Auguri Nilde: cento anni e pochi traguardi

Cento anni fa (il 10 aprile 1920) nasceva Nilde Iotti. Insegnante, comunista, staffetta partigiana, bandiera dell’Udi, dirigente politico, membro dell’assemblea Costituente (e della commissione dei 75) parlamentare, la ricordiamo soprattutto per essere stata la prima donna a guidare la Camera dei deputati. La sua presidenza è stata la più longeva in assoluto, ben tre legislature (dal 1979 al 1992). Sul sito della Biblioteca della Camera sono disponibili, raccolti in volume, i suoi discorsi parlamentari. Rileggerli oggi è un esercizio istruttivo (e sconsolante per quanto sono attuali). “Nella vecchia legislazione e nel vecchio costume del nostro Paese la famiglia ha mantenuto sinora una fisionomia che si può definire antidemocratica (…) Uno dei coniugi, la donna, era ed è tuttora legata a condizioni arretrate che la pongono in stato di inferiorità e fanno sì che la vita familiare sia per essa un peso e non fonte di gioia e aiuto per lo sviluppo della propria persona. Dal momento che alla donna è stata riconosciuta, nel campo politico, piena eguaglianza col diritto di voto attivo e passivo, ne consegue che la donna stessa dovrà essere emancipata dalle condizioni di arretratezza e di inferiorità in tutti i campi della vita sociale e restituita a una posizione giuridica tale da non menomare la sua personalità e la sua dignità di cittadina. A tale emancipazione è strettamente legato il diritto al lavoro da affermarsi per tutti i cittadini senza differenza di sesso” (8 ottobre 1946, I sottocommissione). In quella stessa seduta Umberto Merlin, avvocato eletto nella Dc, sostiene che non si può accettare lo stesso trattamento economico tra uomini e donne: “Non avviene mai”. Intervento della Iotti: “Non vedo perché non debba avvenire”. Oggi si chiama gender gap, ma è la stessa fregatura.

La premessa del discorso d’insediamento a Montecitorio (20 giugno 1979, in un momento drammatico per la storia d’Italia) è questa: “Vivo quasi in modo emblematico questo momento, avvertendo in esso un significato profondo, che supera la mia persona e investe milioni di donne che attraverso lotte faticose, pazienti e tenaci si sono aperte la strada verso la loro emancipazione. Essere stata una di loro e aver speso tanta parte del mio impegno di lavoro per il loro riscatto, per l’affermazione di una loro pari responsabilità sociale e umana, costituisce e costituirà sempre un motivo di orgoglio della mia vita”. È successo qualcosa di significativo in questi quarant’anni? Nel 2018 l’Ufficio valutazione impatto del Senato ha diffuso un dossier sconfortante. Se in Assemblea costituente le donne erano 21 (ma a loro dobbiamo moltissimo, perché hanno avuto un peso determinante nel dibattito sui diritti sociali), nella prima legislatura (1948) su 982 parlamentari le donne erano il 5 per cento. Ci sono voluti trent’anni e 7 legislature per avere più di 50 donne al Parlamento (1976). Quota 100 è stata superata nel 1987 e quota 150 nel 2006. Su oltre 1500 incarichi di ministro le donne finora ne hanno ricoperti 78. Non ci sono state donne alla Presidenza del Consiglio, né alla Presidenza della Repubblica. Abbiamo avuto solo tre presidenti della Camera, una presidente del Senato e una presidente della Corte costituzionale. In queste settimane non facciamo che guardare telegiornali e dirette dai palazzi del potere (centrale e locale). Quante donne avete visto prendere la parola per comunicare decisioni e informazioni sul momento difficile del Paese? Praticamente nessuna (anzi forse proprio nessuna). Dunque auguri Nilde: grazie per tutto quello che ci hai insegnato, per le battaglie e le conquiste. Purtroppo siamo ancora lontani da quel mondo che immaginavi gioiosamente paritario.

Querela, la parola magica usata per coprire l’inadeguatezza politica

E alla fine è finalmente spuntata, la parolina magica: querela. L’assessore al Welfare (ahah! ndr) della Lombardia, Giulio Gallera, l’ha lasciata cadere in una delle sue conferenze quotidiane. Incredibile davvero che nel centro della bufera, con le Mercedes luccicanti dei monatti che portano via le salme (quando non i camion dell’esercito, come a Bergamo) si senta questo sottofondo di “Qualcuno verrà querelato!”, di “Ci vediamo in tribunale!”. Da cittadino lombardo, abitante e lavorante in Lombardia, sento montare una certa irritazione (eufemismo) per una classe dirigente regionale che passa metà del suo tempo a difendersi dalle accuse che le piovono addosso da ogni parte (medici compresi, ovviamente, notizia di ieri). C’è poco da querelare, i numeri cantano, in questo caso, le interpretazioni possono fare tutti i ghirigori che vogliono, gli arabeschi da legulei e i sottili distinguo. Ma.

