Al rogo un’altra rosa: Salvini alla frutta fa 2 nomi usati e 1 nuovo

Lo vedono girare per i vicoli del centro di Roma, telefona a tutti, fa incontri talmente segreti che poi vengono puntualmente comunicati dal suo staff (“ha incontrato avvocati e docenti universitari”), brucia candidati come se fossero ceppi da buttare e convoca giornalisti per dire che ha “la soluzione”, “domani arriva il nome”, “avremo un presidente condiviso”, “ho tanti profili da proporre”. Matteo Salvini il situazionista. Doveva essere il kingmaker della partita del Quirinale ma, ora dopo ora, sembra tornare sulla spiaggia del Papeete quando, imbracciando un mojito e strabuzzando gli occhi per le modelle sul cubo, decise di far cadere il governo di cui era azionista di maggioranza. Salvini fa come il gambero: un passo avanti e due indietro. E così, dopo aver bruciato almeno cinque candidati – Carlo Nordio, Marcello Pera, Letizia Moratti, Maria Elisabetta Alberti Casellati, Pier Ferdinando Casini (che non piaceva a Giorgia Meloni) – Salvini torna al punto di partenza: la terna di nomi che ha portato ieri sera al vertice del centrodestra iniziato alle 21.30 (ancora in corso quando questo giornale va in stampa) è composta da Sabino Cassese, giurista che aveva incontrato mercoledì pomeriggio, Franco Frattini, presidente del Consiglio di Stato già impallinato martedì mattina dalla contraerea di Matteo Renzi ed Enrico Letta che ha visto Salvini ieri pomeriggio, e la new entry Giampiero Massolo, ambasciatore e già direttore del Dis. Sono loro quei “profili di alto valore istituzionale e internazionale” a cui pensa Salvini parlando nel pomeriggio con i giornalisti. Su questi quattro nomi punta il segretario del Carroccio per provare a sbrogliare la matassa del Quirinale. Sullo sfondo resta ancora quella Elisabetta Belloni su cui la Lega potrebbe convergere alla fine, ma in serata si fanno i nomi anche di Giulio Tremonti e Paola Severino.

Ipotesi complicatissime visto che ancora ieri sera i suoi alleati facevano filtrare tutta la loro irritazione a pochi minuti dall’inizio del vertice di ieri sera. Quando in serata si torna sul nome di Frattini, Antonio Tajani fa sapere che “non gli risulta” alcuna trattativa sul presidente del Consiglio di Stato, Maurizio Gasparri twitta contro Cassese parlando di proposta “irricevibile” mentre da Fratelli d’Italia cala il gelo. Anche Ignazio La Russa stronca Frattini sul nascere: “Frattini è persona stimabile, ma non mi risulta che sia nelle recenti interlocuzioni del centrodestra, di sicuro non con FdI – dice il senatore meloniano –Magari spunta più tardi ma non mi piace il metodo”. Salvini ha incontrato Giorgia Meloni ieri pomeriggio dopo l’incidente di poche ore prima sulla decisione di astenersi e da FdI assicurano che i due “hanno fatto la pace”. Ma poi la strategia di Salvini delle ultime ore viene sintetizzata così da un esponente di peso di via della Scrofa: “Non ci si capisce più niente”. Sui nomi resta la spaccatura nella coalizione: a Meloni piacciono Cassese, Massolo ma meno Frattini, a Berlusconi Frattini e Cassese ma non Massolo. Salvini un problema ce l’ha anche in casa perché, appena esce il nome di Cassese, Luca Zaia parla a nome dei governatori: “Non è un autonomista”. Incastro complicato. E strategia, quella del casting, che fa andare su tutte le furie anche Renzi che poche ore prima si era visto bruciare, proprio grazie a Salvini, il suo candidato Pier Ferdinando Casini: “È uno show indecoroso che ridicolizza l’elezione del Presidente della Repubblica – si sfoga – sono sconvolto dal centrodestra”.

E dunque, in Transatlantico, alla fine fa capolino un pensiero tra molti parlamentari: che Salvini voglia creare il caos per portare il Paese alle urne portando in Aula un candidato che spacchi la maggioranza? Ipotesi che fa rabbrividire anche molti leghisti che adesso sperano in Draghi. D’altronde le truppe di Giancarlo Giorgetti e dei presidenti del nord stanno spingendo il segretario a convergere sul male minore, cioè sul premier. Un atteggiamento che però, se possibile, sta facendo irrigidire ancora di più il leader della Lega: “Non posso dargliela vinta” avrebbe detto ai suoi fedelissimi facendo riferimento ai suoi avversari interni. E dunque si torna al punto di partenza.

