Ritirato lo scudo ai medici. Un “tavolo” per l’immunità

La partita della responsabilità del personale medico e pure delle strutture sanitarie alle prese con il Coronavirus è scivolosissima. E così, dopo le polemiche per un temuto “tana libera tutti” a prescindere, è arrivata la marcia indietro: sarà un tavolo convocato dal ministero della Salute e della Giustizia a cui parteciperanno anche le Regioni e il Parlamento a mettere nero su bianco la nuova norma che dovrà tenere insieme la necessità di proteggere chi si sia trovato a fronteggiare l’emergenza in condizioni di obiettiva difficoltà e la legittima aspettativa dei parenti delle vittime di avere giustizia a fronte di condotte rilevanti dal punto di vista penale e anche ai fini del risarcimento civile dei danni.

Nulla da fare invece per gli emendamenti presentati al Senato che puntavano ad assicurare lo scudo dell’immunità pure alle aziende sanitarie: qualche giorno fa la Lega era stata costretta a ritirare la sua proposta che puntava a manlevare le Regioni, datori di lavoro dei medici e degli infermieri morti a causa del contagio. E ieri Andrea Marcucci del Pd, anche per le pressioni dei suoi che nelle ultime ore si sono fatte più insistenti, ha dovuto trasformare in ordine del giorno l’emendamento a sua firma per sgravare dalla responsabilità civile anche le strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche o private e degli esercenti le professioni sanitarie, a meno di morti (di pazienti) provocate con dolo o colpa grave. Che non aveva soddisfatto il sindacato medici italiani (Smi) preoccupato comunque per le richieste di risarcimento nei confronti degli associati chiamati in causa per colpe in realtà addebitabili molto spesso alla sola cattiva gestione delle Regioni e delle direzioni delle Asl. “Confermo in pieno la pressante esigenza di difendere medici, infermieri, e personale sanitario che opera nelle strutture in una situazione di totale emergenza a tutti i livelli: molte delle cose che sono state scritte, a proposito del testo, sono frutto di totali invenzioni, la protezione prevista riguarda solo ed esclusivamente quelli che vengono definiti dalla legge gli esercenti le professioni sanitarie” ha chiosato Marcucci che non ci sta ad essere sospettato di voler fare un favore alle aziende ospedaliere.

La proposta di aprire un tavolo politico per affrontare la questione nel suo complesso accontenta tutti. Persino al Senato dove maggioranza e opposizione se la sono data di santa ragione su tutto il resto: una sede per discutere sulla responsabilità dei sanitari è l’unica intesa bipartisan sul decreto Cura Italia al termine di una giornata concitata che ha indotto il governo ad annunciare l’intenzione di ricorrere alla questione di fiducia per portare a casa il provvedimento che verrà licenziato da Palazzo Madama.

La disciplina della responsabilità per colpa medica è stata riformata due anni fa con la legge del dem Federico Gelli che ha ridotto l’ambito della punibilità con una norma nel codice penale pensata per limare i casi di responsabilità per colpa e che costò al Pd l’accusa di volere il colpo di spugna su episodi di malasanità. La legge prevede tra l’altro l’immunità, a patto che siano state rispettate le linee guida o le buone pratiche clinico-assistenziali, che nel caso dell’emergenza Coronavirus hanno contorni nuovi. Come dice l’ex 5S Paola Nugnes: “Lo scudo occorre in vista di eventuali imperizie visto che sono stati assoldati medici ed infermieri freschi di laurea senza aver neanche tenuto l’esame di stato. Giovanissimi gettati direttamente nell’inferno. Devono avere tutela”.

Battaglia all’Eurogruppo per avere gli eurobond

L’appuntamento è solenne, come ai tempi più neri della crisi dell’euro nel 2010-2011. È da allora che non si vedeva una riunione i così dell’Eurogruppo, il summit dei ministri finanziari dell’eurozona (ieri però in formato allargato a tutti i 27 Stati dell’Unione), un organismo non molto trasparente a cui sono affidate decisioni e lavori tecnici determinanti per la vita di milioni di persone. L’obiettivo era approvare “il pacchetto economico più ambizioso di sempre”, come l’ha definito il presidente Mario Centeno. L’ultimo vertice, il 24 marzo, si è chiuso con un nulla di fatto e così anche il Consiglio europeo di due giorni dopo, quando i leader Ue hanno rimandato la palla ai ministri con l’incarico di scrivere un ventaglio tecnico di proposte. Ieri lo scontro è stato totale. Mentre andiamo in stampa, il summit, tenuto in video conferenza, non è finito. Iniziato alle 16, è stato sospeso alle 19 ed è ricominciato alle 23 nel tentativo di trovare un’intesa sul documento finale.

Il punto di scontro riguarda gli “eurobond”, espressione usata per indicare una qualche forma di debito europeo che permetta di alleggerire i costi per i Paesi più vulnerabili; e il Meccanismo europeo di stabilit (Mes), che può fornire linee di credito dietro la firma di un memorandum in cui ci si impegna a rientrare dal prestito con misure di austerità fiscale. L’Italia, insieme Spagna e Portogallo rifiuta il Mes come soluzione. La Germania e i suoi satelliti (Olanda e Finlandia in testa) vogliono solo il Mes, ma con “condizionalità leggere”. Il compromesso è complesso. La linea di scontro vede i Paesi del Sud, supportati dalla Francia, contro quelli del Nord. Alla fine lo scontro si consuma sul tentativo di dare una forma concreta al fondo di solidarietà temporaneo finanziato, con una parte del debito messo in comune da tutti i Paesi, chiesto da Parigi.

