La mancanza di visione si recupera a centrocampo

Un tempo, quando ancora si poteva parlare di calcio se la mia squadra del cuore le buscava, nei successivi discorsi da bar nascondevo la mia incompetente frustrazione dietro una formula inattaccabile: il problema è il centrocampo, dicevo. Oggi, alla ricerca come tutti della famosa luce in fondo al tunnel, nonché di qualcuno con cui prendermela, mi sono sentito illuminato dalle seguenti parole del presidente degli industriali lombardi, Carlo Bonomi: “Per ripartire serve una visione” (Corriere della Sera). Sarà certamente così anche perché mi sono ricordato che della colpevole mancanza di una visione è responsabile, secondo Bonomi, quello stesso governo Conte di cui ben prima del Covid-19 era stata smascherata la sconfortante assenza di un’anima. Privi di una visione e di un’anima ditemi voi come si può? Ciò non bastasse, l’altra sera a Otto e mezzo, Alessandro Sallusti ha evidenziato come il premier, pur impegnato nelle decisive battaglie europee, con supponenza pari alla pochezza spirituale, “non si faccia aiutare”. Affermazione che ha colto tutti di sorpresa poiché nessuno poteva realmente pensare che l’avvocato pugliese prima di incrociare le armi, poniamo, con l’arcigno olandese Rutte si premurasse di cacciare via in malo modo ministri e collaboratori al seguito: toglietevi dalle scatole che a questo ci penso io. Nel mentre mentalmente rovistavo alla ricerca di colui a cui un rinsavito Conte avrebbe potuto affidarsi (e affidarci), Sallusti ha scoperto l’asso, e il nome, nella manica: Antonio Tajani. Dopo un comprensibile silenzio, Beppe Savergnini ha detto che lui Tajani lo aveva conosciuto nella redazione del Giornale di Montanelli, senza tuttavia chiarire se questo costituisse un elemento a favore o a sfavore del suddetto. Dopodiché Lilli Gruber ha chiuso il dibattito lasciandomi nell’incertezza: e se fosse Tajani la soluzione per il centrocampo?

Mamma, la Lega ha perso l’aereo

In Senato hanno protestato con urla e richieste di dimissioni per ministri, perché il voto di fiducia sul testo finale del decreto “Cura Italia” tardava ad arrivare. “Il Parlamento vuole votare perché ne ha le balle piene” ha riassunto dal microfono il leghista Roberto Calderoli. Erano infuriati quelli del Carroccio e del centrodestra, che ieri hanno votato contro il dl. Ma la loro ira per il ritardo si spiega anche con la paura di perdere aerei e treni. Basta leggere il resoconto stenografico di quanto detto in aula dalla presidente di Palazzo Madama, Maria Elisabetta Alberti Casellati: “Non succederà mai più che la Presidenza possa derogare al normale corso della procedura e mi spiego. Questa mattina c’è stato un accordo informale per dare la possibilità a tutti di poter partire. Pertanto, abbiamo fatto una discussione generale. Ho detto che c’è stato un accordo e abbiamo fatto una discussione generale che, in realtà, era una discussione sulla questione di fiducia, che non era stata ancora dichiarata. Siamo andati, quindi, fuori dalle normali regole. C’era un accordo non certamente mio, ma di tutti i gruppi per derogare alla consuetudine e ai regolamenti proprio per dare la possibilità a tutti i senatori di partire, essendoci una difficoltà di trasporto”. Prosit.

Occhio a test e vaccini

È comprensibile che nella cosiddetta fase 2, processo di uscita graduale dal lockdown, ogni proposta di metodi diagnostici che possano farci conoscere se un soggetto ha avuto, nel passato recente o remoto, un’infezione da SarsCov2, accenda entusiasmi. Lo stesso dicasi per la proposta di un vaccino che sarebbe il toccasana nel delineare una fine a questa vicenda. Lodevole lo sforzo delle aziende e della ricerca in tal senso, ma non dobbiamo dimenticare che, seppur particolare o unico, SarsCov2 è un virus e alcune caratteristiche di base ci sono note. Ciò per dire che c’è una notevole differenza, soprattutto temporale, nelle diverse fasi della ricerca che potranno portarci all’utilizzo di test immunologici e del vaccino. Le due soluzioni, diagnostica e preventiva, entrambe dovranno rispondere alle leggi dettate dal virus in termini di sollecitazione della risposta immunologica. Per quanto riguarda i test immunologici in commercio, anche da nostre prove preliminari si evince che alcuni sono da ritenersi attendibili, altri assolutamente no. Prove preliminari che stiamo arricchendo e confrontando con altri centri di ricerca. Individuato il test più affidabile, un altro dato non ci è dato al momento conoscere: la durata degli anticorpi nel sangue dell’individuo. Ci sono coronavirus che conosciamo da tempo che inducono una risposta anticorpale molto breve, anche di soli 30 o 40 giorni. Se ciò avvenisse per SarsCov2, saremmo costretti a dare a questi test un valore molto limitato. I test dovranno essere usati con prudenza e nel reale significato contingente. Il vaccino probabilmente arriverà a pandemia finita.

