Giù morti e contagi, boom di tamponi

Di buono c’è anzitutto che il virus lo stanno cercando. Ieri tra i dati diffusi dal prode Angelo Borrelli della Protezione civile spiccava il numero dei tamponi: ne hanno registrato 51.680, record assoluto e per distacco sul precedente di 39.809 che risale al 2 aprile, la settimana scorsa, a pochi giorni dopo che finalmente avevano ordinato di farne di più. Come è noto tra gli errori commessi da governo e Regioni, con la collaborazione di gran parte dei rispettivi consulenti scientifici, c’è proprio quello di non aver proceduto – con la significativa eccezione del Veneto dove il governatore Luca Zaia si è fidato del professor Andrea Crisanti e della sua “sorveglianza attiva” – a un’efficace politica di contact tracing e di controlli non “a tappeto” ma mirati sulle persone che avevano avuto contatti con i positivi, aggravato naturalmente – specie in Lombardia – dall’enorme e rapidissima diffusione del contagio, in realtà iniziato molto prima che il sistema sanitario, del tutto impreparato, se ne accorgesse.

Visti i tamponi eseguiti, è confortante il pur elevato numero di 3.836 nuovi contagi, che portano il totale dei contagi rilevati a 139.422 per un incremento del 2,83 per cento superiore al 2,29 di martedì ma in linea con il pur lento trend di discesa delle infezioni rilevate ogni giorno: la scorsa settimana si è attestato tra il 3 e il 4 per cento, la precedente era sceso dall’8 sotto il 6 per cento e prima ancora l’incremento era a due cifre. Il che rende credibile la previsione di poter azzerare le nuove infezioni nella seconda metà di maggio. Contagi in aumento oltre il 4 per cento, ieri, in Veneto, Piemonte, Puglia e Sardegna.

Diminuiscono, sempre meno di quello che tutti vorremmo, anche i decessi. Ieri ne sono stati dichiarati 542 (604 martedì) per un totale che sale a 17.669. Ovviamente la discesa non è lineare ma negli ultimi sette giorni la media è di 644 decessi al giorno e nei sette precedenti era stata di 807. Aumentano anche i guariti, oltre duemila in un giorno, altro record.

E infine si conferma il rilevante dato della diminuzione della pressione sugli ospedali: i pazienti ricoverati con sintomi sono 28.485, cioè 233 in meno rispetto a martedì, in calo sostanziale da quattro giorni; sono 3.693 quelli più gravi, ricoverati in terapia intensiva, 99 in meno, in calo da cinque giorni.

Da Bergamo in poi, la “lotta continua” della Confindustria

La pressione sul governo è costante. Viene dal basso, dai territori, e dall’alto. Incrocia la campagna elettorale interna a Confindustria per l’elezione della nuova presidenza. E trova ascolto anche nel sindacato che, ovviamente, sottolinea l’esigenza di garantire la sicurezza dei lavoratori.

Ieri le quattro Associazioni confindustriali di Lombardia, Veneto, Piemonte e Emilia-Romagna hanno ribadito la richiesta di apertura delle attività, “in tempi brevi”, con una pressione che sembra non considerare il conto dei morti. Certo, per gli industriali “la salute è il primo e imprescindibile obiettivo”. Le imprese devono poter lavorare in sicurezza, scrivono, “ma le aziende sicure devono poter lavorare”. In particolare, “le aziende sicure sono tutte uguali” e quindi si propone di superare le classificazioni merceologiche alla base del decreto del 23 marzo per sostituirle con valutazioni sulle misure predisposte. Resta da capire come si controlla davvero la sicurezza e come fare a evitare altri morti.

Dopo Bergamo La pressione confindustriale esiste dall’inizio della crisi sanitaria e ha già prodotto i guai di Bergamo. Si ricorderà il video confindustriale che il 29 febbraio gridava “Bergamo is running” per assicurare la capacità delle imprese della zona di non fermarsi. Nel frattempo la provincia diventava tristemente famosa per le bare portate via dai mezzi militari. Il messaggio però è passato in profondità. Ieri il Corriere di Bergamo dava la notizia di 2.372 aziende che hanno chiesto, in deroga alle disposizioni governative, di poter lavorare comunque e 900 hanno già avuto il via libera dopo i controlli di Finanza e carabinieri.

In Lombardia, del resto, nonostante dichiarazioni di facciata, gli industriali non hanno mai avuto una opposizione significativa da parte della Regione. Quando l’11 marzo si discuteva di chiudere la Lombardia, il presidente Fontana si affidava ad Assolombarda per quanto riguarda le fabbriche. E da quella data le morti sono state in costante aumento. Solo dopo il decreto del 23 marzo che ha chiuso, non del tutto ma in modo significativo, anche le fabbriche la curva è tornata a scendere.

Eppure, anche in quella occasione, Confindustria si è battuta, vincendo, per lasciare al lavoro circa 9,5 milioni di persone. A Wuhan in Cina, dove la città si è mossa dopo ben 76 giorni, le condizioni di chiusura sono state totalmente restrittive (vedi il grafico in pagina).

