In piazza poveri due volte: senza soldi e senza privacy

Una volta c’era la gogna, ora ci sono le pagine istituzionali dei Comuni o le piazze davanti ai municipi. Ci sono i poveri due volte, senza un euro e senza privacy. Poveri e quindi costretti a elemosinare i buoni spesa di poche centinaia di euro per mangiare durante l’emergenza Covid-19. Poveri perché, per ottenere il ticket e mettere qualcosa a tavola, il loro nome o la loro faccia deve andare in pasto al pubblico ludibrio, sul web o per strada. Zero riservatezza. E benzina sotto il fuoco delle delazioni anonime: tutti sono chiusi in casa, tutti si connettono a Internet, c’è chi va sul sito comunale, legge, denuncia sui social: “Perché tizio ha avuto il buono? La data di nascita è strana…”. Forse qualcuno dei beneficiari ha fatto il furbetto. Forse qualcuno potrebbe passare meglio il suo tempo invece di andare a caccia di disgraziati. Ci sono miserie e miserie.

A Gragnano, quasi 30 mila abitanti in provincia di Napoli, sul sito del Comune hanno pubblicato il file pdf con i nomi, cognomi e le date di nascita delle 701 persone ammesse a ricevere il buono spesa. 701 signori e signore a cui d’ora in poi si potrà attribuire una patente di povertà certificata. Nell’ultima colonna del file Excel non è indicato l’importo, da calcolare in un momento successivo “secondo la composizione del nucleo familiare”, si legge. E c’è chi ha fatto partire la catena di Sant’Antonio dei sospetti intorno a questa misura di emergenza che il governo Conte ha affidato alla cura dei comuni. “La legge impone di pubblicare i beneficiari di importi pubblici” taglia corto il sindaco di Gragnano Paolo Cimmino “il dirigente dei servizi sociali ha ritenuto di fare così in base a un obbligo normativo”. Cimmino ha ragione. Pudore e ragioni di privacy, però, hanno suggerito alla quasi totalità delle amministrazioni comunali di non mettere sul portale l’elenco. O almeno di fare come il comune di San Giorgio a Cremano, famoso per avere dato i natali a Massimo Troisi: il file c’è, ma dei 411 beneficiari ci sono solo le iniziali.

“In ogni amministrazione ci sono opposizioni e i consiglieri già mi hanno chiesto l’elenco degli ammessi per fare verifiche – spiega il sindaco Giorgio Zinno – In teoria se il dirigente non pubblica l’elenco può andare incontro a conseguenze davanti alla Corte dei Conti. Io ovviamente passerò alle opposizioni solo l’elenco punteggiato, solo gli uffici hanno i dati completi. La norma ci imponeva la pubblicazione, ma abbiamo fatto un passo verso la tutela della privacy. E poi abbiamo deciso di impiegare i dipendenti comunali in smart working per la consegna a domicilio del buono spesa dopo aver concordato al telefono un orario. Tre squadre in tre giorni completeranno tutto entro tre giorni e così eviteremo code davanti al municipio”.

Esattamente il contrario della discutibile scelta del sindaco di Civitanova Marche, Fabrizio Ciarapica, che ha fatto sfilare per tre giorni 600 persone alla volta da piazza XX Settembre fino a Palazzo Sforza per compilare la domanda per i buoni spesa. I poveri, 1.300 persone in carne e ossa, impaurite di non fare in tempo, sono rimaste accalcate sotto il porticato del palazzo in barba al divieto di assembramento dalle 8 del mattino fino alle 10:30, apertura dell’ufficio comunale.

Una decisione rivendicata dal primo cittadino, candidato di Salvini alla Presidenza delle Marche, con questa incredibile spiegazione: “Non tutti possono spedire una email da casa e spendere soldi per il telefono”. Ci sono povertà e povertà. C’è quella di chi ti costringe a sfilare, c’è quella di chi ha sfilato nella piazza della città, ma a testa alta.

Trucco e parrucco per le preghiere web. Tennis? Con il badile

 

Aspetto il rosario online per mettermi elegante

Stare a casa ha dei vantaggi: non vedevo l’ora di prendermi le ferie e sono stata accontentata! Niente più stress al lavoro e come pendolare.

Comunque non sono iperattiva, so stare bene anche a casa a poltrire. Posso prendermi cura dei miei genitori anziani in maniera più regolare e non vedo l’ora di rivedere i miei amici alle adunanze religiose in videoconferenza. Solo allora mi vesto elegante e mi trucco.

Se trovo tutto quello che mi occorre, faccio la spesa solo una volta alla settimana, anche se possiamo farla una volta al giorno. Sono abituata a fare la lista della spesa, quindi non perdo tempo. Il resto lo acquisto online. Mi piace molto osservare i bombi e le api (o saranno vespe?) che impollinano i bellissimi fiori selvatici del mio giardino. Non ne avevo mai visto così tante (sarà che ho più tempo di stare a casa). Una settimana fa è persino arrivato un riccio! Il buon Dio sa sempre come rallegrarci e consolarci!

