sono sovraffollate all’inverosimile e le più basiche norme igieniche non possono essere rispettate. Erdogan, affiancato dai nazionalisti dei Lupi grigi, sta facendo approvare in Parlamento un’ amnistia per sanare la popolazione carceraria: su 300 mila detenuti ne verrebbero liberati 70 mila. Ebnem Korur Fincancı, capo della Fondazione per i diritti umani della Turchia, ha affermato di aver ricevuto anche rapporti non confermati su prigionieri nel carcere di Maltepe che presentavano sintomi di coronavirus. L’Iran intanto è arrivato a scarcerare finora 85 mila detenuti.

 

Stati Uniti
Tutto chiuso, in 16,6 milioni aspirano ai sussidi per vivere

Tramortiti dall’avanzata del contagio: di nuovo 2000 morti in un giorno, mercoledì (1973), martedì (1939), peggio di una Katrina quotidiana, l’uragano che nel 2005 fece 1826 vittime. I decessi per coronavirus negli Usa viaggiano verso i 15 mila; i casi superano i 430 mila; i guariti sono quasi 24 mila. L’Unione scala d’un gradino il podio della letalità dell’epidemia: scavalca la Spagna per decessi ed è ora dietro solo all’Italia. A questo ritmo, per Pasqua ci avrà superato. Ma da New York vengono segnali di rallentamento del contagio. Il coronavirus è devastante per l’occupazione: in tre settimane di chiusura generalizzata, sono 16,6 milioni (6,6 nell’ultima settimana) gli americani che hanno chiesto sussidi di disoccupazione, circa un dipendente su dieci. Il barometro elettorale di Donald Trump volge al cattivo tempo: un sondaggio per la Cnn lo dà 11 punti dietro il candidato democratico Joe Biden, 42% delle intenzioni di voto contro 53%. RealClearPolitics, che fa la media dei sondaggi, dà Biden avanti di sei punti. Trump nel frattempo crea una nuova task force per la riapertura dell’economia.
Giampiero Gramaglia

 

Cina
Nuovi esami per chi è guarito Shanghai il 27 riapre le scuole

La lunga pausa delle scuole a Shanghai a causa dell’epidemia sembra che stia per concludersi. Il 27 aprile le lezioni riprenderanno a partire dall’ultimo anno di elementari e medie; istituti superiori e università devono ancora avere il via libera, ma anche in questo caso saranno privilegiati gli studenti vicini all’esame. Lu Jing, direttore della Commissione municipale di Shanghai per l’educazione, ha detto ieri in conferenza stampa che tutte le scuole dovranno essere comunque pronte a ripartire prima del 6 maggio. Pechino, Guangdong e Hubei, l’epicentro dell’epidemia, non hanno fatto annunci. Intanto è stato diffuso un protocollo sperimentale per la cura dei pazienti guariti dall’infezione, prevedendo per questi soggetti un ulteriore periodo di quarantena, periodiche visite di controllo, la ripetizione dei test per il coronavirus e un generale monitoraggio delle loro condizioni di salute. Per i pazienti guariti dall’infezione, il protocollo prevede un’ulteriore quarantena di 14 giorni da trascorrere in casa o in un centro di isolamento dedicato ai soggetti in osservazione medica.

 

Francia
Il lockdown sarà prorogato. Cura, petizione per clorochina

Parigi raddoppia il budget per l’emergenza Covid-19: non più 45, ma 100 miliardi di euro per aiutare le imprese e i lavoratori, secondo quanto annunciato ieri da Bruno Le Maire, ministro dell’Economia, anticipando al giornale Les Echos il progetto di legge di Bilancio che sarà presentato mercoledì prossimo. Parigi si orienta su un deficit del 7,6% del Pil e un debito a 112% del Pil nel 2020. Il bilancio dell’epidemia è ormai di 12.210 vittime, di cui 4.166 nelle case di riposo. Ancora 7.066 malati sono in rianimazione, 82 in meno rispetto a due giorni fa. Il lockdown, entrato in vigore il 17 marzo, sarà di sicuro esteso oltre il 15 aprile. Per le nuove date i francesi dovranno aspettare lunedì sera, quando è atteso un nuovo discorso di Macron. Ieri il presidente è stato all’ospedale di Marsiglia per incontrare il dottor Didier Raoult, che sta testando con successo la sua terapia a base di idrossiclorochina, ma che divide la comunità scientifica. Una petizione online, lanciata dall’ex ministro della Sanità e medico Philippe Douste-Blazy, per estendere la prescrizione della molecola ha già raccolto quasi 500 mila firme.
Luana De Micco

