“Il rischio c’è: ogni Paese avanti da solo, se l’Europa delude”

“Siamo in mezzo a un negoziato serrato, che si è fermato perché sulla proposta italiana e francese di un Recovery Fund, un Fondo per la rinascita, le soluzioni che ci venivano prospettate erano troppo timide e con una tempistica non immediata. Per noi il Fondo deve poter emettere bond. E poi alcuni Paesi ancora insistono sul Mes”. Così racconta il ministro degli Affari europei, Enzo Amendola (Pd), in un momento decisivo per le sorti dell’Europa. L’Eurogruppo di martedì si è aggiornato a oggi, dopo ben 16 ore di lavori. Il blocco dei Paesi del Nord, capeggiato da Olanda e Germania, ha fermato il blocco del Sud, con in testa Italia, Francia, Spagna e Portogallo. L’Italia ha minacciato il veto di fronte alla contrarietà del fronte del Nord a dire esplicitamente che il Fondo potrà emettere obbligazioni comuni europee.

Ministro, il momento è cruciale. Conte dice che se l’Europa non è all’altezza della sfida, potremmo dover fare ognun per sé. Possibile?

È un allarme, non un auspicio. Il timore è che senza una condivisione delle scelte, sotto l’urto della crisi, ogni Paese possa fare da solo.

Che è successo all’Eurogruppo?

Dopo il Consiglio europeo in cui l’Italia con Conte chiese scelte immediate, l’Eurogruppo doveva presentare delle proposte per una politica comune fiscale europea. Alcune sono state accettate, perché sono frutto del lavoro della Commissione, della Bce e della Bei. Vanno a sostegno della liquidità delle imprese e di chi rischia il posto di lavoro. Altre sono al centro di un serrato confronto. Vorrei sottolineare una cosa: a fine febbraio, quando ancora non era esplosa con violenza la pandemia, eravamo a Bruxelles con Conte a negoziare il Bilancio comune europeo. Non raggiungemmo un accordo: i giornali scrissero che c’era un blocco di Paesi per un’Europa ambiziosa e un altro blocco di governi “frugali”. Il mondo è stato completamente stravolto, ma gli atteggiamenti di alcuni paesi non cambiano.

Il Mes è ancora sul tavolo?

I “frugali”, Olanda in testa, hanno detto di considerarlo uno strumento da utilizzare con le condizioni previste dal suo Trattato istitutivo del 2012. Ma per noi quel trattato e quello strumento appartengono a un’epoca che non esiste più. E comunque, noi non lo utilizzeremo.

Conte ha detto “Mes no, eurobond sì”. Condivide?

Il premier ha confermato la linea del Consiglio: durante una crisi straordinaria servono nuove misure di una portata consistente. Proprio per questo parliamo di bond.

Un altro Mes è possibile?

Io sono un realista, non mi sono mai fatto illusioni. Molti in Europa, anche nostri alleati in questa trattativa, come Francia e Portogallo, vorrebbero utilizzare i fondi del Mes per finalità comuni, senza condizionalità. Ma mi sembra anche netta l’opposizione di chi difende le regole del Trattato.

Gli eurobond, in qualsivoglia forma, trovano una ferma opposizione da parte della Germania.

In realtà, c’è un grande dibattito. In molta parte d’Europa intellettuali, economisti, partiti e mondo delle imprese sono schierati a favore. Il presidente della Banca centrale olandese e il suo predecessore, si sono detti d’accordo.

A voi del Pd sarebbe andato bene pure un Mes con condizionalità light mentre agli M5S no. Sbagliato?

Si raccontano divisioni tra Pd e M5S, su chi è più morbido e chi più duro. So benissimo che alcuni vogliono indicare in me e altri esponenti Pd i rappresentanti di una fantomatica Troika localizzata non si sa bene dove. A leggere queste veline spesso rido. Perché la condivisione e la tensione che c’è in questo passaggio storico non hanno nulla a che fare con il passato. Senza coraggio nessuno potrebbe andare lontano.

Vi fidate della mediazione della Francia?

Questo negoziato è partito grazie alla spinta della lettera dei 9, con capofila Italia e Francia e con la proposta sul Fondo, che abbiamo condiviso. Il rapporto tra Francia e Germania ha una radice storica consolidata. La nostra politica in Europa è forte quando, oltre quel rapporto, si costruiscono scelte comuni sia a livello bilaterale con Francia e Germania, sia per unire nelle decisioni i Paesi fondatori e tutti gli altri membri.

Ma lei resta ottimista sul buon esito del negoziato?

Ci sono ancora punti interrogativi. Ma non sottovalutiamo i passi avanti: fino a due settimane fa c’era solo il Mes. Ora anche altre strade. E l’ultima parola sarà al Consiglio.

