“Sure”, la montagna Ue ha partorito il topolino

La Commissione europea ha annunciato il 2 aprile scorso la proposta di un meccanismo a sostegno degli Stati membri impegnati in misure a sostegno dei rispettivi mercati del lavoro (sussidi di disoccupazione, sostegno ai redditi, part-time involontario, sostegno ai redditi autonomi ecc.). Il meccanismo è stato discusso all’Eurogruppo (i ministri delle Finanze dell’area euro) di ieri, e sarà quasi certamente lanciato dal prossimo Consiglio Europeo. Il nuovo “strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione in un’emergenza” (Sure secondo l’acronimo inglese) è stato presentato in pompa magna come una “cassa integrazione europea”, vale a dire come un meccanismo di solidarietà. Si è fatto riferimento in modo subliminale ai molti progetti di sussidi di disoccupazione europei, vale a dire meccanismi di mutua assicurazione per assorbire le fluttuazioni dell’occupazione. È così? Purtroppo, no.

Ma vediamo come funzionerà questo fondo, prima di analizzarne potenzialità e difetti. Sure assumerà la forma di un programma di prestiti agli Stati membri. La base giuridica di Sure, che la Commissione considera “ad hoc e temporaneo”, è l’articolo 122 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (“Tfue”), in base al quale uno Stato membro in difficoltà a causa di circostanze eccezionali, può chiedere assistenza finanziaria dall’Ue. Lo stesso articolo, per capirci, che fu utilizzato per i programmi di sostegno ai paesi in crisi nel 2010. La Commissione creerà un Fondo allo scopo di raccogliere fondi ai tassi preferenziali di cui essa gode grazie al suo rating, e li trasferirà agli Stati membri che non possono finanziarsi alle stesse condizioni. Sure potrà reperire sui mercati fondi fino a un massimo di 100 miliardi di euro, per ridistribuirli ai paesi che ne facciano richiesta. Non vi sono dotazioni prestabilite per i singoli Stati membri: l’importo, il tasso e la durata del prestito sono decisi dalla Commissione, dopo aver valutato l’entità della spesa pubblica direttamente correlata al sostegno del mercato del lavoro. Il fondo dovrà essere dotato di un capitale da portare a garanzia del prestito, capitale fornito dagli Stati membri in proporzione al proprio peso sul Pil europeo.

È chiaro quindi che Sure non ha nulla a che vedere con un meccanismo di solidarietà, con una cassa integrazione europea. Si tratta semplicemente di un meccanismo di prestiti che, come molti che lo hanno preceduto, è volto a garantire che il paese beneficiario ottenga tassi di interesse ragionevoli. Tuttavia, contrariamente al Meccanismo europeo di stabilità (Mes) di cui tanto si discute in questi giorni, Sure potrebbe essere attivato con una condizionalità molto leggera, quindi essere un valido sostegno soprattutto per quei paesi le cui finanze pubbliche rendono problematico il finanziamento sui mercati.

Ma è qui che i nodi vengono al pettine. Sure è stato concepito dalla Commissione in modo che il suo utilizzo non ne minacci il rating. Quindi tutto lo schema è costruito con in mente la sostenibilità finanziaria. I cento miliardi di euro annunciati saranno effettivamente erogati solo se i paesi si impegnano a conferire il 25% di tale importo in capitale di garanzia. Inoltre, sono previsti limiti all’ammontare dei fondi disponibili per ciascun paese, e quindi il risparmio potenziale rispetto ad un normale finanziamento sui mercati.

Facciamo solo un esempio. Supponiamo (anche se è tutt’altro che ovvio) che gli Stati membri apportino sufficienti capitali in garanzia da far raggiungere al fondo la piena capacità, cento miliardi. Prendiamo i due paesi che molto probabilmente avranno più bisogno del fondo, Italia e Spagna, e assumiamo, sempre ottimisticamente, che ognuno di essi riesca ad ottenere un prestito di venticinque miliardi. Se si prendono i livelli di tassi di oggi (1,7% e 0,75% rispettivamente per una maturità di 10 anni), finanziandosi sui mercati l’Italia pagherebbe 425 milioni annui di interessi, e la Spagna 188. Quindi, se anche tramite Sure i tassi di interesse scendessero a zero o quasi, il risparmio sarebbe lo 0,02% del Pil per entrambi i paesi (e no, non abbiamo sbagliato a mettere la virgola). Certo, se l’Italia o la Spagna dovessero reperire queste somme sul mercato i tassi di interesse salirebbero; ma visti gli ordini di grandezza, a meno di cataclismi il risparmio garantito dal Sure rimarrebbe estremamente limitato. A rendere l’operazione ancora meno conveniente viene il fatto che per accedere al finanziamento l’Italia e la Spagna dovranno versare capitale rispettivamente per 2,7 e 1,9 miliardi di euro (corrispondenti alle rispettive quote possedute del Reddito nazionale lordo dell’Ue dell’11% e del 7,6%).