Ma la Lombardia (dati 5 aprile, tre giorni fa) ha da sola più deceduti (oltre il 27 per cento in più) di tutte le altre regioni italiane messe insieme, 8.905 morti contro i 6.982 del resto d’Italia. In effetti sono numeri che sarebbe interessante sentire in un tribunale. Altro dato interessante (fonte: Istituto Superiore della Sanità) riguarda le Residenze per Anziani, con una media di decessi tra i pazienti del 9,4 per cento nazionale, che diventa del 19,2 per cento in Lombardia, più del doppio. Diciamo che la delibera dell’8 marzo (numero XI/2906), che chiedeva alle residenze per anziani di mettere a disposizione personale e strutture per malati di Covid-19 non ha aiutato (eufemismo). Ora Gallera minaccia querele a chi dice che quelle strutture sono state “obbligate” a ospitare malati contagiosi, scappatoia astuta, sembra di sentire la telefonata con gli avvocati. No, in effetti nessun obbligo, solo un “consiglio” a strutture che nella quasi totalità vivono di accreditamenti regionali (traduco: se tua nonna ti dà un consiglio è un consiglio, se il tuo principale finanziatore ti dà un consiglio non è la stessa cosa).

Ce ne sarebbe abbastanza per farne una battaglia politica. Secondo un illuminante schemino pubblicato al tempo delle recenti nomine nella Sanità lombarda (dicembre 2018), le posizioni apicali nelle Ast e Asst (Agenzie della salute territoriale, le vecchie Asl, e strutture ospedaliere), di nomina politica, sono 40 (quaranta).

Eccole suddivise per partiti e forze politiche: 24 (ventiquattro) alla Lega, 14 (quattordici) a Forza Italia e 2 (due) a Fratelli d’Italia. Totale quaranta, l’en-plein, insomma. Questo rende un po’ ridicolo l’atteggiamento di molti sedicenti neutrali che dicono: non è tempo per le polemiche, prima salviamo le vite. No. Prima si salvano le vite, come ovvio, e intanto (non dopo) si capisce se chi comanda la sanità regionale sia adeguato a gestire l’emergenza: quando chiami i pompieri perché brucia la casa non vorresti vederli arrivare a gettare sul fuoco taniche di benzina, e in quel caso non diresti “poi vedremo”, ma li fermeresti subito. Le inchieste verranno (sono già in corso), le valutazioni politiche verranno (si spera prima delle elezioni regionali, a cui mancano tre anni), ma ora ci sono in effetti cose più urgenti.

Da cittadino lombardo, residente e lavorante in Lombardia, non mi sento al momento sufficientemente difeso e protetto da chi governa la Sanità nel posto in cui vivo. Lo pensano in molti, qui, dove alla paura si sta lentamente aggiungendo una rabbia che diventerà furore: a furia di bombardare la gente di numeri, finisce che la gente li capisce, quei numeri, ed è difficile querelare i numeri. Accusare altri (che sia il governo, o i comuni, o chi fa jogging, o chi fa il giro dell’isolato con il bambino) per coprire la propria inadeguatezza e incapacità è un’astuzia miserabile, e i numeri le astuzie non le capiscono.

Cuba sì, Usa no: vai a fidarti degli amici

Cuba, come si sa, ha inviato in Italia, per darle una mano nell’emergenza Covid-19, 37 medici, tutti specialisti nei vari ambiti necessari ad affrontare questo morbo, e 15 infermieri. Un aiuto piccolo in sé, notevole e significativo per l’isola caraibica.