L’ultimatum del premier: “Ai bond non rinunciamo”

Il livello dello scontro lo si capisce dalle parole di inusitata durezza. Il fallimento dell’Eurogruppo di martedì e lo scontro con l’Olanda hanno lasciato il segno. E così nel pomeriggio Giuseppe Conte decide di parlare di nuovo Berlino perché l’Aia intenda. Lo fa con una video-intervista alla Bild, uno dei più popolari giornali del Paese. Il senso è tutto in una frase: “La Germania non ha vantaggi se l’Europa sprofonda nella recessione. Dobbiamo sviluppare gli strumenti fiscali necessari. Non pretendiamo che Germania e Olanda paghino i nostri debiti. In Germania potete avere tutto lo spazio fiscale che volete ma non potrete mai pensare di affrontare un’emergenza sanitaria, economica, sociale così devastante con il vostro spazio fiscale. È nell’interesse reciproco che l’Europa sia all’altezza della sfida, altrimenti dobbiamo assolutamente abbandonare il sogno europeo e dire ognuno fa per sé ma impiegheremo il triplo, il quadruplo, il quintuplo delle risorse per uscire da questa crisi e non avremo garanzia che ce la faremo nel modo migliore”. L’ultimo segnale per piegare la resistenze dei Paesi del Nord. “Non dobbiamo arretrare rispetto a Cina e Usa che mettono a disposizione il 13% del loro Pil – continua Conte – Abbiamo bisogno degli Eurobond per non far perdere competitività a tutta l’Europa. Non dobbiamo alla fine starcene lì con le mani incrociate: operazione riuscita, ma il paziente Europa è morto”.

L’uscita del premier illumina il dramma del governo alla vigilia del secondo round dell’Eurogruppo, dopo il flop di martedì. La riunione dei ministri delle Finanze dell’euro, allargata a tutti i 27 Paesi dell’Ue, è andata avanti per 16 ore senza trovare un accordo se non quello di rinviare tutto a oggi pomeriggio. Senza, non può partire il Consiglio europo che deve dare l’ok finale alla strategia comune europea. L’intesa di massima riguarda due dei tre punti sul tavolo: il maxi piano di liquidità della Banca europea degli investimenti (240 miliardi) e il fondo “Sure” anti disoccupazione proposto da Bruxelles da 100 miliardi che fornisca prestiti ai Paesi. Come è noto, il vero scontro è sul Meccanismo europeo di stabilità, l’ex fondo salva Stati. Questo strumento, già usato nella crisi greca, può fornire linee di credito per importi irrisori (2% del Pil del Paese beneficiario, 35 miliardi per l’Italia) ma con pesanti condizionalità, come accaduto ad Atene. L’Italia chiede che vengano completamente eliminate, e non sospese per qualche tempo come offre l’Olanda, che vuole che restino i vincoli attuali.

Il ministro Roberto Gualtieri si muove in un margine strettissimo. Dare l’ok a un Mes condizionato farebbe esplodere la maggioranza, visto che i 5Stelle sono contrarissimi. L’impegno a non usarlo potrebbe essere sufficiente solo se l’Eurogruppo inglobasse un quarto pilastro nel pacchetto: il “fondo di solidarietà temporaneo” che emetta debito comune proposto dalla Francia. In una delle bozze del testo finale era comparso un timido riferimento, con l’impegno a lavorare sugli aspetti tecnici nei prossimi mesi, ma è stato subito bloccato dall’Olanda (insieme alla Finlandia). L’Italia chiede che ci siano riferimenti precisi nelle tempistiche. Parigi e Berlino (a cui voleri l’Olanda è molto sensibile) fingono unità: “Mentre contiamo le morti per centinaia e migliaia, i ministri delle finanze stanno giocando su parole e aggettivi. È un peccato”, attacca il francese Bruno Le Maire. Riferimento velato al collega olandese Wopke Hoekstra.

Di tutto questo Conte, prima dell’ora di cena, ne ha parlato con il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, lo stesso Gualtieri e il sottosegretario Riccardo Fraccaro. Oggi, prima dell’Eurogruppo, torneranno ad aggiornarsi.

L’agenzia sanitaria decapitata: il pasticcio imbarazza Speranza

A oltre due mesi dalla dichiarazione dello stato d’emergenza sanitaria (31 gennaio), a 45 giorni da quando si è saputo dell’epidemia già in corso, il ministro della Salute Roberto Speranza sembra correre ai ripari per far funzionare Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. Il governo ha deciso di commissariarla e l’ha scritto all’articolo 42 del decreto sul credito. Deciderà il premier su proposta di Speranza, sentita la conferenza Stato-Regioni. Al delicato compito, con pieni poteri, potrebbe essere nominato Domenico Mantoan, capo della Sanità del Veneto del governatore leghista Luca Zaia e di recente nominato alla presidenza dell’Aifa, l’Agenzia del farmaco.

È un modo per uscire dall’impasse creata dallo stesso Speranza, lo scorso dicembre, con la rimozione del direttore generale dell’agenzia, Francesco Bevere, nominato nel 2014 dall’allora ministra Beatrice Lorenzin sotto il governo Renzi. Spoils-system, spiegarono, confortati da un parere del Consiglio di Stato. Secondo fonti qualificate dietro c’era la mano di alti dirigenti del ministero che volevano liberarsi del collega Bevere. La decisione creò malumori: il viceministro M5S Pierpaolo Sileri non era d’accordo. E ancora meno le Regioni in mano al centrodestra, alcune delle quali hanno fatto ricorso al Tar che si pronuncerà, se va bene, nelle prossime settimane. Lo stesso Bevere ha fatto ricorso al tribunale del lavoro. In attesa delle sentenze, si apprende, il ministro non poteva nominare un nuovo direttore generale, operazione comunque complessa perché fino al decreto bollinato ieri serviva l’accordo di tutte e 21 le Regioni e le Province autonome. Così è venuta fuori l’idea del commissariamento, già osteggiato da alcune Regioni che potrebbero impugnare pure quello. Molte Regioni, dalla Sicilia al Piemonte, sono contrarie. L’assessore piemontese alla Sanità Luigi Icardi aveva scritto Speranza chiedendogli di rimettere al suo posto Bevere e ora dice che “nominare un commissario è una procedura non ordinaria che avrebbe dovuto passare attraverso un’intesa con le Regioni, calpestate in nome di un inspiegabile centralismo”. Dall’Emilia-Romagna semplicemente si augurano che l’agenzia funzioni. Peraltro è stata rafforzata durante la gestione di Bevere: da meno di 100 a oltre 200 tra dipendenti e collaboratori.