Metà del Pil La richiesta delle “confindustrie” regionali ovviamente non è di poca importanza. Come esse stesse scrivono nel documento, rappresentano il 45% del Pil del Paese e, particolare che ieri Il Sole 24 Ore metteva bene in chiaro, rappresentano il 71,8% dell’export italiano. E qui si capisce meglio la richiesta di superare categorie merceologiche premiando le misure sanitarie. Come dice il Centro studi di Confindustria, le attività produttive non essenziali, penalizzate dal decreto del 23 marzo, generano il 56% delle esportazioni. E gli industriali temono di perdere la propria collocazione nelle catene del valore per produzioni che esportano soprattutto in Europa e verso Germania e Francia. I contestuali cali produttivi negli altri Paesi europei lasciano intravedere una corsa competitiva a chi garantisce di più i propri fatturati. E quindi ha bisogno di riaprire, possibilmente dopo Pasqua, come spiegava ieri al Sole la vicepresidente di Confindustria, Licia Mattioli. E qui si apre un’altra questione, più politica e più interna all’associazione.

Mattioli è una delle sfidanti per la presidenza di Confindustria. Il 16 aprile il Consiglio generale con voto a distanza e segreto indicherà il presidente designato. Il 30 aprile questo (o questa) presenterà la squadra al Consiglio generale che la voterà e poi il 20 maggio ci sarà la proclamazione, anche se probabilmente l’assemblea pubblica fissata il 21 maggio slitterà.

La presidenza C’è anche chi legge l’appello delle quattro regioni come una iniziativa dal sapore “elettorale”, con associazioni che guardano più all’altro candidato, Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, il quale in nome dell’economia del nord sfida i vertici romani. La battaglia per il vertice si gioca anche su quanta forza si mette nel chiedere la riapertura delle aziende.

I sindacati intanto osservano con preoccupazione, ma anche con attenzione. Se in Cgil si insiste per combinare le esigenze dell’economia con il tragico conto dei morti, la segretaria della Cisl, Annamaria Furlan, dice che il documento dei quattro “pone questioni vere”. Ma tutti sono concordi nel richiedere attenzione alle misure di sicurezza e così, unitariamente, i tre sindacati confederali hanno chiesto al governo un incontro sia sull’applicazione del Protocollo della sicurezza, sia per capire cosa si vuol fare davvero dopo il 13 aprile. Oramai l’attenzione è tutta su questa data.

Riapertura di poche imprese. Però resta il divieto di uscire

Il prossimo annuncio potrebbe arrivare sabato, vigilia di Pasqua. E Giuseppe Conte, agli italiani, ha intenzione di lasciare qualcosa in più degli auguri: un piccolo allentamento, ma solo per alcune filiere produttive ancora al vaglio dell’esecutivo. Uno spiraglio, non certo la resurrezione. Perché per il resto il lockdown resterà tale e quale a quello in vigore adesso. Si resta a casa, tanto più ora che arrivano le feste. Eppure qualche lacciuolo, alle imprese prossime allo stremo, verrà sganciato. Lo aveva già chiarito martedì nella riunione con il comitato tecnico-scientifico, assai restio a concedere al governo garanzie sulla fine dell’epidemia. E ieri, il presidente del Consiglio, lo ha concordato anche con i capidelegazione che ha ricevuto insieme al sottosegretario Riccardo Fraccaro e che rivedrà questa mattina. Una riunione per cominciare a definire le misure del prossimo Dpcm in vista della scadenza del 13 aprile. Il ministero dello Sviluppo Economico studia i nuovi codici Ateco da autorizzare: al momento l’ipotesi più accreditata è quella di ragionare per filiere e non per “zone”, perchè riaprire le imprese a seconda del numero dei contagi sul territorio rischierebbe di creare situazioni di concorrenza sleale.

Per questo è suonato come un “pressing inutile” quello delle quattro associazioni degli industriali del Nord che ieri pomeriggio sono tornate a battere sul tavolo del governo: “Siamo consapevoli della situazione – ragionano a palazzo Chigi – non c’è bisogno che ce lo dicano loro”.

“Rappresentiamo il 45 per cento del Pil italiano”, “se non riapriamo in fretta rischiamo di non partire più”, “stiamo perdendo clienti e relazioni internazionali”, “avanti di questo passo e il prossimo mese non paghiamo più gli stipendi”. Così parla Confindustria in Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte. E da est, Udine per la precisione, arriva pure l’eco più minacciosa per premier e ministri: una petizione, lanciata proprio dai vertici degli industriali della città friulana, per Mario Draghi presidente del Consiglio.

Ma adesso non c’è neanche il tempo di preoccuparsi: non tira una buona aria a palazzo Chigi, tanto che il Pd continua a insistere per aprire quella “cabina di regia” che sembrava cosa fatta e invece sembra stentare a partire. E poi ci sono gli scienziati, che dicono no a qualsiasi ipotesi arrivi dai tavoli di governo. Ieri, il capo dell’Infettivologia dell’Istituto superiore di Sanità, Gianni Rezza, ha messo la – sua – pietra tombale anche su una delle misure di cui si è discusso per la fase 2: mandare al lavoro prima i giovani, immunizzarli, e tenere a casa gli over65. “So che c’è un modello matematico allo studio – dice Rezza durante un meeting di esperti all’Iss – ma io esprimo le mie personali perplessità. La struttura sociale della famiglia italiana non è come quelle del nord Europa: i contatti tra bambini, ragazzi e anziani da noi sono molti di più, mandare a lavorare solo i giovani non determinerebbe la fine delle occasioni di contagio”.

Sono tutte questioni che, come prima del Chiudi Italia, Conte dovrà discutere anche con i sindacati, che ieri gli hanno chiesto di accelerare i tempi di un incontro in vista del nuovo Dpcm.