La montagna ha partorito un topolino, dunque. Ma questo non vuol dire che sia inutile. In primo luogo, Sure potrebbe essere operativo abbastanza in fretta, e quindi dare sollievo a paesi esausti per la lotta alla pandemia. In secondo luogo, una volta superata l’emergenza il fondo potrebbe essere reso permanente e trasformato in un reale strumento di mutua assicurazione. La storia europea ci insegna che è sempre più facile costruire sull’esistente che introdurre strumenti nuovi. Quindi ben venga il Sure, per (il poco) che può fare e per i potenziali sviluppi futuri. Ma attenti a non illuderci che esso possa costituire l’asse della risposta europea alla crisi.

* Vicedirettore dell’Ofce, il centro di ricerca sulle congiunture economiche di Sciences Po (Parigi)

Un liberista e i pericoli dello statalismo

Quattro idee sul futuro del dopo virus:

1) Dobbiamo combattere uno Stato informatizzato con tecniche modernissime, che non deve poter usare contro di noi. Il nuovo “capitalismo di sorveglianza”, incarnato da Google, Amazon ecc. si può combattere finché rimane privato, ma se si allea con lo Stato diventa molto pericoloso.

2) Dobbiamo combattere il rinascente nazionalismo, ammantato da forti ragioni “sociali”. La spesa in deficit, indispensabile ora, può diventare la nuova regola in futuro. Corollario di uno stato forte è poi l’abolizione di ogni potere regionale, che renderebbe meno governabile il Paese. Certo che le regioni non si sono mosse in modo unitario contro il virus, ma si sono anche imparate cose da questa diversità: Zaia in Veneto ha puntato subito, con successo, su un amplissimo uso dei tamponi. C’è solo da sperare che altri lo imitino.

3) La concorrenza è ciò che rende tollerabile il capitalismo e ciò che lo rende un motore di crescita del benessere collettivo. Ma non piace né agli industriali né ai sindacati. Il monopolio, pubblico o privato è più rassicurante. Padroni e sindacati tornassero a parlare di lotta di classe invece di continuare questo miope abbraccio sotto gli occhi benevoli della politica.

4) Corollario di politiche anticoncorrenziali è la creazione del capitalismo di Stato, con nuovi colossi pubblici tipo IRI, nei quali nessuno potrà guardar dentro, e saranno fertili pascoli di sottogoverno. Dei dubbi? Alitalia è stata subito pubblicizzata, lo stesso ha fatto il Salvini inglese Boris Johnson con le ferrovie.

Questa tentazione era emersa già negli ultimi governi di centrosinistra: il leviatano Fsi più Anas più Alitalia etc. si è andato potenziando negli anni, senza senso industriale, avendo contenuti innovativi nulli. E ora ci si difende con strumenti a tutela degli “asset nazionali”. Questa blindatura causerà comportamenti simmetrici degli altri paesi e creerà problemi interni. Benjamin Johnson diceva: “Il patriottismo è l’ultimo rifugio dei vigliacchi”.

Sblocca-cantieri? Intanto c’è lo sblocca-regali a Bonsignore

Ha il sapore stantio dello spreco la ripartenza post coronavirus dei lavori per le grandi infrastrutture preparata dalla ministra dei Trasporti, Paola De Micheli (Pd) e dal viceministro Giancarlo Cancelleri (5 Stelle). Qualche giorno fa i due hanno dato il via libera alla costruzione dell’autostrada tra Ragusa e Catania attesa da quelle parti da decenni. Alla decisione hanno allegato, però, un bel regalo di più di 35 milioni di euro per Vito Bonsignore, siciliano di Bronte, torinese di adozione, imprenditore del ramo autostrade, in gioventù politico democristiano, poi sottosegretario e parlamentare italiano ed europeo di partiti di centrodestra, da Forza Italia all’Udc.

Ora stanno preparando il bis, anzi il tris: stanno sbloccando infatti i lavori per la Orte-Mestre, infrastruttura importantissima che con una spesa di oltre 7 miliardi di euro dovrebbe collegare in maniera decente il Tirreno e la parte alta dell’Adriatico. E anche in questo caso stanno inserendo nel pacchetto un secondo regalo, più sostanzioso del precedente (circa 90 milioni di euro), sempre a favore di Bonsignore. E infine il tris: autostrada Termoli-San Vittore (spesa prevista 1 miliardo e 200 milioni), con annesso per le terza volta un regalo per Bonsignore di un’altra trentina di milioni di euro. Totale: più di 120 milioni che lo Stato spenderà inutilmente per far ripartire i lavori dopo la grande glaciazione di queste ultime settimane.