Giustizia, sospendere i termini in estate

Ieri è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il Decreto legge dell’8 aprile 2020, n. 23, che ha prorogato, com’era giusto e auspicabile, la sospensione delle attività giudiziarie sino all’11 maggio 2020.

La situazione sanitaria generale espone ancora a gravi rischi di contagio e propagazione del temibile virus Covid-19, pur intravedendosi alcuni segnali di miglioramento. Nel frattempo, le sedi giudiziarie si stanno attrezzando rapidamente, per l’espletamento delle attività permesse, in virtù degli strumenti informatici che permettono la partecipazione dei protagonisti mediante la videoconferenza forniti dal ministero della Giustizia, in modo da eliminare il rischio di contagio.

Il rallentamento delle indagini preliminari e il congelamento, nel settore penale, di quasi tutti i processi, ivi compresi quelli con detenuti (pur consentiti, di fatto non vengono celebrati in quanto sono rari i casi nei quali gli imputati o i loro difensori lo chiedano) comporta uno stallo anche di tale fondamentale servizio per i cittadini, dal quale fuoriescono solo un grappolo di atti urgenti (udienze direttissime, di convalida arrestati e fermati).

Ritengo che occorra ragionare già da ora su come poter smaltire velocemente il terreno perduto, con la speranza che, nell’arco di pochi mesi, la situazione rientri nella normalità. Io credo che una soluzione possa essere quella di rinunciare alla sospensione dei termini processuali nel periodo estivo, previsti dalla legge 7 ottobre 1969, n. 742, per poter lavorare quando gli uffici giudiziari sono “chiusi”.

I 600 euro? Non a tutti i professionisti

Il via libera alle richieste è partito il 1º aprile nel caos, tra il sito dell’Inps in tilt e diversi attacchi hacker. Ma a dieci giorni da quello più nero mai vissuto dall’Istituto guidato da Pasquale Tridico, la macchina delle domande va a pieno regime: ha superato quota 4 milioni per quasi 8 milioni di beneficiari che hanno chiesto i 600 euro, la cassa integrazione, i congedi parentali e i bonus baby sitting.

Il problema, però, resta: quanto tempo ci mettono questi soldi ad arrivare a chi ne ha bisogno? Il governo ha promesso di mettere in pagamento i 10 miliardi stanziati a lavoratori e famiglie il 15 aprile o comunque nella seconda metà del mese, come ha precisato il viceministro dell’Economia, Antonio Misiani. Anche se i consulenti del lavoro esprimono forti dubbi. Burocrazia e controlli fanno sì che per avere in tasca gli aiuti passino infinite settimane; troppe per chi non riceve lo stipendio da febbraio. Difficile stare dietro a decreti ministeriali, Dpcm, circolari, accordi e decine di passaggi burocratici che non hanno aiutato ad accorciare i tempi per l’erogazione di misure stanziate a pioggia, ma con dotazioni di spesa limitate. Per istruire le pratiche e liquidare le indennità ci vogliono in genere 2-3 mesi: l’emergenza coronavirus ha accorciato i tempi a 4 settimane, durante le quali si sono continuate a firmare le convenzioni con il sistema bancario per garantire la liquidità immediata (più o meno). L’esempio più chiaro e drammatico è la cassa integrazione in deroga riservata alle aziende che non hanno accesso agli ammortizzatori ordinari. La domanda va presentata alla Regione, ma solo in questi giorni sono state concluse le 20 procedure di consultazione con i sindacati. Per accorciare i tempi, il 30 marzo è stato firmato un accordo con l’Associazione bancaria (Abi) per garantire l’anticipo di 1.400 euro per la cassa integrazione in deroga con la conseguenza che tutti coloro che sono andati prima in banca hanno ricevuto riposte vaghe sulla sua fattibilità. Ma poi ci sono voluti altri 8 giorni per trovare l’accordo con l’Inps. E così solo ieri l’Abi, in accordo con l’Inps, ha chiesto di facilitare il processo di erogazione dell’anticipo della cig in deroga da parte delle banche, come previsto dalla convenzione di giovedì scorso.

