Siamo soprattutto animali sessuali

Dieci cose sul sesso al tempo del coronavirus. 1. Lui e lei fidanzati nella stessa città o nello stesso paese, ma non si incontrano da un mese.

2. Marito e moglie che lo fanno più spesso. 3. Tutti in casa. Difficile trovare spazi per chi si vuole masturbare. 4. Non si possono prendere appuntamenti in Rete per poi fare sesso da qualche parte. 5. Non si può andare a vedere le coppie che fanno l’amore. 6. Sono nate pochissime avventure in questo mese. gli sconosciuti ci attraggono di meno. 7. Chi si lascia non può andare a sfogarsi con un amico o un’amica. Difficile applicare la tecnica del chiodo schiaccia chiodo. 8. Non si può provare a ricucire un rapporto in crisi con un incontro sessuale. 9. I gelosi sono più tranquilli. È molto difficile essere traditi. Quelli che sono soli hanno pochissime speranze di porre fine alla loro solitudine. 10. Dopo l’Aids, il coronavirus rischia di produrre un collasso nella carica erotica delle persone. È incredibile che si parli così poco nello spazio pubblico della cosa che regge la gran parte della vita dei corpi. Prima di essere animali politici o religiosi, siamo animali sessuali. Non è possibile che non ci sia una terza via tra il silenzio e la pornografia.

La Cucinotta: “Oramai sono un’esperta parrucchiera”

Tono squillante. Carico. Deciso. Quello di Maria Grazia Cucinotta.

Come va?

Non male, erano dieci anni che non stavo a casa.

E cosa ha scoperto?

Mio marito! In 25 anni di matrimonio ci siamo visti poco, e anche il viaggio di nozze lo abbiamo passato con una coppia di amici.

Lei e lui…

Macché, siamo in otto, tra figli, nipoti, nonno, amica statunitense…

Una comunità.

Non mi fermo mai.

Fa tutto.

Taglio pure i capelli, sono la parrucchiera di casa.

Solo taglio?

Pure tinta e ceretta.

Professionista.

Ho acquistato un laser.

Per cosa?

Per abbattere i peli.

Spietata.

La ceretta a volte brucia.

Ultra professionista.

A volte si collega il mio parrucchiere e ci segue come tutor (sorride). Comunque corro tutto il giorno.

Una fatica.

È vergognoso non retribuire le casalinghe.

Pulizie.

Per forza, siamo in otto.

Cucina.

Pizza, lasagne, pane fatto in casa e la mia amica statunitense risponde con i pancake.

Occhio alla linea.

Siamo tutti ingrassati, mangiamo come se non ci fosse un domani.

Senza tregua.

Mai speso così tanto.

Il lievito pare sia finito.

Trovato come la farina (e spiega nei dettagli come si arrangia con la spesa. È cintura nera di strategia)

Un libro riesce a leggerlo?

Amo i romanzi di Marco Buticchi e di Giuseppina Torregrossa.

Film?

Tutti quelli con i supereroi: vanno bene Superman, Batman, Iron Man; ho bisogno di evadere.

Primo appuntamento dopo la quarantena.

Continuerò, e più di prima, le mie battaglie per una sanità all’altezza: quello che sta accadendo è una vergogna assoluta.

@A_Ferrucci

Mail box

 

Maturità: meglio abolirla che promuovere tutti

Si sta discutendo sul come finire l’anno scolastico e sul come fare o non fare gli esami di terza media e di maturità. Un esame dovrebbe servire a distinguere chi sa da chi non sa, ma se tutti superano l’esame, l’esame si traduce in una inutile e costosa perdita di tempo. Avuto presente che, da qualche tempo a questa parte, questi esami si concludono sempre con il 99,9 per cento di promossi e che sono pertanto del tutto inutili, non sarebbe forse preferibile, approfittando dell’emergenza Coronavirus, eliminarli del tutto anche per il futuro, lasciando che siano gli insegnanti interni, che ben conoscono i loro alunni, a decidere se uno studente meriti o non meriti di avanzare negli studi ?