Molti, nell’attesa delle misure del governo, stanno cominciando a studiare il “domani” da soli. A Roma, per esempio, ieri si è tenuta una prima riunione sul tema del trasporto pubblico. Un settore completamente da ripensare alla luce della necessità di distanziamento sociale che resterà un caposaldo della fase 2. Così si immaginano soluzioni-limite (nel senso che saranno complicatissime da attuare): personale addetto a contare i passeggeri di autobus e metro (non è ancora chiaro se sarà possibile viaggiare in piedi), segnaletica a terra per mantenere le distanze alle fermate, nuove corsie preferenziali per velocizzare i tempi e garantire più corse, acquisto di nuovi mezzi. Il tutto, almeno nel caso della Capitale, con una azienda in concordato e che ha visto – come dappertutto – un crollo verticale degli incassi nell’ultimo mese. Aria nera anche tra i balneari, che avrebbero dovuto iniziare la stagione e invece sono consapevoli che, anche se gli stabilimenti dovessero aprire, sarà impossibile mantenere le distanze e quindi di fatto non potranno lavorare. Nelle soprintendenze delle città d’arte si ragiona sugli ingressi ai musei: saranno solo su prenotazione e per facilitare l’accesso potrebbero essere estesi gli orari di apertura. Sempre che serva: sono tutti convinti che da Venezia a Firenze, da Roma a Napoli quest’estate non si vedranno turisti, né stranieri né italiani.

La voce del padrùn

Ricordate quelli che “la scienza siamo noi”, quando si trattava di vaccinare i bambini pure contro le emorroidi e le unghie incarnite per far contenti la Lorenzin e Big Pharma? Quelli che “la competenza innanzitutto”, fuorché quando i competenti dimostravano che il Tav Torino-Lione è una boiata pazzesca? Quelli che “decidono gli esperti”, anche per farsi un bidé? Quelli che “hashtag io resto a casa perché lo dice il virologo”? Bene, era tutto uno scherzo. Ora sono tutti lì che strombettano di “ripartenza”, “riapertura”, “fase 2”, “prima le imprese”, “subito le fabbriche”, “appalti rapidi”, “cantieri sprint”, “sburocratizzare”, “velocizzare”, “semplificare”, “basta certificati antimafia”, “basta regole anticorruzione”, “correre”, brum brum, wroooom, roarrr, ciuff ciuff, sdeng, bang, tung, zang. Il futurismo marinettiano non c’entra. È che Confindustria ha infilato il soldino nell’apposita fessura e i suoi jukebox che si fanno chiamare “politici” o “giornalisti” han subito intonato la canzoncina giusta. Il primo è stato l’Innominabile, passato dal Burioni Fan Club al “bisogna convivere col virus” (ma convivici tu con la tua famiglia, se non ti vota contro pure quella), detto il 28 marzo mentre l’Italia registrava il primato di morti e contagi. Uno al cui confronto il Cazzaro Verde, che si accontenta delle chiese aperte a Pasqua, sembra un tipo responsabile. Lui però ha l’attenuante di non essere un politico, ma un uomo d’affari. E ora, con l’aria del passante, spiega che “chi fa politica deve prevedere il futuro”, anzi no, “il futuro lo scopriremo solo vivendo”: come lui che, nei suoi tre anni al governo, tagliò più posti letto d’ospedale di qualunque predecessore.

Ma, a parte i peli superflui come Messer Unovirgola, le cose serie sono altre: l’“informazione” all’italiana che, dopo un attimo di disorientamento, è tornata quel che era sempre stata: il megafono dei poteri economici e finanziari retrostanti. Ieri, con 525 nuovi morti e 3.836 infetti in 24 ore, le Confindustrie del Nord sproloquiavano di riaprire nel “breve periodo”. I migliori, perché i più spudorati, oltre al presidente-tipografo Vincenzo Boccia, sono gli sciur padrùn lombardi, rappresentati per uno scherzo del destino da Carlo Bonomi (Assolombarda) e Marco Bonometti (Confindustria Lombardia), una specie di matrioska dell’orrore. Il Bonomi lo ripete da sei giorni: “Riaprire tutto dopo Pasqua”. Il Bonometti, essendo meno accorto, viene fuori al naturale e si vanta persino di avere sventato la zona rossa in Val Seriana con la complicità della Regione, che sapeva dal 22 febbraio del primo contagiato nell’ospedale di Alzano.

“Ai primi di marzo con la Regione ci siamo confrontati”, si imbroda il Bonometti, “ma non si potevano fare zone rosse, non si poteva fermare la produzione. Per fortuna non abbiamo fermato le attività essenziali, perché i morti sarebbero aumentati”. In realtà è universalmente noto che, meno gente c’è in giro, meno gente muore. Ma il Bonometti ha una spiegazione tutta sua del record mondiale di morti in Lombardia: “Qui c’è una presenza massiccia di animali e quindi c’è stata una movimentazione degli animali che ha favorito il contagio, parlo degli allevamenti, e questa potrebbe essere una causa”. Peccato che gli animali non contagino nessuno. Ora voi capite in che mani sono gli imprenditori della regione più ricca d’Europa: gente che andrebbe ricoverata non in rianimazione, ma in psichiatria. Eppure sono questi babbei che, dopo avere sbagliato tutte le previsioni dalla notte dei tempi (ricordate le catastrofi annunciate in caso di No al referendum del 2016?), danno ancora la linea ai giornaloni degli affiliati a Confindustria, che a loro volta danno la linea a certi partiti, che a loro volta vogliono far fuori Conte per metterci uno del loro “giro”, un nuovo premier à la carte.