 

Brasile
Epidemia nelle favelas, governo per entrare chiederà ai narcos

Se il Covid-19 inizierà a contagiare gli abitanti delle favelas, il governo dovrà aprire un dialogo con i capi delle bande di narcos. Lo ha ammesso il ministro della Sanità, Luiz Henrique Mandetta. Anzi, il suo dicastero già “dialoga con i narcotrafficanti e le milizie”, perché “anche loro sono esseri umani e devono collaborare, aiutare e partecipare” negli sforzi del governo contro la pandemia. “Dovete capire – ha aggiunto il ministro – che si tratta di aree nelle quali, molto spesso, lo Stato è assente, e chi comanda è il narcotraffico o la milizia. Come facciamo a costruire un ponte verso di loro in nome della vita? Mandetta non ha nascosto che “preparare un piano di gestione delle favelas o delle comunità con distanziamento sociale” è molto difficile e sta studiando un piano sperimentale da attuare all’inizio solo in una comunità. Le favelas sono bombe a orologeria; mancanza di un’erogazione idrica regolare e sovraffollamento nelle baracche. Intanto il presidente Bolsonaro, in un discorso a reti unificate, ha continuato a criticare le misure di isolamento sociale, spingendo per la diffusione della clorochina come cura per il Covid-19.

Mail Box

 

“Liberal” non si traduce in italiano con “liberista”

Il Fatto mi ha attribuito, mercoledì scorso, il titolo di “liberista”. Le parole sono importanti. Io sono un “liberal” in senso anglosassone, che non coincide esattamente con “liberale” in italiano, ma gli è vicino. Semplificando: “Liberale” è chi preferisce la concorrenza ai monopoli. “Liberista” è chi preferisce il privato al pubblico. “Libertario” è chi considera le tasse un furto.

Marco Ponti

 

Le offese di Facci: medaglie per noi lettori del “Fatto”

Ho appena letto FF su Libero che un amico di destra si ostina a inviarmi su Whatsapp. Secondo il miserabile, noi lettori del Fatto saremmo pagliacci, cialtroni e anche idioti. Sono ancora più fiero di leggervi dal 2009, le offese di FF le appendo sul petto come medaglie. Articoli di questo tipo vi daranno ancora più consapevolezza dell’ottimo giornalismo che ci state offrendo.

Giovanni Frulloni

 

Caro Travaglio, in questo periodo di quarantena mi sono dilettato a leggere un po’ tutti i principali quotidiani. Oggi dando un’occhiata a Libero ho notato un articolo del mesciato Filippo Facci che volgarmente parla di te. Nel finale scrive che quelli che ti leggono sono dei pagliacci e cialtroni. Ecco vorrei da te un parere, anche legale, perché sinceramente non accetto insulti e lezioni da intellettuali come il predetto Facci e altri suoi amici… Feltri, Sallusti, Belpietro… il tridente magico del giornalismo di destra.

Francesco Lanfranchi

 

Sono un lettore del Fatto e seguo le vicende del mondo sul sito. Oggi per puro caso ho letto un articolo di F. Facci che a un certo punto scrive di Travaglio: “Poi è passato oltre per il risolino demente di quei pagliacci e cialtroni che ancora lo leggono”. Ebbene, a parte che dopo circa 40 anni che leggo giornali non mi era ancora capitato che un giornalista insultasse i lettori di un qualsiasi giornale, il sottoscritto può scegliere di leggere il giornale che vuole. Ma non per questo penso di essere un “demente, un pagliaccio e un cialtrone”. L’elevata lesività infamante è in re ipsa, per cui chiedo se il Fatto non ritenga di tutelare i suoi lettori uti singuli o meno. Personalmente, se ci sono i presupposti, lo querelo. Ma un’azione coordinata sarebbe meglio.

Fedele Vena Cleto

 

Cari Giovanni, Francesco e Fedele, F.F. ha già la grave condanna di essere F.F. e di dover convivere con se stesso per tutta la vita. Sarebbe disumano infliggergliene altre.

M. Trav.

 

Provocazione per i docenti: le vacanze erano necessarie?