Per due motivi. 1) Perché Cuba, oltre a dover affrontare a sua volta il Covid-19, è strangolata dall’embargo americano ed è diventato estremamente difficile per i cubani approvvigionarsi di beni essenziali, alimenti, medicine, benzina, come ha scritto sul Fatto (il 24.3) Diego Lopez non dall’Iperuranio, ma direttamente da L’Avana. 2) Ma il secondo motivo è ancora più rilevante. Cuba è storicamente legata per gli aiuti economici al Venezuela, grande produttore di petrolio (legami anche politici perché gli uni, i cubani, sono comunisti, gli altri socialisti). Ma il Venezuela è a sua volta da anni, più o meno dalla morte di Chávez, sotto scacco delle sanzioni imposte dal governo degli Stati Uniti che vuole a tutti i costi scalzare il legittimo presidente del Venezuela, Nicolás Maduro, per mettervi un suo fantoccio più o meno mascherato. Da qui, fallito il colpo di Stato, servendosi “del giovane e bell’ingegnere” Juan Guaidó, che in realtà aveva pochissimo seguito, l’inaudito mandato d’arresto spiccato dagli americani contro lo stesso Maduro accusato di narcotraffico (in realtà l’accusa si limita al fatto che permetterebbe il passaggio della droga dalla Colombia agli Usa passando sul territorio venezuelano). Gli Stati Uniti, fatto un passo indietro, ora però pretendono elezioni presidenziali che vedrebbero a confronto Maduro e Guaidó. Ma il Venezuela, fino a prova contraria, è uno Stato sovrano accreditato all’Onu. E quando mai uno Stato sovrano si farebbe imporre un presidente, o la modalità e i tempi della sua elezione, dall’esterno? E ci si chiede anche che dittatura sia mai quella di Maduro se lascia che un soggetto che ha tentato un colpo di Stato contro di essa, appunto Juan Guaidó, a piede libero? In questa logica di strangolamento del Venezuela, e quindi poi di Cuba, gioca anche il Fondo monetario internazionale che ha negato a Caracas un aiuto di 5 miliardi di dollari per gestire l’emergenza Covid-19. E sull’imparzialità del Fmi ci permettiamo di avere parecchi dubbi.

Tornando agli aiuti cubani all’Italia, non può valere qui nemmeno l’accusa, peraltro grottesca, mossa alla Russia di voler danneggiare i rapporti transatlantici. Cuba non ne ha la forza, il suo è stato, ed è, solo un atto di generosità di un Paese comunista verso un altro che sta sulla sponda opposta. Questa si chiama solidarietà. Umana solidarietà. Nel frattempo che cosa han fatto e fanno per noi gli alleati, gli “amici” americani? Si sono limitati a promettere di fornirci 100 milioni in materiale sanitario. Cento milioni, un’inezia, se si pensa che un privato cittadino, sia pur straricco, e non la potenza più potenza del mondo, cioè Berlusconi, ne ha offerti dieci (anche se invece di fare il beau geste avrebbe forse fatto meglio a non evadere il fisco per un fracco di milioni che servirebbero ora alla nostra comunità). È vero che anche gli americani, dopo aver quasi negato l’esistenza del virus, hanno i loro problemi, e molto gravi, ma non meno gravi sono, in proporzione, quelli di Cuba.

È da tempo, già da molto prima del Trump dell’“America first”, che la politica degli Stati Uniti è rivolta contro l’Europa e, come conseguenza indiretta ma anche diretta, contro l’Italia che ne fa parte: dazi, divieti, imposizioni di ogni genere. Particolarmente oneroso per noi è il divieto, imposto sulla base di non si sa quale diritto se non quello della forza, di avere transazioni economiche con l’Iran col quale avevamo da tempo eccellenti rapporti commerciali.

Di fronte a questa politica americana con tutta evidenza antieuropea, e quindi anche anti-italiana, tutti gli opinionisti e anche il nostro governo si affrettano a precisare che comunque i rapporti transatlantici non si toccano (“non dovrebbe essere messo in discussione il legame tra Stati Uniti e Italia che è profondo, consolidato nella storia dei due Paesi”, Massimo Gaggi, Corriere 31.3, fra i tanti). E va bene, gli americani ci hanno salvato dal nazionalsocialismo e dal fascismo, ci hanno aiutato a risalire la corrente col Piano Marshall, peraltro pagato ad assai caro prezzo con la nostra sudditanza politica, militare, economica, culturale e se vogliamo anche linguistica, ma per dirla in modo molto semplice con Luciana Littizzetto (a volte le battute dei comici sono più incisive di qualsiasi discorso) “quand’è che scade il mutuo?”. Sono passati 75 anni da allora, è possibile che nessuno in Italia abbia il coraggio di dire che legami “d’amicizia” fra Stati Uniti e Italia sono finiti, strafiniti, da tempo e che gli interessi fra Italia e Usa, fra Europa e Usa, vanno in direzione diametralmente opposta come nel Vecchio continente ebbe l’ardire di affermare solo la cancelliera tedesca Angela Merkel?