La Stampa di casa Agnelli-Elkann, quella che un mese fa titolò “Scuole chiuse: no degli scienziati” (balla totale) e poi virò sull’invasione russa, da due giorni batte sulle grancasse con titoli da Illustratofiat: “Aziende, è corsa alla riapertura”, “Il piano Conte per riaprire in due tappe”. Repubblica (stesso gruppo) dà il suo contributo intervistando per l’ottantesima volta l’Innominabile, che ripete per l’ottantesima volta “L’Italia deve ripartire”. Il Corriere, incurante di essere d’accordo col suo editore Cairo, spara “Fase 2, turni per la riapertura”, col contorno di Cazzullo: “Non basta dire ‘state a casa’”, “imprenditori e manager denunciano che le loro fabbriche in Italia sono le uniche a restare chiuse, mentre quelle dello stesso gruppo in Francia, Germania, Inghilterra funzionano” e “si perdono quote di mercato”, paraponziponzipò. Il Messaggero, che non sembra ma è di Caltagirone, fa eco: “Riaperture, prima le aziende”. Poi c’è Libero (Angelucci): “Aziende pronte a ripartire, il governo tentenna”, “I volti umani del capitalismo. Campioni di donazioni ultramilionarie”. Ma Libero sta ai giornali come l’Innominabile sta ai politici: è l’inserto satirico.

Ps. Nel vano tentativo di dimostrare sul Foglio che bisogna abolire le carceri perché lì si rischia il coronavirus più che fuori, Adriano Sofri mi insulta dandomi del “rosicchiato dalla malevolenza, oltre che stupido”, “pusillanime” e “inetto” all’“universale solidarietà umana” di cui lui invece è primatista mondiale. Mi rendo conto che rispondere con i dati (1 morto e 58 contagiati fra i detenuti contro 17.669 morti e 139.422 contagiati fuori) a questo malvissuto accecato dal pregiudizio serva a poco. Mi resta però una curiosità: se io sono “rosicchiato dalla malevolenza”, “stupido”, “inetto” alla “solidarietà umana” e “pusillanime”, lui che mandò due disgraziati ad ammazzare un commissario di polizia, per giunta disarmato, che cos’è?

“Chi tutelerà gli attori dopo questa crisi?”

Riceviamo e pubblichiamo stralci della lettera aperta di di Carlotta Viscovo, rappresentante del Sindacato attori italiani (Sai). 

In questa situazione di emergenza, in cui i teatri sono stati chiusi prima delle scuole, in questo periodo drammatico e difficile per tutti, sappiamo che il nostro settore sarà quello che ripartirà per ultimo e con non poche difficoltà di organizzazione e di senso.

Dopo la chiusura dei teatri nelle prime quattro regioni colpite dal virus (Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna), in data 24/2, Agis ha mandato una comunicazione ai suoi soci stabilendo di interpretare tutti l’Art.19 del Ccnl, applicando il comma sulla causa di forza maggiore che prevede 12 giorni di paga alla minima sindacale e la possibilità di risoluzione del contratto dal tredicesimo giorno. Andava, invece, applicato il comma per il quale, in presenza di provvedimento della Pubblica autorità, al lavoratore spettano 5 giornate alla paga minima e poi il contratto deve essere onorato fino alla fine, a paga piena. Le segreterie dei tre principali sindacati hanno chiesto una spiegazione a tale comportamento, senza ricevere alcuna risposta.

Siamo consapevoli dei danni economici subiti dalla parte datoriale, ma non spetta agli attori accollarsi il rischio di impresa, anche perché siamo in un Paese in cui per loro non sono state prese misure sufficienti per sostenere i periodi di non lavoro.

Altro errore grave: nessun datore ha rispettato la Legge sui licenziamenti per interrompere i contratti. I lavoratori hanno avuto: semplici comunicazioni via email, nel migliore dei casi sottoscritte dai Presidenti degli enti per cui lavoravano, in rari casi inviate tramite raccomandata, o addirittura tramite comunicazione orale o messaggi Whatsapp, addirittura alcuni hanno ricevuto l’Unilav che non ha alcun valore, se non amministrativo. Inoltre, si evidenzia, ancora una volta, che per gli scritturati con partita iva non c’è alcuna tutela, nonostante svolgano il lavoro allo stesso modo dei subordinati.

Oltre a ledere i diritti dei lavoratori, ciò ha creato confusione a tutti i colleghi che non capivano se potevano a quel punto richiedere la Naspi, l’indennità di 600 euro o avvalersi di altre forme di tutela. Ci sono tutti i presupposti per fare vertenza alle produzioni… I colleghi, oltre ad avere subito e a continuare a subire, un importante danno economico, si sentono fortemente frustrati. Inoltre, le misure del decreto “Cura Italia”, per i lavoratori dello spettacolo, sono insufficienti e ciò dimostra quanto poco si conosca il nostro mondo.