Giorni che sembrano interminabili per chi non ha più entrate e che si trasformano ora in un incubo per migliaia di professionisti, come avvocati, architetti, ingegneri, che si sono visti sfuggire la possibilità di richiedere il bonus da 600 euro che, salvo rifinanziamenti, ha un fondo di 200 milioni che consente di coprire solo il 60% degli aventi diritto potenziali. Il decreto Imprese ha cambiato la platea degli aventi diritto sospendendo l’erogazione dell’aiuto, che sarebbe dovuto partire già dal 10 aprile, a chi non è iscritto a una Cassa di previdenza in via esclusiva. Un passaggio che mancava nella bozza di decreto circolata in questi giorni e nel dl Cura Italia che ne sanciva le regole di erogazione. La burocrazia ha ragioni che la ragione del cuore non conosce, ma quella dei conti dello Stato sì.

Tutti a casa fino al 4 maggio, poche le imprese “riaperte”

Gli schieramenti, quando Giuseppe Conte annuncia che il lockdown continuerà (quasi uguale) fino alla prima settimana di maggio, sono quelli attesi: nella riunione coi capi delegazione della maggioranza è Teresa Bellanova, a nome di Matteo Renzi, a mettere a verbale la sua contrarietà (“così non si riapre più, nemmeno il 4 maggio”); nell’incontro con imprese e sindacati a lamentarsi è invece Confindustria, che si era presentata alla riunione con una lettera degli omologhi tedeschi che chiedevano all’Italia di riaprire le fabbriche.

L’alleanza tra renziani e industriali non è inedita, per così dire, ma per ora ha dovuto accontentarsi di mugugnare: la dinamica dei contagi non è ancora tale, secondo gli esperti che affiancano il governo nell’emergenza Covid-19, da consentire di iniziare a riaprire in modo significativo le attività chiuse due settimane fa. Nessuna obiezione di rilievo, invece, nell’ultima riunione, quella con Regioni e Comuni (Virginia Raggi ha posto il tema dei mercatini).

Che la direzione fosse quella di prorogare la chiusura alla fine della lunga stagione dei “ponti” festivi era comunque chiaro fin dalla mattina quando il ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia, aveva risposto in modo abbastanza sbrigativo agli industriali: “Dobbiamo mettere in sicurezza la salute degli italiani: con la salute a rischio non c’è economia. Le esigenze di Confindustria sono quelle di tutto il Paese”.

Nel pomeriggio poi, a tutti i suoi interlocutori di ieri, lo stesso presidente del Consiglio ha ribadito lo stesso concetto: “Non siamo nelle condizioni, al momento, di riaprire le attività produttive perché rischieremmo di far risalire la curva dei contagi e di vanificare i risultati che abbiamo ottenuto con le misure prese finora”. E così quando oggi dovrebbe essere presentato il nuovo Dpcm si vedrà che le novità saranno ben poche: confermate ovviamente le filiere essenziali (sanità, energia, agroalimentare, eccetera) – che già consentono l’apertura di oltre 800mila imprese in tutta Italia – verrà concesso di riaprire a poche attività come librerie, cartolerie, silvicoltura e poche altre categorie.

Un cambio di rotta rispetto alle indiscrezioni arrivate da Palazzo Chigi negli ultimi giorni, che parlavano di un Conte che faceva muro alle richieste degli esperti del comitato tecnico-scientifico, che propugnavano appunto – insieme al ministro della Salute Roberto Speranza – di proseguire il lockdown senza modifiche fino a domenica 3 maggio. Una mano in questo senso l’hanno data anche i sindacati: i tre confederali facendo pressioni, quelli di base minacciando lo sciopero.

Di qui al 4 maggio comunque, è la promessa di Conte, tutti i soggetti saranno coinvolti nel disegno delle linee guida per la “Fase 2”, quella in cui (molto) gradualmente si tornerà alla normalità: oltre alla cabina di regia con Regioni, Comuni e parti sociali, infatti, il governo istituirà un comitato di esperti del mondo dell’industria e dell’economia per affiancare quello tecnico-scientifico.