Le tre storie sono molto simili. La madre degli sprechi è la Ragusa-Catania, la cui vicenda ha inizio a novembre di 13 anni fa. La società Silec del gruppo Bonsignore presenta al ministero un project financing per la costruzione dell’autostrada cercando di mettere così il cappello sulla grande opera. Passa il tempo e del nuovo collegamento viario siciliano sembra si siano dimenticati tutti, ma all’improvviso, 7 anni dopo, il ritorno di fiamma: il 7 dicembre 2014 a Bonsignore viene rilasciata dal ministero la concessione per quell’autostrada. I lavori, però, non partono lo stesso: il gruppo di Bonsignore prepara un piano che ha il piccolo difetto di non reggersi in piedi perché per renderlo attuabile ed economicamente accettabile i futuri automobilisti dovrebbero pagare pedaggi quasi tre volte superiori a quelli medi (20,95 centesimi a chilometro contro 7,96 centesimi). Dopo varie vicissitudini un anno fa due ministri del governo di allora (Giovanni Tria dell’Economia e Danilo Toninelli dei Trasporti) prendono atto con una nota congiunta che il progetto di Bonsignore è inattuabile e inutile. A logica dovrebbe essere la pietra tombale sulla vicenda, e invece per Bonsignore è l’inizio di una promettente ripartenza.

Ci pensa l’Anas a far tornare in auge l’imprenditore e politico siculo-piemontese. Siccome il governo ha deciso nel frattempo di far costruire proprio all’azienda stradale pubblica l’autostrada siciliana che Bonsignore non era in grado di realizzare, il nuovo amministratore dell’Anas, Massimo Simonini, ritiene opportuno di comprare proprio da Bonsignore il progetto dell’opera. È una scelta ritenuta “in contrasto con i principi generali in materia di contratti pubblici” dall’Ufficio Vigilanza dell’Autorità anticorruzione che ha esaminato l’iter della Ragusa-Catania individuando in esso almeno 7 tipi di gravi “criticità”.

Simonini, però, non si ferma qui: intende comprare da Bonsignore i progetti di project financing di altre due grandi opere (per farle costruire e gestire proprio all’Anas): la Orte-Mestre e la Termoli-San Vittore. I due progetti, però, sono tali per modo di dire. Quello per la Termoli-San Vittore è solo un preliminare datato 2008 ed è già stato stoppato dal Consiglio di Stato. Quello della Orte-Mestre risale a 8 anni fa, è stato approvato dal Cipe nel 2014 (Comitato per la programmazione economica), ma bocciato senza appello dal Consiglio superiore dei lavori pubblici.

Storia di Cimbri perché le coop son finite nella fusione Intesa-Ubi

C’è un fantasma che s’aggira per la fusione tra Intesa Sanpaolo e Ubi: non il proletariato, ma il suo banchiere, diciamo così. Si parla di Carlo Cimbri, gran capo di Unipol e plastica rappresentazione di quant’è cambiato in pochi anni lo stagno del mondo finanziario italiano. Carlo Messina, infatti, ha potuto far partire la sua mossa ostile sulla banca lombarda solo appoggiandosi a uno strano duo: il suo antico “nemico” Alberto Nagel di Mediobanca e il di lui più fedele sodale, Cimbri appunto. Domanda: che c’entra il numero 1 della compagnia delle coop, nata per rafforzare la mutualità del sistema, con la fu banca d’affari del capitalismo “laico”, a sua volta finita a reggere il gioco all’ex “tempio” della finanza cattolica? Un tempo niente, oggi tutto.

Come tutto inizia: “Abbiamo una banca”

Il salto della barricata di Cimbri parte ben prima dell’inizio del suo regno, all’ingrosso quando sfuma il sogno delle coop di entrare nella stanza dei bottoni della finanza. Il fallimento della scalata di Bnl da parte di Unipol del 2005, infatti, spazza via Giovanni Consorte, ma non Cimbri, all’epoca dell’operazione sponsorizzata dai Ds (“abbiamo una banca”) già direttore generale: prenderà in mano le redini del gruppo nel 2010 conoscendone bene le debolezze, quelle che – complice la crisi dello spread che deprezza i titoli di Stato – metteranno Unipol all’angolo nel giro di un anno. Per uscirne, qualcuno si è messo nelle mani dello Stato, altri in quelle dell’ex “salotto buono”.

La parabola è ricostruita in dettaglio dall’inchiesta giudiziaria sulla fusione tra Unipol e Fondiaria-Sai, che da tempo rimbalza da Milano a Torino e ora, da due anni, è ferma in Lombardia. Certamente non aiuta il fatto che le ipotesi dei pm di Torino mettano in discussione la più importante operazione finanziaria dell’ultimo decennio, quella che ha traghettato Fondiaria dentro Unipol, togliendo le castagne dal fuoco sia a Mediobanca, sia alle coop. Secondo il pm torinese Marco Gianoglio, infatti, le carte erano truccate e il vincitore ha portato a casa il premio solo perché ha barato.