Poco visibili, ma fondamentali: l’appello per gli “intermittenti”

“Sono nostri fratelli, fanno parte della famiglia. Impossibile pensare di salire su un palco senza il loro contributo”. La mette giù piatta, Max Casacci. Il chitarrista e fondatore dei Subsonica è tra i 40mila che hanno firmato la petizione #NessunoEscluso, promossa dalla Fondazione Centro Studi DOC, a tutela dei cosiddetti “lavoratori intermittenti”, che già nella definizione sembrano professionisti di serie b, di quelli che avrebbero diritto a poco o niente. Così, almeno, stando al decreto “Cura Italia”, che vede questi 200mila operatori della filiera musicale esclusi dall’elargizione dei 600 euro una tantum, e dal regime di disoccupazione.

“Eppure”, prosegue Casacci, “versano regolarmente contributi. Ma il fatto che siano lavoratori ‘a chiamata’ fa sì che se non accumulano mesi di attività non possono neppure accedere al Fondo di Integrazione Salariale dell’Inps né godere dei benefici della cassa integrazione. Non sono considerati partite Iva, e ora, con lo stop dei concerti, rischiano la fame”. Per questo i Subsonica hanno firmato l’appello in loro soccorso, e così colleghi come Daniele Silvestri, Fiorella Mannoia, Eugenio Finardi, Mannarino, gli Afterhours, in una mobilitazione che non si fermerà fin quando l’Esecutivo non valuterà meglio la questione.

“Non vorrei che i tecnici pagassero sulla loro pelle il pregiudizio che circonda noi musicisti, cioé che nel nostro ambiente ci si diverte e basta, neanche fossimo tutti dilettanti. Loro sgobbano dall’alba a notte fonda, con un’altissima specializzazione. Chi governa suoni, luci, allestimenti, sicurezza del pubblico e dell’arena non può mai sbagliare, a differenza nostra che ci prendiamo pure gli applausi. Sono queste persone il vero motore dei live: noi Subsonica abbiamo lo stesso gruppo che viaggia e vive con noi da quindici anni, fanno parte della nostra cerchia, senza il loro apporto saremmo perduti. Abbiamo firmato senza indugi, ma non escludiamo di intervenire in modo più concreto, se le cose non dovessero sbloccarsi”.

Anche perché, misure istituzionali a parte, la filiera rischia un tracollo irrecuperabile, in caso di congelamento prolungato dei calendari. “Noi siamo al terzo rinvio forzato del tour nei club: questo penalizza ancor di più i lavoratori intermittenti. E la situazione è talmente nebulosa che nessuno può azzardare previsioni. Siamo nelle mani degli scienziati chiamati a individuare un vaccino. Da musicista, sarei a disagio a esibirmi in un concerto dove qualcuno dovesse rischiare la salute. Le performance casalinghe in rete? Possono servire ora, durante la quarantena, ma le vedo solo come un palliativo. Senza contatto diretto con il pubblico tutto perde di senso”, conclude Max.

Anche Rodrigo D’Erasmo, violinista virtuoso degli Afterhours, non si lancia in previsioni sugli scenari futuri della musica live. “Come minimo, bisognerà aspettare fine luglio. Non mi pare onesto continuare a vendere biglietti per eventi precedenti. Occorrerà fare i conti anche con l’effetto diffidenza del pubblico, che forse non avrà voglia di accalcarsi in un palasport o in uno stadio rischiando il contagio. E come fai i controlli? Misuri la temperatura a tutti quelli in coda? Se trovi un ragazzo positivo annulli lo show? No, è presto per capire come andrà. Ma di certo i tour rinviati o annullati potrebbero assestare un colpo mortale al settore, che in due mesi ha già perso decine di milioni. I primi a rimetterci sono proprio i lavoratori intermittenti: ecco perché questa petizione è decisiva. Mi rincuora sia finita sul tavolo del ministro Franceschini. Il collasso della cultura frana sull’economia del Paese, e senza l’apporto dei nostri tecnici, dai backliner ai direttori di palco ai roadies, non ci sarebbe modo di garantire gli spettacoli. Sono professionisti che meritano rispetto e considerazione: guai se li lasciassimo andare a fondo, o se fossero costretti ad accettare la logica da strozzini del massimo ribasso, lavorando per due lire per non finire sul lastrico”.

Il palco brucia 150 milioni

Calato il sipario, è tempo di primi bilanci: impietosi. A poco più di un mese dalla chiusura alla spicciolata dei teatri italiani, si sono già persi 150 milioni di euro, una stima largamente per difetto.

La prosa. Le valutazioni a spanne le abbiamo fatte con Federvivo, la federazione che, in seno all’Agis, raccoglie tutto il comparto dello spettacolo dal vivo: già nella prima settimana di chiusura (dal 24 febbraio al 1° marzo), che ha interessato solo quattro Regioni del Nord “forti per pubblico” (Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna), sono stati bruciati 10 milioni di euro e soppressi oltre 7 mila spettacoli. Dall’8 marzo la serrata si è estesa a tutta Italia, con perdite – a essere ottimisti – “di almeno 20 milioni alla settimana”, spiega il presidente di Federvivo Filippo Fonsatti, anche direttore dello Stabile di Torino. A Pasqua arriveremo dunque a oltre 120 milioni in fumo. “La conta dei danni si potrà fare solo alla fine, e paradossalmente sono meno preoccupato di questa fase acuta, in cui le perdite sono elevate ma i costi diminuiscono, che della cosiddetta fase 2: il distanziamento sociale in platea porterà molti meno ricavi da sbigliettamento, -50/60 per cento, e la riduzione dei cachet per le compagnie ospiti, ma soprattutto come si reciterà sul palco?”. Vedremo forse tutti monologhi, numeri d’avanguardia, Giulietta perennemente confinata sul balcone e Desdemona uccisa a distanza: lo strangolamento non rientra nel Dpcm. La possibilità di un “crollo è reale: oggi c’è un grave problema di liquidità, ma domani si rischia di compromettere gli equilibri di bilancio. Poi bisognerà capire come reagirà il pubblico”. Preoccupato è anche Sergio Escobar, direttore del più importante teatro italiano, il Piccolo di Milano: “Mi pare assolutamente prematuro e, per certi aspetti, riduttivo, dettagliare dati in continua evoluzione… In una prospettiva prudenziale, comunque, li stiamo valutando, a oggi, in oltre 90.000 presenze in meno. Preferisco, ora, un silenzio operoso, senza dare giudizi… Il pubblico tornerà, ma comprensibilmente disorientato”. Con la capienza delle sale ridotta, finanche di 2/3, sarà difficile garantire la stessa sostenibilità delle recite. Della prosa, ma soprattutto dell’opera.