In attesa del 4 maggio, però, sono molte le aziende che hanno riaperto o stanno tentando di riaprire. È la “fase 2” fai-da-te con cui migliaia di imprese hanno chiesto di poter lavorare in deroga alle norme, in quanto funzionali a una delle filiere rimaste aperte o parte di “catene globali del valore” che andrebbero avanti senza di loro causandone la chiusura. All’inizio della settimana erano circa 90mila le aziende che chiedevano la deroga ai prefetti, i quali – come Il Fatto Quotidiano ha già raccontato – non sono in condizione di fare controlli approfonditi: curioso, ma non troppo visto che insieme valgono il 45% del Pil italiano, che ben oltre la metà delle richieste arrivi dai territori più colpiti dal virus come la Lombardia (oltre 18mila), l’Emilia-Romagna (oltre 16mila), il Veneto (oltre 15mila) e il Piemonte (circa 6mila).

Proprio in quest’ultima regione, ma certo non solo lì, andrà calcolato l’effetto dell’accordo siglato ieri tra Fca e sindacati per riaprire gradualmente la produzione (“in piena sicurezza”) nelle fabbriche del gruppo e che riguarderà diverse migliaia di lavoratori. A Piacenza invece, di gran lunga la provincia emiliana con più contagiati, c’è una situazione di estrema tensione: sono più di 1.300 le imprese che hanno chiesto la deroga per lavorare, ma infermieri e operatori sanitari iscritti a Cgil, Cisl e Uil hanno minacciato di scioperare se il Prefetto darà il via libera.

Anche sulle deroghe, peraltro, ci sarà una novità: il Dpcm di oggi darà maggiore responsabilità alle Regioni. Come dire: volete aprire? Metteteci la faccia anche voi.

Come funzionano i fondi e le garanzie per le imprese

Contro la recessione innescata dalla pandemia il decreto liquidità, in vigore da ieri, eroga 400 miliardi a imprese, professionisti, titolari di partita Iva. Sace emetterà garanzie pubbliche per 200 miliardi a fronte delle quali le banche erogheranno credito. Di questi aiuti, 30 miliardi andranno al Fondo piccole e medie imprese (Pmi). Ecco un primo vademecum.

Fondo per le Pmi. Il Fondo di garanzia per le Pmi del MedioCredito Centrale erogherà garanzie fino a 5 milioni a imprese sino a 499 dipendenti. La garanzia diretta è alzata sino al 90% dei finanziamenti e la riassicurazione al 100% dell’importo garantito da Confidi o altri fondi di garanzia. Fino al via libera Ue, le percentuali sono alzate all’80% per la garanzia diretta e al 90% per la riassicurazione.

Garanzia Pmi. Per le imprese con fatturato sino a 3,2 milioni la garanzia coprirà il 25% dei ricavi: 800mila euro. Sarà concessa anche a imprese con “inadempienze probabili” o “scaduti o sconfinamenti deteriorati” con le banche, purché siano stati classificati così dopo il 31 gennaio. Garantite anche le imprese in concordato con continuità, con accordi di ristrutturazione del debito o piani attestati dopo il 31 dicembre purché, al 9 aprile, i loro rapporti bancari non siano classificati “esposizioni deteriorate”, non abbiano arretrati e “la banca possa presumere che vi sarà il rimborso integrale”. Escluse le imprese con sofferenze bancarie.

Soggetti ammessi. Ammessi sino al 100% i nuovi finanziamenti sino a 25mila euro a Pmi e persone fisiche che esercitano imprese, arti o professioni che autocertificheranno danni dall’emergenza Covid19, con durata sino a 6 anni e preammortamento non inferiore a 24 mesi, importo non superiore al 25% dei ricavi del beneficiario in base all’ultimo bilancio depositato o all’ultima dichiarazione fiscale o, per quelli costituiti dopo il 1° gennaio 2019, anche su autocertificazione.

Tasso. Non sono previste commissioni. La banca che chiederà la garanzia al Fondo deve applicare un tasso di interesse “che tiene conto della sola copertura dei costi di istruttoria e di gestione dell’operazione”. Il tasso non dovrà superare il Rendistato tra 4 anni e 7 mesi a 6 anni e 6 mesi maggiorato della differenza tra costo della raccolta bancaria e costo dei titoli di Stato più uno spread dello 0,2%.