Pietro Volpi

 

Grazie alla vostra redazione per l’informazione libera

Dopo aver letto per anni Corriere e Repubblica, ho deciso di leggere il Fatto, pensando di comprarlo per un paio di settimane, invece eccomi qui dopo sette anni con il vostro quotidiano. Che dire? Grazie per l’informazione libera che fate: ci permettete di non essere pecore, ma di pensare. Un grazie particolare a Massimo Fini: non perdo mai un suo articolo; è capace di raccontare con tale semplicità anche le cose più complicate. Grazie a tutti i vostri giornalisti.

Rosanna Fiorelli

 

Ammiro la prof. Gismondo per la sua onestà e chiarezza

Ho moltissimi motivi per leggere il Fatto, ma da un paio di mesi a questa parte ne ho uno in più. La signora, anzi professoressa Gismondo. Prima mi stavo convincendo che la “virologia” non fosse poi un argomento così ostico, visto che se ne occupavano e se ne occupano un po’ tutti e si sentivano i pareri più disparati e il refrain più comune “io l’avevo detto”. Grazie e scusatemi, ma ci tenevo proprio a congratularmi con il giornale per aver scelto, per i commenti di un argomento così delicato, una persona di raro equilibrio, onestà e chiarezza.

Marco Nava

 

I parlamentari dovrebbero contribuire alle donazioni

Premesso che nel mio piccolo ho dato il mio contributo alla Protezione civile e a vari enti di ricerca, mi sono divertito a fare un po’ di matematica. Per esempio: un parlamentare in Italia guadagna circa 13.000 euro mensili. Se Camera e Senato decidessero di tagliare l’indennità di 2.000 euro per un mese (ma anche due sarebbe un bel gesto…), ecco i conti: 2.000 x 945 = 1.890.000 euro. Che per esempio, visto il tragico momento che tutti stiamo attraversando, si potrebbero usare per acquistare: 282 respiratori polmonari, oppure 28 posti letto in terapia intensiva, o anche 24 ambulanze superattrezzate. Che ne dite deputati e senatori?

Claudio Riccio

 

DIRITTO DI REPLICA

Dire che siamo rimasti sconcertati da quanto è stato pubblicato lunedì sul Fatto (l’articolo di Vincenzo Bisbiglia dal titolo “Io, costretta a mentire per scovare il focolaio”), attribuito alla Direttrice Generale del Gruppo Ini, è dir poco. Quanto viene riportato non risponde a verità e a dimostrare questo potrebbe bastare l’intervista rilasciata dal Risk Manager della Casa di Cura Ini – Città Bianca e riportata da un quotidiano locale il 28 marzo. Sorprende tutto ciò proprio perché riguardo ai Cluster avuti sul territorio, così come fatto a Cassino e a Fiuggi, anche a Veroli sono stati fatti tamponi a tappeto, ai pazienti e ai dipendenti, in pieno accordo con l’assessorato alla Sanità della Regione Lazio, e proprio questo ha consentito di evitare l’esplosione della contaminazione purtroppo registrata in altre parti d’Italia.

Pertanto, dato che non è stata necessaria alcuna bugia e/o forzatura, con la presente smentiamo il contenuto fattuale, sia nei tempi che nei modi riportati e attribuiti alla dottoressa Jessica Faroni.

Marco Ferrara, Capo Ufficio Stampa ASL FR

 

La circostanza riferita e confermata dalla dottoressa Jessica Faroni non viene smentita da quanto da voi riportato. La direttrice generale della struttura riferisce di aver “forzato” i sintomi di alcuni pazienti per ottenere i primi tamponi il 22 marzo.

La campagna dell’assessorato sulle Rsa è successiva a quella data (come da voi riportato). Nessuno – né l’articolo, né la dottoressa Faroni – mette in discussione in alcun modo l’operato della Asl di Frosinone, che si è attenuta ai protocolli regionali e nazionali. I quali, in mancanza di sintomi gravi, non prevedevano a quella data ‘effettuazione del test, cosa che questo giornale racconta ogni giorno.

La “bugia”, a quanto afferma Faroni, è servita dunque a portare l’attenzione dei sanitari sulla struttura ed evitare l’ulteriore propagarsi del virus. Il tutto è riportato in maniera fedele nell’articolo.