Il pacchetto all’esame dell’Eurogruppo comprendeva tre punti. Il primo è il sostegno ai Paesi, attraverso l’utilizzo di un Mes “alleggerito” in grado di dare crediti a ogni Paese fino a un massimo del 2% del proprio Pil (per l’Italia sarebbero 35 miliardi). Il secondo punto è il fondo “Sure” da 100 miliardi per aiutare la cassa integrazione dei 27 Paesi Ue attraverso, anche qui, dei prestiti e con tetti stringenti alle risorse, proposto dalla Commissione Ue. Il terzo è il sostegno alle imprese, con la Banca europea degli investimenti con un piano da 200 miliardi alle Pmi grazie a un capitale di 25 miliardi versato dagli Stati membri. In tutto sono 500 miliardi, un terzo dello stimolo necessario a far ripartire l’economia secondo i calcoli della Commissione Ue.

Sugli ultimi due punti c’è l’ok di tutti. Sul primo, il Mes, l’Italia e i Paesi del Sud si oppongono, tanto più che le “condizionalità light” secondo la linea di Berlino & C. si traducono in una sospensione temporanea e nell’obbligo di rispettare il Patto di stabilità europeo una volta che sarà ripristinato. Francia, Italia e Spagna non mollano: i debiti che si faranno per rimediare ai danni dell’epidemia – almeno una parte – devono essere messi in comune, o alcuni Paesi verrebbero penalizzati e l’Unione non sopravviverà.

L’unico modo per consentire al fronte del Sud di dare l’ok al pacchetto è inglobare anche il “fondo di solidarietà temporaneo” proposto dalla Francia alla vigilia del summit. Uno strumento di debito comune, seppure temporaneo ma a lunga scadenza (fino a 20 anni e oltre) per essere sostenibile, contro i 5-10 anni delle linee di credito del Mes. “Che si chiamino eurobond o coronabond, che sia un meccanismo dentro o fuori di quanto già esiste nell’Ue è secondario, l’importante è andare uniti sui mercati finanziari per garantire la ripresa”, ha detto la ministra dell’Economia spagnola, Nadia Calvino. La Francia l’ha detto con fermezza alla vigilia della riunione: senza il fondo non ci sarà intesa. I Paesi del Nord hanno proposto solo un timido passaggio nella bozza di testo finale. Al fronte del Sud non basta. Senza accordo, il summit va avanti. “Potrebbe durare tutta la notte”, avvisano i diplomatici. Senza intesa non ci potrà essere il Consiglio europeo dei leader di governo, che così slitterà a dopo Pasqua.

“La valenza universale del diritto alla salute ci chiama a un impegno, a una corresponsabilità di carattere globale, mettendo da parte egoismi nazionali e privilegi di sorta al fine di dare alla cooperazione mondiale un impulso di grande forza”, ha avvisato ieri il capo dello Stato, Sergio Mattarella.

“Marco dimesso, ma infetto: Gallera disse che era guarito”

Marika e Marco si sentono dei miracolati e lo dicono più volte nel corso di una lunga telefonata in cui intervengono entrambi, alternandosi, nel desiderio comprensibile di raccontare. Vivono a Cernusco sul Naviglio e hanno due bambini di 2 e 5 anni. La loro storia inizia il 20 febbraio, esattamente il giorno in cui a Mattia, il famoso paziente 1 di Codogno, verrà diagnosticato il Coronavirus. “Quel giorno, dopo cena ho avuto una leggera nausea. Nelle giornate seguenti sentivo le ossa rotte, poi la febbre a 38,5”, racconta Marco. “C’erano i primi casi a Codogno, ma io ci ridevo su con gli amici. Intanto però la febbre non calava. Domenica 26 chiamo il numero dell’emergenza per chiedere il tampone. “Se non sei stato in Cina o a Codogno, niente”, mi rispondono”.

E tu continuavi a stare male.

Sì, una sensazione quasi di distruzione fisica. Ogni due giorni chiedevo il tampone. All’ennesimo no vado a fare una lastra: polmonite interstiziale.

A quel punto ti fanno il tampone, giusto?

No, mi ripetono “Lei non viene dalla Cina o da Codogno”. Domenica 1 marzo sto malissimo, mi alzo per fare colazione e svengo. Viene l’ambulanza e mi portano al San Gerardo di Monza. Alla domanda: “Hai conosciuto qualcuno di Codogno?” io terrorizzato all’idea che non mi facessero il tampone ho risposto di sì.

Tampone positivo.

Sì, mi ricoverano. Quel giorno mia moglie mi chiama e mi dice che ha 37,5 di febbre. Eravamo preoccupatissimi per i bambini, perché se anche lei fosse finita in ospedale non avremmo saputo a chi lasciarli. Tra l’altro erano potenzialmente infetti.

Le tue condizioni poi migliorano.

Dopo una settimana di ossigenoterapia, l’ospedale mi preannuncia la dimissione. Solo che ero ancora positivo e non sapevamo se mia moglie e i miei figli lo fossero. Avevamo bisogno di fare i tamponi.

A chi vi rivolgete?

Era l’8 marzo, rintraccio il numero di Gallera. Mia moglie gli scrive su whatsapp spiegando quello che ci è successo, il mancato tampone a loro, lo svenimento. Gli scrive “sono disperata, ho due bambini, mi sta tornando a casa un positivo al Coronavirus”.

E Gallera?

Gallera ha risposto l’opposto di tutto quello che dice in tv. E cioè che il tampone non è previsto se non hai febbre e difficoltà respiratorie, altro che controllo dei contatti. In più ci ha scritto che se venivo dimesso voleva dire che ero guarito (!).

