Tracciamenti con app: pronta la relazione per il governo

Un’app sul telefono che non identifichi la posizione delle persone, ma che sappia solo se siano state in contatto: questa, di base, l’idea di cui ha riferito ieri in commissione Trasporti la ministra dell’Innovazione, Paola Pisano, sul funzionamento del contact tracing digitale. In pratica, i cittadini scaricano l’app che crea un registro dei contatti in cui ci sono tre informazioni: qual è il dispositivo con il quale sono stati in contatto, a che distanza e per quanto tempo. “Nel caso in cui un cittadino fosse identificato come positivo, l’operatore medico autorizzato dal cittadino positivo, attraverso l’identificativo anonimo dello stesso, fa inviare un alert per informare tutti gli utenti identificati in modo anonimo che vi sono entrati in contatto”. Gli identificativi dei telefoni dovranno essere anonimizzati, il codice sorgente aperto e i dati dovranno essere custoditi – e solo per la durata dell’emergenza – da un soggetto pubblico che, però, ammette la stessa Pisano non è ancora stato identificato. Inoltre, l’adozione della app dovrà essere su base volontaria. Insomma, sul tracciamento si è arrivati a un punto, in linea oltretutto con gli indirizzi della Pan-European Privacy Preserving Proximity Tracing Initiative (a cui però ancora il governo non ha aderito formalmente, come invece fatto da Germania e Francia). In queste ore sarà consegnata al governo la relazione elaborata dal gruppo della task force che ha esaminato le proposte e che conterrà anche la short list delle “papabili”. Sarà però Conte a decidere se e come utilizzarle, il Garante della Privacy, Antonello Soro, ha sottolineato che è bene che ci sia almeno un decreto legge. Dopo di che bisognerà vedere se i propositi resisteranno in fase di implementazione. Un dato è certo: affinchè il tracciamento sia efficace, c’è bisogno che la app sia scaricata da almeno il 60% della popolazione, in un’Italia in cui almeno 10 milioni di persone non hanno mai avuto accesso alla Rete.

Gli Oscar dei furbetti in treno. Le scuse viaggiano su rotaia

Bari, stazione centrale. Gli agenti della polizia ferroviaria fermano un cinquantenne di Taranto, residente a Lecce, appena arrivato da Roma con un treno Frecciargento. Giustificazione dello spostamento: “Torno da mia madre che ha problemi di salute”. Uno sguardo ai documenti. È latitante da sei mesi. Pena da scontare 2 anni e 27 giorni. Il reato? Maltrattamenti in famiglia. E in famiglia voleva tornare. E’ finito dritto in carcere.

Quello che avete letto è il resoconto di uno dei 380 mila passeggeri controllati, dal 9 marzo a oggi, da ben 2.500 agenti della Polizia ferroviaria. Risultato: 3.400 sanzioni. Volendo restare sulle cifre, si contano ben 7 ricercati arrestati durante i controlli. Un altro dato che racconta la frontiera delle stazioni: 130 agenti colpiti dal virus, la maggior parte a Roma e Milano, tra i quali per fortuna solo pochi ricoverati e nessuna vittima. Ma lasciamo i numeri e passiamo in rassegna una serie di casi in cui la polizia ferroviaria s’è imbattuta in questi giorni. Ecco a voi il mattinale del lockdown ferroviario.

Milano, una donna si presenta in stazione per prendere il treno. Indossa la divisa della Protezione civile. Piccolo dettaglio: non ne fa parte da 5 anni.

Sempre Milano. Uomo fermato in stazione: “Perché è qui?”. “Devo chiedere l’elemosina”. Un altro che arriva da un’altra regione: “Sono venuto a trovare la mia fidanzata: è psicologicamente debilitata”.

Torino, una donna dichiara di essersi recata in stazione per fare shopping: “Dove abito io è tutto chiuso”. Padre, madre e figlio bloccati in stazione mentre tentano di partire per Napoli: prima raccontano di dover partire per assistere un altro figlio che s’è rotto una gamba, poi dicono che il padre è diabetico e ha bisogno di cure. Infine desistono.

Alessandria, in stazione c’è un uomo profumatissimo, elegante e con una rosa in mano. Argomentazione: è stato costretto a uscire dall’amante per incontrarla. Altrimenti l’avrebbe lasciato.

Genova, un uomo racconta di essere in stazione per acquistare nell’annesso negozio indumenti intimi, nella specie mutande, di ottima qualità. Un ragazzo racconta di essere arrivato per lavoro, poiché dipendente di un albergo della città. Vero. Cioè, è vero che trattasi di dipendente di un hotel. Ma a Padova. Poi confessa: s’è spostato per far visita alla fidanzata.

Bologna, un’intera famiglia – madre, padre e tre figli minorenni – torna dalla Puglia in direzione Lombardia. Sono stati già denunciati alle stazioni di Pescara, Taranto e Termoli.

Ancona, un uomo di 52 anni ha dichiarato di essersi recato nelle Marche per stabilirsi lì: cerca occupazione. A Foligno una signora viene fermata mentre scende dal treno: racconta di essere lì per fare la spesa. Dal controllo sull’indirizzo di residenza si scopre che c’è un supermarket aperto proprio sotto casa.