V. Bisb.

Giustizia. I magistrati lavorano, ma il virus sta rallentando comunque il sistema

Mi chiedo se è possibile spingere la magistratura a utilizzare l’attuale sospensione dell’attività “al pubblico” per smaltire procedimenti (soprattutto civili) che richiedono solamente un ruolo attivo del magistrato titolare. Per esempio, molti procedimenti erano fermi poiché il magistrato doveva sciogliere una riserva, oppure altri erano giunti a fine iter processuale e mancava la decisione finale: credo che – se opportunamente “incentivati” – i magistrati possano in questo periodo smaltire molto arretrato. Non vorremmo trovarci magari tra un mese nello stesso punto di un mese fa: “Il giudice non ha ancora sciolto la riserva”.
Luca Mancini

 

Non tutta l’attività giudiziaria è sospesa. La norma che disciplina l’emergenza da Coronavirus (d.l 18/2020) prevede una serie di cause ritenute a priori urgenti. In penale: convalide di arresto, procedimenti con detenuti, misure di prevenzione. In civile: minori, interdizione/abilitazione, cause di alimenti, protezione contro abusi familiari ecc. Il lavoro civile si svolge prevalentemente fuori udienza: studio preparatorio delle cause e stesura dei provvedimenti (dispositivo e motivazione sia in fatto che in diritto). Poiché ciascuno a ogni udienza assume un notevole numero di provvedimenti da motivare, il periodo di sospensione delle udienze non lascia “disoccupato” il magistrato. Anzi, essendo ridotti per l’emergenza i carichi di lavoro correnti, ci si può dedicare maggiormente alle pendenze da definire. Al riguardo dovrebbe persino esservi un imperativo organizzativo e deontologico. Ma non è tutto semplice e immediato. Per poter decidere una causa, per esempio a riserva, il magistrato deve avere il fascicolo presso di sé: e se il fascicolo non è telematico ma cartaceo, deve andare in cancelleria, dove ora per ragioni sanitarie è vietata o vivamente sconsigliata – a seconda dei palazzi di giustizia – la presenza dei giudici (se non per turni o urgenze indifferibili), mentre quella dei cancellieri è ridotta al minimo. Con grave impedimento per il deposito dei fascicoli, atto necessario sempre (anche per i processi telematici) affinché possano esservi i successivi indispensabili adempimenti di cancelleria. Non si può però nascondere che l’interruzione dell’attività di udienza crea rapidamente un accumulo di cause da rinviare e rifissare, con aggravio non indifferente di lavoro, specie per le cancellerie, e con inevitabili slittamenti nel tempo delle cause rinviate. Le rifissazioni non possono prescindere dal dato di fatto che i ruoli di udienza sono già pieni per mesi e per anni. E non si possono far slittare progressivamente le cause già fissate per fare posto alle altre, perché si creerebbe una situazione caotica. I magistrati cercheranno di superare il problema gravando di più le udienze per quanto possibile, con il rischio però di ritardi nelle motivazioni. In ogni caso, sta di fatto che anche sul versante giudiziario il coronavirus ha causato danni. Certo non i più terribili e devastanti, ma pur sempre danni.
Gian Carlo Caselli