Ma come guarito? Dimissione non vuol dire per forza guarigione.

Infatti! Io ero positivo e lo sono stato ancora per 20 giorni, dopo che sono uscito.

Gallera ha scritto altro?

Sì, che se mia moglie “non si sentiva tranquilla” potevo andare a fare la quarantena all’ospedale di Baggio. Ospedale poi chiuso giorni dopo perché si erano infettati tutti.

Interviene la moglie Marika: “Io ho chiamato ATS quattro volte, non ci hanno mai contattato per sapere come stessimo, altro che sorveglianza attiva! Avevo contattato anche il sindaco di Cernusco. Mi ha detto che aveva le mani legate. È lì che ho scritto a Gallera, che mi ha dato quelle risposte assurde”.

Marco, il marito di Marika riprende il filo del discorso: “Ci tengo a dire che il nostro non è un attacco politico, è solo la cronaca di quello che abbiamo vissuto. Qui in Lombardia – l’ho provato sulla mia pelle – non c’è stata una strategia iniziale per arginare il fenomeno che poi ha provocato tutti quei morti. Se un virus arriva dalla Cina in poche settimane, come fai a non preoccuparti del contagio che avviene nelle famiglie?

Avevate frequentato altri parenti?

Mia madre era stata qui mentre ero infetto, è tornata in Sicilia con l’aereo da Bergamo a fine febbraio.

È stata monitorata?

Ma va. Abbiamo comunicato ad Ats che forse ero infetto e che lei era stata qui, che doveva prendere un aereo per la Sicilia. “Stia tranquillo” mi hanno detto. Chissà se era asintomatica, se ha infettato qualcuno in aeroporto, in aereo, boh.

Alla fine un posto in ospedale te l’hanno trovato però.

Oneri e onori. Hanno comprato respiratori e creato nuove terapie intensive, è vero, ma stavano rimediando ai loro errori. Preferisco quelle regioni che avevano due barelle e 4 tende da campo, ma si sono difese arginando il contagio.

Gallera dice che hanno fatto tamponi e mappatura contatti dal 21 febbraio.

Peccato che ci siano migliaia di cittadini a sbugiardarlo.

Interviene ancora Marika: “Ma poi come facevano a fine febbraio a guarire tutte quelle persone? Marco si è ammalato il 20 febbraio ed è “guarito” ora. Anche se qualcuno – e ci sta – è guarito prima, qualcosa non torna. Forse confondono “guariti” con “dimessi”.

Marco, alla fine sei tornato a casa da positivo.

Sì, il 10 marzo sono tornato a casa e mi sono chiuso in camera. Il 17 il tampone era ancora positivo. Il 30 finalmente ero negativo. Siamo dei miracolati.

Hai avuto paura di morire?

Sì, soprattutto quando mi hanno messo l’ossigeno. La mia settimana in terapia intensiva è stata un film horror: persone sedate, nude, luci accese, allarmi che suonavano e poi dovevo fare i bisogni lì, terribile.

Hai avuto contatti con la tua famiglia?

In videochiamata la mia bimba riferendosi a quella mattina in cui sono svenuto mi ha detto: “Papà, ma lo sai che io ti ho visto morire?”.

Durante la quarantena in camera come comunicavi con i bimbi?

Per 20 giorni la regola è stata: quando apro la porta, io faccio un passo indietro, voi anche e tutti con le mascherine.

E quando la quarantena è finita?

Il 30 mattina mi chiamano dall’ospedale: il tampone è negativo. Erano ancora a letto tutti e tre che dormivano, mi sono sdraiato con loro, ci siamo abbracciati e abbiamo pianto.

Cosa vorresti dire a Gallera?

Che deve ammettere gli errori che hanno fatto. Ci sono troppi testimoni in Lombardia. E posso garantire che non è un caso di delirio collettivo causato dal Coronavirus.

Il dilemma veronese: Scarpia, Scarpìa oppure… Scampìa?

Stamane mi telefona un celebre e caro giornalista italiano, la voce vibrante di irascibilià. “Hai letto il mio whatsapp?” “Lo guardo e ti richiamo subito. “ La notizia concerneva la scomparsa del baritono Silvano Carroli, a Verona particolarmente stimato: capace solo di un fortaccio da quattro soldi, di reboantismo, d’intonazione incerta. Chiamo l’amico e gli dico: tolta la retorica d’uso, che cosa non va? “Ma come, non ti sei accorto che essendo uno dei suoi cavalli di battaglia lo Scarpia della Tosca, il coglione del titolista gli ha tolto l’accento? Scarpìa, come Scampìa, sior mi benedeto!” Sono restato vile. Gli ho risposto solo “Vedi in che tempi ci tocca viver…!”

Ma esiste la phthonos, la vendetta degli dei. Di rado opera di giustisia, più di rado di crudele ironia, di che leggiamo nella storia di Gige in Erodoto. Il quotidiano l’Arena di Verona stabilisce che si debbono mettere le cose a posto: sia fatta la volontà di Dio! E appone alla triste novella il titolo “…piange Silvano Carroli, grande Scampia” Diciamo la verità: non mette l’accento sulla “i”, ma il senso è chiarissimo. Una lotta di cretini (il mio amico lo è stato solo questa volta!) produce il risultato di O a O. Quei coglioni dei veronesi continuano a sentirsi i mammasantissima all’Arena per l’arte lirica. Il melodramma è la forma di eccellenza della natura italiani. Temo non lontano il momento nel quale dovranno andare in Corea a imparare il solfeggio.