Roma stazione Ostiense: un ragazzo viene denunciato perché ha dichiarato di voler andare a trovare la sua fidanzata. Ne ha almeno due: in mattinata è già stato sanzionato dai carabinieri di Montelibretti per il medesimo motivo. Sempre a Roma, una donna deferita all’autorità giudiziaria: dice di essere in stazione per necessità fisiologiche.

Pescara, sanzionato un trans che a causa di “assenza di lavoro” vuole andare a Roma con il treno. L’Aquila, uomo sanzionato invece perché vuole portare il suo cane a Prato. Dalla zia.

Napoli, denunciato un cittadino italiano di 26 anni proveniente da un’altra provincia: approfittando dell’epidemia in corso, e senza temere il rischio del contagio, viaggia con 200 mascherine di protezione destinate alla vendita abusiva. Denunciato un ragazzo che dichiara: “”Devo andare al Monte dei Pegni per riscattare dei gioielli di famiglia”. Sostiene che i suoi nonni e i suoi bisnonni, tempo addietro, in un momento di difficoltà economica, erano stati costretti a impegnarli. Ma ora lui è diventato ricco e può finalmente ritornare in possesso dei suoi ricordi più cari.

Catania, un uomo a bordo di un convoglio giunto in stazione, vedendo che le porte non si aprono, tenta di scendere dal finestrino. Sul marciapiedi, ad attenderlo, c’è la sua compagna. Lo aspetta con numerosi bagagli. I due, originari del Siracusano, dichiarano ai poliziotti che devono andare a Palermo a casa della madre della donna. Va segnalato che l’uomo, una settimana prima, era stato denunciato a Siracusa. Per lo stesso motivo.

Palermo, un uomo è stato denunciato perché giunto in stazione per andare a trovare la sua fidanzata. Ragione dello spostamento: “Esigenze sessuali”.

Gli anziani liberano 22 posti, la Rsa si riconverte

Solo due chilometri separano il centro storico del Comune di Albino da quello di Nembro, che insieme al vicino Alzano Lombardo è stato uno degli epicentri dell’epidemia di Covid-19. Ed è qui, nella Valle Seriana, in provincia di Bergamo, che si trovano sette delle quindici case di riposo lombarde che fino ad ora hanno aperto a pazienti Covid. Tra queste c’è Casa Honegger, dell’omonima fondazione. Struttura storica. Ha 140 posti letto, altri 60 nella casa protetta. In marzo, tra i suoi anziani ospiti, ha contato 48 morti, sugli oltre 600 registrati nella provincia bergamasca. “Molti sono deceduti dopo aver manifestato sintomi riconducibili al coronavirus”, conferma la direttrice sanitaria Tiziana Mosso. Casa Honegger aveva un reparto isolato dal resto della struttura. E, dopo i tanti decessi, molti posti liberi. Oggi quel reparto è un’area Covid con 22 letti. Da ieri ha iniziato a ricoverare pazienti che arrivano da ospedali e case di cura private della zona. Tanti hanno ancora bisogno dell’ossigenoterapia. Di loro si occupa una equipe costituita da dieci tra medici e infermieri. “Poi ci siamo avvalsi di consulenze in materia di sicurezza sanitaria, ci ha aiutati anche il servizio di Infettivologia dell’ospedale di Bergamo Papa Giovanni XXIII: per noi è stato un dovere morale”, spiega Mosso, la quale si augura però che anche il rimborso atteso dalla Regione sia equiparato a quello previsto per i reparti ospedalieri, che vengano cioè “riconosciuti anche tutti i costi aggiuntivi che questa emergenza richiede, dall’anticipazione dei farmaci ai Dpi per il personale”. Tutto sulla base dell’ordinanza con la quale Attilio Fontana e la sua giunta hanno disposto il trasferimento di pazienti Covid nelle Rsa dotate di strutture autonome, anche sul piano organizzativo, per liberare posti negli ospedali. Operazione facile? Non proprio secondo il presidente dell’Ordine dei medici di Bergamo Guido Marinoni. “Di fronte alla scarsità di bombole Fontana ha puntato sulle case di riposo perché, come agli ospedali, hanno la distribuzione di ossigeno – dice Marinoni –. Ma se isolare un reparto è semplice, dato che basta alzare due muri, molto meno semplice è la rigida separazione degli operatori sanitari dell’area Covid dal resto del personale. Operazione complessa, quasi impossibile. Peraltro in strutture che sono state abbandonate vergognosamente, la Regione non ha provveduto a rifornirle di dispositivi di protezione individuale, tutto il territorio ne è rimasto privo”.

Troppi morti, pochi tamponi: la paura è a ovest del Ticino

C’è un luogo a ovest di Milano dove non è improbabile che qualcuno, tutte le mattine, si svegli maledicendo il giorno in cui, 11 mesi fa, ha vinto le elezioni. Non sappiamo se il governatore del Piemonte Alberto Cirio (e con lui i membri della sua Giunta) lo faccia veramente. Se fosse, tuttavia, sarebbe umano. Già, perché il presidente piemontese di centrodestra non ha nulla da “invidiare” ai suoi omologhi Fontana e Zaia. Con una differenza sostanziale. A Torino, anche un’epidemia può essere sabauda, quindi discreta. Eppure qui i numeri sono da tempo allarmanti, ma un “caso Piemonte” stenta a palesarsi.