Istituita nel 1993 e riformata nel 2018, Agenas ha un ruolo chiave nei rapporti tra lo Stato e le Regioni in materia sanitaria, fai consulenza tecnico-scientifica e quindi di fatto è in competizione con soggetti privati. Le consulenze sulla sanità regionale valgono decine di milioni l’anno anche se, per lo più, riguardano i bilanci. Certamente di Agenas ci sarebbe stato bisogno prima e dopo la dichiarazione di emergenza del 31 gennaio, quando c’era da verificare la capacità di risposta del servizio sanitario alla possibile diffusione del virus che aveva colpito in Cina. Benché Speranza fin dal 22 febbraio dicesse che il sistema era “pronto per qualsiasi evenienza”, nessuno sembra essersi dato la pena di verificarlo davvero tra le task force e le riunioni in pompa magna, prima al ministero e poi nel quartier generale della Protezione civile, che ha compiti diversi dalla gestione di un’emergenza sanitaria. Il governo si occupava soprattutto di aerei dalla Cina quando il virus era notoriamente arrivato in Europa (dal 24 gennaio in Francia, dal 28 in Germania). E ancora, l’agenzia sarebbe servita dopo l’esplosione dell’epidemia a Codogno (20 febbraio) quando è emerso chiaramente che il virus circolava in Lombardia già dai primi di febbraio senza che nessuno lo cercasse sul serio, essendosi il ministero limitato a tradurre in circolari le note dell’Organizzazione mondiale della sanità. Poi è venuto, dal 29 febbraio, l’impegno per rafforzare i servizi sanitari regionali e anche qui Agenas avrebbe dovuto contribuire. Ma è toccato al ministro degli Affari regionali Francesco Boccia e al commissario Domenico Arcuri.

Da una settimana chiediamo ai responsabili provvisori di Agenas, all’ufficio stampa del ministero della Salute e al portavoce di Speranza di farci sapere cosa abbia fatto e cosa stia facendo l’agenzia, quale utilità abbia avuto la sua “decapitazione” e se si intenda ripristinarne l’efficacia o al limite abolirla. Nessuna risposta. Nemmeno la conferma del commissariamento. Anche questa, purtroppo, è una risposta.

Romeo perde la causa contro Il Fatto. “Nessuna diffamazione, solo la verità”

Non è diffamatorio, citando un comunicato che definiva Alfredo Romeo “cavallo di Troia per indagare sulle più alte cariche dello Stato” nell’inchiesta Consip (leggasi il “Giglio magico” dell’ex premier Matteo Renzi), ricordare quando Cesare Previti e Marcello Dell’Utri andavano da Silvio Berlusconi a dirgli “puntano su di noi per colpire te”. Tanto più se il comunicato è stato scritto e diffuso proprio dai legali di Romeo. Denunciavano “l’uso strumentale delle accuse di 416 bis”, reato che consente di sparpagliare cimici e trojan in uffici e cellulari, ed effettuare intercettazioni che rivelarono informazioni altrimenti irraggiungibili, “in un percorso di indagine che lascia chiaramente capire quale potesse essere l’obiettivo finale di tutta l’inchiesta”. Lo scrivevano loro. Noi ci limitammo a commentarlo. Senza tracimare.

Questa, in parte, la ragione della Caporetto giudiziaria di Romeo contro Il Fatto Quotidiano, evidenziata dalle cifre della causa e della sentenza firmata dal giudice civile di Roma Simona Rossi. L’immobiliarista campano ci aveva chiesto un risarcimento di ben 100.000 euro. Motivo? Si riteneva diffamato da una campagna stampa a suo parere persecutoria e consistente in cinque articoli pubblicati tra il 7 e il 17 gennaio 2017. Alcuni dei quali a firma di Marco Lillo e di Valeria Pacelli. Ma Romeo ha perso e dovrà risarcirci di 21 mila euro circa di spese di lite, comprensive degli onorari dei nostri avvocati, Caterina Malavenda e Valentino Sirianni.

Insomma, una batosta. Succede. Soprattutto a leggere le 13 pagine di motivazioni, succede quando si promuove un’azione legale per articoli ed editoriali che riportano fatti veri, notizie documentate, circostanze precise e critiche legittime. Il giudice lo sottolinea così tante volte che chi si dovesse trovare tra le mani la sentenza, sarebbe autorizzato a chiedersi perché mai Romeo si sia avventurato in una causa che appariva persa in partenza. E promossa in tempi record: 10 giorni dopo l’uscita dell’ultimo degli articoli contestati.
Tra i quali un’analisi di d’Esposito e un editoriale del direttore Travaglio dal gustoso titolo “Romeo e Giulietta”. Sui quali il giudice valuta la continenza delle analogie tra Romeo, Previti e Dell’Utri. Pura critica. Il giudice valuta positivamente anche la continenza del linguaggio adoperato. Per il resto, si limita a dire che le notizie di cronaca giudiziaria erano vere. E non è poco.