“Il reato non esisteva ancora” Lo Stato risarcirà Contrada

Aveva chiesto 3 milioni e 300 mila euro, i giudici gliene hanno riconosciuti 507 mila, poco più di 235 per ogni giorno di cella, e poco più di 117 per ogni giorno di arresti in casa, più altri 50 mila per il danno di immagine, 50 per il danno subito dal figlio Antonio, e 30 ciascuno per i danni patiti dall’altro figlio, Guido, e dalla moglie, ormai deceduta. In totale 667 mila euro. Per Bruno Contrada arriva dalla Corte di appello di Palermo (presidente Fabio Marino) un maxi risarcimento per l’ingiusta detenzione patita a partire dal 24 dicembre 1992, quando venne arrestato su richiesta della Procura di Palermo.

Ne ha dato notizia su Facebook il suo legale, l’avvocato Stefano Giordano, che non esclude un ulteriore ricorso in Cassazione per ottenere una cifra maggiore. Contrada ha trascorso in carcere più di quattro anni (e oltre tre agli arresti domiciliari) e il risarcimento ripara il danno per una detenzione che, secondo l’interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), non avrebbe dovuto essere disposta: quando intrecciò, infatti, le sue “relazioni pericolose” con Cosa Nostra, per le quali è stato condannato in giudicato a 10 anni, Contrada non avrebbe dovuto essere processato per quel reato, perché il concorso esterno alla mafia, all’epoca dei fatti (1979-1988), non “era sufficientemente chiaro”. Si sarebbe ‘’chiarito’’ solo nel 1994, l’anno in cui la Cassazione a sezioni unite con la sentenza Demitry ha raggiunto l’evoluzione giurisprudenziale “posteriore – secondo la Cedu – all’epoca in cui Contrada avrebbe commesso i fatti per cui è stato condannato”.

“Non ci sono soldi per pagare le sofferenze che la mia famiglia ha subito – ha commentato Contrada, 88 anni – mio figlio che era poliziotto è gravemente malato: un giovane che ha visto il padre, dirigente generale della polizia di Stato la stessa di cui lui indossava la divisa che per lui era un mito, arrestato e accusato di cose gravissime. Mia moglie che si è ammalata di cuore subito dopo il mio arresto. Ci può essere risarcimento?’’.

“È un’ordinanza non definitiva e ricorribile – ha detto l’ex pm Antonio Ingroia, che coordinò l’inchiesta su Contrada – con una conclusione singolare: c’è una sentenza di condanna, mai revocata, basata su fatti gravissimi, incontestabili e neppure contestati da questa ordinanza, perché accertati in tre gradi di giudizio di favori a boss mafiosi di primo livello. Poi c’è stata una sentenza Cedu, discutibile, su una questione di diritto peraltro frutto di un fraintendimento interpretativo che non ha in alcun modo intaccato l’accertamento di quei fatti. Tenuto conto del contesto, la decisione del maxi-risarcimento si potrebbe commentare come Cicerone: summus ius, summa iniura”.

All’inizio Contrada aveva tentato di ottenere la revisione della condanna, bocciata dalla Corte d’appello di Caltanissetta che aveva ritenuto che il funzionario fosse in condizione di prevedere una propria futura condanna per concorso esterno anche in ragione del suo ruolo di investigatore. E la successiva Cassazione il 20 gennaio 2017 aveva dichiarato inammissibile il ricorso dopo la rinuncia dello stesso Contrada che aveva parallelamente avviato un incidente di esecuzione davanti la Corte d’appello di Palermo, concluso con un rigetto l’11 ottobre 2016, contro cui l’avvocato Giordano aveva proposto il ricorso accolto dalla Cassazione che ha spianato il percorso verso l’Europa.

La bocciatura della condanna di Contrada resta per l’Italia un unicum della giurisprudenza europea: nell’ottobre scorso le Sezioni Unite della Cassazione hanno escluso che il verdetto europeo si applichi anche agli altri condannati per concorso esterno per fatti commessi prima dell’ottobre 1994: i cosiddetti “fratelli minori” dello 007 del Sisde. Per loro la Suprema Corte ha escluso che possano ottenere la revisione usando il verdetto Cedu sostenendo che quella europea non è una “sentenza pilota” e non è “espressione di una consolidata giurisprudenza Ue”.

Antidoti alla noia: riscoprire vecchi libri e correre in edicola

Il ricordo di Fede: non c’è tempo per la tristezza

Era primavera ed era sette anni fa. Ricordo la telefonata, in una mattina uguale alle altre, come quelle di questi giorni: “Federico se n’è andato”. Ricordo che aspettavo quella chiamata, perché stavi davvero male. E non avevo avuto il coraggio di prendere un aereo per Londra per venirti a salutare. Ti penso sempre e ancora di più in questo periodo nero, perché eri in grado di trovare un senso a tutto, pure alle circostanze peggiori. Non ero quasi mai d’accordo con te, non avevo e non avrò mai lo spirito con cui sei stato al mondo: eri uno che semplificava, che smussava, che cercava l’angolo razionale e positivo di qualsiasi persona e di qualsiasi circostanza. Esattamente il mio contrario. Per questo amavo così tanto parlare con te, un secondo fratello maggiore. Hai mantenuto il sorriso fino alla fine. A chi ti chiedeva come facessi, hai risposto così: “Sad? There’s no time for that”. Non c’è tempo per essere tristi. Non c’è. Nemmeno in questi giorni.