Mail Box

Preferisco l’Italia sgangherata alla disumana Gran Bretagna

Di solito sono piuttosto critico con l’Italia. Partecipo volentieri alle auto-flagellazioni per il caos che regna sovrano nel nostro Paese. In questi giorni però sto riconsiderando la situazione della Gran Bretagna. Un primo ministro che puntava sull’immunità di gregge per gestire l’epidemia di Covid, che si vantava di andare in giro negli ospedali a stringere le mani dei pazienti, è finito in ospedale, contagiato e in terapia intensiva. In televisione a parlare alla nazione è andata una regina di 94 anni, facendo un discorso tutto sommato scontato. Quella britannica mi sembra una situazione grottesca, quasi disumana. L’umanità, pur in tutta la nostra naturale sgangheratezza, è qui tra noi. Viva l’Italia, viva la Repubblica italiana.

Martin Angioni

 

In tempo di catastrofi l’ironia è indispensabile

La lettura del Fatto, oltre che insostituibile come informazione, è anche terapeutica. La cura salutare dell’acuta ironia di Marco Travaglio mi tira su di morale. In questi tempi è un toccasana riuscire a buttarla sul ridere, anche quando succedono catastrofi. Siete unici, grazie.

Lorenzo Cecchetto

 

L’ennesima sparata populista di Salvini sulle chiese

Sono un italiano residente all’estero: in questo momento sono in Italia a causa di un lutto. Vorrei segnalare l’ennesima sparata populista di Salvini. Io sono credente e perciò un po’ mi pesa che le funzioni religiose siano vietate. Salvini ha detto che se i tabaccai sono aperti non capisce perché le chiese siano chiuse, insomma il messaggio era che per il governo è più importante tutelare i fumatori che i credenti. In un primo momento ho pensato che una volta tanto Salvini avesse espresso una giusta critica. Poi mia sorella (che vive a Roma) mi ha detto che le tabaccherie oggi forniscono tanti servizi e che se fossero chiuse le file davanti alle Poste sarebbero ancora più lunghe. Trovo disgustoso che chi dà informazioni non filtri le notizie e le pecore (che siamo noi) vengano fuorviati da politici che ci vogliono truffare per il nostro voto.

Andrea D’Ercole

 

Le mie due copie del “Fatto” lette da moglie e parenti

Da sempre leggo Il Fatto Quotidiano. Da qualche mese ne compro due copie, una per la mia quotidiana rassegna stampa, l’altra per mia moglie, docente in pensione, che dalla lettura dei giornali locali è passata alla lettura attenta de Il Fatto. Quella mia, poi, passa nel salone di attesa della mia Segreteria, a disposizione degli amici. Un grande augurio a tutta la redazione.

Mario De Florio

DIRITTO DI REPLICA

In merito alla lettera “Alitalia in ritardo e assente. Nessun controllo sanitario” del 6 aprile, precisiamo che Alitalia si attiene scrupolosamente ai protocolli di sicurezza e sanitari previsti dalle normative. Ricordiamo poi che fino a quando il passeggero non è in aereo, la responsabilità di garantire la distanza fra le persone e il controllo sul rispetto di tale misura non spettano ad Alitalia ma all’autorità aeroportuale. Stesso discorso, all’arrivo, per i controlli sanitari e documentali, per quest’ultimi con tempi più lunghi rispetto a una normale situazione. È ingeneroso leggere che le poche scorte di mascherine che Alitalia possiede e mette a disposizione delle persone sprovviste di tali dispositivi, siano definite “banali mascherine di tessuto”, in quanto frutto di approvvigionamento in coordinamento con la Protezione Civile. La verità è che la passeggera avrebbe dovuto munirsi di una mascherina prima di salire a bordo, requisito necessario per l’imbarco, non la aveva e non ha nemmeno gradito quella fornitale come gesto per imbarcarla e garantire la sicurezza dei passeggeri e dipendenti, massima priorità per Alitalia. Inoltre il ritardo del volo AZ203 è stato di 2h e 30m, non di 4h, imputabile a motivi operativi legati all’implementazione sui voli Alitalia delle misure disposte dall’ordinanza del ministro della Salute di concerto con il MIT che dalla scorsa settimana regolamenta il rientro degli italiani dall’estero. In aggiunta, l’itinerario acquistato prevedeva la partenza da Londra per Roma, senza alcuna coincidenza per Milano. Per un motivo a noi ignoto, la passeggera aveva poi acquistato un secondo biglietto Roma-Milano, disgiunto dal primo. Diverso il discorso se l’itinerario fosse stato Londra-Roma-Milano in un solo biglietto: il bagaglio sarebbe arrivato a Malpensa senza attese per recuperarlo a Roma e avremmo garantito la notte in hotel e la riprenotazione sul primo volo utile.