A ovest del Ticino si è ormai infatti stabilmente al terzo posto nella triste graduatoria regionale del Covid-19. E se per il momento la Lombardia sembra lontana, i numeri piemontesi, dopo avere distanziato sotto vari parametri quelli del Veneto, rischiano, se la tendenza di crescita non ridimensionerà, di “insidiare” perfino quelli dell’Emilia-Romagna.

Ieri il Piemonte registrava 13.883 casi totali (+540 rispetto a martedì) e 1.378 decessi (59 nelle ultime 24 ore). I ricoverati in terapia intensiva sono 423 (su circa 600 posti disponibili, il doppio rispetto all’inizio dell’epidemia); solo la Lombardia ne ha di più. Numeri in discesa rispetto alle cifre degli ultimi giorni, ma ciò che fa del Piemonte un malato più grave di altri è il tasso di crescita del contagio che, seppur in discesa dal 5-6% della scorsa settimana, era ieri al 4%, il doppio della Lombardia (2,1%), meno solo di Veneto, Puglia e Sardegna. E la provincia di Torino, con 6.595 contagiati, è la quarta più colpita dopo Milano, Bergamo e Brescia.

Numeri da gran malato, ma la Regione nega l’esistenza di un “caso Piemonte”. In una conferenza stampa online dai toni ben diversi dall’effervescenza del collega lombardo Gallera, l’assessore regionale alla Sanità Luigi Icardi ha snocciolato slide per dimostrare che la Regione non è messa peggio di altre e che anzi “in Piemonte ogni 10 mila abitanti muoiono 303 persone, peggio di noi ci sono altre sette regioni”.

In parziale soccorso di Icardi giunge l’epidemiologo Luigi Di Perri, responsabile malattie infettive dell’ospedale Amedeo di Savoia di Torino: “Dobbiamo considerare – sostiene Di Perri – il fatto che anziché un unico picco abbiamo picchi diversi, più grandi o più piccoli, che a seconda del contesto regionale sono sfasati nel tempo. Il Piemonte per una settimana ha avuto un caso solo, mentre già in Lombardia i contagi aumentavano vertiginosamente, quindi significa che avremo il picco circa una settimana dopo. I numeri di questi giorni, quindi – prosegue Di Perri – sono normali, un pò dipendono anche dai tamponi che si fanno, ma se facciamo riferimento ai decessi, che forse sono il parametro più attendibile che abbiamo, direi che questo aumento è fisiologico”.

Al di là dei numeri e delle slide, tuttavia, l’impressione è che in Piemonte – al netto dell’oggettiva gravità e imprevedibilità che avrebbero messo in difficoltà chiunque – la gestione dell’emergenza non sia stata del tutto impeccabile. Lo dimostrano alcune emergenze che fanno del Piemonte un caso talvolta estremo. Le residenze per anziani, molte delle quali hanno ricevuto ieri le visite dei carabinieri del Nas, prima di tutto: 35 morti a Grugliasco, 15 a Brusasco, 22 a Trofarello, 35 a Vercelli. E l’elenco è purtroppo destinato a continuare, al netto delle gaffe della Giunta: lunedì in commissione Sanità l’assessora Chiara Caucino aveva parlato di 1.300 positivi su 3.000 tamponi nelle Rsa, diventati poi “189 casi e 1.100 sospetti”.

Quindi l’emergenza senza tetto. In diversi dormitori di Torino si sono registrati casi di contagio e presto l’ex area fieristica di Torino Esposizioni sarà adibita a maxi dormitorio per garantire un controllo centralizzato. Al carcere delle Vallette sui primi 50 tamponi 17 sono positivi, e a breve – temono gli addetti ai lavori – potrebbe scoppiare l’emergenza negli ospedali psichiatrici.

La Regione sui tamponi rivendica di aver seguito le indicazioni dell’Oms, ma è un fatto che il Veneto abbia fatto il quadruplo delle rilevazioni, il che ha permesso di ridurre di molto il tasso di mortalità rispetto al numero (pressoché identico) dei contagiati. Un dato statistico, certo, ma è evidente che più tamponi si fanno, più si contiene la diffusione del virus. E su questo fronte, in Piemonte, qualcosa non ha davvero funzionato.

La multinazionale “italiana” e il test dalle uova d’oro

C’è una società che sta festeggiando in borsa nonostante, anzi a causa del coronavirus. Si chiama Diasorin, ha sede a Saluggia, la cittadina di 4 mila abitanti nel vercellese, famosa finora soprattutto per le scorie nucleari. Questo gruppo multinazionale con stabilimenti sparsi per il mondo in due giorni ha guadagnato dieci euro per azione e oggi sfiora i 130 euro. Il 7 aprile ha annunciato “di avere completato presso il Policlinico San Matteo di Pavia gli studi necessari al lancio di un nuovo test sierologico per rilevare la presenza di anticorpi nei pazienti infettati dal SARS-CoV-2”. L’annuncio è stato accompagnato da un articolo a tutta pagina del Corriere della Sera.

Diasorin fa sapere che “sta lavorando per ottenere il marchio CE e l’autorizzazione all’uso di emergenza (EUA) della Food and Drug Administration (FDA) entro la fine del mese di aprile”. Amarzo era arrivato prima un contributo da parte dell’amministrazione Trump da 700 mila dollari per sviluppare un tampone rapido contro il Covid-19 e poi l’autorizzazione alla consociata americana Diasorin Molecular LLC per l’uso di emergenza del suddetto test “Simplexa Covid-19 Direct Kit”. Risultato: oggi Diasorin vale 7 miliardi e 240 milioni di euro.