Aumenta l’onda del bis di Mattarella: oggi anche la quinta rischia il flop

Una o due, questo è il primo dilemma. Al quinto giorno di votazioni a vuoto, il Parlamento comincia ad avvertire un fastidioso ticchettio. C’è bisogno di accelerare, di smuovere le acque, ché lo stallo non è solo brutto da vedere, ma è pure pericoloso, non sia mai si scivoli verso finali senza sceneggiatura. Così stamattina, la conferenza dei capigruppo valuterà se procedere con due votazioni al giorno, come si è sempre fatto, prima che il Covid dilatasse i tempi elettorali a causa di distanziamenti e sanificazioni. Anche perché la storia repubblicana insegna che alla quinta chiama – quella convocata alle 11 di oggi – non si è mai eletto nessuno. Meglio passare rapidamente alla sesta, sempre che i leader riescano a mettersi d’accordo e non lascino mani libere alle spinte che vengono “dal basso”.

Ieri, per legare quelle mani, il centrodestra ha imposto ai suoi di non ritirare la scheda. Risultato: 441 astenuti, lontani dai 505 voti che servono per eleggere il capo dello Stato, anche considerando i 12 che hanno disobbedito all’ordine. Giorgia Meloni non ha gradito, avrebbe preferito andare alla conta su un nome. Ma Salvini le ha spiegato che nessuno – a cominciare dalla decapitata Forza Italia – poteva garantire di fermare i segnali incontrollati. Come quelli arrivati dall’altra metà dell’emiciclo che ieri ha tributato 166 voti a Sergio Mattarella.

Un parlamentare su tre dei 540 votanti ha chiesto al capo dello Stato di fare il bis. Un appello trasversale, probabilmente più scarno del previsto perché il Pd (e i 5S, costretti poi a dire che si era lasciata “libertà di coscienza”) hanno messo i caporioni a conteggiare i secondi di permanenza nel catafalco per obbligare tutti alla scheda bianca: ci sono gli eletti di Leu, un pezzo di 5 Stelle (un nutrito gruppo di senatori sostiene questa tesi da tempo), alcuni seguaci di Luigi Di Maio, esponenti dem vicini a Dario Franceschini. Il sogno del mantenimento dello status quo (Draghi a palazzo Chigi, Mattarella al Quirinale) è quello che consentirebbe di blindare la legislatura per un altro anno, la soluzione indolore, il freezer della politica. Ma è chiaro che sarebbe anche un segnale di estrema debolezza – oltreché dai profili costituzionali labilissimi – a cui arrivare solo per conclamata disperazione. Anche perché, dal Colle lo hanno chiarito più volte, per convincere Mattarella a restare servirebbe un’acclamazione del Parlamento intero (al massimo si tollererebbe l’astensione di Giorgia Meloni) e soprattutto dovrebbe arrivare dopo una processione dei leader al Quirinale.

Già, i leader. Per quanto allo sbando, sono tutti in balia della Lega e del suo capo. Quel Matteo Salvini che non si capisce a che gioco stia giocando. Sibilano i leghisti in Transatlantico: “Siamo anche disposti a votare Draghi, se ci promette che scioglie le Camere e ci fa andare a votare”. Qualcun altro, quando si è fatta sera, ritira fuori l’ipotesi di un blitz su Maria Elisabetta Alberti Casellati. I numeri per fare da solo – lo hanno certificato le astensioni di ieri – il centrodestra non li ha, ma la speranza è sempre quella di pescare nel magma del gruppo misto. Ovviamente, anche questa soluzione sarebbe finalizzata alle elezioni anticipate. Poi è Matteo Salvini ad azzardare un’altra mossa che dà l’idea di quanto si proceda a tentoni, rimettendo sul tavolo il nome di Franco Frattini – già bocciato dai giallorosa – e preparando una nuova rosa di candidati, tra i quali c’è anche Giampiero Massolo (già bocciato da Forza Italia). Il suo nome circolò già ai tempi della formazione del governo gialloverde, come punto di intesa tra Salvini e Di Maio, prima che spuntasse dal nulla l’avvocato Giuseppe Conte. Curiosamente Massolo è un diplomatico come Elisabetta Belloni. Doppiamente curioso il fatto che lui sia stato a capo Dipartimento delle informazioni per la sicurezza tra il 2012 e il 2016, lo stesso incarico di coordinamento dei servizi segreti che da pochi mesi ricopre la stessa Belloni e che – nelle valutazioni delle ultime ore – costituiva il principale ostacolo alla sua candidatura al Quirinale.

Una matassa apocalittica che Mario Draghi spera ancora di venire chiamato a sbrogliare. Sempre che – lo avvertono – riesca a prendere 505 voti.

Ho visto cose…

Ho visto cose che voi umani… avete visto tutti, salvo i fortunati che non guardano la tv e i giornaloni.

Ho visto il presidente del Consiglio fare le consultazioni per scegliersi il presidente della Repubblica e minacciare, tramite indiscrezioni mai smentite alla stampa amica, di prendere cappello e andarsene se non fosse eletto lui o chi piace a lui.