Sorprende infine la chiosa della giornalista per la mancanza di collegamento con le circostanze affrontate e più in generale con il contesto dei collegamenti aerei nel quale Alitalia, praticamente da sola, sta assicurando un servizio pubblico essenziale.

Ufficio Stampa Alitalia

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo “Appello per gli aborti farmacologici” pubblicato ieri, ho scritto erroneamente che l’interruzione chirurgica di gravidanza richiede quattro accessi in ospedale. Mi riferivo, invece, sempre a quella farmacologica. Me ne scuso con i lettori.

Si. D’O.

Meglio indossarle sempre E, se si può, evitate i mezzi pubblici

Gentile Prof. Gismondo, la ringrazio del suo prezioso lavoro, e la ringrazio per la rubrica quotidiana sul “nostro” giornale dalla quale si evince facilmente (per chi vuole comprendere) che la comunità scientifica poco sa del Covid-19 e nessuno al momento ha la sfera di cristallo per predire cosa accadrà in futuro. Detto ciò, se la priorità fosse veramente la salute dell’umanità, bisognerebbe starsene tutti quanti ben chiusi in casa a oltranza. Sappiamo però che le forze che premono per una ripresa sono molte e fortissime e che comunque dovremo imparare a convivere col virus, ma chi dovrà decidere dovrà essere trasparente e dire che ogni volta che si esce di casa ci si espone al fuoco di un cecchino.

Mi perdoni la lunga premessa, vengo alla domanda, come potremo difenderci in metro o bus o altro? Basta la mascherina? Io, se la trovassi, ho capito che ne servirebbe una militare per guerra batteriologica, quindi se lei dovesse andare al lavoro usando i mezzi pubblici che tipo di precauzioni adotterebbe e che tipo di dispositivi userebbe? Avere da lei queste informazioni sarebbe per tutti noi molto utile.

Ivan Garini

 

Gentile Ivan, come ha giustamente scritto nella sua cortese lettera dovremo convivere con il virus. Il discorso è complesso, perché il pericolo di contrarre un’infezione con conseguenze severe non è uguale per tutti. Dipende molto dal nostro stato di salute. Fatta questa doverosa premessa, le rispondo da virologa e poi da cittadina. Da virologa le dico che per tutto il tempo che il virus sarà ritenuto circolante, dovremmo tenere le mascherine, per proteggerci da chi, positivo e magari con sintomi irrilevanti, possa essere infettante. Più alto è il potere di protezione della mascherina, meglio saremo protetti. Sempre da virologa, per ottenere un rischio zero, si dovrebbero evitare i luoghi chiusi e affollati. Non so di che città o fascia oraria lei stia parlando, ma credo che i mezzi pubblici delle grandi città si configurino proprio tra gli ambienti affollati e chiusi.

Da cittadina, sarei portata a essere un po’ più accomodante. Buona prudenza, non portare mai le mani alla bocca e agli occhi, lavaggio delle mani molto spesso, cambio delle scarpe prima di entrare in casa, mascherina e tanto ottimismo.

Maria Rita Gismondo

Fake news: meno task force e più giornalisti

È un bel libro Fake di Christian Salmon, forse il saggio più documentato di “come la politica mondiale ha divorato se stessa”. Si parla della conquista del potere attraverso le “verità” fatte a pezzi, della battaglia politica “in forma di scambi violenti e brutali sui social networks”. Si parla naturalmente di Steve Bannon e di come la strategia dell’intossicazione abbia portato Donald Trump alla Casa Bianca. Si parla di Jair Bolsonaro e della demagogia populista alla Salvini. Un libro però con un difetto: è stato pubblicato a febbraio del 2020, proprio quando la falce globale del Covid-19 mutava improvvisamente le nostre esistenze e stravolgeva il modello di comunicazione dominante. Esiste dunque un fake

post Coronavirus su cui certamente Salmon starà lavorando. A cominciare dalla constatazione di come il virus, quello purtroppo reale, abbia in un mese attaccato e reso tragicamente ridicolo il potere conquistato attraverso la viralità della menzogna e della propaganda sotto forma di calunnia dell’avversario. Nel momento in cui la paura vera soppianta quella artefatta, sommersi dall’epidemia dopo averla negata i Trump e i Bolsonaro appaiono per quello che sono: delle fake news viventi (per non parlare di Boris Johnson, vittima della nemesi “di gregge”). Che senso ha allora, sottosegretario Andrea Martella, creare cosiddette task force per inseguire fake news travestite da barzellette (come la vaccinazione attraverso tisane e gargarismi o il morbo diffuso dalla Spectre cinese)? E come si potrà impedire di credere alle balle a chi vuole crederci? Mentre oggi le fake più pericolose sono semmai quelle nascoste nella comunicazione ufficiale, per esempio della Regione Lombardia. Da chi ha consentito l’estensione del contagio nelle residenze per anziani, a chi ha ritardato la zona rossa in Val Seriana. Ma per scoprirlo possono bastare i giornalisti.