Niente male per la famiglia Denegri che ne controlla il 60 per cento attraverso la sua finanziaria. Ad agosto del 2019 Milano Finanza considerava il fondatore Gustavo Denegri, nato nel 1937, già presidente della Piaggio negli anni novanta, l’ottavo uomo più ricco d’Italia con un patrimonio stimato in 3 miliardi e 420 milioni addirittura sopra Berlusconi.

Nel 2000 Denegri ha acquisito da un’azienda americana una partecipazione nella DiaSorin e poi nel 2016 ha acquistato la Focus Diagnostics americana che oggi è diventata la Diasorin Molecular, scelta da Trump.

La quota del 60 per cento di Diasorin oggi dovrebbe valere oggi 4,3 miliardi ai quali bisogna aggiungere le altre partecipazioni anche in Banca Mediolanum e Mediaset.

Michele Denegri è il figlio di Gustavo, vicepresidente della Diasorin. Qualche anno fa ha acquistato e rilanciato il ristorante caro a Cavour, il Cambio di Torino. Michele Denegri ci spiega: “L’amministrazione Trump ha dato un grant di 700 mila dollari alla nostra consociata americana perché solo noi e una società tedesca, la Kiagen, avevamo già fatto la richiesta per lo studio clinico. Poi sono arrivate tante altre aziende. Ogni prodotto diagnostico prima di avere l’autorizzazione alla distribuzione sul mercato deve fare studi clinici e di non tossicità ma in questa situazione di emergenza il governo americano ha consentito che queste procedure fossero accelerate”. Quanto all’utilità del tampone rapido brevettato dalla Diasorin, si può fare in un punto esterno al laboratorio dove sta il paziente, il cosiddetto POC, Denegri spiega: “Potrà essere molto utile per ridurre la pressione sul pronto soccorso e per gestire nel modo corretto il paziente che arriva negli ospedali”.

Anche il mercato dei test sierologici al momento è in grande ebollizione. Esistono più di cento società che offrono test diversi. Si dividono in due tipologie: i kit cromatografici qualitativi (tipo quello usato dall’autore di questo articolo su di sé) che si fanno con una goccia si sangue e un po’ di reagente che fanno colorare, quando accade, le righe degli anticorpi sul tester: gli Igm che segnano l’avvio dell’infezione e gli Igg, l’anticorpo più stabile che dovrebbe dare una sorta di teorica immunità.

Questi test si trovano sul mercato a 5 euro più Iva e sono stati acquistati da alcune regioni italiane come la Campania e Puglia. Poi ci sono i test del sangue da laboratorio con il sistema ELISA adottati invece dalla Regione Liguria (che li affianca ai kit più semplici) e dalla Regione Veneto, che ne ha ordinati addirittura 700 mila kit prodotti in Cina e distribuiti da una società italiana.

Un kit cromatografico economico denominato Viva Diag è stato testato dalla task force anti Coronavirus del Policlinico San Matteo di Pavia in uno studio diretto dal professor Fausto Baldanti secondo il quale il test “non è raccomandato per il triage di pazienti con sospetto COVID-19”. Soprattutto sui pazienti del pronto soccorso positivi al tampone solo nel 18.4% dei casi avrebbe dato un segno positivo al test sierologico per igm e-o Igg mentre nell’81.6% erano risultati negativi al test rapido sierologico. Lo stesso studio testimonia che la sensibilità sale molto se si va a fare il test su chi ha avuto una diagnosi positiva da tampone sette giorni prima, in quel caso si arriva fino all’84 per cento.

Ora il San Matteo di Pavia sembra avere invece dato una promozione al test rapido della società italiana. Il punto di forza per la Diasorin sarebbe che il test è “predisposto per riconoscere gli anticorpi IgG diretti contro i domini S1 e S2 della proteina “spike” del virus SARS-CoV-2, selezionati per la capacità di fornire specificità per SARS-CoV-2 rispetto agli altri Coronavirus”. Quindi sarebbe un test nato per questo coronavirus. Il comunicato non parla delle IGM. Anche se va detto che secondo un esperto come il professor Andrea Crisanti: “Gli studi effettuati in più regioni d’Italia stanno dimostrando che l’anticorpo Igm raramente si trova nel sangue e dunque bisogna ritenere che la risposta degli anticorpi sia spesso una risposta di memoria. Questo – per il virologo Crisanti – però apre un grande tema: “bisogna capire se gli anticorpi IGG che rileviamo siano specifici per il coronavirus”.

In sostanza la strada per far ripartire il paese forse passa dai test del sangue. Ma è lunga.

L’allarme: “Mancano i reagenti per i tamponi”

Marsala, 24 marzo. L’ospedale “Paolo Borsellino” inizia a processare i tamponi per la diagnosi del Covid-19 perché Palermo non ce la fa ad analizzarli tutti. “Dopo qualche giorno il laboratorio ha chiuso per mancanza di reagenti”, sospira il sindaco Alberto Di Girolamo. “Era quello di riferimento per la provincia di Trapani. Ora 420 mila persone non hanno una struttura pubblica per fare il test”. In Sicilia la penuria è tale che chi è rientrato nell’isola dopo il 14 marzo e non riesce a fare il test può tornare al lavoro con un’autocertificazione.