Ho visto Salvini rientrare al Papeete (gli porta buono) e lanciare per aria tre candidati all’ora come frisbee e scordarseli subito dopo mentre ne lancia altri (tra cui Cassese che lo dipingeva come un troglodita “fuori dalla legalità costituzionale”), confondendo il kingmaker con King Kong.

Ho visto il centrodestra candidare a capi dello Stato Berlusconi, Pera, Moratti e Nordio e poi smettere per non soffocare dal ridere, su consiglio del prof. Zangrillo.

Ho visto il terrore negli occhi dei forzisti alla sola idea che la forzista Casellati prenda voti, certamente non da loro.

Ho visto grandi elettori a forma di poltrona votare Mattarella per dire che va bene tutto tranne Draghi e grandi giornalisti a forma di lingua che li spacciavano per fan di Draghi in incognito.

Ho visto Di Maio lanciare l’ultimo sombrero sulla Belloni al grido di “lei è mia sorella”, dopo aver fatto trapelare parentele strettissime con tutti i quirinabili su piazza (una sessantina) e senza spiegare come possa un avellinese di 35 anni avere una sorella romana di 63, cosa mai vista prima se non nella famiglia Mubarak. E comunque Draghi è suo nipote.

Ho visto Letta e Renzi insieme (bella battuta già questa) inventare candidati inesistenti, Frattini e Casellati, per fingere di stopparli con la sola forza del pensiero.

Ho visto bocciare Frattini per l’unica cosa che non ha, le idee: “Non è atlantista”, infatti da ministro degli Esteri disertava i vertici europei per starsene su un atollo delle Maldive, sull’oceano sbagliato. Dunque è indianista.

Ho visto due giovani vedove di SuperMario – il rag. Cerasa e Feltri jr. – strillare e flagellarsi come prefiche per il “Draghicidio” e “l’omicidio politico alla baby gang” sol perché qualcuno minaccia di lasciare il premier a fare il premier, malgrado lo scarso rendimento fin qui dimostrato.

Ho visto il sessantaseienne Casini postare su Instagram una sua foto di diciannovenne già democristiano e rivendicare la sua “passione per la politica”, come se questo potesse giovargli.

Ho visto le migliori firme del Paese manifestare sincero stupore per avere scoperto all’improvviso che quell’affabile compagnone di Draghi, pur così empatico, non è amatissimo dai parlamentari, almeno da quelli italiani.

Non ho ancora visto il nuovo presidente della Repubblica, ma questo è un dettaglio.

Il Giorno della Memoria tra postini, foreste e ladri

A gennaio le librerie si riempiono di titoli sull’Olocausto, in occasione del Giorno della Memoria, in cui si commemorano le vittime della Shoah nella data simbolica della Liberazione del lager di Auschwitz. L’offerta editoriale è tanta, ma mai troppa; noi abbiamo selezionato cinque libri a loro modo eccentrici e originali: un romanzo di fantastoria su uno Shtetl scampato alla furia nazista; un saggio economico sulle ruberie fasciste ai danni degli ebrei italiani; la classica storia di Anna Frank riaffabulata per i bambini da Lia Levi; la corrispondenza obbligata dei deportati, sfruttati sin nella propaganda via posta; il memoir di un centenario sopravvissuto, che ci sfida e commuove: “La vita è bella”.

 

Le lettere La propaganda viaggia per posta, sfruttando i deportati

“Vi scrivo dal campo di lavoro di Birkenau dove mi trovo in questo momento. Sto bene, lavoro e attendo vostre notizie”: è l’asettica lettera che la moglie di Isaak Goldsztajn, ebreo francese arrestato e deportato nell’autunno del 1943, riceve nel novembre di quello stesso anno. Delle frasi all’apparenza prive di informazioni rilevanti, ma di per sé incredibili: perché i prigionieri dei campi di concentramento nazisti potevano inviare messaggi ai propri cari, ma solo a certe, atroci, condizioni. Karen Taieb, storica della Shoah, ha raccolto e analizzato queste migliaia di lettere, tutte organizzate dai nazisti nell’operazione Brief-Aktion, che “consisteva nel far scrivere cartoline ai deportati, destinati alle loro famiglie o agli amici, per rassicurarli sulla loro sorte” e far propaganda “positiva” al regime. Pur con tutte le limitazioni del caso (i messaggi erano supervisionati e scritti in tedesco), queste missive rappresentano una testimonianza importante, che Taieb ricostruisce in 22 biografie sofferte, in cui frasi anonime nascondono realtà inimmaginabili.