È bello anche ascoltare il canto degli uccelli, prendere un po’ di sole in giardino e guardare la luna piena. In questo periodo è molto grande e luminosa.

Francesca Ortu

 

Da Fini a Gibson, i miei consigli artistici

Ecco i miei umili consigli per la quarantena. Per quanto riguarda i libri: 1984 di George Orwell; Adelphi della dissoluzione di Maurizio Blondet; La ragione aveva torto? di Massimo Fini.

Invece per i film consiglio: Richard Jewell di Clint Eastwood, che descrive bene il potere negativo dei mass-media; Demolition man, di Marco Brambilla, un film profetico che, con tanta ironia, descrive benissimo le assurdità del politicamente corretto; infine La Passione di Cristo di Mel Gibson, un capolavoro che avrebbe meritato l’Oscar e che, invece e non a caso, non lo ha ricevuto.

Andrea

 

Convivere col Covid oppure con Renzi?

L’editoriale del direttore Travaglio dell’altro giorno mi ha fatto pensare a questo disegno che ho fatto in occasione dell’uscita di Renzi sul convivere col virus (vedi foto). Il disegno si mantiene in una sfera dove ci sono due opzioni, nessuna delle quali rende la vita degna di essere vissuta, basta fare dell’ironia al riguardo. La via d’uscita sta cioè nel superamento della logica formale e della sua legge del terzo escluso.

Le due ipotesi espresse dai due personaggi disegnati nella vignetta ne escludono una terza, quindi imponiamo la terza escludendo le prime due.

Paolo Babini

 

La mia giornata tipo: caffè, cucina e… pensieri

Ecco una mia giornata tipo. 1) Dalle 8 circa metto su il caffè, mentre aspetto leggo i titoli del Fatto sul cellulare. 2) Caffè in una mano, sigaretta nell’altra… penso. 3) Edicola vicino casa, Il Fatto, sigarette e a volte Tex Willer.

4) Rientro e stropiccio il giornale leggendolo e scribacchiandolo come faceva Dorfles con libri e quotidiani. 4) Con il cellulare fotografo quasi tutte le pagine del Fatto e le mando a Pierangelo esiliato in Salvador dopo che il regime di Ortega (in Nicaragua) lo aveva identificato come terrorista: accusa assurda; non voleva Ong che lo criticassero sui massacri ai danni dei civili disarmati dai suoi paramilitari (350 morti). 5) Poi cucino per la banda, dormo e continuo ancora a… pensare. Adesso una preghiera: non mollate mai per favore.

Dante Costante Grassi

 

Altro che giardinaggio, io voglio il tennis

Vorrei condividere sulla rubrica “Dalla quarantena” questa mia foto.

Con il badile in mano per fare il prato verde mi ha preso la nostalgia per la mancanza del mio amato sport, il tennis. (vedi foto)

Giuseppe Tartarelli

 

Al riparo dal virus con un mio lavoro

Buongiorno, mi chiamo Martina. Io sono un illustratore. In questo periodo disegno. Vi mando un mio lavoro. (vedi foto)

Martina Binosi

“A Brescia eravamo un’eccellenza mondiale. Poi Formigoni dirottò i fondi verso i privati”

“Le sirene delle ambulanze ormai mi colpiscono come lame. Abito vicino al mio ospedale e le sento a tutte le ore, anche se pare che l’epidemia stia rallentando”. Lucio Mastromatteo è stato direttore generale degli Spedali Civili di Brescia dal ’98 al 2008. Una vita ai vertici della sanità lombarda, vecchia scuola della Dc di Sandro Fontana, ha guidato l’ospedale bresciano negli anni d’oro.

“Il coronavirus è spaventoso, non ho mai visto niente di simile – precisa Mastromatteo, 80 anni, oggi alla guida dell’Unione provinciale istituti assistenziali –. Credevo di averne viste tante, ma questa è la più difficile”.

Come siamo arrivati a questo punto soprattutto a Bergamo e Brescia?

In Lombardia pensavamo di essere un’eccellenza. Oggi la tragedia ci dice che siamo sotto la sufficienza. La sanità pubblica è stata azzoppata e mortificata in tutti i modi. Sia quella ospedaliera sia quella di prevenzione, la medicina di territorio e di comunità. Non si spiega altrimenti la tragedia che stiamo vivendo. In queste province abbiamo fior di cervelli, la tecnologia, l’università e ci facciamo fregare così da un virus?

Il modello lombardo non è poi così virtuoso?

È un male antico. Ero direttore del Civile e un giorno il professor Callegari mi dice: ‘Ha letto il Los Angeles Times? Siete al decimo posto nella classifica degli ospedali del mondo!’. Un’agenzia indipendente americana era venuta a osservarci e aveva riconosciuto l’eccellenza della struttura. Eravamo balzati al primo posto in Europa. Il sottosegretario Onu Staffan De Mistura si fermò con noi una giornata intera per conoscerci. Ma in Regione Lombardia non erano per niente entusiasti, non gradivano che un ospedale pubblico salisse in quel modo. Formigoni puntava sul privato. E la Regione ci ha sempre ostacolato.