In un Paese devastato, di categorie che vanno al lavoro rischiando la vita, di dipendenti costretti a rinunciare a gran parte del loro stipendio, o addirittura di persone che questo lavoro lo hanno perso, i docenti italiani che fanno? Le vacanze di Pasqua. Dopo settimane di disordinata riorganizzazione con lezioni a distanza, quando forse finalmente era stato raggiunto un assestamento minimo nella confusione… si interrompe.

In mezzo a tanta disperazione mi sarei aspettato un impegno a non mettere un ulteriore ostacolo alla fragile continuità didattica, la volontà di dedicarsi a studenti disorientati confusi. Lo trovo moralmente inaccettabile. Non mi si dica che la categoria è sottopagata, lo è, ma in questo momento vale più essere protetti, e arroccarsi su privilegi insensati risulta, nella ridefinizione di senso dell’emergenza pandemica, uno sgradevole abuso di un privilegio. Faccio una provocazione ai docenti, rinuncino interamente o in parte al bonus annuale di 500 euro per darlo alle famiglie dei loro studenti più bisognosi, cerchino di riconquistare quell’autorità che spetta loro con un atto dimostrativo.

Cristiano Ceccarelli

 

Le multe insensate di alcuni vigili urbani

Egregio Travaglio, mi riferisco al suo pezzo sul numero di ieri “Avanzi di Gallera” dove cita il sindaco di Sesto San Giovanni Roberto Di Stefano, al quale ho inviato giorni fa una mail (rimasta inevasa…) proponendo di premiare con medaglia al valore civile per manifesta imbecillità la pattuglia di vigili urbani che negli scorsi giorni ha fermato sotto casa e multato di 400 euro un indigente immigrato (regolare) nigeriano, praticamente digiuno della nostra lingua, perché sprovvisto di autocertificazione governativa. Di più: alla telefonata al Comando fatta per avere spiegazioni da un docente universitario amico del nigeriano, i vigili si sono negati. Serve un commento a tanta miope imbecillità?

Franco Griffini

 

Caro Franco, il mio commento è uguale al suo.

M. Trav.

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo pubblicato ieri a pagina 8 dal titolo “Troppi morti e pochi tamponi, la paura è a ovest del Ticino” abbiamo scritto, riportando i dati diffusi dall’assessore regionale alla Sanità del Piemonte Luigi Icardi che “In Piemonte ogni 10 mila abitanti muoiono 303 persone”. La cifra corretta è 3,03 persone e non – come uscito a causa di uno sfortunato equivoco redazionale – 303. Ce ne scusiamo con i lettori e con la Regione Piemonte.

FQ

Studia, ragazzo mio, sennò mi diventi un industriale

Antonio Gramsci ci aveva spiegato decenni fa il “cretinismo economico” degli industriali, che non sanno neanche cosa gli convenga. Noi, aiutati da Fruttero&Lucentini, siamo dunque assertori della prevalenza del cretinismo economico. La Confindustria di Udine, per dire, in questo casino ha lanciato una petizione per “Mario Draghi premier”. Ieri sul CorSera il prossimo capo degli industriali Carlo Bonomi, oggi presidente di Assolombarda, chiedeva con piglio da cumenda di riaprire subito le fabbriche e di farlo come dice lui perché “gli imprenditori sanno cosa serve”. Quanto al resto, degno erede di Vincenzo Boccia, il nostro si balocca con le solite idées reçues del cretinismo: via le zavorre, decisionismo, “diffidenza” per la spesa pubblica a meno che non serva a socializzare le perdite di lorsignori tipo le garanzie bancarie. Poi c’è Stefano Scaglia, presidente di Confindustria Bergamo (quelli di “Bergamo is running” mentre correva il Covid-19), che ritiene che si debba discutere in Ue di grandi questioni politiche con l’armamentario concettuale con cui chiede una linea di credito in banca: “L’Italia deve presentare proposte chiare, con obiettivi e piani di rientro dei prestiti”. Si potrebbe continuare, ma il punto ce lo aveva già spiegato Gramsci. Non è colpa loro, però. Figli di metalmeccanici, siamo consci di essere parte di un’élite e non scordiamo quella volta che la nonna, vedendoci prendere in giro un compagno un po’ tonto, ci ammonì: “Non si fa, poverino, è un industriale…”. Forse son diventati troppi però.