Evitiamo altri errori

La vera sfida che ci lascerà questo virus sarà come vivere la globalizzazione, che piaccia o no. L’evoluzione ci ha insegnato che solo le specie che sanno adattarsi sopravvivono, le altre soccombono. I tempi ci impongono quindi di pensare, vivere e soprattutto programmare uno scenario “global”. Il virus che sta rivoluzionando il mondo come una guerra ci ha dimostrato che non esistono frontiere. Il mercato di Wuhan ci è vicino quanto quello di una qualsiasi città in Italia. In 24 ore tutta la terra è potenzialmente raggiungibile. L’economia riconosce solo libertà finanziaria e politica e i confini, anche quelli dei Paesi più severi, si sono rivelati colabrodo. I virus si diffondono a dispetto dei più rigidi controlli sanitari alle frontiere o alla loro inutile chiusura. Dobbiamo pensare a un mondo che ci permetta di restare globalizzati. In campo sanitario è assolutamente necessario che si creino le premesse, a livello mondiale, affinché siano garantiti dei livelli minimi assistenziali. È di qualche mese fa una interessante riunione all’Onu in cui abbiamo discusso su come garantire l’accesso alle cure sanitarie dell’Africa con l’obiettivo di assicurarlo all’80% della popolazione in tempi molto rapidi. L’Africa, appunto, è oggi il continente che più preoccupa nell’espansione della pandemia. Oltre a uno scopo umanitario che non si pretende tutti sentano, c’è la necessità di proteggere la salute dei singoli. Occorre che le politiche vaccinali siano discusse a livello internazionale e decise tenendo presenti le emergenze locali, in modo da essere una garanzia globale. Nelle Filippine è stata dichiarata l’emergenza per il virus Polio. Come la stiamo gestendo? Pensiamo ancora che resti un loro problema? Il morbillo è causa di morte in molte parti del mondo. Sono tutte infezioni che possono essere portate da un Paese all’altro senza alcun ostacolo. Quella che stiamo vivendo è un’opportunità unica per rimettere in discussione le politiche sanitarie internazionali. Altrimenti rischieremo di morire di globalizzazione, che invece, se ben gestita, è una risorsa inesauribile.

E Gherardo Colombo torna a indagare sul Pio Albergo

Gherardo torna sul luogo del delitto. È il Pio Albergo Trivulzio, per i milanesi la Baggina, dove un certo Mario Chiesa, presidente socialista della casa per anziani più cara ai meneghini, fu beccato con la tangente nel cassetto (7 milioni di lire appena riscossi). Era il febbraio 1992, e da lì partì l’inchiesta Mani pulite che non solo tarpò le ali a Chiesa che voleva diventare sindaco di Milano, ma che fece implodere la Prima Repubblica.

Gherardo Colombo, magistrato milanese colto e riccio, che dieci anni prima con Giuliano Turone aveva scoperto le liste della P2, entrò nel pool Mani pulite e dopo le mazzette di Chiesa contribuì, con Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo, a scoprire quelle di tutti gli altri mariuoli dell’affollato cestino delle “mele marce”.

Oggi non è più magistrato, sostiene che sia più utile educare che punire. È stato indicato dal sindaco di Milano come componente della commissione che dovrà fare chiarezza su che cosa sia successo al Trivulzio ai tempi del coronavirus. Anziani morti, troppi. Tanto che la Procura di Milano, quella di cui Colombo faceva parte nel 1992, ha aperto un’inchiesta, ipotesi di reato: diffusione colposa di epidemia e omicidio colposo. Il ministero della Salute, da parte sua, ha mandato gli ispettori. E la Regione lancia la commissione per verificare se al Trivulzio siano stati nascosti casi di Covid-19 mettendo a rischio ospiti e operatori.

Nuovi delitti, ancora tutti da provare, per antichi castighi, che a Gherardo Colombo oggi non piacciono più. Ma la verità dei fatti, quella da accertare con rigore matematico, è sempre nelle corde dell’ex magistrato che 28 anni dopo torna al lavoro sulla vecchia, cara Baggina dei milanesi, sempre tanto maltrattata dalla storia, dai mariuoli e dai politici.