 

Il romanzo Impossibile credere ai morti per chi vive a Kreskol

Vincitore nel 2020 del National Jewish Book Award, Max Gross arriva anche in Italia, edito da e/o, con la sua fantastoria, lieve e struggente come La vita è bella, ironica e spiazzante come Good Bye, Lenin! Lo Shtetl perduto del titolo, infatti, si riferisce a un immaginario paesino – Kreskol – nella foresta della Polonia orientale, non toccato dal nazismo; solo cent’anni dopo, grazie alla fuga dal villaggio di una giovane divorziata, gli abitanti del borghetto saranno costretti a uscire dalla loro prigione dorata e illibata per scontrarsi con la realtà: il mondo orribile là fuori. Protagonista, suo malgrado, del tragicomico viaggio di iniziazione mondana e folle disincanto, è lo “scemo del villaggio” Yankel, che alla Shoah proprio non riesce a credere: “Ma come possono essere morti tutti? Dovevano essere centinaia di migliaia”. “Ce n’erano milioni. Ma ora non più. Uccisi tutti”. “Su, andiamo! Lei mi prende in giro”.

 

Per bambini Anna Frank, il diario interattivo raccontato da Lia Levi

Riaffabulata da Lia Levi, scrittrice sopravvissuta all’Olocausto, con le illustrazioni di Barbara Vagnozzi, La storia di Anna Frank è una rivisitazione del noto diario della bambina ebrea tedesca, pensata per i bambini dai 7 anni in su. In 62 pagine, con una sintassi pulita e delicati disegni a pastello, viene raccontata la quotidianità della giovane durante la persecuzione degli ebrei, fermandosi appena prima che la vicenda raggiunga gli esiti tragici della Shoah che tutti conoscono. Ci sono la descrizione della clandestinità, o la paura della guerra, ma sempre raccontati con la leggerezza e la serietà adatte alla sensibilità dei piccoli lettori. Anche per questo, il volume “interattivo” ha caratteri ad alta leggibilità, testi in stampatello e gli “a capo” senza sillabe spezzate. Le illustrazioni sono inoltre sempre a doppia pagina, invogliando così alla lettura anche le bambine e i bambini più restii. Verso la fine del racconto compaiono poi giochi e attività legate alla comprensione del testo, sensibilizzando in modo accurato i più piccoli al Giorno della Memoria.

 

Il saggioIl saccheggio del regime antisemita. Ma la restituzione?

“The unfinished business of World War II”: così la storiografia recente definisce l’infinita persecuzione economica ai danni degli ebrei, spogliati di tutto dal nazifascismo, ma non del tutto risarciti. Una infamia per lo Stato italiano che dura ancora oggi, tra reticenze, smemoratezze, sciatteria e ingiustizie, proprio in quello stesso Stato in cui, senza pudore, gli eredi di Umberto II di Savoia, e quindi del famigerato re fascista Vittorio Emanuele III, chiedono indietro i gioielli della Corona, custoditi in Banca d’Italia dal 1946, una volta destituita per via referendaria la monarchia, complice degli orrori del regime, leggi razziali in primis. Ricorda la storica Ilaria Pavan, in un documentato saggio del sempre zelante Mulino, che la persecuzione degli ebrei in Italia fu, per durata e ferocia, seconda solo a quella della Germania nazista. L’atroce piano antisemita riguardò anche espropri, confische, saccheggi e spoliazione di qualsiasi bene appartenuto agli ebrei. Di restituzione si parlò solo molti anni dopo la Liberazione. E ancora non è finita.

 

Il memoir Eddie, “l’uomo più felice del mondo” ha sconfitto l’orrore

“L’uomo più felice del mondo” non ha da offrire il suo dolore, ma la sua speranza: Eddie Jaku, scomparso lo scorso ottobre a 101 anni, era un sopravvissuto ai lager, Buchenwald prima, Auschwitz dopo, marce della morte infine. Molti anni dopo la Liberazione, il signor Jaku ha trovato la forza di diventare un testimone della Shoah, anche in memoria di “tutti quelli che non sono sopravvissuti per raccontare la loro storia. E di tutti quelli che dopo tanto tempo sono ancora troppo feriti per farlo. È per loro che parlo. E per i miei genitori”, morti nei campi di sterminio non appena deportati. A commuovere, di un sopravvissuto, sono la grazia, il profumo, il sorriso, germogliati chissà come e chissà dove in mezzo al deserto, alla barbarie, all’orrore. Come si fa a ritenersi felici dopo l’Olocausto, dopo l’assassinio di famiglia e amici, dopo le torture e la sopravvivenza pagata a caro prezzo? Eddie sa che “i miracoli succedono sempre, anche nei momenti più bui”. Ma i miracoli accadono solo a chi crede: grazie signor Jaku per la sua fede infinita nella vita.