Regalone olimpico: quasi niente tasse per i super manager

L’Italia è paralizzata dall’emergenza coronavirus, milioni di lavoratori sono a casa in attesa di indennizzi per cui i soldi stanziati non bastano mai, ma è sempre tempo per fare un “regalo olimpico”: niente tasse (o quasi) per i super manager dei Giochi invernali 2026. Milano-Cortina diventerà una specie di “paradiso fiscale” in territorio italiano, dove chi lavorerà per il Comitato organizzatore pagherà imposte solo sul 30% del proprio stipendio per ben 7 anni, il resto sarà tutto guadagno netto. Per loro. Per lo Stato invece è un salasso da 50 milioni di euro.
Proprio in questi giorni il Parlamento a scarto ridotto deve convertire in legge il decreto Olimpico varato a febbraio come una pura formalità burocratica, salutato dagli organizzatori con entusiasmo. Adesso si capisce meglio il perché: oltre a costruire l’impalcatura della Fondazione privata che gestirà l’evento e a contenere le noiose norme che consentiranno il suo funzionamento, nel testo era stata infilato pure un altro piccolo passaggio, passato quasi inosservato, che farà la fortuna dei beneficiari. Il comma 6 dell’articolo 5 prevede che “i redditi da lavoro dipendente nonché quelli assimilati derivanti dagli emolumenti corrisposti dal Comitato organizzatore, per il periodo intercorrente tra il 1° gennaio 2020 e il 31 dicembre 2026, concorrono alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 30% del loro ammontare”. Tradotto: meno tasse per tutti.

“Parziale esenzione Irpef”, così la chiamano. Il pretesto è la parte dell’host city contract firmato dall’Italia in cui il governo si impegna ad applicare una tassazione che permetta al Comitato di raggiungere i suoi obiettivi. Una condizione di cui a Palazzo Chigi hanno dato curiosa interpretazione: l’obiettivo era sgravare dalle imposte i contributi forniti dal Cio, favorire la realizzazione delle opere, non permettere a chi ne sarà a capo di pagare meno tasse. Qualcuno obietterà che in questo modo la Fondazione potrà offrire stipendi più bassi, facendo leva sulla tassazione vantaggiosa, e risparmierà. Chissà se andrà davvero così. Alcuni compensi sono già stati pattuiti, contratti firmati. E anche se così fosse, si tratterebbe comunque di spostare un costo dal privato (il Comitato) al pubblico (lo Stato).

Giovanni Malagò, presidente della Fondazione, ha già detto che rinuncerà al suo compenso.
Ma per gli altri come funzionerà? Quando il ddl sarà approvato e diventerà legge (la settimana prossima il primo passaggio in Aula alla Camera), comincerà la corsa a capire chi e come rientrerà nello sgravio. A partire da Vincenzo Novari in giù, il manager scelto come amministratore delegato del Comitato, per circa mezzo milione l’anno (la cifra esatta non è mai stata comunicata, una Fondazione privata ha pure questo vantaggio). Ma sono diversi i dirigenti già arruolati, ancor di più quelli che lo saranno in futuro, di qui al 2026, e poi tutti i dipendenti. Quanti di preciso non si sa.

Su questo la legge non è chiara, infatti il dossier elaborato dai tecnici della Camera dei deputati non manca di farlo notare: il decreto “non indica espressamente il numero dei possibili beneficiari, ma fornisce una stima dell’ammontare complessivo dei redditi, (…) peraltro non sono evidenziate le ipotesi ed i dati alla base della stima”. Insomma, si dice quanto, ma non perché e per chi. E ci sono dubbi pure sulle coperture. L’unica certezza è che a Milano contano di assumere tanta gente e di pagarla bene, visto che il provvedimento è parecchio oneroso. Per lo Stato si tratta di mancati introiti che vanno da un minimo di mezzo milione già nel 2020, cioè adesso, quando il Comitato appena costituito non ha ancora fatto praticamente nulla, ad un massimo di 16,5 milioni nel 2025, l’anno di preparazione ai Giochi, il più intenso, anche di spese. Complessivamente, fanno 50 milioni di euro. Spicciolo più, spicciolo meno, è la stessa, identica cifra che il governo è riuscito a stanziare per gli indennizzi a tutti i collaboratori del mondo dello sport. Ma evidentemente non tutti i lavoratori sono uguali. Far parte della squadra di Milano-Cortina sarà davvero un privilegio.

Così hanno smontato la vigilanza sui viadotti

Il crollo del ponte di Genova con i suoi 43 morti non ha insegnato nulla all’Anas. Il banale buon senso avrebbe dovuto indurre i capi dell’azienda delle strade a moltiplicare per mille la cura e le attenzioni su ponti e viadotti. Hanno fatto il contrario: ai tempi in cui era amministratore Gianni Armani avevano organizzato una struttura di vigilanza, l’Unità di controllo di viadotti e gallerie per la diagnosi e il monitoraggio delle cosiddette “opere d’arte”. Il successore di Armani, Massimo Simonini, ha smantellato quell’ufficio invece di rafforzarlo. L’aspetto paradossale è che prima di diventare il numero uno dell’azienda, proprio lui, Simonini, lavorava in quella struttura, anche se in una posizione defilata. Sopra di lui c’erano due dirigenti, Fulvio Maria Soccodato e Ugo Dibennardo. Simonini ha fatto fuori entrambi: a Soccodato ha affidato un altro incarico mentre Dibennardo è stato spedito a Venezia a occuparsi delle autostrade venete.

