Obbligo di mascherine: a Milano solo 120 mila, ma ne servono milioni

Da una parte ci sono gli annunci e la politica, dall’altra la realtà: l’esito è sempre uno scontro. Lombardia e Toscana hanno imposto – con ordinanze diverse – l’obbligo di indossare mascherine quando si esce di casa e ora dovranno distribuirle alla popolazione. Ma ce ne sono per tutti? E quali sono i tempi?

Lombardia. Secondo l’ordinanza (4 aprile) del governatore Fontana, l’obbligo di indossare mascherine quando si esce di casa sarà valido fino al 13 aprile. I cittadini possono però ricorrere a “qualunque altro indumento a copertura di naso e bocca”. Insomma vanno bene anche le sciarpe. Le mascherine, infatti, di certo non sono arrivate a tutti i 10 milioni di cittadini della Regione. Se ne prevede la distribuzione di 3,3 milioni, di cui 2,5 milioni sono state acquistate dalla Regione da aziende cinesi, 800 mila arrivano dalla Protezione civile. La Regione ha programmato di distribuirne 2,6 milioni tra ieri e oggi, a cui si aggiunge un’altra tranche di 360 mila. Ulteriori 300 mila sono state recapitate ai grossisti che le distribuiranno alle farmacie. Dalla Regione spiegano al Fatto che ne arriveranno ancora. L’obbligo però è in vigore da giorni e la distribuzione non è completata. Dall’assessorato al territorio ci spiegano che 9 province su 12 hanno consegnato le mascherine ai Comuni e che entro oggi tutti dovrebbero averne. Ma i pezzi consegnati sembrano non bastare. A Milano, con 1,3 milioni di abitanti, erano previste 900 mila mascherine: ne sono arrivate solo 120 mila che saranno distribuite ai medici di base (120 a testa) anche per i pazienti più fragili. “Meno in proporzione al numero di abitanti e rispetto a quante ci spetterebbero – ha commentato ieri il sindaco di Milano, Giuseppe Sala –. Ma ne stiamo acquisendo in giro per il mondo altre”.

Una delle maggiori produttrici in Lombardia è la Fippi di Rho, azienda che produceva pannolini ma che ha riconvertito la sua linea e che ha da poco ricevuto l’autorizzazione dall’Istituto superiore di sanità per commercializzare 900 mila mascherine al giorno. Rifornisce la Regione che, per gli ospedali, necessita di circa 300 mila mascherine al giorno. Questo significa che si potrebbe contare su 700 mila dispositivi in più a coprire sia il fabbisogno delle Rsa che di altre categorie a rischio. Una buona parte di questa produzione (ipotizziamo 400 mila) potrebbe quindi arrivare alla popolazione. Cifre che rassicurano ma che fanno anche gola se si considera che il commissario straordinario per l’emergenza, Domenico Arcuri, sta negoziando con la Fippi per forniture che vadano oltre la Lombardia.

Toscana.Qui la mascherina non può essere sostituita da sciarpe e foulard. La Regione ha acquistato 9 milioni di pezzi da aziende cinesi: ne sarebbero state distribuite meno 2 milioni. Le Protezioni civili provinciali da due giorni hanno cominciato ad inviarle ai comuni e alcuni hanno dichiarato di aver già avviato le consegne, altri, come Pistoia, inizieranno oggi. Ci sono poi le 230mila mascherine al giorno del “made in Tuscany”, in “tessuto-non tessuto” e prodotte da una quindicina di aziende dopo le analisi della facoltà di chimica dell’Università di Firenze. Anche qui la distribuzione ha tempi più lunghi dei 7 giorni auspicati e così alcuni sindaci, come spiegano dalla Regione, hanno chiesto una proroga all’entrata in vigore dell’ordinanza. Anche a Firenze, dove ieri sono state consegnate 78 mila mascherine a 15.400 famiglie, su un totale per di “188 mila nuclei familiari e 371 mila residenti”, come ricordato dalla vicesindaca Cristina Giachi. Non sarà facile completare la città e raggiungere i paesi lontani dai grandi centri. Prevista la consegna di 3 mascherine per abitante: numero che, considerate le regole d’uso, potrebbe non essere sufficiente.

Le altre regioni. In molte stanno ragionando sulla possibilità di introdurre l’obbligo delle mascherine. Idea non condivisa a livello nazionale: il capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, ha ribadito nei giorni scorsi che il distanziamento sociale resta la misura principale per prevenire la diffusione del contagio e ieri l’organizzazione mondiale della Sanità ha detto che il solo uso delle mascherine non è sufficiente. La Campania tra una decina di giorni valuterà se seguire questa strada, dopo aver verificato il numero di dispositivi disponibili e dei contagi. La Sicilia potrebbe andare verso l’obbligo più soft già previsto in altre regioni, quindi solo in luoghi pubblici come supermercati e trasporti.

La produzione.A oggi, come spiega il commissario Arcuri, sono 36 le aziende che hanno avuto accesso ai finanziamenti di Invitalia per la riconversione della loro produzione in dispositivi di protezione, ma questo non significa che siano pronte per produrre, anzi. Serviranno settimane. Intanto, la Parmon di Catania ha ottenuto le autorizzazioni per realizzare 350 mila mascherine al giorno, 600 mila nelle prossime due settimane. In Abruzzo, invece, la Fater – dopo l’ok dell’Iss – ha iniziato a distribuirne 250 mila al giorno.