 

A cura di Natale Ciappina e Camilla Tagliabue

Il silenzio “alleato” sui lager. Sterminio: tutti sapevano

Seppero e tacquero per molto tempo. Fecero finta di non capire o voltarono la testa dall’altra parte. Decisero che l’obiettivo era vincere la guerra e che del resto non potevano occuparsene. Per decine e decine di militari, funzionari, diplomatici, spie, politici dei governi Alleati la Shoah fu un film dell’orrore che – fotogramma per fotogramma – si svolgeva sotto i loro occhi. Intercettazioni, decrittazioni, rapporti, testimonianze, gli appelli delle organizzazioni ebraiche per fermare lo sterminio: da subito dopo l’invasione nazista dell’Unione Sovietica (giugno 1941) per mesi e anni la massa di informazioni prese forma fino a comporre il quadro nero dell’Olocausto. Certo, nel dicembre del 1942 Stati Uniti e Gran Bretagna (assieme ai governi in esilio dei Paesi occupati da tedeschi e italiani) denunciarono lo sterminio in una dichiarazione congiunta minacciando di farla pagare alla “barbara tirannia hitleriana”. Troppo tardi.

ERA GIà SCRITTO Pochi presero alla lettera il Mein Kampf di Hitler. Nella copia personale di Himmler compare questo passaggio sottolineato (riferito alla Prima guerra mondiale): “Se si fossero tenuti sotto i gas dodici o quindicimila di quegli ebraici corruttori del popolo… si sarebbe salvato un milione di tedeschi, preziosi per l’avvenire”.

I RADIOMESSAGGI decodificati dall’intelligence britannica:

Ucraina – 25 agosto 1941. 1342 ebrei uccisi durante “un’azione di Polizia”; 283 ebrei uccisi dalla Prima Brigata SS.

Ucraina – 27 agosto 1941. 2200 ebrei liquidati vicino a Kamenec-Podol’skij. Come scriverà il comando territoriale a Berlino, all’11 settembre gli ebrei sterminati ammonteranno a 23.600.

Prussia, Germania – 11 dicembre 1941. Il maggiore delle SS Franz Magill è inviato al campo di concentramento di Oranienburg per farsi spiegare dal personale della Tesch & Stabenow come utilizzare il gas Zyklon (acido prussico) per uccidere prigionieri. Bruno Tesch, il proprietario della società, sarà condannato a morte da un tribunale militare alleato e poi giustiziato.

IL TELEGRAMMA RIEGNERÈ il messaggio che l’8 agosto del 1942 Gerhart Riegner, segretario della sezione svizzera del Congresso mondiale ebraico spedisce a Londra e a Washington. “Nel quartier generale di Hitler è stato discusso un piano che prevede che l’intera popolazione ebraica dell’Europa sotto il controllo tedesco sia deportata a Est per essere sterminata. L’azione sarebbe programmata per l’autunno prossimo… con modalità che includono l’acido prussico”. La fonte di Riegner è un industriale tedesco.

IL RAPPORTO RACZYŃSKI Il titolo è: “Lo sterminio di massa degli ebrei nella Polonia occupata dai nazisti”, e non l’ha scritto un ricercatore anni dopo la fine della guerra, ma il ministro degli esteri del governo polacco in esilio Edward Raczynski il 10 dicembre 1942. Sedici pagine che riassumono testimonianze e documenti della resistenza: la storia in presa diretta dell’evacuazione dei ghetti, i nomi e i luoghi dei campi di sterminio come Treblinka e Belzec.

AUSCHWITZ Il 4 giugno 1942 i criptoanalisti britannici decodificano un messaggio nel quale il generale delle SS Hans Klammer – che sovraintende alla costruzione dei campi di sterminio – parla di un camino per il crematorio.

A ottobre il traffico radio delle ferrovie tedesche fa riferimento agli arrivi di ebrei polacchi, cechi e olandesi. Ormai i servizi alleati sanno che: 1) il numero di ebrei ammassati nelle baracche non è confrontabile con quello degli ebrei arrivati con i treni; 2) che gli ebrei non lasciano Auschwitz. Lo storico Richard Breitman si è chiesto ironicamente se Auschwitz non fosse diventata una delle più grandi metropoli d’Europa.

Il 7 aprile 1944, l’anno nel quale la macchina infernale raggiunge il massimo livello di efficienza (600.000 vittime) due ragazzi slovacchi riescono a scappare dal campo e a tornare a casa. Il rapporto Vrba-Wetzeler è la loro testimonianza scritta, c’è tutto: il numero dei treni, la descrizione accurata delle camere a gas e dei crematori, la stima dei morti. Il documento arriva anche in Vaticano mentre si compie il destino di centinaia di migliaia di ebrei ungheresi, il capolavoro logistico del criminale di guerra Adolf Eichmann. Pio XII chiede in una lettera aperta al dittatore ungherese Horthy alleato dei nazisti di “risparmiare a tanta gente sventurata ulteriori sofferenze”; il presidente americano Roosevelt avvisa Horthy di sapere tutto e per ritorsione ordina il 2 luglio di bombardare Budapest. Trenta organizzazioni ebraiche chiedono di colpire con l’aviazione le linee ferroviarie che portano ad Auschwitz e le camere a gas per interrompere lo sterminio. È tecnicamente possibile ma i militari si oppongono. Il 14 novembre il dipartimento della Guerra dice no, e lo scrive: “Siamo impegnati a distruggere le industrie tedesche, non possiamo permetterci diversioni”. Le SS hanno già cominciato a smantellare Auschwitz. I russi stanno arrivando.