Frank Matano: “8 ore al giorno di PlayStation e sono in forma”

Pragmatico con accenni di filosofia, Frank Matano: “Come sto? Si accetta quel che succede”.

Nel frattempo?

Gioco tantissimo alla PlayStation.

Quanto?

Un botto.

Sì, ma quanto?

Anche otto ore.

Stra-botto.

Ma è online e si ha l’impressione di stare realmente insieme agli amici.

Perfetto.

E soprattutto, per la prima volta in vita mia, non mi sento in colpa.

Otto ore si va fuori di testa.

Anche a fissare il muro si rischia lo stesso.

In questo mese cosa ha scoperto?

Che è la vita a obbligarti al salto di qualità.

Cioè?

Ti costringe a crescere, ti dimostra che ogni singolo membro della società rientra in un meccanismo generale.

E…

Penso ai commessi dei supermercati.

Come è organizzato con le pulizie?

Sono della vergine.

E allora?

In teoria sono disordinato, in pratica mi alzo la mattina con la smania di mettere tutto a posto. Tutto deve essere perfetto.

Guerriero.

No, compulsivo.

Il bagno?

Avoja. Disinfetto benissimo.

Consigli letterari.

Sto leggendo in inglese la biografia di Steve Martin, Born Standing Up: A Comic’s Life. Molto interessante.

Film.

Tiger King su Netflix. Una bomba assoluta.

Musica.

Quando sono sotto la doccia solo Frank Sinatra.

Perché?

È uno dei pochi cantanti che non mi ricorda brutte situazioni.

Il peso?

(Ride) Meglio. Molto meglio.

Come mai?

Adesso mangio meno schifezze; prima andavo al bar e mi sfondavo di tutto.

 

Lavoro. Noi e la fabbrica aperta: perché non si parla di dove le cose funzionano?

 

Sono una funzionariadella Fiom di Brescia e voglio raccontarvi l’impegno profuso dai delegati della Camozzi di Polpenazze (Bs) che, malgrado il lavoro svolto, devono rispondere alle domande poste dopo il vostro articolo “Aziende e furbastri”. Lo smart working è stato attivato, alle persone che erano ritenute a rischio è stato permesso di rimanere a casa, molte ferie e congedi sono stati fruiti, anche per chi semplicemente non se la sentiva. Gli orari, le turnazioni e le ferie sono state tarate sui fabbisogno dei lavoratori, senza mai far prevalere la logica del profitto sulla salute. Le tanto agognate mascherine e gli altri dispositivi di prevenzione non sono mai mancati, come la sanificazione quotidiana e quella periodica, il medico competente ha informato tutti i lavoratori sull’uso dei Dpi. Sono stati rigidamente regolamentati gli ingressi in azienda, anche attraverso il controllo della temperatura e adottate misure di distanziamento. Abbiamo chiesto all’azienda di adeguarsi al Dpcm del 22 marzo e al protocollo nazionale che decretava la chiusura della aziende non essenziali. Durante quel lungo incontro, ci sono state trasmesse informazioni in merito al tipo di produzione svolta e al fatto che molti siti produttivi del gruppo erano stati chiusi perché non svolgevano attività essenziali. A noi spettava il compito di fare di più. Gli articoli prodotti a Polpenazze fanno parte della filiera medicale/farmaceutica, tra cui valvole montate sui respiratori, l’agricoltura, trasporto terrestre e industria alimentare. Per questi motivi non ci stiamo a essere additati come furbastri. Abbiamo svolto un lavoro di collaborazione con l’azienda, ma nel rispetto del propri ruoli e responsabilità, anteponendo i lavoratori a ogni altra logica o strategia dettata dal mercato o concorrenti. Le risposte che dobbiamo dare ogni giorno ai nostri compagni di lavoro sono un carico di responsabilità che ci opprime. Chiediamo di essere ascoltati.

Barbara Basile, Massimo Madernini, Michele Cenedella

 

In questa fase il ruolo dei delegati sindacali, già di per sé complicato, è uno dei più faticosi da ricoprire: c’è da difendere il diritto alla salute dei lavoratori, gestire le richieste dell’azienda, tentare di salvaguardare il futuro dei propri stipendi. Un compito che, nella cosiddetta fase 2, richiederà ulteriori capacità di mediazione e concertazione. La Camozzi è una delle imprese che abbiamo citato nei nostri articoli sul tema delle deroghe al Chiudi Italia. Mi rallegra sapere che nello stabilimento di Polpenazze (Bs) tutte le misure di sicurezza siano rispettate. Purtroppo, in molte altre situazioni non è andata così. Ci auguriamo che la vostra esperienza sia d’esempio anche altrove.