Marsala come Brescia, Teramo, Roma. Dopo gli allarmi lanciati da Veneto, Marche e Puglia. Alle prese con l’aumento del numero dei test necessari a monitorare il contagio (51mila registrati ieri, record in un solo giorno), non tutti i laboratori sono costretti a chiudere ma la scarsità di sostanze per l’estrazione e l’amplificazione del genoma virale del Sars-Cov-2 attraversa l’Italia. “Ci sono grosse difficoltà nel reperirle – conferma Massimiliano Boggetti, presidente di Confindustria dispositivi medici -. Le aziende italiane che li fanno sono poche, la maggior parte dei kit sono importati da 4 multinazionali e noi scontiamo la parziale chiusura della Cina all’export. Il secondo problema sono le materie prime: data la nostra forte dipendenza dall’estero dove la pandemia è scoppiata dopo, oggi è ancora più difficile trovarle rispetto all’inizio dell’emergenza”. Un déjà-vu, dopo il caos mascherine. “Serve un coordinamento che non c’è – prosegue Boggetti – l’Ue è colpevolmente assente e una pandemia non può essere gestita solo a livello nazionale, ma qualcuno in Italia avrebbe dovuto chiedere alle aziende cosa era necessario dal punto di vista dei dispositivi. La sorveglianza sanitaria non spetta certo alle imprese”. Chi doveva non ha coordinato: “Ogni Regione fa da sé, si va per tentativi. Arcuri (il commissario nominato dal governo, ndr) sta avendo contatti con Confidustria federale e non con noi. Ci siamo messi a disposizione, ma nessuno ci ha mai chiamato”. I reagenti, la nuova emergenza. “Il rischio c’è. Con gli Usa, uno dei poli da cui arrivano, in pieno disastro è probabile che il materiale non basti”.

I colossi americani fanno fatica. L’Istituto Zooprofilattico di Teramo si rifornisce dalla ThermoFisher Scientific, 24 miliardi di dollari di fatturato. “Nel weekend siamo stati in fibrillazione – spiega il direttore generale Nicola D’Alterio – aspettavamo dei reagenti venerdì e sono arrivati martedì. Sono in difficoltà persino loro”. “La situazione è molto critica – racconta Piero Frazzi, direttoredell’Istituto Zooprofilattico sperimentale della Lombardia e dell’Emilia-Romagna – Con le forniture non andiamo oltre i 2-3 giorni. Il ministero ci ha chiesto i reagenti di cui avevamo bisogno. Era 15 giorni fa, non ho sentito più nessuno”.

La penuria non risparmia le strutture più grandi. “La situazione è molto difficile con i reagenti che servono a estrarre l’Rna – spiega il professor Guido Antonelli, responsabile del laboratorio di Virologia dell’ospedale universitario Sapienza-Policlinico Umberto I di Roma, il terzo della Capitale con 2.500 tamponi a settimana – Siemens Healthineers oggi (ieri, ndr) ci ha recapitato prodotto per analizzare 2mila campioni, ma per la prossima settimana non ci ha dato garanzie – prosegue il docente, vicepresidente della Società Italiana di Microbiologia – così ho fatto scorte da aziende più piccole. Ma l’approvvigionamento dovrebbe essere centralizzato”.

“Liberi entro l’estate? Possibile Ma attenzione a nuove ondate”

I contagi calano, ma l’attenzione deve restare alta. Il professor Massimo Galli, direttore della malattie infettive all’ospedale Sacco di Milano, fissa un termine di uscita dall’emergenza, dopodiché rilancia l’allarme sulla possibile riemersione di Covid-19 a partire da ottobre. “Mi auguro che ci si possa liberare del virus entro la prossima estate. Qualche buon segnale lo si intravede, a partire dalla minore pressione sui Pronto soccorso che per me è decisiva”. Fissato il punto, ecco però l’istantanea di una prospettiva futura che non rassicura: “Il rischio di una ondata di ritorno è quantomai concreto, nulla esclude, infatti, che il virus continui a serpeggiare tra la popolazione”.

Guardare al passato potrebbe essere un conforto. Nel 2003 l’epidemia di Sars una volta sconfitta non si è più presentata. “Questo è vero – prosegue Galli – ma è anche vero che oggi SarsCov2 ha un radicamento a livello mondiale”. E dunque parte del pericolo di un ritorno è rappresentato dagli altri Paesi vicini all’Italia. “Noi abbiamo iniziato molto prima degli altri, ora però Covid-19 sta dilagando in molti altri Stati”. E dunque bisognerà fare attenzione anche su questo fronte. Il rischio interno non è però affatto escluso. A dimostrarlo la Cina stessa che in queste ultime ore ha chiuso parti del suo territorio proprio a causa di nuovi focolai. “Questi nuovi contagi – spiega Galli – non sono certo arrivati dall’estero, stavano sul territorio”. Covavano dunque sotto le ceneri della prima epidemia. Ecco il punto: i nuovi fuochi. Galli ha pochi dubbi: “La nostra ripresa dipenderà dalla capacità di spegnere questi fuochi”. L’esempio che fa il professore è quello della piena del Po. L’esondazione viene bloccata dagli argini, ma in certi casi l’acqua supera i livelli producendo quelli che si chiamano fontanili. “Questi – prosegue – saranno i nostri possibili focolai”. Pare di capire che l’ipotesi di ottobre è solo indicativa. In assenza di un vaccino e quindi di una immunità non solo duratura ma anche diffusa, ogni finestra temporale è buona per un ritorno del virus. “Oggi il distanziamento sociale sta producendo gli effetti sperati. L’uscita però sarà lenta e su questo dovremo riorganizzare la ripresa”. Di certo, in una prospettiva di ritorno, la politica e il comparto sanitario dovranno far tesoro degli errori commessi e delle lacune dimostrate. Il professor Galli, che ha il merito di aver identificato l’ingresso del virus in Italia attorno al 26 gennaio scorso, punta il ragionamento sulla medicina del territorio che si è dimostrata non all’altezza.