I Badoglio milanesi sono molto peggio di De Luca sceriffo

Il mio orgoglio nordista sta subendo duri colpi. Non abbiamo mai creduto alla narrazione trionfalistica della Milano-place-to-be, unica metropoli europea in una Italia disfatta: conosciamo i campioni della città, da Roberto Formigoni a Silvio Berlusconi, da Matteo Salvini a Giuseppe Sala. Ma certo non abbiamo mai negato che a Milano si vive bene, che i trasporti funzionano, che la sanità è un’eccellenza, che gli aperitivi sono buoni. Poi è arrivata la pandemia e ci viene voglia di fare la ola a Vincenzo De Luca, il governatore-sceriffo di Salerno e della Campania intera, altro che o mia bela Madunina. Qui a Milano gli ultimi aperitivi sono stati quelli di Sala con Cattelan e Zingaretti, instagrammati #milanononsiferma, hashtag subito contraddetto da #iorestoacasa. Quanto alla sanità d’eccellenza, stiamo assistendo alla più colossale disfatta italiana dopo Caporetto, al più bruciante disastro dopo il terremoto di Messina. Diecimila morti in Lombardia; il cluster infettivo di Alzano Lombardo lasciato aperto; gli ospedali trasformati in luoghi per infettare i pazienti, i parenti, i medici e il personale sanitario; le case di riposo diventate luoghi per morire come mosche; i positivi al virus trasferiti dagli ospedali sovraccarichi alle residenze per anziani (come mandare i vampiri a rieducarsi nelle sedi dell’Avis); il personale sanitario abbandonato senza protezioni; i piani antipandemici inesistenti; il tracciamento dei contagi neppure tentato; i medici di famiglia lasciati senza strumenti e senza indicazioni; le mascherine (rese obbligatorie) promesse ma non consegnate; i ventilatori polmonari mancanti; i tamponi più rari del fluido magico di Harry Potter. Tutto questo in un sistema in cui alla sanità pubblica sono stati sottratti negli anni milioni di euro, con un dimezzamento dei posti letto.

I Badoglio della situazione – Attilio Fontana e Giulio Gallera – invece di chiedere scusa e tentare di raddrizzare la barra, stanno in diretta tv a pavoneggiarsi per un ospedale in Fiera che ha promesso 600 posti e ha accolto finora tre (3) pazienti. Invece d’intervenire per tempo a monte, Fontana e i suoi prodi hanno sbandierato come risolutivo un prodigioso intervento a valle, con il progetto (comunque non realizzato) di fermare la palla di neve quando è ormai diventata valanga. E Gallera accarezza perfino il sogno di candidarsi sindaco di Milano, al prossimo giro, per fare concorrenza agli aperitivi sui Navigli di Sala. E allora viva De Luca. Invece di dedicarsi alle fritture di pesce, questa volta ha fatto quello che Fontana e Gallera e Sala non hanno saputo fare. Certo, è pittoresco. Ma ha fatto restare a casa i cittadini che amministra, invece di postare foto di aperitivi al Gambrinus o di passeggiate al Crescent. Ha fatto chiudere in zona rossa, con tre successive ordinanze, Ariano Irpino, quattro Comuni del Vallo di Diano e Lauro (mentre Fontana stava per giorni a rimpallarsi con il governo la responsabilità di scontentare Confindustria di Bergamo per chiudere il cluster infettivo più devastante d’Italia, quello di Alzano Lombardo). Certo, i numeri dell’attacco virale in Lombardia sono imparagonabili a quelli della Campania. Ma resta il fatto che, questa volta, il Pittoresco ha fatto le cose giuste, l’Eccellente non ne ha imbroccata una. E mentre molti ospedali lombardi diventavano focolai d’infezione, il Cotugno di Napoli – ci ha raccontato Sky News Uk – si è organizzato in modo da non infettare neppure uno dei suoi medici, con l’utilizzo di tute e maschere da fantascienza, e ha cominciato a sperimentare contro il Covid-19 (pare con successo) l’uso di un farmaco contro l’artrite. Questa volta, Campania batte Lombardia 2 a 0.

L’anomalia italiana è la Lombardia

L’anomalia dell’alto numero di decessi italiani per coronavirus rispetto a quelli del resto del mondo si spiega con il nostro metodo di classificazione. Esso considera morti per Covid-19 tutti i deceduti di polmonite, arresto cardiaco, cancro, etc. che abbiano contratto anche il coronavirus. In quasi tutti gli altri Paesi il virus non viene computato come causa di morte a meno che esso non ne sia stato la causa esclusiva. Adottando il criterio di separare i decessi da quelli da virus l’anomalia sparisce e l’impatto del virus si riduce di circa 10 volte.