Tommaso

 

Per riflettere su questi tempi

Caro Fatto Quotidiano,

in questi giorni sto leggendo questo libro Geni, popoli e lingue di Luigi Luca Cavalli-Sforza (edizioni Adelphi, 354 pagine). Nella prima parte c’è dell’ottimo materiale a commento dei tempi moderni… Buon lavoro a tutta la redazione!

Black Cat

 

Il nostro edicolante (e il suo inquilino)

Carissimi, non ringrazieremo mai abbastanza il nostro edicolante (nella foto con il gatto che riposa sui giornali) per permetterci di mantenere vivo il focus della giornata: l’acquisto del nostro insostituibile, amatissimo quotidiano Fatto.

Alessandra Chelli

 

Naufragare dolce in un mare di libri

Cari amici del Fatto,

sto riordinando la mia biblioteca e ho ritrovato molti libri di Massimo Novelli, Antonio Armano e Marco Travaglio, che ho di nuovo sfogliato con molto piacere. Da questo mare di libri in cui sono immerso (nella foto) vi mando un caro saluto. Il vostro quotidiano “grazie” a questa quarantena annovera un nuovo lettore, mio figlio Riccardo.

Franco Vaccaneo

 

Caffè, giornali, corsa e letture

Le giornate passano tutte uguali. Esco alle 7 a prendere i giornali, faccio due passi sino al distributore h24 e mi gusto un caffè. Quanto mi manca la colazione seduto in qualche bar, scambiando due parole con un amico. Rientro a casa. La mattinata passa leggendo i giornali. Dopo pranzo mi riposo venti minuti. Alle 15.30 indosso la tuta e vado a fare una passeggiata lunga a passo veloce nei pressi dell’abitazione. Cerco le salite e le scale. Non amo correre in città, ma ora lo smog è scomparso. Ci sono pochissime auto. Rientro a casa. Dopo la doccia mi leggo qualche pagina di un libro. Ho appena concluso “Quando Mussolini non era il Duce”. Alle 19.10 seguo su Facebook la diretta del nostro sindaco di Asti, Rasero, che ci aggiorna sulla situazione locale. Cena leggera. Concludo la giornata seguendo in Tv trasmissioni di informazione e attualità. Oltre al contatto con gli amici, mi manca il poter entrare in una libreria e fare una passeggiata in piazza Carignano a Torino, per me la più bella piazza del mondo.

Stefano Masino

Covid: sono stato infettato, ma l’ho scoperto da solo

Per sapere se quella tossetta di tre settimane fa fosse collegata al virus abbiamo dovuto cercare le aziende e la documentazione da soli su internet senza che i professoroni di Iss, Css e Cts, cioè Istituto superiore di sanità, Consiglio superiore di sanità e Comitato tecnico scientifico si degnassero di mettere nero su bianco la ormai celebre “validazione” o “standardizzazione” per farci capire quali siano i kit e i test buoni per l’attendibilità dei loro risultati. Il governo e le Asl se ne fregano altamente dei pauci-sintomatici e degli asintomatici e non fanno i tamponi. Eppure sono (siamo) in tanti. Abbiamo dovuto far da soli. Pagare 270 euro a una società belga, aspettare pazientemente il kit di fabbricazione cinese due settimane. Poi, poiché i laboratori non possono farlo, ci siamo dovuti bucare il dito da soli e ora finalmente abbiamo in mano questa stecchetta con la righetta grigia che ci guarda beffarda. Dunque il risultato del test del mio sangue dice che molto probabilmente (al 98,5 per cento se le ricerche cinesi del produttore non mentono) ho avuto il coronavirus e l’ho sconfitto. La righetta degli anticorpi dell’infezione Igm non si è “colorata” e quella degli anticorpi stabili Igg non è nera ma grigetta. Eppure un esperto del settore fredda le mie speranze. Adriano Mari del Caam di Latina spiega: “La linea c’è e significa che lei è positivo, anche se debolmente, all’Igg”. Mari azzarda un’ipotesi: “Potrebbe essere stato contagiato tre-quattro settimane fa”. Una “pista” buona penso di averla: il maledetto volo.

Il 9 marzo, di ritorno dal Canada, sono stato 10 ore a contatto con un paio di persone che tossivano. Io indossavo la mascherina ma British Airways non obbligava i passeggeri a farlo: Boris Johnson straparlava ancora di immunità di gregge e non era ricoverato. Un tale tossiva a tre file da me e non stava bene: in piena notte si era pure steso per un attimo davanti al portellone prima che la hostess lo facesse ri-sedere.

Come sempre bisogna essere garantisti. Non ho certezze che quella tosse fosse Covid e non posso escludere l’aeroporto di Londra Heathrow dove ho trascorso mezza giornata, quando British Airways ha cancellato il volo. Dal 10 marzo mi sono chiuso in casa anche perché due-tre giorni dopo l’arrivo ho sentito montare una faringite accompagnata da una lieve tosse secca, una febbriciattola ridicola che un solo giorno è salita fino a 37,3, poi un mal di gola passato in due giorni. Sintomi lievi che racconto qui solo per una ragione: spiegano meglio di un trattato quanto sia insensato l’atteggiamento del Governo che continua a vietare i tamponi, a chi non abbia almeno 38 o una polmonite incipiente. E soprattutto vieta persino i test sierologici, cioé quello con il kit da 5 euro più iva che ho fatto io e permette di scoprire gli asintomatici o quasi come me. Giustamente non è considerato valido per la diagnosi al contrario del tampone perché gli anticorpi insorgono di solito 9-10 giorni dopo l’infezione. Giusto. Ma se il tampone non lo fanno perché impedire a un cittadino di pagarlo di tasca sua? E perché impedirgli di fare almeno un test del sangue da 5 euro che può scongiurare qualche contagio e offrire informazioni utili per la collettività?