Tesi tutta da dimostrare al processo, ammesso che ci si arrivi. Resta però il fatto che le indagini alzano il velo sul braccio finanziario delle coop, che negli anni oggetto dell’inchiesta era alle prese con una bomba fatta in casa. Unipol Banca aveva prestato a piene mani denaro alle cooperative azioniste, soprattutto a quelle del mattone, le quali però stentavano a restituire i soldi. E così l’istituto aveva inguaiato la casa madre che, in un gioco di specchi, garantiva la solvibilità della banca mentre il comparto assicurativo era a sua volta – e in piena crisi finanziaria – alle prese con un cospicuo portafoglio di derivati.

La situazione è cristallizzata nei resoconti di due ispezioni di Bankitalia datate 2008 e 2012. La banca, racconta ai magistrati torinesi il funzionario Giuseppe Cicardo, aveva optato per una forte espansione del credito nel settore immobiliare senza “un’adeguata attività istruttoria”. In pratica, il grosso dei finanziamenti finiva nelle casse del “mondo delle cooperative” e a circoli “contigui all’ambiente Unipol” e peraltro in “assenza di approfondito vaglio” e con la “mancanza di alcuni elementi essenziali di istruttoria”. Come se non bastasse il presidente Pierluigi Stefanini era “legato al mondo delle coop” e accadeva che “alcune erogazioni potevano essere effettuati a seguito di decisioni del presidente stesso, alla stregua di semplice richiesta”. Unipol Banca, insomma, prestava soldi agli amici senza fare troppe domande e senza porsi troppi problemi.

La fusione Unipol-Sai: ‘Carlone’ e ‘comandante’

È in questo contesto che l’istituto scarica il rischio delle partite anomale sulla casa madre. L’ancora di salvezza verrà da Mediobanca, che suggerisce a Unipol di comprare Fondiaria. L’obiettivo è “salvare” Bologna attraverso il “salvataggio” delle società di Salvatore Ligresti: entrambe hanno in comune una situazione difficile e troppi debiti con Piazzetta Cuccia, ma i vertici di FonSai non sono più “affidabili” come una volta, mentre tra il numero uno di Unipol e quello di Mediobanca – che oggi si chiamano affettuosamente tra loro “Carlone” e “Comandante” – i rapporti sono molto più promettenti.

Il problema vero è far quadrare i conti: il valore di Unipol deve essere abbastanza alto da consentirle di mantenere il controllo del gruppo dopo la fusione. Proprio su questo punto verte l’indagine della magistratura, in cui si sottolinea come Unipol, una volta diventato il primo socio della holding che controllava FonSai, ne abbia sostituito i vertici prima delle nozze con uomini di sua provata fiducia: in pratica il compratore diventa anche il comprato e il prezzo può deciderlo secondo “elaborazioni matematiche”, cioè “senza l’utilizzo di forme valutative”, con l’unica finalità di arrivare al risultato predefinito, sostiene la perizia dei consulenti della procura di Torino, Flavio Dezzani ed Enrico Stasi. La mossa, sottolineano i periti, “consentì a Unipol Gruppo Finanziario – società controllante – di affidare al suo advisor Lazard l’incarico di calcolare i rapporti di cambio prima che i valori economici delle società coinvolte nella fusione venissero determinati dai singoli advisor”. Per i due esperti, è la “più grave operazione anomala” dell’intero processo: “i rapporti di cambio calcolati dagli advisor” servirono solo ad arrivare a valori già definiti “nella fase negoziale” per lasciare a Bologna il controllo.

I due periti sottolineano poi come sotto il nuovo management vicino a Unipol vengano effettuate svalutazioni straordinarie di immobili FonSai che giocano a favore del compratore: “I risultati economici previsionali di Fondiaria-Sai e Milano Assicurazione per l’esercizio 2013 – scrivono i periti – scontavano gli effetti delle pesanti perdite dichiarate negli anni passati (2011 e 2012) a causa, anche e soprattutto, della contabilizzazione di poste di natura straordinaria che non avrebbero dovuto essere incluse”. Ironia vuole che negli anni successivi il rilancio di Milano sia avvenuto proprio sulle ceneri del patrimonio immobiliare del gruppo Ligresti: terreni e permessi dove oggi sorgono Bosco verticale, torre Unicredit, City Life e dove è in arrivo il Nido verticale, il grattacielo di Unipol.

La conquista di Bper e l’operazione Ubi

Anche dopo la conquista di Fonsai, il polo del credito resta un tarlo per Cimbri. Gli inquirenti di Torino registrano febbrili trattative per la vendita di Unipol Banca. Prima Cimbri cerca di piazzarla a Unicredit in cambio del 2% della banca milanese per trasformare “una serie di problemi in una roba di respiro”: il colpo non riesce. Poi arrivano altri inviti a nozze, come un futuro con la Popolare dell’Emilia Romagna (Bper) e Montepaschi. Ma Siena, nota Cimbri al telefono con Stefanini a inizio 2016, “si è mangiata 10 miliardi di aumento di capitale, che cazzo c’è dentro?”.