Ma così facendo si incorre in un grave errore di sottovalutazione: l’attacco del virus a un paziente già debilitato da una o più patologie può essere l’elemento scatenante della crisi finale. È impossibile, in definitiva, isolare il suo specifico input in chi soffriva di più malattie. Non esiste quindi una soluzione clinica al problema della effettiva letalità del Covid. Ma esiste una soluzione di tipo statistico, che include anche le morti “nascoste”. Ho sottolineato che sarebbe occorso uno sforzo ad hoc dell’Istat, convincendola a fornire i dati della mortalità generale in tempo reale invece di farci attendere due anni. Pochi giorni fa l’Istat ha iniziato finalmente a pubblicare una prima tranche di dati sui deceduti tra il primo di gennaio e il 21 marzo di quest’anno mettendoli a confronto con quelli del 2015-19.

Cosa ne risulta?

Ne risulta una impennata della mortalità che inizia dalla fine di febbraio e prosegue in marzo. È una brusca inversione di tendenza, perché nei primi due mesi di quest’anno i decessi erano stati inferiori a quelli osservati nel 2019. Fin qui l’Istat.

Ma un’altra fonte di pari attendibilità, il network SiSMG che fa capo alla Regione Lazio, ci consente di fare un ulteriore passo avanti. Il network raccoglie i dati di mortalità in 19 città italiane e li pubblica rapidamente. Ne risulta un eccesso del 29% – pari a 15.300 morti a livello nazionale nello scorso mese di marzo.

Sono tante o sono poche 15.300 vittime? Sono poche solo per chi decide di ignorare il fatto che esse sono il pedaggio che abbiamo pagato al virus nonostante un intervento molto aggressivo di contrasto. I dati Istat e SiSMG danno inoltre solida conferma di un’altra caratteristica di fondo dell’epidemia italiana: la sua esasperata concentrazione territoriale. Nell’Italia del Nord si concentra quasi il 90% dei morti, e il 60% nella sola Lombardia. L’aumento nel Nord rispetto alla media quinquennale è del 47%, contro il solo 8% nel Centro-sud. A Roma e Palermo lo scarto di mortalità è quasi nullo (1 e 2%).

La scarsa incidenza della letalità del Covid al Sud si deve all’effetto congiunto della distanza geografica dai principali focolai dell’infezione e dell’orientamento Nord-Sud della penisola. La latitudine/temperatura indebolisce il virus.

È il caso Lombardia, allora, la vera anomalia italiana. Come ha fatto il virus a radicarsi così profondamente nella regione, e in contrasto così clamoroso con la situazione del Veneto, regione contigua, e simile alla Lombardia per struttura demo-economica? Qui i decessi dovuti al virus sono 7 volte inferiori a quelli della Lombardia.

Tra le varie spiegazioni, la più convincente può essere quella di un fatale errore di politica sanitaria commesso dalla Regione Lombardia fin dall’inizio della crisi. Si è ospedalizzata subito la maggioranza dei contagiati, e lo si è fatto ricoverandoli in edifici dotati di impianti di aerazione obsoleti. Questi si sono trasformati in centri di contagio intensivo sia del personale sanitario (strage di medici e infermieri) che dell’intera popolazione.

Il Veneto ha seguito la direzione opposta, non ricoverando se non i pazienti gravi e lasciando gli altri a casa o in presidi sanitari decentrati e di piccole dimensioni.

Sanità “federale”: un caos per lo Stato

Qualche giorno fa la sindaca di Ancona, Valeria Mancinelli, una delle città delle Marche più colpite dal coronavirus, ha lanciato un grido di dolore. Fra ordini e contrordini, fra Stato e Regioni, non ci stiamo capendo più nulla. “Per il ‘dopo’ emergenza sanitaria, dobbiamo rimettere mano all’articolazione di Comuni, di quel che resta delle Province, di Regioni e dello Stato centrale. È un caos”. Oggi abbiamo venti o ventuno Repubbliche Sanitarie, ognuna che marcia per conto proprio. E non va bene. Dovremo pur sapere in qualche Stato viviamo: regionale, federale, confederale?

Oggi non lo sappiamo e non va bene per niente. Il nostro Servizio Sanitario Nazionale è nato per legge coordinato dal centro e al ministero la Costituzione assegna la gestione dell’emergenza sanitaria. Valeria Mancinelli si è meritata l’internazionale World Major Price per aver fatto promesse amministrative poi mantenute e aver risollevato economicamente la sua città. Una donna concreta dunque.