Dora, bella e poverissima come l’Italia tra le due guerre

Nella baracca di vicolo Barche il freddo della notte è feroce, si arrampica sui muri scrostati, odora di chiuso e di umido: è il profumo della povertà, a cui gli inverni del Nord portano in dono, oltre alla fame, un gelo assassino. La stanza è spoglia: al centro un tavolo con tre sedie, su un lato il giaciglio, su un altro una credenza priva di un’anta. L’unica luce è una finestra alta, con la serratura malferma che trema e fischia ogni volta che il vento la attraversa per entrare senza invito. In fondo c’è un camino, ma è solo un buco vuoto. Nonostante il freddo la giovane donna stesa nel letto suda da ore. Geme invocando aiuto, mani malferme si muovono sul ventre rigonfio. Margherita Bassi nata Casadei era riuscita a nascondere la gravidanza per sei mesi, tanto poco si vedeva la pancia. Poi un giorno mentre in silenzio mangiavano, Regina, sua madre, le aveva detto: “Sei ingrassata. O qualcuno ti dà da mangiare e in cambio gli allarghi le gambe, oppure hai allargato le gambe una volta e ci sei rimasta”. Rita aveva sgranato gli occhi e rinunciato a qualunque spiegazione: “Nascerà in dicembre”. Invece questo bimbo ha fretta e sta arrivando.

Regina osserva con disprezzo i segni della sofferenza sul viso quasi sfigurato di Rita: i figli del peccato vengono al mondo con dolore, le sussurra, come una maledizione. “Ci dovevi pensare prima di rovinarti”, ripete mentre si scalda le mani dentro uno straccio di lana, senza fare nulla per alleviare le sofferenze della sua unica figlia rimasta in vita. Rita per fortuna non sente (…) si accarezza la pancia mormorando frasi dolci come se lui, da dentro, potesse sentirla. Poi un grido disperato sveglia Regina, assopita su una sedia. “Piantala di lamentarti. Io ho partorito da sola in un fienile e il giorno dopo sono andata a lavorare nei campi. Tutte e due le volte”. (…)

Il telegramma indirizzato al Comune di Mantova dal ministero della Guerra le era stato recapitato da un messo municipale in una calda mattina d’inizio estate, un anno prima.

Si compie il doloroso dovere di partecipare la S. V. che il giorno 19 maggio durante la battaglia nella Valle dell’Isonzo è caduto CASADEI GIOVANNI. Di quanto precede pregasi informare, con i riguardi che il caso esige, la rispettiva famiglia.

Riguardi non ce n’erano stati, l’uomo le aveva messo in mano la carta e Regina, che non sapeva leggere, si era girata verso la figlia con gli occhi stravolti dalla paura: “Se è morto non dire una parola”. Giovanni era stato la grande gioia della sua vita. Giovannino, il figlio maschio, il miracolo che aveva convinto Aldo a sposarla. Quando era nata la primogenita le aveva detto: “Per una femmina non ti sposo, le figlie non servono a niente”. Regina aveva scelto di dare via la bambina e di continuare a vedere il padre. Due anni dopo, però, l’arrivo di Giovannino aveva cambiato tutto: Aldo l’aveva sposata, finalmente, e solo allora la piccola era andata a vivere con i genitori: ci voleva un maschio per rendere una figlia femmina degna di essere nata.

Poi all’improvviso Aldo era morto di febbre, così Regina si era trovata di nuovo al punto di partenza. Fame e lavoro da cercare, ma tre bocche al posto di una.

“Aiutami, mamma. Ti prego, mi sento morire. Chiama un dottore”.

“E con cosa lo pago il dottore? I dottori non vengono a casa della gente come noi. Cosa dirai a tuo marito, quando torna dalla guerra? Che hai tenuto suo figlio in pancia per tre anni? Ci butterà in mezzo a una strada”. (…)

Mario era partito soldato subito dopo il matrimonio, Rita non era stata fedele né al marito, né alle sue speranze. E dire che sapeva quale sorte toccava ai bastardi, lei che sulla ruota c’era stata, lei che per i primi anni di vita era stata affidata alla pubblica carità…