Sulla carta la struttura Anas per il monitoraggio dei ponti esiste ancora, ma a guidarla c’è un semplice funzionario, Paolo Mannella, che in teoria dovrebbe impartire indicazioni ai 16 capi di compartimento dell’azienda delle strade, tutti quanti con un grado gerarchico parecchio superiore al suo. Ovvio che così congegnata la struttura stia slittando e il risultato è che di controlli sui ponti l’Anas ne faccia pochi. Le ispezioni effettuate davvero nel 2019 sono state molte meno di quelle programmate: appena 1.491 su 4.991 secondo quanto ha rivelato a gennaio in un’interrogazione la deputata di La Spezia Raffaella Paita. L’Anas continua ad assumere dipendenti di ogni tipo, ma zero ingegneri strutturisti, cioè tecnici specializzati per le verifiche di ponti, gallerie e viadotti. Per una volta tanto non è una questione di soldi che non ci sono, anzi, il governo l’altr’anno con l’Anas è stato generoso aumentando parecchio la sua dotazione finanziaria. Le carenze sono piuttosto il frutto di scelte aziendali e a questo punto la posizione di Simonini che già era pericolante si fa sempre più delicata. Il crollo del ponte di Aulla si inserisce in questo contesto, aggravato da una serie di scelte specifiche relative al compartimento toscano.

Con l’avvento di Simonini l’Anas è stata per mesi e mesi come in un limbo, con la maggioranza dei dirigenti concentrati sul loro ombelico più che sulla cura delle strade, tutti presi dalla riorganizzazione interna con gli immancabili spostamenti, carriere, nomine. L’impalcatura aziendale è stata stravolta dal nuovo amministratore che anche in questo aspetto ha rifiutato l’impostazione del predecessore Armani, il quale dopo lo choc degli scandali a ripetizione collegati alla Dama Nera aveva scelto la strada dell’accentramento sostituendo i compartimenti con 4 macro aree: Nord, Centro, Sud e Isole. Simonini ha rifatto nascere i compartimenti con la conseguente girandola di incarichi, promozioni e bocciature.

Al Fatto risulta che l’Anas non abbia neanche un censimento aggiornato dello stato dei ponti e viadotti di sua competenza, soprattutto dopo che il cosiddetto “federalismo fiscale” ha parecchio complicato il quadro di riferimento. Ai tempi della sbornia federalista molte migliaia di chilometri di strade passarono dalla gestione Anas a quella delle Regioni e queste arterie andarono ad affiancare le strade comunali e quelle delle Province. Ma nel frattempo le Province sono state cancellate e le strade che le Regioni avevano reclamato vengono in molti casi restituite all’Anas, spesso in condizioni peggiori di quando le avevano ricevute.

Per l’Anas andava tutto bene: otto mesi dopo crolla il ponte

Un lieve tremore, poi il boato. “Sembrava un terremoto” raccontano i residenti. E invece no, era il ponte crollato come un domino: una campata dopo l’altra. Per 300 metri, fino all’altra sponda del Magra. In un attimo, alle 10.20 del mattino, il ponte di Albiano (Aulla) che collegava la Toscana con la Liguria e le province di Massa e La Spezia, non c’era più. Sbriciolato come un grissino. Prima del lockdown, ogni giorno sopra il ponte della statale ci passavano centinaia di mezzi, anche pesanti, perché è uno snodo fondamentale verso i piccoli Comuni della Lunigiana e soprattutto verso la Liguria.

Ieri mattina su quel tratto della SP70 stavano passando due furgoni con due persone a bordo: il primo incredibilmente illeso è sceso dal mezzo con le proprie gambe mentre il secondo, Andrea Angelotti, è finito all’ospedale di Cisanello (Pisa). Non è in pericolo di vita: “Non so se devo operarmi, volare da un ponte che sta crollando non è il massimo”, ha rassicurato. Secondo il governatore della Toscana Enrico Rossi, che ha chiesto lo stato di emergenza, “poteva essere una tragedia”. “Il ponte ballava – racconta Marco Lenzoni, che abita lì vicino – Se fosse successo in un momento normale ci sarebbero stati più morti che a Genova”.

Eppure, era un crollo annunciato. Da anni i residenti pubblicavano sui social le foto del viadotto che iniziava a sgretolarsi, fino all’ultima denuncia del novembre scorso: crepe fino a 20 centimetri di profondità, massi che cadevano, vibrazioni al passaggio dei mezzi pesanti: “Ho iniziato a scrivere all’Anas dopo il crollo del ponte Morandi – racconta il sindaco di Aulla, Roberto Valettini – ma gli ingegneri mi dicevano che andava tutto bene”. Dall’agosto del 2018, sono 5 in tutto le lettere mandate dal sindaco all’Anas: la prima è di due giorni dopo il Morandi, la seconda del 30 luglio 2019 per sollecitare interventi, fino alla terza dell’8 agosto scorso. “Facciamo seguito ai colloqui verbali – si legge nella missiva – nel corso del quale venivamo rassicurati circa la tenuta del tratto Aulla-bivio ponte Albiano nonché del ponte stesso per invitarvi a un ulteriore sopralluogo e verifica più approfondita, atteso che il ponte è abnormemente sollecitato dal transito forzato dei mezzi anche pesanti”.