Cosa le dissero allora?

Non una parola sul riconoscimento Usa. Solo che dovevo tagliare, tagliare, tagliare, avrei dovuto chiudere il 30% dell’ospedale perché era inutile. Qualcosa ho dovuto fare, ma a molti tagli ho detto no. E non ho mai preso il premio del 20% di stipendio a differenza di tanti miei colleghi.

Ma tutti sarebbero stati travolti dal Covid-19…

Sì, spaventa la quantità di pazienti. Così non si riesce a curare la gente. Anche Ebola ci fece paura, ma ti trovi davanti magari a un solo paziente per cui puoi spendere 500 mila euro. Prima ancora l’Aids creò grande angoscia, rischiavamo di perdere un’intera generazione. Ricordo uno dei primi pazienti con l’Hiv: l’infettivologo Giampietro Carosi venne da me e mi disse: ‘Devo salvare questo ragazzo e mi serve un miliardo’. Saltai sulla sedia, ma facemmo arrivare i farmaci sperimentali dagli Usa, la terapia era pionieristica ma funzionava: gli salvammo la vita.

Come bisogna riprogrammare il sistema?

Investendo tutto quello che serve. Oggi è chiaro che la sanità pubblica è l’industria strategica numero uno nel mondo. Investiamo in prevenzione, perché la catastrofe sembra sempre lontana finché non ci scivoli dentro. E poi curiamo gli ospedali, che sono come un fratello maggiore, sempre lì 24 ore su 24, pronti a tenderti una mano quando serve. Affidiamoci al merito. Premiamo davvero chi lo merita, con tutto il cuore.

Quei vertici del 23.2 che ignorarono i primi casi d’Alzano

È Carnevale, quella domenica 23 febbraio. E come ogni anno, anche nei piccoli paesi della Bergamasca, ci si prepara alle sfilate da tradizione. Alle 9 del mattino i sindaci della zona ricevono un messaggio via WhatsApp: l’Agenzia per la tutela della salute (Ats) chiede di valutare la sospensione delle manifestazioni, causa pericolo Coronavirus. È della sera prima il decreto del premier Conte in cui vengono annunciate le prime “misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica”, in seguito alla scoperta del “paziente Mattia” a Codogno. Tutti i sindaci, quella mattina, sono preoccupati del poco preavviso con cui eventualmente sospendere la parata di Carnevale, e soprattutto sul come affrontare, a partire dal lunedì successivo, la chiusura di scuole e asili nido. Attendono tutti l’ordinanza regionale che, facendo proprio il decreto del governo, ne stabilisca i dettagli. E così che l’altra notizia – arrivata all’alba – non trova, già da quella prima giornata, tutta l’attenzione che avrebbe meritato. È il primo caso di Covid-19 della provincia di Bergamo.

In prefettura, ha potuto ricostruire il Fatto, si svolge subito, a partire dalla mattinata di domenica, un vertice urgente. Presenti: il prefetto, le forze di polizia, il sindaco Giorgio Gori, i vertici dell’Ats Bergamo. “Il prefetto venne informato quella mattina da Ats di un primo caso in città: un anziano ricoverato all’ospedale Giovanni XXIII, e risultato positivo. Decidemmo subito – raccontano dalla Prefettura – di convocare un comitato provinciale per valutare quali misure adottare in merito alla sicurezza e all’ordine pubblico: perché quelle eventuali sul piano sanitario non sono invece di nostra competenza”. Si sapeva già del caos al pronto soccorso dell’ospedale “Pesenti Fenaroli” di Alzano? “Nel corso della riunione ci arrivò la comunicazione di altri casi in fase di accertamento, relativi alla Val Seriana. Era tutto un susseguirsi di telefonate. Ma il primo caso a noi segnalato fu quello di Bergamo città”.

Nello stesso giorno – parliamo sempre di domenica 23 – l’agenzia Ansa batterà nel pomeriggio la notizia di “4 casi di coronavirus”, di cui almeno “due registrati nell’ospedale di Alzano”. Il pronto soccorso, ormai è noto, verrà chiuso intorno alle 17.30 e poi riaperto, su determina della Regione, in serata. Per poter capire come e se – e soprattutto da parte di chi – sia stato sottovalutato l’iniziale contagio, bisogna ancora una volta riavvolgere il nastro, e tornare a qualche giorno prima.