Paola Zanca

La riforma del 2015 che ha distrutto la sanità lombarda

La drammatica lettera dei presidenti degli Ordini dei medici lombardi contiene, oltre a sette precise doglianze, una grave accusa: “La sanità pubblica e la medicina territoriale sono state da molti anni trascurate e depotenziate…”. L’affermazione, apparentemente inverosimile (la Lombardia si vantava dell’eccellenza della propria sanità) trova, purtroppo, nella legislazione lombarda una triste conferma. Ci si riferisce, da ultimo, alla riforma sanitaria di cui alla legge n. 23/2015, effettiva concausa di molti danni patiti nel corso dell’epidemia. Sotto un profilo organizzativo, la riforma disegna una struttura mastodontica, nella quale grandi risorse sono devolute all’apparato amministrativo nonché ai generosi accreditamenti della sanità privata. A discapito, ovviamente, di quella pubblica. L’ordinamento del Sistema sanitario lombardo (Ssl sic!) traguarda i due livelli (Asl e Regione) operanti in tutte le altre regioni e ne prevede tre. Nella strutturazione viene lasciata sullo sfondo la parte che meriterebbe maggiore sostegno: l’effettiva prestazione a tutela della salute. I livelli ordinamentali sono: quello centrale regionale con funzioni di programmazione, indirizzo e controllo, quello di grande ripartizione territoriale costituito da otto Agenzie (Ats) con meri compiti amministrativi e quello delle prestazioni e dell’assistenza affidato a 31 tra Aziende (ASST coincidenti con le vecchie Asl) e Aziende Ospedaliere. La speciosa novità è l’istituzione di un ente intermedio (l’Ats), posto a coordinamento degli enti erogatori.

Ciò implica ulteriori otto posti di direttore generale con forte implementazione burocratica. In soldoni: ben 39 direttori generali e relative apparati per la gestione territoriale della sanità lombarda! La Toscana, per contro, ne ha 8, l’Emilia-Romagna 15, il Lazio 17 e la Sicilia 18 al pari del Piemonte. Agli effetti negativi di un’eccessiva parcellizzazione si uniscono le più gravi conseguenze derivanti dalla netta separazione tra decisioni tecnico sanitarie e amministrative, con la primazia riconosciuta irragionevolmente a queste ultime: in Lombardia, cioè, le Agenzie, titolari di funzioni amministrative, sono punto di riferimento per l’assunzione di valutazioni strategiche in materia sanitaria. Le vicende di Alzano e Nembro (che potevano essere chiuse a zona rossa), la mancata dotazione dei presidi indispensabili per i valorosi medici lombardi sta in questa divaricazione assurda, che ha privilegiato l’organizzazione burocratica incapace di assumere decisioni proprie dei profili assistenziali e di medicina territoriale. Tutto questo nonostante fosse previsto nella legge un Gruppo di approfondimento (GATTS) per fornire informazioni sull’uso di farmaci e supporti sanitari “attraverso l’uso di metodologie validate di valutazione epidemiologica” che avrebbe dovuto essere coinvolto, quanto meno per il ricorso ai tamponi, dall’Osservatorio integrato SSL, al quale concorrono le istanze delle professioni sanitarie. Tralascio di considerare gli ulteriori appesantimenti burocratici dati da ben altre tre Agenzie (una per il controllo, l’altra per la promozione e la terza per l’emergenza urgenza) nonché dall’Osservatorio epidemiologico regionale. Se ci si domanda il perché di questa follia, basta compulsare la legge n. 23/15. Dalla lettura del testo emergono due direttrici molto chiare: 1) comprimere le professionalità tecniche (in perfetta armonia con l’ideologia nazionale di quegli anni rappresentata dalla c.d. riforma Madia); 2) ampliare in prospettiva lo spazio all’imprenditoria sanitaria privata alla quale riversare sempre maggiori risorse. Una riforma sanitaria all’insegna della Milano da bere, dagli effetti esiziali pagati purtroppo dal popolo lombardo, al quale chi scrive è particolarmente legato.