Quando ho chiesto al mio medico di famiglia se potessi fare il tampone mi ha risposto che aveva una decina di pazienti molto più gravi di me per i quali aveva spedito mail alla Asl competente, senza risposta. Mi ha detto di stare in stanza chiuso e ogni mattina e sera mi contattava per sapere la febbre e la saturazione. Ma se io fossi stato un tassista? O un rider? O un edicolante, costretto a vivere della mia partita Iva? Se di fronte a uno Stato che se ne fregava di me me ne fossi fregato del prossimo? Avrei potuto infettare davvero molte persone. Potevo trascurare i sintomi lievissimi andando al lavoro. La quarantena anche dentro casa, consigliata dal medico, ha escluso dal contagio la mia compagna: ieri ha fatto il mio stesso test risultando negativa. Molti mi prendevano per matto e solo oggi so che avevo ragione. Ma avrei potuto saperlo prima se lo Stato, la Asl e la Regione fossero stati presenti permettendomi un test. Invece questo risultato è stato raggiunto contro di loro.

I test sierologici da 5 euro più Iva permettono di trovare nel sangue gli anticorpi e sono facili da eseguire. Eppure il Ministero dispone che non siano venduti al pubblico (giustamente perché non tutti studiano il loro senso come ho fatto io, per lavoro) e non possono essere fatti a pagamento nemmeno dai laboratori. Io ho dovuto acquistarli all’ingrosso (una scatola di 40 kit 190 euro più Iva più spedizione: 270 euro) perché la confezione è venduta lecitamente con marchio CE-IVD, cioè per i laboratori che però non possono farli a pagamento ma solo per ricerca.

All’interno della scatola c’è la boccetta di reagente per tutti i 40 test. Basta far cadere la goccia, aspettare 10 minuti e appare il risultato. Le case produttrici sono più di cento, in gran parte cinesi ma anche sud-coreane e americane.

Il titolare della società belga Labomics da cui lo ho comprato (mai sentita prima e trovata sul web) è un biologo, Joel De Néve. La diffidenza verso questi test, ci spiega, non è solo italiana: “Non vendiamo in Belgio perché le autorità sanitarie locali in questo momento non ritengono che questo test sierologico sia utile e hanno imposto un bando per sei mesi”. In compenso Labomics vende molto nel resto d’Europa. “Abbiamo avuto centinaia di ordini dall’Italia. Circa il 40 per cento dei kit li ho spediti nel vostro paese”.

I kit venduti dalla Labomics sono fabbricati dalla Wuhan UN Biotechnology Co. Ltd nella città dell’Hubei. Su internet si può leggere un clinical report di 32 pagine che ne valida, per la Cina almeno, la sensibilità e la specificità, cioè i valori che indicano quante volte sbaglia sui casi positivi e sui negativi.

Su circa 600 casi analizzati, circa 400 campioni di sangue positivi e circa 200 negativi, il test del sangue avrebbe confermato la diagnosi positiva del tampone nel 98 per cento dei casi e il negativo nell’88 per cento. Sono dichiarati nello studio dal produttore cinese e andrebbero validati da un’autorità terza italiana. Da settimane il Ministero della Salute ha sotto esame la questione.

Il professor Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità ha detto più volte che a giorni arriverà una “standardizzazione” dei test. Purtroppo il virus non aspetta. I kit sono in vendita sul web. Le regioni li comprano e li fanno. Se la risposta, pur impeccabile dal punto di vista scientifico, arrivasse troppo tardi, sarebbe praticamente inutile.

Come la famosa operazione perfetta che però ha fatto morire il paziente.

Forza-leghisti: fuoco amico sul governatore. La paura di diventare un modello perdente

Per ora l’unica cosa da fare è restare uniti. Ma quando la guerra al Covid-19 si placherà, allora anche nel centrodestra, in Lombardia, si faranno i conti. Perché quello che più si teme, dalle parti di Forza Italia e Lega, è che quella che una volta era considerata la regione modello dal punto di vista sanitario, dopo l’emergenza possa uscirne a pezzi. Un modello perdente dove gli errori si sono susseguiti uno dietro l’altro. Specialmente se paragonata al Veneto di Zaia.

E a quel punto a farne le spese, politicamente, saranno i due principali alleati. Su Attilio Fontana, infatti, continuano a cadere tegole. L’ultima è la vicenda delle morti al Pio Albergo Trivulzio, con un rimpallo di responsabilità tra Regione e Comune e la possibilità che qualcuno abbia smistato lì anziani malati di Covid. La magistratura è al lavoro e ieri la Regione ha annunciato una commissione d’inchiesta. E c’è il caso della mancata zona rossa ad Alzano e Nembro, con accuse incrociate tra Regione e governo. Ma sono solo le ultime. Ci sono poi gli errori iniziali degli ospedali, i mancati tamponi, le mascherine introvabili.

FI e Lega in superficie sono compatte (“la crisi ha consolidato l’alleanza”, dicono), ma il fuoco cova sotto la cenere. In casa Lega, per esempio, la sensazione è che Fontana abbia concesso troppi riflettori a Giulio Gallera, “così l’assessore si prende i meriti e le rogne le lascia al presidente”, si dice tra i salviniani. Come, ad esempio, la gestione della conferenza stampa quotidiana, alle 17.30, con i numeri quotidiani della Lombardia, presieduta dall’assessore alla Sanità. Oltre alle cifre del disastro (morti e contagiati), ormai nell’immaginario collettivo Fontana è quello che si strozza con la mascherina, mentre Gallera, sfidante in pectore di Beppe Sala a Milano, è quello che ha il polso della situazione. Anche per questo Matteo Salvini, che dalla Lombardia era scomparso, è tornato a sostenere il suo governatore, mentre non ha speso una parola per Zaia, l’unico vero competitor alla sua leadership.