Ma veniamo al Titolo V voluto fortemente nel 2001 dal Pd illuso che quel pasticcio fortemente speziato di federalismo avrebbe aperto varchi elettorali trionfali nella Lega. Un fallimento totale. Approvato anche da Renzi e da Berlusconi (chi si somiglia, si piglia). Poi però rifiutato da Pier Luigi Bersani come “una riforma sbagliata” e definito da Enrico Letta “un errore clamoroso che paghiamo ancor oggi”.

In genere esso viene attribuito alla mente sagace del professor Franco Bassanini, allora per più governi titolare della Funzione Pubblica: figlio del presidente varesotto dei Costruttori lombardi, in gioventù Intesa Cattolica, neppure molto di sinistra, quindi nello staff di Aniasi, iscritto al Psi, stupidamente espulso dal vertice craxiano al Congresso di Palermo assieme a socialisti della qualità di Tristano Codignola, Renato Ballardini, l’economista Paolo Leon, Elio Veltri e passato agli “indipendenti di sinistra”. “Guru” giuridico di Pci e Pds, autore di una montagna di leggi di “semplificazione” (che altri amministrativisti chiamano ironicamente “di complicazione”), poi però esperto al fianco del premier di centrodestra Nicolas Sarkozy e presidente della Cassa Depositi e Prestiti. Politicamente? “Sesaminga”, dicono a Milano. Senonché nel 2014 tirato in ballo dall’economista Mario Baldassarri su Panorama replica piccato: “Non ho alcuna responsabilità (…) nella sciagurata riforma pseudo federalista del Titolo V della Costituzione (…) anzi io fui l’unico, insieme a Vincenzo Visco che sostenni in Consiglio dei ministri che era meglio lasciarla cadere” avendo essa una ristretta maggioranza ed essendo stata modificata da “diverse stravaganti disposizioni introdotte in prima lettura alla Camera”. La sua riforma rimaneva dunque quella del 1997da non confondere con quella del Titolo V. Clamoroso al Cibali! Bisogna dire che Franco Bassanini ha un carattere spigoloso anzichenò. Col fratello Giorgio ha una questione giudiziaria per l’eredità paterna finita sul Sole 24 Ore. Lo stesso Giorgio, neanche lui the quiet man, telefona un giorno a La Zanzara di Radio 24 accusandolo di aver scarrozzato per l’aere con jet governativi un terzo fratello. Telefonata furente di smentita di Franco, querela per diffamazione ahimè perduta presso il Tribunale Civile di Roma. Sul Titolo V tuttavia lo stesso giurista cambia di nuovo opinione e scrive nero su bianco: “La riforma del Titolo V è, senza dubbio, una grande riforma: cambia significativamente la forma dello Stato, l’architettura istituzionale della Repubblica. Trasforma in radice l’assetto del governo territoriale e sovverte i tradizionali rapporti fra centro e periferia (…) La riforma non è compiuta (meno male, ndr). Richiede una vasta e impegnativa opera di implementazione (evviva! ndr) , qualche integrazione e completamento, forse anche qualche correzione. È onesto riconoscerlo (meno male 2, ndr) “.

Intanto però il Titolo V ha prodotto 1300 ricorsi all’anno, 13.000 in un decennio: 81 contro lo Stato della sola Regione Toscana, all’opposto 53 rilievi e ricorsi dello Stato contro l’Abruzzo. I politici vorrebbero disfarsi di questo ginepraio. Fuorché la Lega che ha chiesto a gran voce l’“autonomia speciale” per Lombardia e Veneto e la pretendeva tutti i giorni dal governo Salvini-Di Maio. Altra sciagura evitata. Ma vi pare che la Lombardia del rosariante Salvini e dell’implorante Fontana abbia gestito bene l’autonomia di cui già dispone? Il Fatto ha documentato l’esatto contrario. L’emergenza sanitaria esige dunque che, subito dopo, si mettano le mani in questa aggrovigliata matassa. Non siamo uno Stato federale e i comportamenti di queste settimane faticano a farci considerare utile anche uno Stato regionale. Non sappiamo più cosa siamo. Cos’è da noi lo Stato? Una domanda da niente.