La lirica. “Tener chiuso un teatro è più complicato che tenerlo aperto”, racconta Francesco Giambrone, sovrintendente del Massimo di Palermo e presidente di Anfols, l’associazione che raccoglie le 12 principali Fondazioni Lirico-Sinfoniche, escluse la Scala e Santa Cecilia. “La lirica in neanche un mese ha perso 15 milioni di euro, a cui vanno aggiunti i 5,5 della Scala, mentre di Santa Cecilia non ho contezza. Per noi riaprire col distanziamento sociale – sacrosanto per la salute dei cittadini – sarà impossibile. Si immagina il coro a cantare con la mascherina, o i danzatori che non si possono sfiorare, o i maestri nella buca a un metro di distanza? Ogni opera impiega in media 200-250 persone, su e giù dal palco… E gli artisti internazionali come potranno viaggiare?”. Le Fondazioni liriche, già in salute precaria, rischiano quindi di morire con il Covid-19? “Saremo indubbiamente gli ultimi a riaprire e si registreranno passi indietro, ma adesso è il momento di ripensare a noi stessi, cercando di mantenere vivo, grazie al web, il legame con il pubblico. Vogliamo essere ottimisti: ce la faremo. Il teatro chiuso è una ferita per la comunità”.

La cura. Il Mibact ha istituito due Fondi del valore complessivo di 130 milioni di euro, ma ancora non è stato deciso come saranno ripartiti in tutto il comparto – prosa, lirica, danza, circhi, festival… – e persino il cinema. Briciole, insomma, ma il ministero non ha ritenuto opportuno rispondere ai nostri quesiti, pur ripetutamente sollecitati. In ogni caso, il Dpcm “Cura Italia” prevede tutele per gli autonomi, anche dello spettacolo: i famigerati 600 euro a chi ha partita iva o a chi è iscritto al Fondo pensioni deputato e ha almeno 30 contributi giornalieri nel 2019, un reddito annuo (2019) non superiore a 50.000 euro e nessun trattamento pensionistico o rapporto di lavoro dipendente alla data del 17 marzo. Le imprese potranno poi beneficiare dei prestiti agevolati dell’ultimo “Decreto Liquidità”, ma dall’Agis sono scettici: “Ne avrà accesso una sparutissima minoranza”.

Gli esodati. Così si sentono infine i lavoratori intermittenti – tecnici, maestranze, truccatori, fonici, comparse… – che non potranno beneficiare dei succitati 600 euro né della cassa integrazione. Il solito pasticcio burocratico: “Molti di noi – spiega Elio Balbo, tra i professionisti supportati da Adl Cobas – avevano un contratto in essere alla data del 17 marzo, requisito che ci impedisce appunto di accedere al bonus per gli autonomi. Tuttavia, non essendo dipendenti, non possiamo ricevere altri ammortizzatori sociali o forme di sostegno. Siamo appesi tra l’incudine e il martello, e siamo in 200 mila a subire questa situazione, se non di più”. Molti guai li sta passando anche chi non è finanziato dal Mibact, ma solo dagli enti locali: “Stiamo assistendo a reazioni diverse”, chiosa Francesca D’Ippolito, presidente di Cresco (Coordinamento delle realtà della scena contemporanea). “Ci sono Regioni virtuose, come l’Emilia-Romagna, che stanno erogando liquidità, ma al Sud, purtroppo, c’è molta più difficoltà”. Per non parlare del lavoro nero nel mondo dello spettacolo. E non.

L’australiano meglio in convento che a Roma

George Pell era già il passato per il Vaticano, doloroso, ancora fresco, però passato. Quando ritorna, il passato, si rischia di farsi cogliere impreparati.

La sentenza che ha assolto il cardinale incriminato di pedofilia, due condanne e più di un anno di carcere, fa un rumore sordo, produce un comunicato prudente e un intervento generico di Jorge Mario Bergoglio.

Oltre a ricordare le dichiarazioni di innocenza di Pell, il Vaticano non rivendica di aver sottoposto un alto prelato alla giustizia australiana, ma conferma la volontà di stanare chi commette abusi sessuali e di rispettare il lavoro dei magistrati. La reazione di papa Francesco, che affidò al porporato l’utopistica riforma delle finanze con il ministero per l’Economia nonché un posto nel consiglio dei cardinali, una sorta di esecutivo del pontefice, va rintracciata nell’omelia mattutina nella chiesa di Santa Marta, a pochi minuti dalla lieta notizia pervenuta dall’altra parte del mondo: “Preghiamo insieme per tutte le persone che soffrono una sentenza ingiusta a causa dell’accanimento”, e sembra un commento al proscioglimento di Pell, una interpretazione innegabile, che ha aperto l’edizione dell’Osservatore Romano, mentre i fatti australiani li hanno collocati più in basso, in un trafiletto di cronaca spalmato in due pagine.