“Nel caso drammatico dovessimo trovarci davanti a un nuovo focolaio sarà fondamentale dimostrare di aver imparato la lezione. E dunque dovremo subito circoscrivere il focolaio segnando a uno a uno tutti i contatti”. Il metodo è stato seguito nei primi giorni a Codogno dopodiché le direttive sono cambiate. “Ma – avverte Galli – non possiamo più rinunciare a una seria indagine epidemiologica”. Su questo il professore insiste da sempre, tanto che la sua équipe ha iniziato questo lavoro a Castiglione d’Adda, una delle aree più colpite dal virus. “Per questo è fondamentale che la medicina territoriale abbia una organizzazione tale da poter fare una indagine epidemiologica coinvolgendo medici di base e funzionari della medicina territoriale”. Un aspetto che “è totalmente mancato in questa emergenza”. E del resto, secondo il professor Galli, un banale esempio sulle vaccinazioni per l’influenza normale mostra l’incapacità del sistema territoriale di arrivare al maggior numero di cittadini. “Quest’anno per il vaccino influenzale circa il 70% ne aveva diritto, ma solo il 3% lo ha fatto e questa percentuale comprende anche i bambini per i quali vige l’obbligo”. Di più: dei vaccinati solo il 52% è anziano. La conclusione è netta quanto inquietante: se la medicina del territorio per la sola vaccinazione influenzale ha avuto questi risultati, non si poteva pretendere che resistesse all’emergenza. E infatti è stata spazzata via dalla bufera scatenata dal Covid-19.

Presidio Covid al “Civili”: scontro a Brescia

Il progetto di nuovo ospedale da campo alla Fiera, sul modello di quelli di Milano e Bergamo, è naufragato ancora ai primi di marzo, mentre a Brescia montava l’onda di piena dei pazienti colpiti dal virus. Ora la Regione Lombardia ha deciso di aprire un “Covid hospital” all’interno del nosocomio cittadino, gli Spedali Civili, attirandosi le ire dell’ordine dei medici, dei sindacati, della politica locale e nazionale. L’area individuata e presentata pubblicamente dall’assessore regionale al Welfare, Giulio Gallera, si trova nel cuore del vecchio ospedale, la “scala 4” attualmente dismessa. In quell’ala dovranno essere creati 180 posti letto per pazienti affetti da coronavirus: “Ristrutturarla in 60 giorni soddisferà i requisiti minimi previsti dall’Oms per questa tipologia di struttura?” si chiede il presidente dell’Ordine dei medici di Brescia, Ottavio Di Stefano, in una nota garbata nei toni ma durissima. Tanto più che le linee guida dell’Oms consigliano invece l’approntamento di strutture modulabili esterne nei pressi degli ospedali. Il rischio denunciato dai rappresentanti dei medici è che gli Spedali Civili (che contano già più di 448 sanitari contagiati) possano trasformarsi loro malgrado, se qualcosa va storto, in un nuovo veicolo del virus. I tamponi agli operatori sanitari in Lombardia – a differenza di quanto disposto in Veneto e in Friuli, dove si controlla continuamente il personale – vengono effettuati solo in presenza di febbre superiore ai 37,5 gradi.

“A Brescia considerano normale più di 400 sanitari contagiati – spiega il presidente della sezione bresciana dell’Unione medici italiani, Francesco Falsetti – quando all’ospedale Cotugno di Napoli, con protocolli all’avanguardia, hanno contagi zero. È inaccettabile. L’ospedale Covid all’interno delle strutture ordinarie rischia di cristallizzare questa situazione di grande confusione”.

Oggi i sindacati incontreranno il direttore dell’ospedale di Brescia, Marco Trivelli, che nelle scorse settimane aveva lavorato con convinzione all’opzione della struttura esterna poi tramontata. Il consiglio dei sanitari del Civile quindi dovrà esprimere un parere tecnico. Gallera per Brescia parla di una “soluzione sul modello di Israele” con “aree di ospedali che possono rimanere chiuse, ma pronte ad ospitare pazienti per grandi afflussi”. Con la differenza che nel caso israeliano si tratta di emergenze belliche e non legate a malattie infettive. “Oltre alle perplessità tecniche e sulla sicurezza – denuncia l’assessore comunale alla Salute, Donatella Albini – dobbiamo avere ben chiaro che in questo modo il Civile resterà una struttura Covid e non riprenderà più il suo ruolo di ospedale cittadino”. Il sottosegretario agli Interni, Vito Crimi, si è scagliato contro “gli atteggiamenti autoritari e impositivi” della Regione Lombardia: “La comunità bresciana, istituzionale e medica, chiede una struttura indipendente, temporanea, di rapida realizzazione che consenta di mantenere il massimo isolamento dal resto dell’ospedale”.