Da metà febbraio al reparto Medicine del “Pesenti Fenaroli” era ricoverato il signor Franco Orlandi, ex camionista di Nembro. Si era ripresentato in ospedale, faceva fatica a respirare, accompagnato dalla badante. Che avesse il coronavirus lo si scoprirà solo nella notte tra il 22 e il 23 febbraio, quando – prima di essere trasferito all’alba al Papa Giovanni XXIII di Bergamo – arriverà l’esito del tampone. Da lì a qualche giorno, il signor Orlandi morirà. Stessa sorte per Tino Ravelli, di Villa di Serio. Anche lui pensionato, anche lui ricoverato dalla mattina del 23 al Giovanni XXIII e anche lui passato per l’ospedale di Alzano: sarà ufficialmente il primo morto con coronavirus nella provincia di Bergamo.

Molte testimonianze raccontano di come già, dal sabato 22, medici e infermieri indossassero le mascherine. Ma è il racconto di un’operatrice sanitaria, raccolto dal sito Valseriana News, che risulta ancora più inquietante: “Faccio la notte, era sabato. Al reparto Medicina c’era un signore con l’ossigeno. Era agitato, provata la febbre, aveva 38 e mezzo. In Pronto soccorso c’era un gran casino. C’erano molte polmoniti… Arrivata a casa una mia collega mi avvisa dei positivi in Medicina. Io ero lì, ma nessuno mi ha controllata. Quel signore di Nembro poi è morto. Io mi sono ammalata, e chissà quante persone posso aver contagiato prima”. Claudio Cencelli, sindaco di Nembro, paese attaccato a quello di Alzano, si ricorda benissimo il nome dell’Orlandi. Come anche quello del Ravelli. “Assieme a quello di Alfredo Criserà, questi nomi gireranno da subito, dalla domenica pomeriggio, sui social come casi positivi. C’era indicato per ognuno il nome e cognome, il luogo e l’anno di nascita. Era chiaro per me che si trattasse di una fuga di notizie dall’interno dell’ospedale… chi poteva avere altrimenti questi dati? Scrissi anche al direttore dell’Ats Massimo Giupponi, ero indignato. Lui mi rispose scusandosi e dicendomi che avrebbero indagato”. Sta di fatto che, nel prosieguo di quella domenica 23 febbraio, in serata si svolse, al Centro congressi di Bergamo, una videoconferenza con tutti e 243 sindaci della provincia, le strutture tecniche delle Ats, la prefettura e, collegati, i vertici di Regione Lombardia. Nessuno, nemmeno in quella sede, parlò o chiese di quei primi contagi di Alzano.

Gallera e altri leghisti: “I medici fanno politica”

L’ultimo atto dello scontro tra la Federazione degli Ordini dei medici lombardi (Fromceo) e la Regione Lombardia va in scena con un video su Facebook dal presidente della commissione regionale Sanità Emanuele Monti (Lega). Basta il titolo per capire che aria tira: “Fake news da Fromceo. Noi siamo con il personale sanitario reale, non con i sindacati del Piddi”. L’attacco è la replica alla lettera con la quale i medici, qualche giorno fa, hanno elencato i sette errori che la Regione Lombardia avrebbe commesso nella gestione dell’emergenza sanitaria.

Critiche, secondo il giovane leghista Monti, che arrivano da “una piccola sigla sindacale che rappresenta un partito politico, la sinistra italiana”. A dire il vero, gli ordini professionali sono enti sussidiari dello Stato che nulla hanno a che vedere con i sindacati. Ma tant’è. Monti, poi, nel corso della giornata cercherà di chiarire, senza mai entrare nel merito del j’accuse lanciato dagli Ordini dei medici: “Dovrebbero essere una rappresentanza di categoria super partes che si confronta con le istituzioni. Tutto questo non è avvenuto. Hanno fatto una operazione politica, con volontà strumentali”. Risultato: oggi Monti incontrerà le sigle sindacali dei medici, ma non la Federazione degli Ordini. “Voglio avere una opinione non filtrata”, rincara il presidente della commissione Sanità. Ora tra i vertici della federazione – che prima di tutto hanno accusato la Regione di aver abbandonato il territorio (vale a dire medici di famiglia, pediatri, guardie mediche) per concentrarsi solo sugli ospedali – circola questa amara metafora: la Regione Lombardia è come la diga del Vajont, che era bellissima ma non era stata messa in sicurezza ed è crollata.

Non commenta le parole di Monti il presidente regionale della Federazione, Gianluigi Spata. È stato contagiato, è appena uscito – ancora sofferente – dall’ospedale. Lui ce l’ha fatta, non come i suoi 105 colleghi che sono deceduti dall’inizio dell’epidemia, mentre prestavano servizio. Attacca invece Paola Pedrini, segretaria regionale dei medici di famiglia: “È agghiacciante che il presidente della commissione Sanità confonda gli Ordini professionali con i sindacati e che li accusi di essere manovrati”.