Ma torniamo a Fontana. Che ormai se la deve vedere pure con il fuoco amico. Se a inizio aprile il governatore è stato messo sotto accusa, con una lettera, da sette sindaci targati Pd (Cremona, Bergamo, Brescia, Lecco, Mantova, Milano e Varese), ora le critiche arrivano anche da tanti piccoli comuni di centrodestra. Perché quando i cittadini non trovano risposte dalle Asst (ex Asl), chiamano i sindaci. Come succede a Robbio, in provincia di Pavia. Il cui primo cittadino, Roberto Francese, è molto duro. “Pensavo di vivere in una Regione modello, invece troppe cose non hanno funzionato. Si stanno lasciando morire i lombardi in casa, senza avere la possibilità di fare il tampone o validare i test sierologici. Fanno tante belle conferenze stampa e basta…”. E come lui ce ne sono tanti. Ecco, questo è lo scenario con cui il centrodestra lombardo dovrà confrontarsi, a emergenza finita.

Gallera lo ammette: “Potevamo blindare la Bassa Val Seriana”

La zona rossa a Nembro e Alzano Lombardo “avremmo potuto farla noi? Ho approfondito ed effettivamente c’è una legge che lo consente”. Con queste parole, l’assessore al Welfare della Lombardia, Giulio Gallera, spazza via qualsiasi dibattito e un mese di accuse al governo sul buco nero più grosso della pandemia in Italia. Gallera le pronuncia ieri mattina su Rai3 ad Agorà. È passato più di un mese dal 5 marzo: il governo stava valutando in quelle ore, su parere dell’Istituto di Sanità, la chiusura di quelle aree. Furono mobilitati – come raccontato ieri dal Fatto – in trecento, tra poliziotti e carabinieri, per cinturare i due Comuni su decisione di Roma, modello Codogno; ma gli agenti smobilitarono perché la notte di sabato 7 marzo il premier Giuseppe Conte annunciò la chiusura di tutta la Lombardia. Da quel momento a ogni contestazione su Nembro e Alzano il governatore Attilio Fontana e l’assessore Gallera hanno buttato la palla verso Palazzo Chigi. Poi, ieri, Gallera “approfondisce” e scopre che “effettivamente c’è una legge che lo consente”. Che la Lombardia poteva far anche da sola. Prima (il caso del Pronto soccorso di Alzano è del 23 febbraio) e dopo il 7 marzo.

La legge sconosciuta alla giunta lombarda fino all’approfondimento di ieri (nonostante anche il premier ne avesse parlato nell’intervista al Fatto, 2 aprile) è la 833 del 23 dicembre 1978 “Istituzione del servizio sanitario nazionale”, che delega le Regioni riguardo a “profilassi delle malattie infettive e diffusive, per le quali siano imposte la vaccinazione obbligatoria o misure quarantenarie, nonché interventi contro le epidemie e le epizoozie”. Un’inezia, ma il governatore Fontana, l’assessore Gallera, tutta la giunta regionale, collaboratori e consulenti della stessa, fino a ieri non avevano approfondito. Per ammettere l’errore e scoprire l’esistenza di questa legge sarebbe bastato allora sfogliare le ordinanze con cui, dopo il lockdown stabilito dal governo per tutto il territorio nazionale il 12 marzo, altre Regioni hanno blindato Comuni-focolaio. In ognuna di queste ordinanze c’è il riferimento alla legge 833 del ’78. È il caso, ad esempio, della Campania che ha blindato due giorni fa Lauro (Avellino), come aveva già fatto il 15 marzo per Ariano Irpino (Av) e altri cinque paesi del Vallo di Diano (Salerno). Anche l’Emilia-Romagna ha chiuso Medicina; il governatore Stefano Bonaccini ha spiegato al Fatto (6 aprile): “Se avessi atteso il governo per istituire la zona rossa a Medicina l’intera città di Bologna sarebbe fuori controllo e gli ospedali sarebbero al collasso”.

Allo stesso modo si sono mosse più volte a marzo Lazio, Basilicata, Calabria e Sicilia. Nell’ultimo caso, Lauro, al governatore Vincenzo De Luca bastano pochi minuti dalla lettura del rapporto col flusso dei dati, sono le 22 di domenica scorsa, per firmare l’ordinanza. Perché la Lombardia non ha fatto lo stesso? È credibile e accettabile che tutta la catena di comando regionale davvero non conoscesse, prima dell’approfondimento annunciato su Rai3, la legge 833 del ’78? Il presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti, intervistato ieri da Tpi.it, riferendosi a una riunione tra gli industriali lombardi e la Regione ai primi di marzo, spiega: “Ci siamo confrontati, ma non si potevano fare zone rosse”. Poi Bonometti fa l’esempio della Dalmine che produce bombole per l’ossigeno. Ma è rimasto aperto tutto e Bonometti ammette: “Eravamo contrari a fare una chiusura tout court così senza senso”. La Regione di Fontana e Gallera ne ha tenuto conto “trascinando l’Italia – ha affermato l’ex premier Enrico Letta – in un buco nero che si chiama sanità lombarda”.