A Brescia, provincia in cui contagi ufficiali sono pari a quelli della vicina Bergamo, fino ad ora lo tsunami coronavirus è stato gestito in modo silenzioso, facendo spazio nei reparti senza chiedere niente a nessuno: “In una notte abbiamo allestito un nuovo piano degli infettivi – racconta una fonte ospedaliera – e nell’ex lavanderia abbiamo ricavato 45 posti, poi altri 20 nella sede distaccata di Montichiari”. Ma la generosità, ai tempi del virus, a volte non basta.

Ospedale di Alzano, l’indagine s’allarga: “Epidemia colposa”

Cinque ore, da questo intervallo temporale parte la Procura di Bergamo per fare luce sui motivi che hanno reso l’ospedale di Alzano Lombardo un micidiale vettore per la diffusione del Covid-19 e per capire quali possano essere state le responsabilità, anche a livelli politici più alti, rispetto alla mancata istituzione della zona rossa tra Alzano e Nembro. Un dato che suscita l’interesse anche della Procura di Milano che ancora non ha aperto un fascicolo. Torniamo a quelle cinque ore. E cioé il tempo durante il quale il pronto soccorso della più importante struttura della bassa Val Seriana, dopo i primi due pazienti infetti, è rimasto chiuso per riaprire poco dopo. È il pomeriggio del 23 febbraio. L’isolamento inizia alle 15 e finisce alle 20 con una lenta riapertura. L’inchiesta di Bergamo è stata aperta dal procuratore facente funzione Maria Cristina Rota. Al momento si indaga contro ignoti per epidemia colposa. Concetto vasto che comprende la vicenda dell’ospedale ma che, secondo fonti della Procura, potrebbe anche allargarsi all’ambito politico regionale per la mancata applicazione della zona rossa dopo che già il 24 febbraio si era compreso che Alzano rappresentava un focolaio pericoloso.

Anche a Milano si sta ragionando in Procura sul tema zona rossa. In queste ore sui tavoli degli aggiunti ci sono diversi dossier. Quello della zona rossa è al momento uno dei tanti, ma fonti interne spiegano che il tema sarà analizzato. A Bergamo l’obiettivo è individuare le responsabilità di una gestione che per testimonianza di pazienti e personale ospedaliero si è rivelata fuori controllo. Tra le tante valutazioni anche l’operato dei vertici rappresentati dal direttore della Asst Bergamo Est Francesco Locati, dal direttore sanitario Roberto Cosentina e dal direttore medico Giuseppe Marzulli. I tre non risultano indagati. Il Nas di Brescia lunedì e martedì ha acquisito molti documenti in ospedale. Tra questi, i protocolli sanitari che dovevano essere seguiti, a partire dalla direzione, e su cui, riavvolgendo il nastro cronologico, la Procura punta. Sarà nominato un perito per studiare il materiale. Oltre ai protocolli, i carabinieri hanno sequestrato le cartelle cliniche dei primi pazienti Covid e i risultati dei tamponi effettuati a partire dal 21 febbraio. Il primo passo è capire perché il pronto soccorso alle 20 del 23 è stato riaperto e da chi è arrivata l’indicazione.

Ieri l’assessore al Welfare, Giulio Gallera, ha spiegato che durante la chiusura gli ambienti sono stati sanificati. Particolare che viene smentito da una lettera di due operatori sanitari. “Il pronto soccorso veniva riaperto, senza nessun intervento di sanificazione e senza la costituzione immediata di triage differenziati”. Il dato del triage è interessante perché già il 22 febbraio il ministero della Salute inviava una nota dove si faceva riferimento alla “necessità di un’area dedicata per il triage e per evitare il contatto con altri pazienti”. Nulla di tutto questo, stando alle testimonianze, è stato fatto. Il 24 si è ripartiti con gli accessi normali, nonostante il virus girasse nella struttura dal 15, giorno dell’arrivo di uno dei due pazienti rivelatisi poi positivi. Il 18 una donna viene ricoverata per esami oncologici. Ha 55 anni. L’accompagna la figlia. Il 23 a ospedale chiuso la madre avverte: “Hanno fatto uscire tutti i parenti”. La donna resta “intrappolata” là, muore di Covid il 15 marzo. Il virus era in circolo da dieci giorni, eppure il 26 Gallera dichiarava: “Dalla Val Seriana arrivano numeri non trascurabili, ma è presto per dire se i casi siano legati al contagio di un medico del pronto soccorso di Alzano”. In realtà non è un medico ma un pensionato. In quella domenica Codogno è di fatto già zona rossa. Alzano non lo sarà mai. Eppure alle 16,50 del 23 il sindaco sul sito del Comune avvertiva: “Abbiamo avuto notizia dalla direzione sanitaria di due casi di Covid-19 all’ospedale di Alzano. Siamo in attesa di conoscere le misure specifiche, vi invitiamo a limitare le uscite dai vostri domicili”. Nonostante questo avviso, l’ospedale alle dieci di sera del 23 stava già riaprendo. E nessuna zona rossa sarà mai istituita.