Il leghista Monti ha accusato gli Ordini di fare politica non avendo argomenti da contrapporre alle sette precise criticità individuate dai medici nella gestione della crisi: 1) la mancanza di dati sull’esatta diffusione dell’epidemia, legata all’esecuzione di tamponi solo ai ricoverati e alla diagnosi di morte attribuita solo ai deceduti in ospedale; 2) l’incertezza delle chiusure di alcune aree a rischio (addirittura l’assessore Giulio Gallerà ha detto di aver scoperto la legge che gli avrebbe permesso di creare le zone rosse solo tre giorni fa); 3) la gestione confusa delle Rsa e dei centri diurni per anziani; 4) la mancata fornitura di protezioni individuali ai medici del territorio e al resto del personale sanitario; 5) l’assenza totale di attività di igiene pubblica; 6) la mancata esecuzione dei tamponi agli operatori sanitari; 7) il mancato governo del territorio che ha determinato la saturazione dei posti letto.

Ecco per Monti i rilievi che indicherebbero la volontà degli Ordini dei medici di far politica. Accuse circostanziate. A cui la stessa Pedrini aggiunge: “Si è pensato di risolvere tutto con gli ospedali e le terapie intensive, si continua a non capire cosa significa territorio e le sue potenzialità”. Ed effettivamente le terapie intensive sono scoppiate mentre proprio negli ospedali il contagio è dilagato. Ma ancora ieri Gallera insisteva: “Siamo stati capaci di resistere”. Oltre diecimila morti.

La lotta si fa a domicilio. Ma le Unità speciali non sono ancora pronte

A un mese dall’inizio del lockdown, mentre si comincia a parlare di ripresa, è chiarissimo che la medicina territoriale giocherà un ruolo centrale. La ripartenza dipenderà dalla capacità di spegnere i nuovi focolai del virus, come ha ribadito ieri Massimo Galli al Fatto. Che la rete territoriale avesse una valenza centrale il governo lo aveva capito – almeno sulla carta – già dall’inizio. Tanto è vero che con l’art.8 del decreto legge del 9 marzo numero 14 chiedeva alle Regioni di istituire entro dieci giorni “un’unità speciale ogni 50.000 abitanti per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da Covid-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero”. Le cosiddette “Usca”, dunque, sarebbero state (e possono ancora essere) un servizio fondamentale anche per evitare l’accesso in massa agli ospedali, tra le cause scatenanti del contagio. Ma la loro attivazione, persino nelle zone più colpite dal coronavirus, non è stata immediata. Ogni Regione ha fatto un provvedimento ad hoc, organizzandosi come ha potuto e creduto. D’altronde, lo stesso governo non era stato chiarissimo su funzioni e prerogative delle Usca. Per esempio, non chiariva se potessero o dovessero fare i tamponi. Vago il anche sulle modalità di reclutamento e sulle risorse. Il testo parla di “un numero di medici pari a quelli già presenti nella sede di continuità assistenziale prescelta”. E ancora: dice che possono far parte dell’unità speciale “i medici titolari o supplenti di continuità assistenziale; i medici che frequentano il corso di formazione specifica in medicina generale; in via residuale, i laureati in Medicina e chirurgia abilitati e iscritti all’Ordine”. Indicazione di massima: “L’unità speciale è attiva sette giorni su sette, dalle ore 8 alle ore 20” e ai medici “è riconosciuto un compenso lordo di 40 euro all’ora”. Questa la situazione nelle Regioni più colpite.

 

Lombardia

Raccontava ieri il Corriere di Brescia che a fronte di oltre 5.000 persone con sintomi, le 9 Usca mandate dalla Regione ne visitano 60 al giorno. Gabriel Zagni, presidente dell’Associazione comuni bresciani e anche sindaco di Palazzolo sull’Oglio, come racconta al Fatto, sta cercando di capire perché: “Devono essere attivate dai medici di medicina generale che non lo fanno. Ma noi sindaci siamo subissati di richieste di assistenza a domicilio”. Il ritardo parte già dalla Regione, che le ha attivate con delibera del 23 marzo in cui si menzionano le difficoltà delle Ats a trovare personale. Per 10 milioni di abitanti, le Usca dovrebbero essere 200. Ma l’assessore alla Sanità, Gallera rispondendo alle domande dei consiglieri regionali Pd in Commissione il 3 aprile ammetteva che erano attive 37. “Aver appoggiato le Usca sulla continuità assistenziale è averle appoggiate su dei piedi di argilla: i medici sono pochi”, denuncia Carlo Borghetti, consigliere regionale Dem.

 

Veneto

Il Piano di sanità pubblica del 30 marzo prevedeva l’istituzione di circa 80 Usca con 600 medici. Ma, secondo quanto detto dall’Assessore alla Sanità, Manuela Lanzarin, ne risultano attivate circa 20. Mentre per i medici è stato fatto un avviso pubblico al quale hanno risposto in 402. “I parametri del governo vanno rivisti in base al numero effettivo di pazienti Covid positivi da seguire e delle distanze da percorrere per visitarli a domicilio”, la motivazione della Lanzarin. Un po’ astrusa, visto che in Regione i positivi sono più di 10mila.