Rilascio. È gratuito e automatico. La banca erogherà i finanziamenti “con la sola verifica formale dei requisiti, senza attendere l’istruttoria del Fondo”. Se la documentazione antimafia non è ottenibile, l’aiuto è concesso ma l’agevolazione sarà revocata se emergeranno causa di interdittiva.

Garanzie Sace. Saranno erogate alle imprese di ogni dimensione localizzate in Italia. In base alle norme Ue sugli aiuti di Stato, i beneficiari al 31 dicembre non devono essere state classificati tra le “imprese in difficoltà” e al 29 febbraio non devono aver avuto esposizioni bancarie deteriorate. Ciascuna impresa o gruppo avrà una sola garanzia ma nel 2020 non potrà distribuire dividendi o riacquistare azioni e dovrà gestire l’occupazione attraverso accordi sindacali.

Finanziamenti. Sono garantiti quelli erogati entro il prossimo 31 dicembre di durata massima di 6 anni compresi eventuali preammortamenti fino a 24 mesi. L’ammontare non può superare il 25% del fatturato 2019 in Italia (in base al bilancio approvato o alla dichiarazione fiscale) o il doppio dei “costi del personale” nel 2019 realizzati in Italia o su base consolidata. I finanziamenti erogati dovranno superare il totale di quelli al 9 aprile e sostenere costi del personale, investimenti o “capitale circolante”. Da capire se i nuovi finanziamenti potranno sostituire precedenti crediti.

Oneri bancari. Le commissioni chieste dalle banche devono limitarsi ai costi delle pratiche. Il tasso d’interesse pagato alla banca per i finanziamenti “deve essere inferiore a quello che sarebbe chiesto dalla banca per operazioni non garantite con le medesime caratteristiche”. Secondo i dati Abi, a gennaio in Italia il tasso era dell’1,87% per nuovi prestiti alle imprese sotto il milione e dello 0,77% per cifre superiori, con una media dell’1,26% a febbraio. I dati cambiano con la durata del prestito, la banca e il cliente.

Commissioni Sace. Per la garanzia le imprese dovranno pagare alla Sace delle commissioni annuali. Per i finanziamenti alle Pmi queste saranno pari allo 0,25% nel primo anno, 0,5% il secondo e terzo anno, 1% nel quarto, quinto e sesto anno, per le altre imprese 0,5% il primo anno, 1% il secondo e terzo anno, 2% nel quarto, quinto e sesto anno.

Contratti e comunicazioni. Potranno essere conclusi tra banche e clienti anche tramite mail non certificata purché accompagnati da copia di un documento di riconoscimento.

Tempi. Sace e Fondo Pmi devono realizzare le piattaforme online e informatiche, le procedure e i moduli. Anche le banche devono attivare personale e procedure per gestire le domande. L’Abi si sta coordinando con Sace ma l’emergenza non aiuta. Farà testo la data della domanda. Ma le imprese hanno fretta. I danni sono immediati. Se i fondi arriveranno tardi non le salveranno.

Ricerca: “Metà dei tedeschi sono favorevoli a condividere il debito, solo il 35% contrari”

D ieci anni dopo la crisi greca, l’Europa affronta di nuovo una sfida durissima. Sebbene il coronavirus sia uno shock “simmetrico” il suo impatto fiscale è fortemente asimmetrico. Mentre la Germania e i Paesi Bassi hanno maggiore spazio per rispondere, l’Italia e la Spagna non possono aumentare il loro debito pubblico senza rischiare che lo “spread” esploda. L’Eurozona ha una procedura per queste situazioni.

L’Italia e la Spagna dovrebbero innanzitutto rivolgersi al Meccanismo europeo di Stabilità (Mes) e accettarne le condizionalità (tagli e riforme strutturali). Poi, se non bastasse, la Bce si impegnerà ad acquistare tutti i titoli pubblici che i mercati vorranno venderle. Se anche divenisse possibile in futuro accedere al Mes senza condizioni, queste rientreranno probabilmente in seguito, a causa dell’aumento del debito. È quindi normale che Italia e Spagna, che ricordano bene cosa sia stato il “salvataggio” della Grecia, vogliano cambiare le regole. Per gli stessi motivi nove paesi dell’Eurozona appoggiano una forma di mutualizzazione del debito. Ma la proposta è controversa. In passato gli Eurobond sono stati respinti ripetutamente dai paesi del Nord. In particolare, i politici tedeschi hanno spesso detto che i loro elettori sono fortemente contrari. In realtà l’ostilità dell’elettorato tedesco è probabilmente sopravvalutata. Nei giorni scorsi abbiamo condotto un’indagine in Germania con 4.500 individui. Gli intervistati hanno ricevuto, su base casuale, diversi pacchetti di informazioni. Lo scenario di base, in cui l’Italia è colpita da una crisi finanziaria e sta considerando di uscire dall’euro, è stato arricchito da elementi in grado di modificare l’interpretazione degli eventi.