Ma dall’Anas ostentavano tranquillità: “Il viadotto Albiano non presenta criticità tali da compromettere la sua funzionalità statica – si legge nella lettera (pubblicata in pagina, ndr) – sulla base di ciò non sono giustificati provvedimenti emergenziali per il viadotto stesso”. Inascoltate saranno le due successive richieste del novembre scorso, dopo che l’ondata di maltempo aveva provocato una profonda crepa all’imbocco del viadotto: “Vi è una grossa preoccupazione sullo stato del ponte” scriveva il sindaco Valettini chiedendo ulteriori approfondimenti. Ma dopo un sopralluogo e il rattoppo della crepa con un “conglomerato a freddo” (il catrame per chiudere le buche), era stato deciso di non interrompere la circolazione. “Il ponte ballava” racconta Lenzoni.

Il ministero delle Infrastrutture e Anas hanno aperto due commissioni d’inchiesta interne e l’ente stradale ha confermato la sua versione: “A partire dal 2019, il ponte è stato oggetto di sopralluoghi e verifiche periodiche, anche rispetto a segnalazioni degli enti locali, che non hanno evidenziato criticità”. La gestione del ponte spetta dal 2018 all’area compartimentale Toscana guidata da Stefano Liani a cui, per sei mesi dal maggio 2019, era subentrato ad interim l’ingegnere Vincenzo Marzi prima di essere trasferito a Bari. Ora la Procura di Massa ha sequestrato l’area e aperto un’inchiesta contro ignoti con l’accusa di disastro colposo: secondo fonti della Procura, la polizia giudiziaria sta facendo accertamenti sui responsabili Anas che negli ultimi anni si sono occupati della manutenzione del ponte.

Sblocca cantieri, il no della Cgil. “Inutile ritorno ai tempi di B.”

Il quesito non se l’è posto il governo, ma la Cgil: siamo sicuri che dietro gli appelli a sbloccare a tutti i costi i grandi cantieri non si nasconda la voglia di liberare gli spiriti animali del partito del cemento? Il sindacato guidato da Maurizio Landini ha deciso di prendere posizione dopo il profluvio di interviste di politici e imprenditori che chiedono di mettere da parte il codice degli appalti ed estendere il “modello Genova” per fronteggiare la crisi da coronavirus. Da Vincenzo Boccia (Confindustria) al suo probabile successore, Carlo Bonomi, dal governatore ligure Giovanni Toti all’ex ministro Pier Carlo Padoan. È tornato a parlare perfino l’ex ras delle grandi opere, Ercole Incalza, per 15 anni vero boss del ministero delle Infrastrutture, per chiedere il ritorno alla “legge Obiettivo” del 2001 (governo Berlusconi, ministro Lunardi) che lui pensò e che Raffaele Cantone definì “criminogena”. Ma il portabandiera dell’offensiva è il viceministro alle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri (M5S) che vuole accelerare col “modello Genova” i cantieri di Anas e Ferrovie, parlando di “109 miliardi già stanziati che la burocrazia impedisce di spendere”.

La federazione dei lavoratori delle costruzioni, la Fillea Cgil, ha stilato un dossier (“nuovo codice degli appalti #bastabufale”) per dimostrare che l’assalto cela “la volontà di eliminare i paletti che impongono alle imprese il rispetto di regole e diritti”. Secondo il sindacato guidato da Alessandro Genovesi il modello usato per ricostruire il Ponte Morandi di Genova – un commissario che agisce in deroga a tutto, specie al codice degli appalti del 2016, e affida gli appalti senza gare – non può essere esteso: “Sta al codice degli appalti come il condono fiscale, e sta al lavoro come le colate di cemento all’ambiente”.

La prima domanda è: i numeri giustificano la fretta di sbloccare? Non sembra. Il codice degli appalti non ha paralizzato il mercato. È vero che per molti mesi ha rallentato il settore, trattandosi di una riforma profonda (e con vari difetti), ma ora i dati mostrano una netta ripresa. Nei primi 10 mesi del 2019 sono cresciuti gli incarichi tra i 100 e i 200 mila euro (+9%) e quelli di importo superiore (+26%), sia per numero di bandi che per valore totale. Già nel 2018 il numero delle gare era salito del 26,5% (a 23.338 bandi) così come l’importo totale delle opere oggetto di procedura (31,7 miliardi, +30,8%). Anche le aggiudicazioni sono cresciute: del 5,5% quelle totali e del 34,4% quelle sopra il milione di euro (da 1.717 a 2.307). A crescere di più sono stati proprio gli appalti sopra il milione di euro, quelli non toccati dalla deregulation dello Sblocca cantieri dell’aprile 2019. Secondo la Fillea, quel decreto del governo gialloverde (ministro Danilo Toninelli) non ha accelerato la cantierizzazione delle opere: ha prodotto invece il rinvio di 1250 bandi. Non solo. Ha reso prevalente il criterio dei massimo ribasso invece dell’Offerta economicamente più vantaggiosa, e i ribassi d’asta medi sono saliti dal già alto 28,6% al 36,2%: “Ribassi così forti si riflettono in risparmi sulla qualità dei materiali, su salute e sicurezza e su tempi più lunghi di pagamento dei salari”.