I rischi del “decreto Credito”: zero controlli, molti furbetti

Evasori e mafiosi, imprenditori con denaro all’estero, ma anche società in paradisi fiscali, cacciatori di imprese già decotte. Sono tante le figure borderline che brindano al cosiddetto “decreto credito”, nato per garantire liquidità alle imprese messe ko dall’emergenza Covid-19. L’idea è garantire prestiti bancari con garanzia statale verso gli istituti di credito pressoché totale da parte dello Stato. Il poderoso aiuto pubblico dovrà ora passare al vaglio dell’Ue.

Nel frattempo molti nel nostro Paese iniziano a far di conto con l’obiettivo nemmeno tanto velato di intascare illecitamente fiumi di denaro. Ecco allora che il Fatto, dopo aver consultato diverse procure d’Italia, è in grado di mettere in fila alcuni punti critici. Partiamo da una evidenza quasi scontata, sulla quale ragioniamo con una fonte molto autorevole della Procura di Milano. Davanti a questo tsunami di denaro, il cui scopo di fondo è certamente positivo, mancano una serie di paletti che possano imbrigliare le infiltrazioni non solo della mafia.

L’obiettivo è quello di “garantire la continuità aziendale” messa a rischio dalla pandemia. Il termine però resta generico e non viene, al momento, arricchito da indicazioni specifiche. Risultato: in certi casi lo Stato rischia di garantire finanziamenti alla cieca aprendo la borsa per figure che non ne hanno diritto e sprecando risorse pubbliche. Perché se l’oggetto è la continuità aziendale, nella realtà non vengono esplicitate le regole attraverso le quali bisognerà indicare i passaggi dimostrabili di questa “continuità”. Ad esempio, se le aziende ottengono denaro dalle banche con facilitazioni sprint, in teoria dovrebbero essere obbligate a tracciare ogni pagamento effettuato, dagli stipendi alle spese per gli immobili. Al momento questi elementi, secondo gli esperti della Procura di Milano, non sembrano rientrare nel decreto.

Proseguiamo. Dai 25mila euro agli 800mila euro, tutti i range di prestiti si basano su una logica: più velocità, meno burocrazia. E dunque via libera al far west delle autocertificazioni dove molto si può dire e tanto millantare. Anche perché non vi è, in questo momento, alcun riferimento a norme penali chiare per i trasgressori. C’è poi la spada di Damocle del crimine organizzato che attende per entrare con i propri capitali sporchi. Nei giorni scorsi l’allarme è stato lanciato anche dal Procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho.

Di clan e denaro parla Giuseppe Borrelli, ex capo della Direzione distrettuale antimafia di Napoli e oggi procuratore a Salerno. Il quadro di Borrelli è fosco, ma allo stesso tempo ineluttabile: “Sono sicuro che il decreto attirerà appetiti e infiltrazioni delle mafie. Ma siamo in un’economia post bellica e le legittime preoccupazioni su elargizioni a imprese senza attenti controlli sui requisiti, non possono fermare la ricostruzione del Paese. Meglio questo che lasciar fallire aziende e attività e lasciare tanti disoccupati in balia della criminalità organizzata”.

La Procura di Milano rileva un altro dato: rapidità di erogazione e burocrazia snella mettono a rischio la presentazione, ad esempio, del certificato antimafia che in fatto di infiltrazione mafiosa è il minimo sindacale. C’è poi il fenomeno sempre più diffuso delle cosiddette “bare fiscali” rappresentate da un risiko vastissimo di società decotte o per le quali è già stato emesso un fallimento dal tribunale. Il rischio qui è che capitali oscuri possano rastrellare queste imprese per poi andare ad attingere prestiti su cui la garanzia dello Stato è del 100%.

Crimine organizzato però non sono solo i boss e i narcos, ma anche i colletti bianchi. Una zona grigia che si allarga sempre più a professionisti che si prestano alle cosche solo per brevi momenti e che per il resto del tempo manovrano capitali. Molti di loro, lo sappiamo bene, stanno all’estero. Il decreto su questo però non dice nulla. E dunque, la domanda è: finirà che questi 400 miliardi andranno anche a coloro che evadendo tengono i soldi fuori dall’Italia? E che dire allora delle stesse società e holding che pur italiane hanno la loro sedi, ad esempio, in Olanda o in Liechtenstein. Il decreto non impone un paletto che le possa escludere.