Poco dopo, il manager rivela al suo braccio destro Roberto Giay, che proprio Ubi avrebbe manifestato interesse per Unipol Banca attraverso l’ex parlamentare Gregorio Gitti, allora genero del banchiere bresciano Giovanni Bazoli. L’interesse, a detta di Cimbri, c’è “perché lui ha bisogno di rafforzarsi”, sia in termini di azionariato che di struttura: l’obiettivo, sostiene, sarebbe acquistare Mps avendo le spalle coperte. I due quindi ragionano di una soluzione al problema Mps che, secondo gli investigatori, consisterebbe in una fusione a tre tra Unipol, Ubi e Mps: “È lo schema Fondiaria… adattato, no?”, dice Cimbri. L’idea è prendere tre realtà, fonderle, fare un aumento di capitale e poi separare i crediti buoni da quelli cattivi: creare una sorta di bad bank, si dicono Cimbri e Giay tempo dopo. Ma non succederà.

E così mentre Unipol Banca continua a pesare sul gruppo, Cimbri inizia a scalare la cugina Bper e rende il suo istituto più appetibile creandosi una bad bank interna. Due anni dopo la mancata fusione, la situazione è questa: Unipol Banca è un po’ meno indigesta e Unipol Gruppo è diventato il primo socio di Bper. A quel punto celebrare le nozze è un attimo: l’operazione con cui nel 2019 l’ex Popolare rileva la banca delle coop viene conclusa in un batter d’occhio e, neanche tre mesi dopo l’acquisto, Unipol Banca viene fusa in Bper e distinguere cosa era di uno e cosa dell’altro è quasi impossibile. Difficile quindi valutare gli effetti su Bper dell’operazione che, tra le altre cose, porta in dote a Modena un fardello da quasi 600 sportelli.

Curioso che anche oggi Bper torni in ballo per ingoiare le “esternalità negative”. Unipol infatti – in virtù del patto di ferro con Nagel – dalle nozze tra Intesa e Ubi porterebbe a casa attività profittevoli nella bancassicurazione; a Bper, invece, Cimbri impone di accollarsi gli sportelli di troppo, togliendo all’operazione il problema dell’antitrust. Mica roba da poco: coi tempi che corrono gli sportelli non si vendono, si chiudono.

Cantieristica in crisi, così lo Stato soccorre ancora la Fincantieri

La crisi colpirà duro quasi tutti i settori dell’economia. Non tutti, però, sono sussidiati pesantemente dallo Stato. Uno di questi è la cantieristica, le cui prospettive sono assai precarie ma questo non impedisce nuove forme di tutela pubblica. Lunedì, per dire, il governo ha varato il decreto per assicurare liquidità alle imprese. Il testo ridisegna la struttura di Sace, l’agenzia al credito per l’esportazione controllata da Cassa Depositi e Prestiti, autorizzandola fra le altre cose a fornire nuove garanzie pubbliche per 7 miliardi di euro su ordini di navi da crociera commissionate a Fincantieri prima dell’esplosione della pandemia. Una mossa che servea puntellare il colosso della cantieristica controllato da Cdp.

Dall’inizio della crisi innescata dal coronavirus i titoli dei grandi armatori delle crociere quotati a Wall Street (ma domiciliati in paradisi fiscali e quindi esclusi dagli aiuti Usa), Carnival, Royal Caribbean e Ncl, hanno perso oltre l’80%, i loro bond hanno subito tagli del rating. Carnival, la più grande, stima perdite per 1 miliardo di dollari per ogni mese di stop. Il riavvio dell’attività è continuamente posticipato, solo in Italia sono già stati cancellati 659 scali per 1,85 milioni di imbarchi/sbarchi (su circa 13 previsti nel 2020). Sulla ripresa della domanda pesano l’effetto lazzaretto (sono molti i casi di navi messe in quarantena perché ospitavano passeggeri contagiati) e l’impoverimento della classe media su cui s’è imperniato il boom del settore, passato dai 17,8 milioni di crocieristi del 2009 agli oltre 30 milioni del 2019.

La crescita è arrivata grazie alla strategia di massificazione decisa anni fa dalle compagnie per moltiplicare i profitti: navi sempre più grandi, capaci di abbattere i prezzi e aumentare i passeggeri. I risultati sono arrivati, anche se molto sbilanciati fra armatori e fornitori. Negli ultimi 3 anni Carnival e Royal hanno distribuito 3,8 e 1,6 miliardi di dollari di dividendi, Msc ha generato 1,1 miliardi di euro di utili. Nello stesso periodo Fincantieri, che le navi invece le costruisce, agli azionisti ha portato 16 milioni di euro di dividendi e chiuso il 2019 con 141 milioni di perdite malgrado ricavi record. Nonostante questo, spiega Fincantieri, la “creazione di valore che tali attività innescano e l’occupazione che generano anche nell’indotto” rende questo settore strategico. E così fra i Paesi rimasti in grado di produrre simili navi (Italia, Francia e Germania) è scattata la competizione ad accaparrarsi queste commesse da più di un miliardo a nave, tanto più che nei primi due Paesi i cantieri che le producono sono pubblici.