Per l’intera giornata di ieri non è accaduto altro e il cardinale si immerge di nuovo nel passato, quando in Australia si discute della fragilità della giustizia e anche di possibili ulteriori accuse al porporato e alla chiesa locale sconvolta dalla voluminosa inchiesta della Royal Commission.

Pell fu creato cardinale da Giovanni Paolo II, Benedetto XVI ne ritardò l’ingresso in Curia, Francesco gli ha donato un lungo tratto del suo pontificato, ma ormai – di questo ragionano in Vaticano – il cocciuto George Pell, in grado di litigare con diversi prefetti, ha 78 anni e mezzo, è un pensionato, non ricopre incarichi, le sue condizioni di salute – e la pandemia in corso, ovvio – non gli permettono di rientrare a Roma. Almeno è la speranza del Vaticano.

Il Papa ha riconosciuto a Pell il coraggio di affrontare la giustizia, di spogliarsi dell’immunità, di prendere un volo di solo andata. Fu il primo caso, il più eclatante, ma si tratta di una “prassi” si fa notare dalla Santa Sede, diventata inviolabile con Bergoglio: nessuno sfugge ai tribunali dietro al colonnato di San Pietro. Perciò il Vaticano non ha parole di giubilo per il porporato scagionato, soprattutto in un momento di sofferenza per l’umanità. George “il ranger” in Australia ha il sostegno della chiesa, avrà ovunque ospitalità, potrebbe ritirarsi in un convento. E non vedere mai più Roma.

Pell assolto: il cerimoniere più attendibile delle vittime

George Pell è libero e ha trascorso la sua prima notte in un monastero di Melbourne. L’Alta Corte australiana ha ordinato il rilascio del cardinale in carcere da 400 giorni – su sei anni che doveva scontare – dopo che una giuria nel 2019 aveva confermato la sua colpevolezza per atti di pedofilia su due coristi di 13 anni nel 1996, nella Cattedrale di San Patrizio a Melbourne, quando era arcivescovo.

Secondo l’Alta Corte, infatti, c’è “una possibilità significativa che una persona innocente sia stata condannata in base a prove che non hanno dimostrato la sua colpevolezza”, cioè, secondo i sette giudici, la giuria “se avesse agito razionalmente sull’insieme delle prove, avrebbe dovuto nutrire un dubbio in merito alla colpa” di Pell. Quindi? Condanne annullate, “al loro posto la Corte inserisce verdetti di assoluzione”.

La chiave di tutto, nonché la “prova” che i giudici contestano al tribunale della contea che l’avrebbe sottovalutata è la testimonianza di monsignor Charles Portelli, accompagnatore di Pell e suo cerimoniere quando presiedeva la messa domenicale; è proprio il racconto di Portelli a determinare “il ragionevole dubbio” sul fatto che l’ex arcivescovo avesse potuto aggredire sessualmente i due coristi. Secondo Portelli, infatti, Pell era “solito salutare i congregati sopra o vicino al sagrato della Cattedrale dopo la messa solenne della domenica”. Il che sarebbe “incompatibile con il racconto del denunciante”, cioè del corista. In più i giudici della Contea non avrebbero tenuto conto “della prassi storica e consolidata della chiesa cattolica che richiedeva” a Pell, “in quanto arcivescovo di essere sempre accompagnato quando era in abito talare nella Cattedrale”. E – non ultimo – i giudici vittoriani avrebbero sottovalutato anche “il continuo traffico in entrata e in uscita dalla sagrestia dei sacerdoti per 10 o 15 minuti dopo la conclusione della processione a fine messa della domenica”. Come a dire che è pacifico che se Pell avesse trascorso 10 minuti o più a parlare con i credenti, non avrebbe potuto commettere i reati di cui era accusato.

Si chiude così, grazie alla testimonianza cruciale di Portelli, uno dei casi più controversi della giustizia australiana, nonché il caso più noto di pedofilia ecclesiastica, benché secondo uno dei giudici che aveva condannato l’ex arcivescovo “il cerimoniere Portelli portando la testimonianza di una prassi consolidata, non era stato in grado tuttavia di ricordare dettagli sul caso specifico”. “La decisione sarà impopolare, ma è giusta”, commenta in prima pagina The Sydney Morning Herald. “L’assoluzione di Pell mette sotto processo i tribunali vittoriani e dimostra che hanno bisogno di un controllo”, sono i titoli del giornale di Melbourne. Da parte sua Pell, appena rilasciato da Barwon, accompagnato da quattro auto blu, se n’è andato nel monastero carmelitano di Kew rilasciando un sintetico comunicato: “Ho costantemente sostenuto la mia innocenza mentre soffrivo di una grave ingiustizia”. Ma il tentativo di Pell di riabilitare la sua reputazione potrebbe venire ostacolato da ulteriori scoperte fatte su di lui dalla “Commissione reale in risposte istituzionali” riguardo all’abuso sessuale su minori. Il procuratore generale Christian Porter, infatti, ha fatto sapere che nelle prossime settimane deciderà se prendere in considerazione le informazioni su abusi di minori presenti nel rapporto finale, dato l’enorme interesse pubblico. La decisione spetterà anche al governo che potrebbe non acconsentire visto che secondo il primo ministro Scott Morrison “continuare a discutere di queste cose non fa altro che causare dolore” a molti australiani e “bisogna rispettare il verdetto della Corte”.