“La Regione sempre con noi sul no a Nembro zona rossa”

“No alle zone rosse nella Bergamasca, questa era la nostra posizione sempre condivisa e fatta propria dalla Regione Lombardia”. Lo ribadisce al Fatto il presidente regionale di Confindustria, Marco Bonometti. Mentre al Pirellone, intanto, il copione rimane lo stesso.

“Qui abbiamo avuto il fungo della bomba atomica”: ha cambiato solo immagine l’assessore al Welfare, Giulio Gallera. Per giorni andava ripetendo come un mantra la parola “tsunami”, ieri è passato a evocare Hiroshima. La tesi di Gallera non cambia: “Il sistema sanitario lombardo è un grande sistema e ha dato dimostrazione di saper reggere”. Tanto che ha avuto il coraggio di ribadirlo rispondendo alla lettera-j’accuse dei medici lombardi: “Le nostre azioni sono state oggetto di apprezzamento per l’Oms che ci ha chiesto di redigere un apposito compendio d’ausilio ai Paesi di tutto il mondo”. Eppure i buchi nella gestione dell’emergenza da parte della Regione sono sempre più evidenti, oltre ai problemi strutturali di un sistema sanitario sbilanciato sul privato a scapito del pubblico. E la voragine più importante, ormai più di un mese dopo, rimane la mancata chiusura dei comuni di Nembro e di Alzano, nella Bergamasca.

Cosa è successo dal 23 febbraio, il giorno del caso del pronto soccorso di Alzano prima chiuso e poi subito riaperto, fino al 7 marzo, quando il premier Giuseppe Conte decide di rendere “zona rossa” tutta la Lombardia? Ancora il 29 febbraio Gallera, rispetto al focolaio individuato ad Alzano, dichiara: “Abbiamo per quella provincia 110 positivi, il 18% dei casi lombardi. Quel cluster ha un numero importante di casi, non c’è però nessuna idea di costruire zone rosse, restano quelle che sono, l’abbiamo condiviso con il governo”. Opinione che rimarrà ferma almeno fino al 4 marzo, quando la Regione – secondo il governatore Attilio Fontana – fa “pressione” sul governo, attraverso il proprio rappresentante del Comitato tecnico-scientifico.

È il presidente di Confindustria Lombardia Bonometti a fare chiarezza: “Nelle riunioni che abbiamo avuto con cadenza quasi quotidiana tra fine febbraio e i primi giorni di marzo, anche in sede di Patto di sviluppo con artigiani, commercianti, lega delle cooperative e sindacati, la Regione è sempre stata d’accordo con noi nel non ritenere utile, ma anzi dannosa, una eventuale zona rossa sul modello Codogno per chiudere i comuni di Alzano e Nembro”. Due giorni fa Gallera si tradisce alla trasmissione Agorà su Rai3: “Avremmo potuto fare noi la zona rossa? Ho approfondito ed effettivamente c’è una legge che lo consente”. Questa legge sconosciuta prima dell’approfondimento è la 833 del 1978 “Istituzione del servizio sanitario nazionale”.

Ieri, nello show ormai quotidiano, Gallera prova a spiegarsi: “Nel momento in cui il governo sta assumendo una decisione, ha senso che io la prenda quattro ore prima? Poi ci si accusa di non avere una sintonia istituzionale… Il 4 marzo arrivano i militari ad Alzano. Passa il 5, il 6, in quel momento l’assunzione di un’ordinanza da parte del governatore appariva originale visto che il governo aveva già dislocato le forze dell’ordine”.

Ma alle riunioni dei primi giorni di marzo (l’ultima giovedì 5), né Gallera né il governatore Attilio Fontana – come riferisce al Fatto una persona che ha potuto assistere alla videoconferenza – chiedono di far presto con la zona rossa ad Alzano e Nembro. Si limitano ad ascoltare le valutazioni del premier Giuseppe Conte e del ministro della Salute Roberto Speranza, in allarme fin dal 3 marzo sui dati anomali dei contagi ad Alzano-Nembro e a Orzinuovi (Brescia) riferiti dall’Istituto di Sanità al Comitato tecnico-scientifico.

“La sensazione era che la giunta lombarda aspettasse una decisione modello Codogno, presa da Roma, senza doversi intestare la responsabilità della chiusura di Alzano e Nembro, come la legge gli avrebbe invece consentito di fare”, riferisce ancora la fonte. Ma dal 23 febbraio ogni giorno è stato perso. Fino alla tarda serata di giovedì 5, quando arriva al governo il parere più approfondito del presidente dell’Istituto di Sanità Silvio Brusaferro, che indica come “opportuna” l’istituzione di una nuova zona rossa. La mattina di venerdì 6 nel governo inizia a maturare l’idea di serrare tutta la regione, perché il trend dei contagi appariva preoccupante anche in altri comuni. Quindi in un colloquio informale lo stesso premier Conte, sempre venerdì 6, informa il governatore Fontana della decisione – la chiusura della Lombardia – che avrebbe comunicato solo sabato 7, a tarda sera, dopo una giornata di trattative con le parti sociali per stabilire quali attività lasciare aperte.