Per questo i governi hanno messo in piedi un sistema statale di supporto al credito agli armatori stranieri. In Italia il sistema è gestito dalla Cdp con le controllate Sace e Simest. In sostanza, come riconosce Fincantieri, siccome acquistare navi richiede risorse ingenti, con piani di rientro lunghi (da 15 a 20 anni), gli armatori troverebbero “sul mercato finanziamenti troppo costosi”. E così gli Stati fanno a gara a offrire condizioni finanziarie di favore garantendo gli importi delle commesse, sssumendosi il rischio dei finanziatori delle compagnie e quello di Fincantieri per mancati pagamenti e recupero dei costi. In sostanza Sace fornisce all’armatore le garanzie richieste dagli istituti bancari che lo finanziano e quelle pretese dal costruttore, che in mancanza si esporrebbe troppo per una commessa da centinaia di milioni di costi vivi e due anni di lavori. Sace, a sua volta, in base a una legge del 2003 è coperta dal Ministero dell’Economia.

Giuseppe Bono, l’amministratore delegato di Fincantieri, commentando il bilancio 2019, ha spiegato che “in caso di cancellazioni di ordini abbiamo tutte le garanzie” e che “la priorità è la cura dei clienti e dei partner strategici”. Chi ha prestato le garanzie per “curare” clienti sempre più malconci sono Sace e ministero del Tesoro. Che però si sono rifiutati di rispondere alle domande del Fatto. Il decreto Imprese autorizza il rilascio di garanzie statali su tre tipi di operazioni: le prime sono quelle per le quali c’era già stato il necessario via libera del Cipe (il comitato per iterministeriale per la programmazione economica) a novembre scorso, prima che gli scenari del settore fossero stravolti dalla pandemia; le seconde erano solamente state ritenute ammissibili alla garanzia statale; le terze erano state solo deliberate da Sace. Lo Stato insomma garantirà rischi per 7 miliardi senza un’istruttoria o sulla base di istruttorie datate.

La ratio è quella di perfezionare le commesse prima che vengano cancellate senza penali o quasi dai rispettivi armatori, con effetti micidiali sul portafoglio ordini di Fincantieri (39 unità per 23 miliardi di dollari da qui al 2027). Il paradosso è che per eventuali futuri ordini il Decreto stesso tiene conto del “nuovo scenario di rischiosità sistemica”, che però non vale per le vecchie commesse. Necessario sarebbe poi che Tesoro e Sace, dato l’aumentato rischio di cancellazione di un ordine, chiarissero la concreta esposizione dello Stato. Quella di Sace nel settore è esplosa dopo l’addio, a metà 2016, dell’amministratore delegato Alessandro Castellano: in valore assoluto è triplicato superando i 25 miliardi di euro, al punto che, se a fine 2015 il settore crociere pesava per il 20,7% dell’esposizione totale di Sace (dietro al 21,8% dell’oil&gas) a fine 2018 si è saliti al 41,4%. Insomma, lo Stato si è esposto molto in questi anni per garantire il settore cantieristico. E oggi corre ai ripari con la stessa ricetta, nonostante gli stravolgimenti innescati dalla pandemia.

Il dibattito in Ue spiegato facile da Scannapieco della Bei

Com’è noto il dibattito in Europa è vivacissimo quanto ai nomi da dare alle cose. Siccome la risposta più ovvia alla crisi, cioè interviene la Bce, non pare essere presa in considerazione, l’altra è una sola, anche se si può chiamarla in mille modi. Ve lo spiega Dario Scannapieco, economista e vicepresidente della Bei sul CorSera. Dice: faremo questo, faremo quello. Ma poi? L’Italia deve stare attenta alla “sostenibilità a medio termine del debito pubblico”. Giusto. E quindi? “Da una crisi può nascere anche un’opportunità di ripensare al sistema Italia. Ci troveremo con un elevato rapporto debito/Pil: gestibile se si riuscirà ad accelerare la crescita del Paese e conseguire un adeguato surplus primario”. Il surplus primario, che abbiamo già da vent’anni, è avere più entrate che uscite al netto della spesa per interessi: il numerino magico a cui hanno impiccato la Grecia. L’importante, pare, è la “credibilità”: “L’Italia si troverà un po’ come un’azienda che per raccogliere risorse dai finanziatori deve presentare un business plan ambizioso ma credibile”. Insomma Italia, essendo un’azienda, non ha una Banca centrale e quindi deve tagliare i costi per molti anni, che in scannapiechese si dice “risorse pubbliche impiegate con saggezza e soprattutto verso gli investimenti”. Tradotto: giù la spesa corrente, cioè sanità, scuola, pensioni, sostegni al reddito, stipendi, acquisti di beni e servizi. Tagliarli deprimerà il Pil, ma avremo il surplus primario e la credibilità (certo, servono pure “le riforme”). Questo è il dibattito: qualcuno lo sta dicendo agli italiani?