Il ricovero urgente di BoJo e lo scoop poco ortodosso

Come sta Boris Johnson? Versione rassicurante di Downing Street: ha passato una seconda notte tranquilla ed è di ottimo umore. Non ha la polmonite. Non è sottoposto a ventilazione meccanica o supporto respiratorio invasivo, cioè non è intubato. Respira da solo, con un semplice supporto standard per facilitare l’ossigenazione. Ma il Paese resta angosciato. In mancanza di immagini, è vero che le condizioni del primo ministro sono stabili e non peggiorate? Domenica sera, il suo ricovero in contemporanea con il discorso alla nazione della regina Elisabetta, alle 20, era stato giustificato come misura precauzionale. Poco dopo la mezzanotte di lunedì l’agenzia di Stato russa Ria Novosti riportava la notizia in tono neutro, tranne per un passaggio: una fonte “vicina ai vertici di NHS England” – il sistema sanitario – che dichiara “Johnson è stato ricoverato in emergenza e gli sarà somministrata ventilazione artificiale”. Downing Street liquida la ricostruzione come ‘disinformazione’. Ma in serata rivela: condizioni peggiorate, il primo ministro è in terapia intensiva ma respira autonomamente. I russi hanno tirato a indovinare, anticipando per caso uno dei possibili esiti? Secondo quanto abbiamo potuto ricostruire, la notizia sarebbe stata “confezionata” a Mosca e da Mosca attribuita alla redazione londinese. Perché? Chi è la fonte citata? Se esiste davvero, ed è vicina alla leadership di NHS, lo è anche al governo? E se la notizia non è passata per i canali giornalistici presenti a Londra, può essere passata per canali “diplomatici”? Domande lecite, con alcune possibili risposte: 1) Mosca ha voluto destabilizzare il Regno Unito descrivendo una situazione più grave di quella reale. 2) Mosca ha voluto mandare un messaggio: abbiamo una fonte molto in alto, siamo al corrente di quello che sta succedendo. Intanto il conto dei morti sale tragicamente: 786 ieri, per un totale di 6.159. Sono solo quelli in ospedale; i decessi extra-ospedalieri non vengono aggiornati quotidianamente.

 

Stati Uniti
Primarie, nel Wisconsin si vota Trump: “Oms troppo filocinese”

Contro mari e maree, nel Wisconsin oggi si vota per le primarie: l’epidemia non smuove la Corte Suprema dello Stato, dove da circa due settimane vige l’ordine di stare a casa. La Corte ha bloccato l’ordinanza del governatore Tony Evers, democratico, di posticipare le primarie al 9 giugno. Nello Stato, vi sono almeno 2.000 casi di contagio confermati e un’ottantina di morti. Impossibile prevedere quale sarà la partecipazione alle primarie e che significato possano avere in queste condizioni. Intanto lo Stato di New York con i suoi 138.836 casi di coronavirus supera l’Italia (135.586). Complessivamente gli Stati Uniti hanno 378.289 casi e 11.830 morti. Continua il dibattito sulla clorochina, un farmaco anti-malaria, che sarà sperimentata nel Michigan, a Detroit, su tremila contagiati, annuncia Mike Pence: l’Amministrazione vuole portarne milioni di dosi nelle aree più investite dal contagio. Ad esempio a New Orleans, dove il tasso di mortalità è ora il doppio che a New York, la città in assoluto più colpita: quasi 40 morti ogni 100 mila abitanti. Il presidente Trump si scaglia contro l’Organizzazione Mondiale della Sanità: “Troppo filocinese, nonostante sia finanziata in gran parte da noi, e ha sbagliato”,
g.g.

 

Svezia
La resa: più poteri all’esecutivo, meno libertà contro il contagio

Dal 18 aprile al 30 giugno il governo svedese avrà maggiori poteri che gli consentiranno di chiudere i ristoranti, limitare gli spostamenti e gli assembramenti. La legge, approvata dopo lunghi negoziati, permetterà all’esecutivo di “agire più rapidamente, se necessario, per fermare l’emergenza coronavirus”, ha spiegato il premier Stefan Lofven, ammettendo che “la crisi durerà più a lungo di quanto previsto”. A pesare sulla decisione della Svezia, dapprima contraria alla quarantena per “salvaguardare la libertà dei cittadini”, il bilancio delle vittime del Covid-19, aumentate di oltre 100 nelle ultime 24 ore, per un totale di 591 decessi. In crescita anche i contagi arrivati a 7.700: motivo per cui l’ultimo Paese europeo che ancora non aveva attuato il lockdown sta pensando di chiudere le attività commerciali e limitare gli spostamenti, se l’epidemia dovesse peggiorare, come lascia presagire. Misure queste che partirebbero dal 18 aprile, cioè tra 10 giorni, e che resteranno sotto la supervisione del parlamento che potrà annullarle in 3-4 giorni. Mentre anche i media si dividono tra cassandre che invocano l’esempio di Johnson e chi accusa di “totalitarismo” la cultura del lockdown invocando Orwell, i paesi confinanti, come la Finlandia, annunciano più controlli alla frontiera.