Viva la vita!

Abbiamo bisogno di aria nuova, in tutti i sensi. È nata al Buzzi di Milano la bambina che ha fatto trepidare l’Italia. È la figlia di Mattia (il 38enne, definito primo caso italiano) e della moglie. Entrambi, ammalati di Covid-19, sono stati ricoverati per un lungo periodo, lui al San Matteo di Pavia e lei al Sacco. Non ne conosciamo il nome, ma di certo non si chiamerà né Covid né Corona come quei poveri gemelli indiani (Ansa, 7 marzo) che porteranno questa croce tutta la vita! Nei primi giorni di degenza, secondo quanto racconta una collega ginecologa, sono sorte tante preoccupazioni soprattutto per la piccola. Perplessità sulla decisione di un parto provocato o no, timori per la somministrazione di terapie alla mamma. Fatte le opportune considerazioni, si è lasciata la mano alla natura. La signora ha portato a termine la gravidanza e ha partorito. Certo si è trovata una bella sfida, ma ha già mostrato di essere forte. È e resterà nella storia. Sembra che siano passati secoli dal ricovero della mamma, ma, soprattutto per la ricerca, è ieri. Eppure si sono fatti tanti passi avanti anche nel mondo magico della procreazione. Questo virus, lo abbiamo detto più volte, rispetta le donne: le infetta, ma non le ammala quasi mai. Le donne gravide mostrano, in genere, una maggiore sensibilità alle infezioni respiratorie, ma per una serie di motivi le conseguenze sono raramente severe. Covid-19 ha un gran rispetto dei nascituri. A oggi non è stata dimostrata una trasmissione verticale (da mamma a feto) e non è stato mai trovato il virus nel cordone ombelicale di mamme positive.

Renzi ‘indaga’ tutti tranne i suoi amici industriali

AMatteo Renzi che invoca commissioni parlamentari d’inchiesta su tutti quelli che gli stanno sulle scatole, ma insiste (lo faceva già in piena epidemia) sulla riapertura delle fabbriche (“chi le tiene chiuse fa perdere quote di mercato e questo significa licenziamenti”) suggeriamo caldamente la visione della puntata di Report (Rai3) di lunedì 6 aprile. Che andrebbe studiata nelle scuole di giornalismo per spiegare quale importanza può avere il servizio pubblico radiotelevisivo, quando è servizio pubblico. Perché nell’inchiesta di Giorgio Mottola sulla “zona grigia” del Bergamasco – dove si conta la più alta percentuale di ammalati e di morti in assoluto – lascia sconcertati, per non dire peggio, la campagna di “persuasione” condotta già a fine febbraio da Confindustria Lombardia. Culminata nell’hashtag #noilavoriamo, nel video trionfalistico yes, we work e nelle dichiarazioni rassicuranti del presidente, Marco Bonometti, sulla necessità di “abbassare i toni”. Vero è che ora l’associazione ammette che “visto con gli occhi di oggi quel video è stato un errore e ce ne scusiamo”. Ok, ma troppo tardi verrebbe da dire alla luce dei numeri, e dei lutti, che certo vanno soprattutto attribuiti a chi (Regione Lombardia) aveva il dovere di proclamare subito la zona rossa nella Val Seriana, e non quando il contagio si era fatto inarrestabile. “Una sottovalutazione – come ha detto il conduttore Sigfrido Ranucci – frutto di interessi personali ed economici”. Del resto, è lo stesso sindaco di Alzano Lombardo (con Nembro il comune più devastato dal virus) a raccontarci dell’assedio di imprenditori che volevano a tutti i costi “svincolarsi dalla zona rossa”. Nessuno nega la necessità di riaprire presto tutte le fabbriche. Purtroppo temiamo che per troppi imprenditori, da tutelare, al primo posto, non ci sarà la salute dei lavoratori.