Per la paura della morte non viviamo più

Più va avanti questa storia e più somiglia a un suicidio collettivo. Non giudico l’operato del nostro governo, peraltro seguito da molti altri Paesi, parlo qui, per così dire, della filosofia di vita e di quella sociale del mondo occidentale o occidentalizzato. Per il timore della morte abbiamo rinunciato a vivere.

Questa epidemia, proprio per il modo con cui l’abbiamo affrontata, cercando di contenerla con tutti i mezzi invece di lasciarla fluire liberamente, può avere, come una molla troppo compressa, un rimbalzo quasi della stessa forza oppure, se si vuole un’altra metafora, un fiume in piena davanti al quale venga eretta un’alta diga prima o poi ne raggiunge la sommità e quindi bisogna alzare ulteriormente la diga se non si vuole che una semplice piena divenga un’alluvione. Per questo dubitiamo molto che gli attuali divieti possano essere allentati, è più facile che vengano rinforzati. Le Autorità hanno stabilito che l’indice R0 non può fermarsi a un sinistro “1 vale 1”, cioè una persona contagiata ne contagia a sua volta solo un’altra, ma il rapporto deve scendere a 0,5 per la riapertura di negozi, bar, ristoranti e addirittura a 0 per stadi, discoteche, cinema, teatro. Per cui è molto probabile che le attuali restrizioni, magari allentate ma subito ripristinate o addirittura indurite se la curva tende di nuovo al rialzo, durino un anno e anche più. Un anno di reclusione è poco o tanto per una vita? È tantissimo per un anziano che ha ancora pochi spiccioli da spendere, ma anche per un ragazzo perdere un anno della propria giovinezza non è poco. Né di fronte alla compatta volontà del gregge è possibile a qualcuno, novello Capaneo, ribellarsi. Non tanto perché bar e ristoranti sono chiusi, se ne può fare anche a meno, ma perché non può invitare nessuno a cena e semmai azzardasse suonare il campanello altrui si vedrebbe guardato con terrore: “Vade retro Satana, noli me tangere”.

In una società che rifiuta l’idea stessa della morte, dominata dal terrorismo diagnostico e scientifico, ossessionata dall’ubris del controllo, era logico che andasse a finire così. Ma noi non possiamo controllare un bel nulla, ce ne illudiamo solo, il Fato, per sua natura imprevedibile e incalcolabile, è sempre lì ad attenderci.

Nel suo libro, Le illusioni della medicina, Bensaid, apprezzato medico francese, racconta questa storia. M. L., un uomo di quarant’anni, è un grassone, un ghiottone, gioviale ed esuberante come sono spesso le persone di questo tipo. I medici gli avevano riscontrato una ipertensione modesta ma tenace, un tasso di colesterolo abbastanza elevato. Ma M. L. non se ne era preoccupato. Finché un giorno legge sull’autorevole Le Monde (il dio stramaledica i giornali autorevoli che mai come in questa fase si sono dimostrati più che inutili perniciosi) i rischi di infarto cui andava incontro. Si allarma e si reca da Bensaid perché vuole essere curato, benché il medico cerchi di convincerlo che “i fattori di rischio che gli erano stati segnalati non erano altro che fattori di rischio, egli non era predestinato a essere vittima di una patologia vascolare, era semplicemente un po’ più esposto a questo rischio rispetto ai suoi simili, ma solo un po’”. Ma M. L. è ormai deciso a curarsi e il medico lo accontenta. Ma Bensaid nota che l’uomo non è più lo stesso, si è incupito, è diventato triste, amaro, aggressivo, depresso. Nel giro di pochi anni M. L. verrà ucciso da un melanoma. E Bensaid si chiede: “Io non potevo saperlo, ma gli avevo avvelenato, inutilmente, quelli che dovevano essere gli ultimi anni della sua vita. Lo avevo reso infelice… per prevenire patologie del tutto ipotetiche”.

Allo stesso modo ci stiamo comportando noi. Quindicimila deceduti per Coronavirus sono lo 0,025 sul totale di 60 milioni di italiani cioè, al momento, ciascuno di noi ha 0,025 probabilità di morire per questo morbo. Per prevenire una morte che dal punto di vista del singolo è del tutto ipotetica, e da quello della collettività ha proporzioni minime (anche se, certo, senza le limitazioni la percentuale sarebbe stata più alta, ma crediamo non di molto) abbiamo chiuso a chiave un’intera popolazione.