“Estendere il modello Genova archiviando il codice appalti serve a tornare di fatto alla legge Obiettivo – spiega Genovesi al Fatto – ma non è vero che funzionava, anzi”. Secondo il dossier Fillea, in 15 anni di operatività è stato realizzato poco più del 15% delle opere sognate, e meno di un terzo degli investimenti programmati, lasciando una lista di 603 opere che non saranno mai completate. Le semplificazioni si basavano su idee criminogene come quella che il general contractor, realizzatore dell’opera, si scegliesse il direttore dei lavori, che dovrebbe controllare costi e buona esecuzione nell’interesse del committente; o la possibilità di esternalizzare fino al 100% dei lavori e di effettuare varianti in corso d’opera. “Il costo delle opere è salito del 69% – spiega la Fillea – con 15 grandi opere che alla fine sono costate più del doppio”. Un esempio è la Metro C di Roma, altra grande incompiuta.

Per la Fillea serve invece concentrare gli sforzi verso il vero mercato utile a far ripartire il Paese dopo la pandemia, dando un “corsia veloce” alle opere piccole e medie dei Comuni, specie quelle rivolte alla mobilità urbana, alla riqualificazione del patrimonio pubblico e alla rigenerazione, anche ampliando sgravi e incentivi legati all’edilizia privata (che vale 50 miliardi l’anno) e legandoli al rispetto dei diritti nei cantieri. Insomma, vanno velocizzati i tempi, non con i commissari ma diminuendo le stazioni appaltanti, aumentando il personale tecnico (ridotto negli ultimi 15 anni di 15 mila unità) e prevedendo meccanismi di silenzio assenso.

Le grandi aziende pubbliche come Anas e Rfi dovrebbero anticipare dal 30 al 50% i pagamenti dei lavori avviati per evitare il fallimento delle aziende. “Sono scelte di politica industriale, da cui si capirà che Paese vogliamo diventare. Se vogliamo più sviluppo o semplicemente meno regole”, conclude Genovesi.

De Luca Terminator, Toldo all’Eurogruppo e Renzi nel “plateau”

Stare a lungo in casa, se non altro, pare stimoli la fantasia. Almeno quella di chi in questi giorni sta riempiendo il web – per lavoro o per diletto – di meme, vignette e battute satiriche per alleggerire la quarantena. Ecco una rassegna delle migliori battute (foto o testo) trovate online.

In Quarantena
Enigmistica

L’anagramma di “duemilaventi” è “multe e divani”. Coincidenze?

Fase 2

È iniziata la fase 2. Pare sia uguale alla 1, ma col pigiama a maniche corte.

Trattarsi bene

La pazzia è avere un colloquio su Skype e per fare bella figura ti metti un po’ di profumo (@_iaci).

Come si cambia

2019: stare lontani dalle persone negative. 2020: stare lontani dalle persone positive.

Passatempi

Non è noioso stare a casa, però come può essere che in un pacco di riso da un chilo ci siano 2879 chicchi e in un altro 2811?

Effetti collaterali

“Trovato, è a casa”. Puntata di Chi l’ha visto dura 5 minuti (Lercio).

 

A caccia di soldi
Do you remember?

Agli olandesi che ancora ci parlano di rigore, noi rispondiamo con due sole parole: Francesco Toldo(Socialisti Gaudenti).

C’è il trucco

Conte annuncia una manovra da quattrocento miliardi: “Torniamo alla lira”. (Il Mago di Floz, Spinoza)

Piccolo ostacolo

Conte annuncia una manovra da 400 miliardi. Basta fare domanda all’Inps (Paul Ince, Spinoza).

Amara realtà

A fuoco la casa di Mario Draghi. Vale come verbale dell’ultimo incontro dell’Eurogruppo (Pirata21, Spinoza).

 

Governo e opposizione
A gonfie vele

Azzolina: “La didattica a distanza sta funzionando”. Oh, in effetti tutti promossi (Pirata21, Spinoza).

Arrivederci Capitano

Salvini: “Per la ricostruzione ci sarà bisogno dei migliori”. Che addio strappalacrime! (Antonio Carano, Spinoza).

La curva scende

I sondaggi danno Renzi all’1,9 e Salvini al 26%. Si trovano entrambi sul plateau (Giuseppe Damiano Pala).

Qualcosa non torna

Conte si era presentato come l’avvocato degli italiani e siamo finiti tutti ai domiciliari. Mi sa che deve cambiare mestiere (Andrea Cerri).

Li abbiamo visti tutti

Negli Usa il numero degli infettati è balzato a 400.000 (il più alto del mondo) e quello dei morti a 13.000. Zaia, ma quanti topi vivi mangiano questi americani? (Italo 42).

Habitat naturale

Salvini prega con Barbara D’Urso. In tempi di quarantena la natura si riprende i suoi spazi: i delfini in Sardegna, i cigni a Venezia, gli scoiattoli a Milano e gli sciacalli in tv (Bizio, Spinoza).

 

Problemi quotidiani
Possibili scenari

Immagino la mia maturità: io che cerco di esporre; il cane che abbaia; mia mamma che urla a mio fratello di alzarsi; mio padre che mi sfotte da dietro il pc; mia nonna che pensa che parli con lei e mi chiede di ripetere (Hakuna Matata).