Russi go home ovvero come si “bucano” le notizie

Con la Russia si sta perdendo il senso delle proporzioni. Mettiamo da parte la questione degli articoli de La Stampa che hanno ipotizzato lo zampino dell’intelligence di Mosca tra i militari che scorrazzerebbero liberamente in quel di Bergamo con la scusa degli aiuti. Un drappello di giornalisti “liberi” vuole provare a dividere la categoria tra buoni e cattivi su questo, ma la notizia di Boris Johnson in terapia intensiva è ancora più surreale.

Rainews, infatti, è stata l’unica fonte italiana a riprendere la notizia dell’aggravarsi delle condizioni del premier inglese nel pomeriggio di lunedì citando l’agenzia di stampa russa Ria Novosti. Il dem Michele Anzaldi subito ne approfitta per sferrare il solito attacco alla Rai: “Dopo le critiche degli intellettuali arrivano anche le proteste degli inglesi, per aver rilanciato la fake news russa sul premier Johnson. Questo è il modo di gestire l’informazione?”.

La povera Rainews cancella la notizia e i vari giornalisti “liberi” dopo aver gridato alla “fake-news” devono rassegnarsi al silenzio quando la notizia si conferma vera. A noi Putin non piace per nulla e Il Fatto è tra i giornali che più di tutti ha dato spazio alle proteste contro il presidente russo (tanto da essere bersaglio di una protesta da parte di filo-russi con tanto di presidio sotto al nostro giornale). Ma se si arriva perfino a non riconoscere una notizia (non ci voleva l’intelligence per capire che se il premier di una potenza mondiale si ricovera qualcosa di grave c’è) c’è un problema. Certo, Ria Novosti si sarà giovata di qualche fonte “poco ortodossa”. Ma attaccare chiunque non si schieri con le campagne stampa precostituite accusandolo di fiancheggiare i regimi autoritari non profuma di liberalismo. E l’anti-complottismo ci mette poco a trasformarsi in complottismo. Tanto più se anche il governo offre il fianco con improbabili task-force anti-fake. Volete il Tribunale dell’informazione?

“A rischio 422 mila posti”. E la metà andranno persi nel settore turistico

La tempesta economica figlia dell’emergenza sanitaria rischia di polverizzare in un solo colpo oltre un terzo dei posti di lavoro recuperati negli ultimi 6 anni, dopo la crisi. Gran parte dei frutti di quella ripresa lenta e faticosa stanno per essere travolti: in Italia, stima Unioncamere, nel 2020 vivremo un calo di 422 mila occupati. Di questi, più della metà oggi opera nel turismo, quindi è già precario e vulnerabile. Ma grossi guai colpiranno anche il commercio, la moda e l’edilizia.

Questa previsione tra l’altro considera la possibilità di rimettere in moto le attività già a maggio, circostanza per ora incerta. Se la fermata dovesse protrarsi, si potrebbero ipotizzare scenari ancora peggiori. Di contro, molto dipenderà anche dal comportamento della politica sia a livello nazionale sia europeo: il report infatti non tiene conto delle misure di sostegno alle imprese che saranno messe in campo, poiché molti di questi interventi sono ancora in via di definizione. A parte questo, al momento si può dire che due mesi di lockdown da coronavirus avranno la capacità di mandare a casa 308 mila lavoratori dei servizi e 103 mila dell’industria. A pagare il prezzo più alto saranno soprattutto quelli che già oggi sono i più precari. Unioncamere prevede la perdita di 220 mila posti tra chi lavora negli alberghi, nei ristoranti e nei servizi turistici. Proprio quei settori caratterizzati da contratti brevi, part-time, stagionali, paghe molto basse e ammortizzatori sociali molto deboli. Non a caso, il governo ha dovuto prevedere il bonus da 600 euro appositamente per gli addetti del turismo i quali avevano finito il sussidio di disoccupazione e sarebbero stati esclusi anche dalla cassa integrazione. C’è molta preoccupazione anche nel commercio, dove ci si aspetta che le imprese taglino più di 73 mila lavoratori. Probabilmente come effetto a cascata, questo si riverserà sull’industria della moda: tra chi oggi è impegnato a confezionare vestiti, borse e scarpe si vivrà un saldo negativo di 19.300 unità. Non ne usciranno indenni l’edilizia, con meno 30.800 e i trasporti con meno 18.100.

Alcuni comparti registreranno invece un saldo positivo: la sanità e l’industria farmaceutica, naturalmente, ma anche i servizi tecnologici. Questo non basterà a fermare l’enorme impatto sociale. Tra il 2013 e il 2019, in Italia gli occupati erano cresciuti di un milione e 169 mila. Si trattava in molti casi di part-time, ecco perché – pur avendo superato il numero di persone al lavoro prima della crisi – le ore lavorate erano ancora molto meno. Ci abbiamo messo 6 anni per questi miglioramenti, pur insoddisfacenti, e ora in due mesi lasceremo per strada il 36%.