Come si vede i soggetti sono tanti e il campo da gioco vasto. Diventerà inafferrabile se non vi si porrà rimedio. Una soluzione, ci spiega un magistrato di Milano storicamente esperto in indagini finanziarie, ci sarebbe e consisterebbe nel tracciare le singole persone che chiedono l’accesso al prestito. “Basterebbe – ci viene spiegato – che il nominativo dalla banca fosse comunicato allo Stato e qui frullato nelle varie banche dati (da quelle fiscali e a quelle penali fino ai registri delle imprese all’estero), il risultato si otterrebbe in pochi minuti”. E tutto apparirebbe molto più trasparente.

Nuovi Bpt per gli italiani: così possiamo salvarci

Sul fronte economico, il lockdown conseguente all’emergenza sanitaria ha provocato per lo Stato una crisi di liquidità a tutti i livelli. Le entrate tributarie, contributive ed extratributarie si sono fortemente ridotte, ma non altrettanto la spesa, che semmai è lievitata. Anche se la fase più critica dovesse chiudersi a breve e si avviasse la ripresa dell’attività produttiva, il ritorno alla normalità non è scontato, specie in settori come il turismo e i trasporti.

Per assicurare la sopravvivenza delle persone in difficoltà e tenere in vita le imprese la cui attività è al momento sospesa, l’intervento pubblico necessita di uno stanziamento straordinario che provocherà un aumento del deficit e del debito pubblico ben oltre le previsioni antecedenti l’emergenza. Per garantire la solvibilità degli Stati, la Commissione europea ha sospeso per il 2020 i vincoli previsti dal Patto di Stabilità e Crescita, che però torneranno in auge subito dopo. Le misure allo studio su cui si cerca di giungere a un accordo con i partner europei sono diverse e di varia natura. L’Italia si sta facendo capofila di un gruppo di Stati per vincere le resistenze dei Paesi del nord alla mutualizzazione dei debiti con l’emissione temporanea di Eurobond di scopo.

Ma se appare ormai scontato il ricorso al mercato finanziario per far fronte alla straordinaria necessità di liquidità, la domanda che si pone è chi sarà disponibile a investire, considerando che la crisi investe tutto il mondo. In Italia, alla fine del 2019, su 2 mila miliardi complessivi di titoli di Stato, quasi 400 erano posseduti dalla Banca d’Italia (19,8%), circa 300 in più dall’avvio del Quantitative easing (il programma di acquisto dei debiti pubblici) della Bce a marzo 2015. I detentori esteri (inclusa la Bce) hanno 710 miliardi di titoli (35,4%), mentre oltre il 40% è nelle mani di banche e altre istituzioni finanziarie, inclusi i fondi pensione. Gli investitori privati italiani (famiglie e imprese) hanno una quota residuale di 62 miliardi, il 3,1%, a fronte di 430 miliardi posseduti nel1993 (54,5%), oltre 300 miliardi nel 2008 (22%) e più di 200 nel 2013 (12,6%).

In questi anni il risparmio privato italiano è fuggito dai titoli di Stato, che in alcuni periodi offrivano anche una ragguardevole remunerazione, per rifugiarsi nei depositi bancari. Tra il 1999 e il 2019 , la consistenza dei depositi è passata da circa 500 miliardi a oltre 1.400 miliardi, con le famiglie da 380 a 1.044 miliardi; le imprese da 82 a 302 miliardi e le imprese familiari da 29 a 64 miliardi. Nel solo 2019, i titoli di stato posseduti sono scesi da 107 a 62 miliardi, mentre i depositi bancari, i cui tassi di interesse sono ormai nulli, sono cresciuti da 1.332 a 1.409 miliardi. I motivi di questo strano andamento possono essere molteplici, ma su tutti sembra potersi evidenziare l’invecchiamento demografico che genera una minore propensione agli investimenti.

In attesa di mettere d’accordo i partner europei su un intervento unitario e solidale per fronteggiare le conseguenze economiche dell’emergenza sanitaria, lo Stato italiano potrebbe provare a intercettare questa massa di liquidità inutilizzata, incentivando l’acquisto di titoli di stato, con una emissione rivolta ai residenti privati (senza intermediazione bancaria), offrendo un tasso di interesse remunerativo, ma ridotto rispetto a quello attuale di mercato, oltre ad agevolazioni fiscali, sotto forma di esenzione o detrazioni. Darebbe immediato respiro alle casse dello Stato, raffredderebbe lo spread e rafforzerebbe il potere contrattuale italiano a Bruxelles.