Ad alcune persone è stato detto che la decisione dell’Italia di aumentare il debito è dovuta a un’emergenza sanitaria fuori dal suo controllo. Ad altre che l’uscita dell’Italia dall’Euro potrebbe causare il suo crollo, mettendo in pericolo l’export tedesco. Ad altre ancora che se la Germania, per tenere l’Italia nell’euro, dovesse accettare una mutualizzazione del debito, la sua economia potrebbe risentirne. Presentati gli scenari, abbiamo chiesto agli intervistati di scegliere tra impedire l’Italexit o facilitarla. Li abbiamo poi posti di fronte a un’alternativa secca tra due situazioni: 1) la Germania rifiuta la mutualizzazione del debito e l’Italia esce dall’euro; 2) la Germania accetta la mutualizzazione e l’Italia rimane. È risultato che nello scenario di base c’è una maggioranza relativa che preferisce che l’Italia resti nell’euro. Aggiungendo l’informazione sui costi dell’Italexit per la Germania la maggioranza diventa assoluta. Aggiungendo anche l’informazione sugli effetti del coronavirus la maggioranza diviene quasi del 60%. I costi della mutualizzazione del debito riducono le preferenze per la permanenza dell’Italia, ma l’effetto è ridotto. Quanto all’opposizione tra Italexit e Eurobond, in questo caso le preferenze sono meno malleabili, ma menzionare i costi dell’Italexit ha un impatto maggiore rispetto a menzionare i costi degli Eurobond. Qui nello scenario di base una maggioranza relativa del 40% preferisce l’Italexit, ma più del 20% è incerto. Se ricevono tutte le informazioni insieme, quasi il 50% degli elettori preferisce gli Eurobond e meno del 35% è contrario. I danni economici della mutualizzazione sembrano preoccupare i tedeschi meno della rottura dell’euro.

Insomma l’opinione pubblica tedesca è più aperta alla mutualizzazione del debito di quanto non si pensi. La solidarietà con l’Italia conta poco, anche se non ha un effetto nullo. I costi di una rottura dell’euro per le esportazioni tedesche sono più importanti. Ma c’è una minaccia credibile di uscita? I dati di uno studio parallelo che abbiamo condotto in Italia nello stesso periodosuggeriscono che l’elettorato italiano ha raggiunto il punto in cui l’Italexit è un’opzione seria.

* Direttore Max Planck Institute di Colonia. Studio condotto con Björn Bremer ed Erik Neimanns

“Europa non sia solo il ‘salva Stati’: ha già fatto danni in Grecia”

Alla domanda rituale, “come va?”, il presidente della Camera Roberto Fico risponde in un modo che rituale non è: “Va che dovremmo riflettere, e ammettere che questo momento difficile non è accidentale, ma lo specchio di un modello di società che va ripensato”. Così inizia Fico, veterano dei Cinque Stelle, mentre l’Eurogruppo litiga sul destino di un intero continente.

Quando parla di modello da ripensare cosa intende?

Intendo che quanto succede in un mercato di animali a Wuhan nel giro di pochi giorni ha effetti a Roma. Tutto è connesso, collegato. Ma tra qualche anno le esigenze di colossi come la Cina o come l’India ci costringeranno a ragionare davvero su quante risorse ci siano a disposizione nel mondo, e per quanti.

È la globalizzazione e non può fermarla più nessuno.

Proprio per questo è tempo che la politica provi a ragionare a lungo termine, e si occupi di grandi temi come l’ambiente, con dei piani decennali sulla riduzione delle emissioni. O della distribuzione delle risorse e della ricchezza.

Lei cita questioni fondamentali, ma questa Europa non è in grado neanche di affrontare in modo unito e solidale la crisi del coronavirus.

È il grande problema dell’Europa attuale: non si comporta come una comunità di popoli solidali tra loro, come invece doveva essere nel piano originario. Ma l’Unione europea non può essere austerità e finanza, e non può essere il Mes.

Eppure i Paesi del Nord lo volevano a tutti i costi.