 

Piemonte

Le Usca attive risultano solo 33. Per un territorio di quasi 4 milioni e mezzo di abitanti, ce ne sarebbero dovute essere almeno 80. La Regione il 17 marzo ha chiesto alle singole Aziende sanitarie di costituirle. Ognuna ha deciso di quali compiti dotarle: alcune vanno anche nelle Rsa.

 

Toscana

A oggi sono 70, a norma con le indicazioni di Roma. Ma sono partite solo all’inizio della settimana scorsa. In compenso, la Regione è stata chiara su un punto: “A richiesta dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta possono fare i tamponi”, come spiega l’Assessore alla Sanità, Stefania Saccardi.

 

Emilia-Romagna

Le Usca attive sono 52 (a norma dovrebbero essere circa 80). La Regione ha fornito alle Aziende sanitarie le linee di indirizzo. Con la specificazione che possono prevedere “al reclutamento volontario dei medici” con contratto di 3 mesi ,rinnovabili, equiparato a quello di Continuità assistenziale.

“Non allentiamo ora: numeri gestibili, ma non accettabili”

Luca Lorini – direttore dell’Area Critica del Papa Giovanni XXIII di Bergamo – i bollettini della Protezione civile riportano meno ricoverati, più guariti. Lei sta nell’epicentro dell’epicentro dell’epidemia: i dati, finalmente, rassicurano?

Direi il contrario.

Ma le curve sono in declino.

Con quei dati, il risultato è che stiamo abbassando la guardia. Ma sono dati che indicano i positivi rispetto al totale dei tamponi, non significano niente. I positivi veri sono molti di più. Per noi l’unico numero che conta sono gli ingressi in pronto soccorso, e gli ingressi qui, in terapia intensiva: quanti hanno bisogno di cure, e di quali e quante cure. Perché non importa che siano 100 invece che 150. Importa che non siano troppi.

E lo sono?

Non abbiamo più pazienti in attesa nei corridoi ma abbiamo persone in attesa negli altri reparti e fuori. Non sono diminuiti i ricoverati, solo l’aumento dei ricoverati.

Ha visto foto delle strade di alcune città? Genova… Napoli…

Ho visto. Ed è una follia. Bisogna stare a casa e ognuno per conto proprio, come se fosse contagiabile e contagiante. Altrimenti, si fa di ogni casa un focolaio. Sono trascorsi 67 giorni dal primo infetto di Wuhan ai primi 100 mila, solo undici tra i primi 100 mila e i successivi. E quattro tra quei successivi 100 mila e i successivi ancora. Non c’è un dentro e un fuori in questa epidemia.

E non c’è cura.

No. Non c’è. Compriamo tempo, tutto qui. Con un po’ di farmaci, e molto ossigeno. Ma poi, il resto sta al sistema immunitario del paziente. Perché reagisca, e da sé arrivi dove la scienza, per

ora, non arriva.

Sostanzialmente l’unica è essere giovani e sani.

L’unica è stare a casa: e non ammalarsi. Perché il decorso è imprevedibile. E i polmoni subiscono danni di lungo periodo. Un po’ come un infarto, che lascia una cicatrice. Se torni, non torni come prima.

Qual è la strategia, allora?

Un’epidemia è questione di matematica, oltre che di medicina. Il nostro unico alleato è il tempo: per i pazienti, ma anche per gli ospedali, perché ci sia equilibrio tra chi entra e chi esce. Tra i numeri. I numeri giusti, però.

Non quelli ufficiali…

Secondo l’Oms il 14% dei contagiati avrà problemi e il 6% finirà in terapia intensiva. Il numero che conta è questo 20%. Ma non è il 20% dei 94.067 contagiati ufficiali, è il 20% di quelli reali: in Italia, secondo l’Imperial College di Londra, sono 5,9 milioni.

E il 20% è più di un milione.

Contro i 192 mila posti letto dei nostri ospedali.

Il lockdown ha funzionato?

Sta funzionando. E per questo è fondamentale non allentarlo. I numeri, un po’ alla volta, stanno tornando gestibili. Non normali: gestibili. Qui le polmoniti circolano da gennaio. Non ha senso dire che è trascorso un mese, ormai, che l’epidemia è rimasta in Lombardia. Non ha senso dire che è finita. Altrove, non è iniziata. Forse per il momento.

Arriverà il vaccino?

Presto. Già a dicembre. Ma adesso coi test sierologici potremo capire chi di noi è immune, e riorganizzarci. Perché se lavoriamo in sicurezza noi, può lavorare in sicurezza chiunque. Quest’epidemia non è l’apocalisse. Si supera. Ma ci ha travolto in 10 giorni. E non siamo un ospedale qualsiasi.

Capitasse anche al Sud, o a Roma, che succederebbe?

Avremmo altri trecentomila morti.

Quanti?

Trecentomila.