Rita ora respira con affanno. Tra una fitta e l’altra, le sfugge qualcosa che somiglia a un sorriso: pensa a quel giorno di otto mesi prima, quando ha visto per l’ultima volta suo marito Mario. Avevano fatto l’amore sul prato, felici e spensierati come se attorno non ci fossero stati solo fame e guerra, morti e desolazione. Come se lui poco prima non le avesse raccontato di tutto il sangue, della paura, di quella volta che in trincea si era pisciato addosso. Aveva visto corpi dilaniati, pezzi di carne dei suoi compagni gli erano volati addosso. Viveva nel terrore del gas, sempre con un fazzoletto sul viso, il pane bagnato in bocca. Dopo la disfatta di Caporetto era scappato a piedi. Rita era tornata nel suo nascondiglio tante volte, dopo quel pomeriggio d’amore, ma di lui non c’era traccia. Da allora non ha più avuto sue notizie. (…)

Spunta un giorno grigio mentre il piccolo viene al mondo tra le urla e le imprecazioni di sua madre. Regina lo avvolge in un panno cencioso, comincia a pulirlo. Toglie il sangue dal corpicino tremante, taglia il cordone ombelicale con un coltellaccio arrugginito. Rita però di sangue ne perde ancora tantissimo, è sempre più pallida.

“L’e na putina, hai messo al mondo una femmina”, dice la nonna con un lamento sprezzante. Ma Rita non può sentirla, ha smesso di rantolare e di pregare. È l’alba dell’Armistizio, un giorno che cambia il mondo.

Il gioco? “Un bene necessario, normale”. Fotografia dell’azzardo secondo la Luiss

“Parte del tempo libero” perché “normale”. Una “popolazione di consumatori che considera il gioco un bene necessario”. Con il Covid, inoltre, in Italia si gioca meno d’azzardo alle VLT e di più in Internet. È la fotografia della Luiss Business School, con dati dell’Agenzia delle dogane e dei Monopoli e dell’Istat. Lo studio è stato presentato ieri.

 

“San Sabba, il sindaco di Trieste esclude i gay”

La Risiera di San Sabba, il campo di sterminio nazista di Trieste, nel Giorno della Memoria è chiusa ai gay e alla comunità Lgbti+. Lo ha stabilito il Comune di Trieste: “La Risiera è aperta esclusivamente ad autorità civili, militari e religiose, alle associazioni combattentistiche e ai componenti del Comitato per la Difesa dei valori della Resistenza”. Così, adducendo limitazioni anti-Covid, è stata negata al rappresentante della comunità Lgbti+ la partecipazione alla cerimonia di oggi nella Risiera. “Per il Comune di Trieste, le autorità civili, militari e religiose sono più importanti dei rappresentanti di una parte delle vittime dello sterminio nazista”, denuncia il presidente di Arcigay Arcobaleno di Trieste e Gorizia, Andrea Tamaro.

Omicidio Mattarella, c’è l’inchiesta a Bologna. La rivelazione durante il processo sulla strage

La Procura generale di Bologna sta indagando sull’omicidio di Piersanti Mattarella, il leader della Dc siciliana legatissimo ad Aldo Moro ucciso a Palermo il 6 gennaio 1980. Lo ha fatto intendere il sostituto procuratore generale Umberto Palma, nell’udienza di ieri del processo ai mandanti della strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. Durante la sua testimonianza in aula, l’ex magistrato Giuliano Turone stava accennando all’omicidio Mattarella. “Noi ci troviamo in grande difficoltà su questo tema”, lo ha interrotto Palma, “perché c’è un’indagine ancora aperta, noi sappiamo moltissimo ma non possiamo dire una parola”. A questo punto è intervenuto il presidente della Corte d’assise, Francesco Maria Caruso: “Tralasciamo il caso Mattarella rispetto agli sviluppi, perché ci sono indagini in corso”. Il fatto che sia la Procura generale bolognese a indagare su un omicidio commesso a Palermo suggerisce che gli investigatori ritengano quel reato siciliano strettamente connesso alla strage di Bologna. Come esecutori materiali dell’omicidio Mattarella sono già stati indagati e processati Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, due degli esecutori della strage di Bologna (il primo condannato in via definitiva, il secondo in primo grado). Nel 1995 Fioravanti e Cavallini sono stati però assolti per l’omicidio Mattarella, mentre sono stati condannati all’ergastolo, come mandanti, i boss di Cosa Nostra Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò Francesco Madonia e Nené Geraci. Una nuova indagine è stata riaperta nel 2018 a Palermo, nell’ipotesi di possibili collegamenti tra Cosa Nostra e terrorismo nero. Ora anche la Procura di Bologna sembra attiva sul caso, in evidente connessione alla strage della stazione, eseguita dai neofascisti del gruppo di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro. Il processo ora in corso a Bologna ha come imputato Paolo Bellini, neofascista in contatto con apparati dello Stato e uomini di Cosa Nostra durante il periodo stragista del 1992-93, e ipotizza come mandanti Licio Gelli, il capo della loggia P2, e il prefetto Federico Umberto D’Amato, a lungo direttore dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno. Nell’udienza di ieri sono stati ascoltati tre ex magistrati, Giuliano Turone, Leonardo Grassi e Claudio Nunziata, che hanno indagato su P2, eversione nera e apparati dello Stato, continuando a fare ricerche su quei fenomeni come studiosi, anche dopo la fine delle loro indagini.