Il Mes ha fatto pagare un tributo enorme al popolo greco. Non ero d’accordo a suo tempo sul fondo salva-Stati, viste le sue condizionalità: figuriamoci oggi, visto che propongono di usarlo per un’emergenza che non ha nulla a che fare con le ragioni per cui venne creato, ossia per salvare gli Stati da crisi finanziarie asimmetriche. Servono strumenti nuovi. La Ue faccia la sua parte, anche finanziando tutto ciò che serve per uscire da questa crisi, senza fare calcoli sullo zero virgola. È questo il senso della lettera che, insieme ad altri nove presidenti di parlamenti, ho mandato alle principali istituzioni europee. Da questa crisi si esce solo con condivisione.

Germania e Olanda hanno tenuto il punto per motivi di consenso interno?

Ogni politico tiene conto del consenso, quindi è un fattore che incide. Ma questo non è un braccio di ferro, qui è in gioco il futuro della Ue. Senza aprire alla solidarietà butteranno a mare tutti i valori per cui è nata l’Unione, e le prime a pagarne gli effetti saranno proprio Germania e Olanda se seguiranno su queste posizioni.

Il giornale tedesco Die Welt ha scritto che “la mafia attende i finanziamenti di Bruxelles”.

È la solita retorica anti-italiana. Sono certo che la grande maggioranza del popolo tedesco rifiuti questo schifo.

Se la trattativa nella Ue dovesse naufragare, estreme destre e sovranisti cresceranno ancora? Magari anche in Italia?

Penso che i cittadini comprendano gli sforzi del governo e del Parlamento contro questa crisi senza precedenti, e che si stiano stringendo intorno alle istituzioni. L’emergenza viene affrontata con la massima trasparenza. Ogni giorno vengono diffusi i dati sui contagi e sulla situazione, non viene nascosto nulla.

Le continue conferenze stampa sono molto criticate…

So che ad alcuni non piacciono. Ma viene raccontato tutto, senza dare facili speranze.

Anni fa il M5S voleva un referendum sull’euro. Fu un errore?

Noi abbiamo cercato di aprire il dibattito su questioni controverse, e il funzionamento della Ue è una questione controversa, altrimenti non ci troveremmo in questa situazione. Facemmo bene a sollevare il tema. Ricordo che già nel 2014, dal palco che organizzammo a Roma per le elezione europee, io dissi che servivano gli eurobond: se ne parlava nel nostro programma.

Per legge, prima di andare a trattare in Ue, il governo avrebbe dovuto consultare il Parlamento.

Il presidente Conte sarà sicuramente alla Camera per le comunicazioni prima del prossimo Consiglio europeo. Non si è mai sottratto al confronto con l’Aula.

Non c’è poco confronto? Sul dl Cura Italia è stata messa la fiducia.

Tra il governo e le opposizioni sono stati aperti dei tavoli sui provvedimenti. E io sto lavorando bene con i capigruppo di tutti i partiti, in condivisione.

Cosa fate, in concreto?

Stiamo lavorando sul prosieguo dell’attività parlamentare, innanzitutto nelle commissioni. Abbiamo rafforzato l’attività di controllo della Camera: i question time sono raddoppiati, come sono aumentate interpellanze e informative. Ora si lavorerà sul decreto Imprese e sul dl Olimpiadi.

Molti partiti hanno chiesto il voto elettronico e voi del M5S, nati sul web, avete fatto muro. Curioso, no?

Nessun muro, assolutamente. È una riflessione sacrosanta che va fatta, ma richiede tempo anche perché va costruito un diritto dell’emergenza. Quindi anche lo spazio per un dibattito costituzionale.

Eurogruppo, intesa sul Mes. Sul fondo Ue parola ai leader

Alla fine, l’accordo arriva. Serviva un’intesa a tutti i costi per passare la palla ai leader europei riuniti nel Consiglio Ue che si dovrà riunire dopo Pasqua. L’Eurogruppo “allargato” (i 27 ministri delle Finanze dell’Unione), dopo il flop di martedì, sceglie di non partire finché tra le Capitali non si concorda una bozza comune. Così si inizia alle 21:30 (dalle 16 programmate), e con l’intesa tra i cinque grandi contendenti: Italia, Francia, Germania, Spagna e Olanda, la più contraria fino all’ultimo. L’eurosummit inizia con l’obiettivo di avere l’ok di tutti gli altri Paesi, che viene raggiunto alle 22:30.