Lombardia: 10 mila morti. Milano continua a tremare

Il “pianoro” si allunga, la crescita rimane sostanzialmente stabile, ma il numero delle vittime del Covid-19 resta alto, 610, e raggiunge quota 10 mila nella sola Lombardia. Sono i dati salienti dell’ultima giornata di passione di un’Italia alle prese con la pandemia, in cui il numero dei casi totali ha toccato quota 143.626 (comprensivi di persone positive, decedute e dimesse o guarite): 4.204 in più (+3,02%) rispetto a mercoledì quando si era registrato un primo rialzo (+2,83%) dopo tre giorni di calo continuo della crescita percentuale:+3,46% il 5 aprile,+2,79% il 6 e+2,29% il 7.

Nonostante i ritmi più bassi, il contagio continua a diffondersi, ma “i pazienti in isolamento domiciliare senza sintomi o con sintomi lievi sono arrivati a 64.877, il 67% del totale, un dato cresciuto solo ad aprile dell’8%. Ciò dimostra il calo della pressione sugli ospedali”, ha spiegato il capo della Protezione civile Angelo Borrelli. I ricoverati passano da 28.485 a 28.339, il che equivale a 146 posti letto che si sono liberati in 24 ore, ancora in discesa rispetto ai 233 di mercoledì e ai 258 di martedì. Sono 3.605 i pazienti in terapia intensiva, 88 in meno rispetto a mercoledì. “Degli ultimi 5 giorni ben 4 si sono conclusi con un numero negativo di ricoveri rispetto al precedente – il commento del presidente del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli – Per le rianimazioni siamo a cinque giorni su cinque”.

La giornata ha fatto registrare 610 nuovi decessi, che portano il totale a 18.279. “Oggi ci sono 10 regioni, principalmente del Centro-Sud, e la provincia di Bolzano, in cui il numero di morti giornaliero è inferiore a 10”, ha proseguito Locatelli. Non in Lombardia, ormai a quota 10.022 vittime, 300 in un solo giorno. Nella Regione sono in tutto 54.802 i positivi. Brescia con 10.122 casi (+213) supera Bergamo, che cresce di 112 unità e arriva a 10.043. Anche Milano accelera: 12.479 casi in provincia (+440) di cui 4.979 in città (+155). “È una situazione da tenere sotto controllo, con un atteggiamento ancora più determinato”, ha detto l’assessore al Welfare, Giulio Gallera. Tradotto: restando in casa a Pasqua.

La corruzione ci ruba 13 miliardi all’anno. I ladri della sanità fanno male alla salute

La sanità italiana, in trincea contro l’epidemia di coronavirus, non è stremata soltanto dai tagli di fondi degli ultimi anni. Soffre anche lo stillicidio di risorse drenate dalla corruzione, dalle creste sugli appalti, dai rimborsi gonfiati alle strutture private, dalle nomine politiche. Dal 1º gennaio 2019 a metà marzo di quest’anno sono emersi ben 134 casi di malaffare, uno ogni tre-quattro giorni. Li ha calcolati Transparency Italia, monitorando le notizie di stampa, per l’inchiesta sui “ladri della sanità” che apre il nuovo numero di FQ MillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez, in edicola da domani con inchieste e approfondimenti sull’emergenza Covid-19 e le sue conseguenze economiche e sociali. Sprechi e ruberie portano via 13 miliardi l’anno: “Soldi che si sarebbero potuti utilizzare per mantenere più letti di terapia intensiva e salvare più vite”, commenta Davide Del Monte, direttore di Transparency Italia, che chiede di rendere più trasparenti le nomine ai vertici delle aziende sanitarie e dei grandi ospedali.

Alcuni casi restano scolpiti nella memoria collettiva, come quello di Pier Paolo Brega Massone, condannato a 15 anni per lesioni per aver praticato interventi non necessari, in attesa di verdetto definitivo per l’accusa di omicidio, per la morte di quattro pazienti. O quello delle valvole cardiache difettose impiegate alle Molinette di Torino.

E l’epopea di Roberto Formigoni, presidente della Regione Lombardia per 18 anni, condannato definitivamente a 5 anni e 10 mesi per aver favorito con una pioggia di milioni alcune strutture private convenzionate, in cambio di varie “utilità” diventate celebri, dai viaggi alle cene, tutto all’insegna del lusso. In Veneto è finito sui tavoli dell’Anticorruzione e dei magistrati l’appalto da 303 milioni di euro per il servizio di ristorazione di tutti gli ospedali della regione. In Friuli-Venezia Giulia, a ottobre è stato arrestato un imprenditore dell’assistenza agli anziani, già coordinatore regionale di FI, Massimo Blasoni, accusato di comprimere i costi offrendo servizi ben al di sotto degli standard previsti. In Piemonte ci sono stati processi persino per turbativa d’asta delle forniture di pannoloni. E nella sanità laziale il buco da 10 miliardi di euro registrato nel 2009, che ha portato al commissariamento, è stato provocato anche dalle decine di milioni di euro finiti alla celebre “lady Asl”. Il crac non è servito a molto se ancora nel 2020 i pm hanno chiesto il rinvio a giudizio di un ex dirigente Asl accusato di aver chiuso gli occhi sui lavori di manutenzione di diversi ospedali.