L’ipocrisia di dire che tutto cambierà

Di fronte a una catastrofe di proporzioni inaspettate e dalle conseguenze imprevedibili dobbiamo lanciare messaggi di speranza o guardare con occhi lucidi, dietro, intorno e avanti? Non dovremmo tutti controllare le emozioni e affidarci soltanto alle cognizioni? So che non possiamo fare a meno delle emozioni, ma credo che le cognizioni e le ragioni siano più importanti per capire, per reagire e per cambiare.

Piuttosto che affermazioni retoricamente ottimistiche, non dovremmo preferire, anzi, pretendere parole di verità: “I have nothing to offer but blood, toil, tears, and sweat”? anche se contro il coronavirus non è in corso una guerra, analogia del tutto impropria. È una guerriglia con i suoi focolai e i nemici stanno già da qualche tempo fra noi come pesci nell’acqua.

Alle prime, ma insopprimibili, manifestazioni del coronavirus, era opportuno (e utile) affermare con un tono di malcelata superiorità, anche morale: “Milano non si ferma”? Serve davvero a renderci meno preoccupati e meno infelici leggere su molte lenzuola stese al vento che “Andrà tutto bene”? Possiamo raccontarlo ai parenti e agli amici di 15 mila vittime per consolarle? Come potrà andare “tutto” bene per coloro che hanno perso nonni, genitori, parenti e, talvolta, figli? È lecito lasciare pensare che d’ora in poi, neanche più discuteremo di un passato dolorosissimo e vicinissimo, perché “tutto andrà bene”? Tutto, che cosa? per coloro che non hanno più la possibilità di lavorare nelle attività autonome che si erano costruite con fatica, impegno e orgoglio. Per coloro che hanno perso il posto di lavoro e sono consapevoli che tutto è andato male e comprensibilmente temono che riprendere non sarà né facile né rapido, che il futuro si presenta sotto una densa scura nube di enormi inconvenienti, avversità, ostacoli? E chi sono, che cosa sanno poi costoro che annunciano il futuro radioso nel quale “tutto andrà bene”? Infine, sentiamo annunciare e leggiamo molto frequentemente che “torneremo come prima”. Sappiamo, me lo auguro, che il “prima” per molti non era affatto una situazione positiva, apprezzabile, nella quale stavano bene, avevano un lavoro e un reddito, forse persino speranze di miglioramenti oppure si sentivano già realizzati. Forse dovrebbero saperlo anche coloro che, “prima”, godevano di situazioni di grande benessere, di potere, di opportunità. Sono coloro che anche in questa occasione perdono poco e rischiano meno degli altri. Se hanno un minimo di capacità riflessiva, però, neppure costoro pensano e desiderano tornare “come prima”. Anzi, dovrebbero riflettere su quello che non ha funzionato e su come trovare, alimentare, diffondere anticorpi, ma soprattutto su come predisporre strutture e cambiare comportamenti.

No, non dobbiamo affatto augurarci che “tutto tornerà come prima”. Al contrario, dobbiamo fare sì che il nostro sangue, il nostro lavoro, le nostre lacrime e il nostro sudore servano a cambiare profondamente le società nelle quali viviamo e le modalità con le quali ci comportiamo. No, non sono affatto sicuro che abbiamo capito che la nostra libertà finisce dove comincia la libertà degli altri e che siamo liberi proprio nella misura in cui gli altri accettano l’idea/la necessità/l’imperativo della loro stessa libertà “condizionata”. Che abbiamo capito che davvero esiste la società, non individui singoli fieri, presuntuosi, autosufficienti. Che “no man is an island entire of itself; every man is a piece of the continent”. Che la vita può diventare “solitary, poor, nasty, brutish, and short”, se non impariamo a rapportarci agli altri rispettando le regole che ci siamo dati oppure cambiandole di comune accordo. Allora, meditando, nell’ordine, quanto detto dall’uomo politico Winston Churchill, dal poeta John Donne, dal filosofo Thomas Hobbes, affermiamo consapevolmente e convintamente che nulla tornerà come prima. Faremo il possibile affinché molto del nuovo sia per il più alto numero di persone (come vorrebbe John Rawls) migliore, di gran lunga migliore, di prima.