Lo scontro più forte è stato sul Meccanismo europeo di stabilità. Il fondo a cui partecipano i Paesi dell’euro che può fornire credito fino al 2% del Pil (35 miliardi per l’Italia) dietro pesanti condizionalità (tagli e riforme strutturali). L’Italia voleva eliminarle tutte, l’Olanda l’opposto. Martedì, Roberto Gualtieri e l’omologo Wopke Hoekstra sono andati avanti per ore, inutilmente. L’Italia non poteva accettare neanche un testo finale che menzionasse l’uso del Mes e non il Fondo europeo di solidarietà (Recovery fund) proposto dalla Francia, un embrione di vera risposta comune europea alla crisi. Alla fine l’intesa si chiude con un compromesso delicato: la condizionalità è che i soldi si potranno usare solo per le spese necessarie a fronteggiare l’emergenza sanitaria: “Il solo requisito per accedere alla linea di credito del Mes sarà che gli Stati si impegnino a usarla per sostenere il finanziamento di spese sanitarie dirette o indirette, cura e costi della prevenzione collegata al Covid-19”, recita il testo. Gli “eurobond” chiesti dall’Italia non vengono menzionati nel testo finale. Nel pomeriggio, Angela Merkel aveva già cancellato qualsiasi speranza del premier Giuseppe Conte: “Mi sono sentito con lui, ma voi sapete che io non credo che si dovrebbe avere una garanzia comune dei debiti e perciò respingiamo gli eurobond”, spiega in una riunione interna della Cdu, il suo partito.

La questione del Recovery Fund, cioè la via francese agli eurobond viene solo accennata e affidata ai leader Ue: “L’Eurogruppo è d’accordo a lavorare ad un Recovery Fund per sostenere la ripresa. Il fondo sarà temporaneo e commisurato ai costi straordinari della crisi e aiuterà a spalmarli nel tempo attraverso un finanziamento adeguato. Soggetti alla guida dei leader, le discussioni sugli aspetti pratici e legali del fondo, la sua fonte di finanziamento, e strumenti innovativi di finanziamento, coerenti con i Trattati, prepareranno il terreno per una decisione”. Per i Paesi del Sud dovrebbe essere alimentato a partire da titoli comuni (a lunga scadenza) emessi sulla base di garanzie europee. Per la Germania potrebbe essere più accettabile coinvolgere invece il bilancio Ue, ma sono dettagli in cui l’Eurogruppo non si addentra.

Un compromesso articolato per evitare una nuova débâcle, ma al momento non all’altezza delle aspettative del “fronte del Sud”, rappresentato dalla lettera con cui due settimane fa nove Paesi dell’eurozona (tra cui Spagna, Italia e Francia) chiedevano “uno strumento di debito comune”. Al momento questo compito spetta ai leader e i tempi sono incerti. C’è l’ok anche agli altri due pilastri del pacchetto: il fondo europeo “Sure” da 100 miliardi che, dietro garanzie fornite dai Paesi, potrà prestare i fondi per sussidi anti-disoccupazione; e il piano da 240 miliardi della Banca europea degli investimenti per fornire liquidità alle imprese. Insieme al Mes, un pacchetto da 500 miliardi, a fronte dei circa mille miliardi stimati dalla Commissione Ue come necessari per fronteggiare la crisi.

La recessione alle porte sarà senza precedenti. Secondo Unicredit il Pil della Spagna, per dire, crollerà di oltre il 15%. A fine 2020, il debito pubblico di Madrid salirà al 126% del Pil; in Italia al 160% (perfino Parigi supererà il 120%). La Spagna ha già registrato 800 mila disoccupati in più a marzo e parte da un tasso di senza lavoro del 14% (in Italia circa il 9%). La Bce si è impegnata ad acquistare 1.000 miliardi di debito pubblico dei Paesi dell’eurozona fino a fine anno, concentrando gli acquisti sui Paesi più colpiti dall’aumento dei rendimenti. Ieri la Banca centrale inglese ha annunciato che finanzierà direttamente il Tesoro, che potrà così “bypassare” i mercati finanziari anche se su base temporanea, per far fronte alla crisi. Lo statuto della Bce vieta invece il finanziamento monetario.

Serve a rendere sostenibili i debiti pubblici dei Paesi più fragili, e servono più risorse. Al momento gli aiuti sono solo in forma di prestiti e con importi limitati. Tutti guadagnano tempo. È Conte e Gualtieri un’intesa che non spacca la maggioranza giallorosa.