Concorso farsa, tutti prescritti. E se fai copiare resti dirigente

L’ultimo atto della farsa è arrivato insieme alle motivazioni della sentenza di primo grado, depositate l’11 gennaio: tutti gli imputati sono prescritti e immacolati, nonostante con il processo fossero state raccolte prove della falsificazione di una prova di selezione pubblica, una tentata truffa. Il concorso burla dell’Agenzia delle dogane è a suo modo un capolavoro, un manifesto dei più alti livelli di fantasia e spregiudicatezza con cui si può inquinare una prova d’esame.

Partiamo dal principio: nel 2012 viene indetto un concorso per la selezione di 69 dirigenti di seconda fascia alle Dogane. Si parte a dicembre con le prove preselettive, a luglio 2013 si prosegue con gli scritti, l’estate successiva si chiude con gli orali. Ma è una pantomima, un esame di carta: i destinatari delle nomine, secondo le accuse, sono già stati individuati all’interno di un bacino di un centinaio di funzionari da “sanare”, in quanto beneficiari di un incarico a tempo (e a chiamata diretta). I vincitori quindi sono stati decisi ben prima delle prove, ma devono passare per il “concorso” insieme a centinaia di altri candidati del tutto ignari della truffa a cui partecipano.

L’imbroglio prende forma nella prova scritta di luglio 2013. Il metodo, va riconosciuto, non manca di una sua perversa eleganza: le tracce dei temi vengono comunicate in anticipo ai candidati “fortunati”, e fin qui è facile, ma per sicurezza il loro svolgimento viene fotocopiato e assemblato all’interno delle copie della Gazzetta Ufficiale, la fonte normativa che gli esaminandi possono consultare durante la prova. Ai futuri vincitori la versione della Gazzetta “corretta” viene inviata via mail. In pratica il tema d’esame è nascosto in piena vista dentro ai libri di alcuni dei partecipanti. L’idea è brillante, va riconosciuto, ma l’esecuzione dei candidati è sciatta, perché il confronto tra gli elaborati consegnati all’esame e le fonti da cui erano stati “ispirati” mostreranno un’equivalenza molto più che sospetta. Una “puntuale coincidenza terminologica”, scrivono i giudici nella sentenza di primo grado: come si dice tra compagni di scuola, per farla breve, quelli che hanno copiato i compiti non si sono nemmeno presi la briga di cambiare un pochino le parole.

Il concorso truffa ha una lunga e grottesca coda giudiziaria, finisce sotto le lenti della giustizia amministrativa ma anche di quella penale. Viene rinviato a giudizio uno dei dirigenti di prima fascia dell’Agenzia delle Dogane insieme ad altri dieci tra dirigenti e funzionari: tutti parte della commissione esaminatrice e tutti coinvolti nelle operazioni di pilotaggio del concorso.

Le prove sono schiaccianti: agli atti del processo ci sono i messaggi di posta elettronica scambiati tra gli esaminatori a pochi giorni dal concorso (con frasi così: “Ora dobbiamo trovare un metodo che ci consenta di rintracciare il tema che ci serve e che mantenga il camuffamento. Qualche idea?”). Ci sono anche i file con le varie versioni della Gazzetta Ufficiale ritoccata per i futuri vincitori, c’è persino una sorta di indice per aiutare i prescelti a orientarsi tra i vari testi contraffatti. Se non bastasse, arriva anche l’ammissione di due degli imputati che hanno lavorato alla truffa delle Gazzette.

C’è tutto, insomma. Sarebbe bastato arrivare a una sentenza entro i termini di legge. Ma la prescrizione incombe.

E così alla fine per la farsa delle Dogane non ha pagato nessuno. Certo, il concorso è stato annullato, la nomina dei dirigenti che hanno copiato è saltata. Ma gli imputati prescritti sono rimasti ai loro posti. In alcuni casi, in passato, persino promossi. Il “pezzo grosso” dell’Agenzia, mentre era ancora imputato, nel 2019 è stato spostato a capo della direzione centrale “Strategie” ed è diventato quindi presidente delle procedure di selezione del personale. Sembra uno scherzo: è stato piazzato a fare il responsabile delle assunzioni, dalla stessa amministrazione pubblica che si era costituita parte civile contro di lui in un processo per truffa.

Dall’Agenzia delle Dogane spiegano che dal 2020 (anno in cui è stato nominato direttore Marcello Minenna) nessuno degli imputati è stato promosso e che dopo aver annullato il concorso, ora, con il deposito delle motivazioni della sentenza, ripartirà anche il procedimento disciplinare nei confronti dei prescritti. Intanto il concorso burla entra di diritto nelle pagine della commedia all’italiana.