Il rompicapo dei nuovi disoccupati

Le recessioni sono un dramma sociale perché le persone perdono il lavoro e la misura del problema è data di solito dal tasso di disoccupazione: la quota della popolazione attiva che cerca un lavoro senza trovarlo. Ma siamo nel mondo del Covid-19: uno studio della Banca d’Italia di Francesco D’Amuri ed Eliana Viviano osserva che in tempo di distanziamento sociale i dati che guardiamo di solito non sono affidabili. Se andare al centro per l’impiego è impossibile, ci saranno meno disoccupati nelle statistiche, ma non nella realtà.

D’Amuri e Viviano usano un indice basato sulle ricerche su Google per misurare il calo dei tentativi di cercare un posto a marzo: -39 per cento rispetto a febbraio, un tracollo simile a quello per la ricerca di app di servizi di mobilità (-50) e notizie sportive (-31, visto che lo sport non c’è più). Ci sono disoccupati che non cercano lavoro perché non possono muoversi, questo renderà le statistiche abituali inutili per mesi.

Un indicatore più affidabile della tenuta del mercato del lavoro è la quantità dei lavori che si possono fare da casa, sono quelli che sopravvivono meglio. Uno studio di Jonathan Dingel e Brent Neiman dell’Università di Chicago stima che in America il 37 per cento dei lavori si possa svolgere da remoto, Unicredit considera plausibile applicare una quota simile anche ai Paesi europei, la Gran Bretagna sta più verso 40, l’Italia verso 35. Ma secondo Eurostat (dati 2017) solo il 5 per cento dei dipendenti usava forme di lavoro flessibile in modo regolare. Morale: non sappiamo in quali condizioni sarà il mercato del lavoro alla fine del lockdown. Ma sembra chiaro che dobbiamo sfruttare questa crisi per una transizione fulminea che aumenti flessibilità e produttività grazie all’uso della tecnologia dove si può (dai giornalisti agli insegnanti ai servizi sanitari). Quel 37 per cento di lavoratori che non ha risentito del lockdown ha la responsabilità di trainare almeno per un po’ l’economia anche per conto di quelli costretti a fermarsi.

“I bambini fanno incubi: gli manca la scuola”

“Esistono solo tre categorie di persone che non assegnano all’oggetto le funzionalità dell’oggetto stesso. E sono gli artisti, i bambini e i matti”. Andrea Satta è un musicista, fondatore e leader dei Têtes de Bois, è un pediatra (“vado in visita”), e quando serve racconta le favole ai suoi piccoli pazienti; rispetto ai matti sorride, come a dire: chi è realmente normale?

Iniziamo dalle favole…

Prima del Coronavirus promuovevo un laboratorio con le mamme “narranti”; ora lo stesso laboratorio è passato su Internet e tutte le sere, dopo cena, ci ritroviamo per le letture.

Come mai solo mamme?

No, in realtà ci sono pure i padri, anche se meno delle donne.

Che incubi hanno i piccoli?

I più frequenti sono legati a questa condizione di non vedere gli altri, sentono l’assenza di un confronto tattile, materico.

Altro che tecnologia…

Quella è ovviamente importante, e almeno in questa occasione sta dimostrando tutti i suoi lati positivi….

Ma?

Sento i bambini rimpiangere la scuola, perché del contesto scolastico ora gli è rimasta solo la parte peggiore, quella degli obblighi, dei compiti, degli appuntamenti. Non le fasi ludiche e collettive.

Effetti psicologici?

È opportuno monitorare le fasi di malinconia e la possibile insonnia.

Consigli?

Creare degli appuntamenti circolari, in modo da imbullonare la quotidianità a un architrave.

Nel pratico?

Non è necessario dettare l’agenda quotidiana, minuto per minuto, basta creare degli spunti fissi in modo da dividere le fasi della giornata, non lasciar vincere il caso insieme all’approssimazione.

Passiamo al lato artistico.

Avevo un bel programma estivo, tutte serate pensate.

E invece…

Però voglio pensare a tutti gli strumentisti, i turnisti, gli artisti che magari lavorano per trenta sere l’anno, per il resto si sostengono con le lezioni private.

È il disastro.

Appunto, non come i big della canzone: loro sono simili ai calciatori di serie A, con compensi tali da non sfiorare neanche il concetto di “sopravvivenza”.

Ci sono degli aiuti statali.

Che toccano altre forme d’arte, mentre il rock non viene mai coperto, mai tutelato; il rock è come una foglia su un albero pronta a cadere con un soffio di vento.

Cosa ha scoperto in questo periodo?

Alterno l’aspetto poetico del vedere Roma così vuota, al terrore di quel che accade e accadrà; (cambia tono) ogni sceneggiatore è stato sconfitto dalla realtà.

E poi?

Ho ripreso in mano dei classici come Fiesta di Hemingway e Il grande Gatsby di Fitzgerald.

Scelte molto differenti tra di loro.

È vero, ma uno va a istinto; (pausa di un paio di secondi) in questo momento la mia fortuna è che so stare per conto mio. E non è poco.