La Cricca dei Tre di Alzano: la Lega e il caos in ospedale

Ci sono tre persone (più una) che potrebbero spiegare com’è partito il contagio nel cluster infettivo più devastante d’Italia, quello scoppiato ufficialmente il 23 febbraio all’ospedale di Alzano Lombardo. Da lì, il virus si è diffuso verso la zona di Bergamo, poi di Brescia e infine, probabilmente, verso Milano. I tre sono il direttore generale della Asst Bergamo Est Francesco Locati, il direttore sanitario Roberto Cosentina e il direttore medico Giuseppe Marzulli. Il Fatto Quotidiano ha chiesto ai tre di ricostruire le prime ore del contagio più terribile del Paese, ma non ha avuto risposta. L’Azienda socio sanitaria territoriale (Asst) Bergamo Est comprende gli ospedali di Seriate, dove ha la sua sede, e di Alzano, Gazzaniga, Piario, Lovere, Trescore Balneario, Sarnico. È feudo leghista, presidiato da Francesco Locati, che ha voluto al suo fianco come direttore sanitario Roberto Cosentina. Il “Presidio 2” della Asst, che comprende l’ospedale di Alzano, ha Marzulli come direttore medico.

È all’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano – Val Seriana, sei chilometri da Bergamo – che tutto comincia. Sappiamo ormai che i primi due pazienti Covid-19, almeno ufficialmente, sono Franco Orlandi, ex camionista di Nembro, e Tino Ravelli, pensionato di Villa di Serio. Sono ricoverati nel reparto medicina interna, terzo piano. Saranno i primi due morti della zona di Bergamo: per polmonite e crisi respiratoria, dopo giorni di febbre alta e oppressione al petto.

Nella notte tra venerdì 21 e sabato 22 febbraio, per la prima volta, le infermiere e il personale sanitario del reparto medicina indossano le mascherine Ffp2. Dal Lodigiano sono già arrivate le brutte notizie sull’ingresso in Nord Italia del coronavirus, Codogno è già stata dichiarata zona rossa. Il 21 febbraio Ravelli viene sottoposto al tampone. Risulterà positivo al Covid-19: l’esito arriverà il 22.

Non viene avvisato nessuno. Non i parenti, non il personale dell’ospedale, non il ministero della Salute, a cui dev’essere data comunicazione dei casi pandemici. Domenica 23, nel pomeriggio, viene chiuso il Pronto soccorso. Ma solo per poche ore. Poi riapre. Senza alcuna sanificazione. Senza la creazione di percorsi e ambienti differenziati per i sospetti da Covid-19. Lunedì mattina, l’ospedale riprende la vita feriale di sempre, con il centro prelievi affollato di gente, in maggior parte anziani, e gli interventi chirurgici programmati che si susseguono come se niente fosse successo.

Nei giorni seguenti, l’ecatombe. Muoiono molti dei pazienti, muoiono tanti famigliari dei ricoverati venuti in visita nei giorni precedenti. Si ammalano il primario e giù giù medici, infermieri, portantini, pazienti dimessi e rimandati a casa, parenti e visitatori. Alzano raggiunge i 170 contagi, il vicino paese di Nembro supera i 200. Nella provincia di Bergamo i morti sono oltre 2.300. Poi il contagio si estende a Brescia e infine, con esiti disastrosi, a Milano. Locati, Cosentina e Marzulli dovrebbero spiegare che cosa è successo all’ospedale di Alzano tra venerdì 21 e lunedì 24 febbraio. Chi ha deciso di far indossare le mascherine, la notte del 21? Chi ha disposto la chiusura del Pronto soccorso, il 23? Ma poi: chi l’ha fatto riaprire? Chi ha ordinato di proseguire la normale attività il 24? Perché non è stato informato il ministero? Sono stati invece informati i vertici della Regione Lombardia e l’assessore Giulio Gallera? È lui il “più uno” di questa storia: quando e come ha saputo ciò che stava succedendo ad Alzano? Ha avuto contatti con i dirigenti della Asst? Quando è stato informato della situazione il suo braccio destro, il direttore generale della sanità lombarda Luigi Cajazzo?

Il primo responsabile di questo caos è il direttore generale Francesco Locati. È arrivato al vertice della sua Asst nel gennaio 2016, quando la Regione Lombardia rinnova il rito formigoniano della grande spartizione politica della sanità, con i suoi 19 miliardi di budget la parte più succulenta del bilancio regionale. È poi riconfermato nel 2018. La lottizzazione dei manager sanitari per appartenenza politica viene “confessata” nel 2016, per un errore dell’Arca Lombardia, la centrale acquisti della Regione. Una cartina con i nomi dei prescelti e il simbolo del partito d’appartenenza compare per qualche ora sul sito di Arca e viene mandata via email all’indirizzario della Regione. Poi la pagina è oscurata e viene inviato una rettifica in cui si spiega che la cartina è “un’artificiosa ricostruzione giornalistica”. Purtroppo aderente alla realtà: con il governatore leghista Roberto Maroni, nel 2016, i 35 direttori generali sono così spartiti: 13 alla Lega, 11 a Forza Italia, 10 al Ncd, uno a Fratelli d’Italia. Nel 2018, il governatore Attilio Fontana sceglie 24 dirigenti sanitari della Lega, 14 di Forza Italia, due di Fratelli d’Italia. Locati c’è sempre. Ha un rapporto diretto con Matteo Salvini e una relazione forte con Roberto Anelli, oggi capogruppo della Lega in Consiglio regionale, ma anche – scherzi del destino – ex sindaco e attuale consigliere comunale di Alzano, dove tutto iniziò.