Oggi la fiducia in Senato sul “Cura Italia”. Salvini e la Lega contro l’unità nazionale

Sul Cura Italia alla fine è stato scontro tra maggioranza e opposizione. Col centrodestra ad attaccare il governo per aver rifiutato ogni collaborazione e imposto una fiducia su cui, oggi in Senato, l’opposizione voterà contro. Per tutta la giornata di ieri, nell’aula di Palazzo Madama, si è assistito a un dibattito con l’opposizione ad attaccare non solo il provvedimento, i famosi 25 miliardi messi in campo in prima battuta dall’esecutivo, ma pure il modus operandi, che avrebbe disatteso l’invito al dialogo da parte del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

La seduta è scivolata via tra numeri ridotti, paure e distanze di sicurezza, anche se a un certo punto Roberto Calderoli ha bacchettato alcuni colleghi senza mascherina. “Sarebbe il caso di renderla obbligatoria in questa sede, come la cravatta. Diversamente ognuno è libero di starsene a casa”, ha detto il leghista.

La fiducia, naturalmente, ha fatto decadere tutti gli emendamenti. Ma nelle ultime ore si è registrato il tentativo di mettere uno scudo all’azione delle istituzioni – governo e Regioni – per le azioni messe in campo sul Covid-19. L’emendamento è il 1000/58 presentato da due senatori del Pd: Paola Boldrini e Stefano Collina. I primi due commi riguardano medici e operatori sanitari infettati o deceduti a seguito del contagio. Nel terzo comma s’interviene invece per tutelare da qualsiasi colpa “i titolari di organi di indirizzo e di gestione” che nell’esercizio “delle proprie funzioni istituzionali, normative o amministrative abbiano adottato ordinanze, direttive, circolari, pareri, atti o provvedimenti”, limitando la loro responsabilità di “danni a terzi” ai soli “casi di dolo e colpa grave”. Ma il dolo e la colpa grave vanno ben dimostrate, come spiega il comma 4, “in considerazione dell’eccezionalità e novità dell’emergenza, dei vincoli di spesa, della difficoltà di reperire dispositivi medici e di protezione individuale sul mercato nazionale e internazionale”.

Insomma, se medici e infermieri sono morti perché governo o enti locali non hanno assicurato loro adeguata protezione, materiali e e mascherine, non può essere colpa delle istituzioni, ma dell’eccezionalità della situazione. Uno scudo, dunque, a protezione della catena di comando che va da Giuseppe Conte al ministro Roberto Speranza, dal commissario Domenico Arcuri al capo della protezione civile Angelo Borrelli. Fin giù, alle regioni, Lombardia, Veneto, eccetera. L’emendamento, però, nemmeno votato in commissione, è stato ritirato prima di cadere con la fiducia. Ma, a quanto si vocifera, potrebbe ricomparire come ordine del giorno oppure essere ripescato in uno dei prossimi decreti del governo.

A dir la verità, negli ultimi giorni ci hanno provato un po’ tutti. Prima la Lega, obbligata a ritirare una proposta che puntava a scagionare Regioni e aziende sanitarie per la morte di medici e infermieri contagiati. Poi, due giorni fa, il capogruppo del Pd Andrea Marcucci, costretto a trasformare in odg un emendamento a sua firma per sgravare dalla responsabilità civile le strutture sanitarie e socio sanitarie pubbliche e private per le morti dei pazienti, a meno che “non siano state provocate da dolo o colpa grave”. Tutti questi temi adesso verranno affrontati in un tavolo di prossima convocazione che vedrà impegnati i ministeri della Salute e della Giustizia, insieme alle Regioni.

Oggi a mezzogiorno, dunque, ci sarà la fiducia, con i senatori chiamati a votare in modo nominativo, sfilando sotto la presidenza. “Questo è solo un primo passo, poi ne verranno altri. Non arriveremo dappertutto, ma proveremo a non lasciare indietro nessuno”, ha detto in Aula il vice ministro dell’Economia, Antonio Misiani. “Sono solo briciole. E non avete accettato nessuna nostra proposta. La vostra arroganza è pari alla vostra incapacità”, attaccano Lega e FI. Fratelli d’Italia, invece, ha proposto l’istituzione del 27 marzo (giorno della preghiera del Papa in Piazza San Pietro) come giornata del ricordo delle vittime del Covid-19. “Sarebbe bello che l’iniziativa fosse condivisa da tutte le forze politiche”, si è augurata Giorgia Meloni.