Occhio alla truffa

Sms truffa con falso messaggio Inps: “Il sito è accessibile” (Pirata21, Spinoza).

Iniziano i guai

Protezione Civile: “Entro il 13 aprile l’Italia potrebbe esaurire tutte le battute sulla quarantena” (Lercio).

Giochi, disegni, filastrocche e i “viaggi” con Camus e PPP

Visto che dobbiamo “stare a casa”, chi vuole condividere con gli altri la sua vita in quarantena può farlo sulle pagine del Fatto. Siamo una comunità e mai come oggi sentiamo l’esigenza di “farci compagnia” sia pur a distanza. Come i giovani che, nel Decameron di Giovanni Boccaccio, si riunirono per raccontarsi novelle durante la peste di Firenze. Inviateci foto, raccontateci cosa fate, quali libri, film e serie tv consigliate all’indirizzo lettere@ilfattoquotidiano.it. Ci sentiremo tutti meno soli.

 

Il virus mi ha bloccato dopo un anno di studi

E così, dopo aver passato gli esami d’ammissione, arriva la sospensione dei corsi formativi! Una scuola della durata di un anno, quella che prevede il Corpo Nazionale del Soccorso Alpino e Speleologico, prima di entrare operativi nella grande famiglia. Fra valli e montagne, oramai off limits, non ci resta che la ricerca dell’equilibrio (più mentale che fisico).

Luca Bertoletti

 

Quando tutto finirà, servirà un mondo diverso

Dopo l’iniziale quasi ironico modo con cui è stata accolta la clausura per combattere il coronavirus, ci accorgiamo quanto sia difficile vivere senza poter fare le cose più semplici a cui l’essere umano è istintivamente portato. Non poter camminare liberamente all’aria aperta, parlare con le altre persone, salutarsi con una stretta di mano, scambiarsi un abbraccio e naturalmente fare il proprio consueto lavoro. Quando sarà finita, speriamo presto, questa calamità sanitaria, dovremmo far tesoro di questa tragica esperienza dando il giusto valore a tutto ciò che in questo periodo ci è mancato. E i governanti, tutti, dovranno avere il coraggio di intervenire sui meccanismi economici che hanno portato a una dissennata devastazione del nostro pianeta, dando priorità alla prevenzione e alla tutela della salute dei cittadini, al lavoro, ad assicurare a tutti un minimo di sopravvivenza economica. Con la consapevolezza, e ciò vale anche per l’Unione europea, che nessuno può pensare di salvarsi da solo e che la solidarietà, economica e sociale, oltre che una virtù in questo momento è anche una necessità.

Loris Parpinel-Prata

 

La mia nuova giornata e la mia nuova umanità

Prima dell’emergenza sanitaria la mia giornata tipo era di sveglia alle 6,30, uscita con i cani, poi di corsa a casa per riuscire a fare lo stretto necessario, molto stretto, quasi mai lettura dei quotidiani, men che meno attività fisica. Viaggio di 12 km per arrivare in ufficio con l’auto, secondo caffè e il solito lavoro che mi aspetta. Poco spazio per altro. Si fanno le 19, e anche oltre. Si ritorna a casa, si cena con quasi zero chiacchiere, siamo troppo stanchi, e si va, chi a letto e chi sul divano. Dopo poco si è già in balia del sonno, che sembra dolce, invece è un sonno traditore che ti ruba la vita. Idem il giorno dopo, e ancora, ancora fino a non farci più caso, come fogli di carta sovrapposti dove c’è scritta sempre la stessa cosa. Oggi le cose sono un po’ cambiate. Mi sveglio un’ora più tardi. Ascolto musica mentre faccio colazione. Lavoro con calma. Posso viaggiare di brutto: le mie letture mi portano nei posti più disparati del mondo, Camus mi porta in Algeria, Padre Maggi nelle campagne del centro Italia, Pasolini in un vissuto di 50 anni fa. Il pomeriggio faccio ginnastica. A cena tv spenta e un po’ di musica. Adesso ho una serata tutta per me, posso andare al “cinema”, seguire dibattiti, ammirare il cielo stellato, ributtarmi nella lettura. Morale: è mai possibile che per stare bene dobbiamo prima stare male? È vero, a questa giornata mancano le relazioni umane che sono belle e fondamentali, ma quanti di noi le vivono con pienezza? L’abitudine fa diventare normale quello che non lo è, ci adattiamo a degli stili di vita che sono del tutto innaturali, e che somigliano molto a degli stati di “schiavitù” resi necessari. Spero che questo periodo di sacrifici ci insegni qualcosa: imparare di nuovo a vivere appieno la nostra umanità.

Aniello De Gennaro

 

Faccio finta che sia un gioco

Giro giro tondo/ per davvero cascò il mondo/ e fu buio sulla terra/ come al tempo d’una guerra/

Tutti in casa e ben distanti/ con le maschere ed i guanti/ niente scuola ne’ vacanze/ stiamo chiusi nelle stanze/

Noi bambini in casa nostra/

siamo come su una giostra/

che non va ne’ su ne’ giù/

e non ne possiamo più/

Penso ai letti di ospedale/ a chi adesso starà male/ e mi sale la tristezza/ ci vorrebbe una carezza/ Faccio finta che sia un gioco/ ma speriam che duri poco!

Andrea Maestri