E al Sud? Ci si mettono pure i mafiosi. In Calabria, dove il coronavirus è particolarmente temuto per l’inadeguatezza di strutture e risorse, sono sciolte per infiltrazioni mafiose le Aziende di servizi alla persona di Catanzaro e di Reggio Calabria. Mentre in Sicilia si ricordano ancora i rimborsi d’oro che finivano nelle tasche del boss Bernardo Provenzano, tramite il prestanome Michele Aiello. È la vicenda che ha portato in carcere, molto prima di Formigoni, un altro governatore di peso: Totò Cuffaro.

Appalti pubblici: le gare fanno gola a chi vuole far soldi

Oltre 25 milioni di euro spesi finora dalla Protezione civile per acquistare mascherine, respiratori, dispositivi di protezione. Soldi che provengono dalle donazioni. E poi c’è il flusso di denaro pubblico utilizzato per fronteggiare l’emergenza Coronavirus. È questa la fetta di mercato che fa gola a tanti: non solo le mafie, ma anche a una parte dell’imprenditoria consapevole di come da questa emergenza, come da tutte le altre, ci si possa guadagnare. È capitato ogni volta che l’Italia si è ritrovata a dover affrontare le conseguenze di un terremoto, come quello dell’Aquila, o di ogni altra catastrofe. In altre occasioni le vittime erano coloro che rimanevano sotto le macerie. Oggi, con il Paese alle prese con la battaglia contro il Covid-19, i morti si contano negli ospedali e non solo. Allora come adesso c’è chi pensa ai profitti, con conseguenze drammatiche per la salute dei cittadini e per le casse dello Stato. E lo sanno bene molti investigatori che osservano le manovre speculative messe in piedi ogni giorno.

Ci sono dunque coloro che immettono sul mercato dispositivi di protezioni a prezzi esorbitanti che le Asl locali o anche gli ospedali sono costrette a pagare: mascherine e respiratori sono necessarie, non ce ne sono abbastanza. Bisogna averle, anche a costo di pagarle a caro prezzo. Accanto a questa categoria ci sono altri due aspetti che preoccupano gli investigatori: da una parte il rischio che venga venduto materiale “difettoso”, con tutti i danni che ne derivano per la salute delle persone; dall’altra l’esistenza di una fetta di imprenditori che partecipano alle gare pubbliche pur sapendo di non averne i requisiti (e si nascondo magari dietro qualche prestanome) o anche di non essere in grado di soddisfare realmente le richieste dell’appalto. Quando queste anomalie emergono le gare vengono annullate, causando ritardi che lo Stato non può permettersi.

È un aspetto emerso nell’inchiesta della Procura di Roma che ieri ha portato all’arresto di un imprenditore di Cassino: aveva vinto un lotto di una gara Consip che prevedeva il rifornimento di 24 milioni di mascherine chirurgiche (per un valore complessivo di 15,8 milioni di euro). Dispositivi mai arrivati. L’imprenditore – secondo il gip che ha emesso un’ordinanza di misura cautelare – ha partecipato alla gara “con lesione della libertà della concorrenza e causando un danno grave alla salute pubblica, avendo fatto perdere giorni preziosi nella acquisizione delle oggi indispensabili mascherine”. Il tempo e la capacità di consegna sono i “due protagonisti” della gara Consip al centro della vicenda finita al vaglio dei pm capitolini. Ma sono gli stessi aspetti che caratterizzano gli appalti indetti in questo momento di emergenza: avere forniture pronte da consegnare in tempi strettissimi. L’arresto di ieri della Procura di Roma è il primo che riguarda reati contro la Pubblica amministrazione in tempi di coronavirus. E si può immaginare che non sarà l’ultimo.

Poi ci sono i rincari. Tutti conoscono il boom dei prezzi di mascherine e gel disinfettanti. Li comprano i privati, ma anche le amministrazioni pubbliche. A Bari, la Procura ha scoperchiato il vaso delle mascherine sanitarie FFP3 del valore di 36 centesimi che venivano rivendute agli ospedali pugliesi fino a 20 euro l’una. Sono state scoperte manovre speculative sulle merci per rincari fino al 4.000%. Le Asl sono state costrette ad accettare quei “prezzi esageratissimi” “per evitare il crollo del sistema”, ha detto Antonio Sanguedolce, direttore generale della Asl di Bari. Sentito via Skype il 23 marzo come persona informata sui fatti ha ammesso: “Siamo davanti a un problema enorme, ogni giorno non sappiamo come andare avanti. Stiamo per arrivare a zero, praticamente si ferma tutto, il 118, gli ospedali, sarebbe una tragedia enorme”. Sono tragedie sulle quali in tanti speculano. Anche questa volta.