I tecnici: “Prudenza”. Ma Conte ora vuole l’agenda per la fase 2

La parola che fa più paura, quella che dopo quasi un mese di lockdown continua a essere sulla bocca di tutti, è piombata nella videoconferenza tra il governo e il comitato tecnico scientifico proprio mentre, in chiaro, la pronunciava il direttore del dipartimento di Malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità, Gianni Rezza: “Cautela”. E “cautela” significa, per dirla ancora con l’infettivologo dell’Iss, che “non è che se arriviamo a zero fra una settimana o qualche settimana allora è tana libera tutti”. Se arriviamo “a zero”, immagina Rezza: e nel giorno in cui il bollettino della Protezione civile, tamponi permettendo, segna ancora 94 mila positivi al Covid-19, quel “fine contagio” sembra più un miraggio che altro. E se nemmeno a “zero” sarà tana libera tutti, c’è da dedurre che, secondo il parere degli esperti, la fine del lockdown è ancora lontana. Perché, ragionano dentro al comitato, “un rilassamento rispetto agli sforzi sin qui compiuti rischierebbe di rendere vano il lavoro fatto finora”.

È il succo del discorso che, stavolta a porte chiuse, gli scienziati hanno messo sul tavolo del governo. Che si trova nella spiacevole condizione di dover tenere insieme l’autorevolissimo parere dei 13 tecnici, con le esigenze di un Paese che ha bisogno di ripartire se non vuole correre il rischio di non alzarsi più.

Così, in queste due ore di riunione “interlocutoria”, il cuore della discussione si è arenato al solito punto. Con il premier e i ministri che cercano di trovare uno spiraglio per allentare le misure e gli esperti che invece li mettono di fronte a un muro, rappresentato dall’unica certezza matematica che farà dire che la battaglia contro la pandemia è vinta: il vaccino. Una exit strategy, insomma, non esattamente dietro l’angolo.

Sono due punti di vista tanto comprensibili quanto inconciliabili. Per questo già oggi, Giuseppe Conte terrà una riunione più “politica”, con i rappresentanti della maggioranza – che già ieri sera si sono incontrati – per decidere insieme quali e quante responsabilità assumersi alla scadenza del decreto del presidente del Consiglio attualmente in vigore.

Mancano solo sei giorni a quel 13 aprile fissato sull’agenda dal Chiudi Italia. E la convinzione nel governo è che le imprese devono poter riaccendere i motori: in condizioni di sicurezza, ma devono farlo, perché in queste condizioni “non si può reggere a lungo”. E perché in gioco c’è la salute pubblica sì, ma pure numerosi altri “valori costituzionali”, a cominciare dalla tutela delle libertà personali e dell’iniziativa economica.

Conte, insomma, chiede al comitato di andare oltre lo schema del “distanziamento sociale” come unica strategia di contenimento del virus. Anche perché, è il ragionamento che comincia a farsi largo dentro all’esecutivo, quella dei tecnici è l’unica via che non contempla errori. Tradotto: chi non fa non sbaglia. E si cautela, anche in vista della possibile commissione d’inchiesta che Matteo Renzi invoca per l’autunno.

Ma ora Conte e il governo si aspettano che arrivino suggerimenti utili per la cosiddetta fase 2: “Modelli di convivenza con il virus”, vuole il premier, che diano garanzie sanitarie ma preservino pure il tessuto socio-economico del Paese. Perciò ha invitato il comitato a chiedere il supporto di altre professionalità che allarghino un po’ il loro punto di vista: esperti di organizzazione del lavoro, sociologi, psicologi, statistici.

Poi, certo, non siamo soli al mondo. E ieri, ospite da Bruno Vespa, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha avvertito anche di un altro aspetto, che lo fa sembrare più cauto rispetto a quanto trapela da Palazzo Chigi: “A livello europeo c’è una preoccupazione che alcuni Stati possano riaprire prima di altri. Noi dobbiamo stare molto attenti alla fase 2, se sbagliamo i tempi torniamo al lockdown e ricominciamo da capo”.

Il ministro della Salute Roberto Speranza, un altro dei più cauti sulla riapertura, durante la riunione di ieri ha illustrato la “strategia sanitaria e assistenziale” da mettere in campo nella graduale ripartenza: distanze da mantenere e mascherine per tutti, tamponi ed esami del sangue per fotografare lo stato dei contagi, tracciamento dei contatti e tele-assistenza per chi è in quarantena. E poi rafforzamento delle reti sanitarie del territorio per evitare che tutti si rivolgano agli ospedali. Quelli che si occuperanno dei pazienti Covid-19, dice il ministro della Salute, dovranno essere strutture “totalmente dedicate” per ridurre le possibilità di diffusione. “Stare a casa”, non può più essere la risposta a tutti i mali.

Morti e contagi in discesa. Rianimazioni meno piene

L’epidemia fa segnare ancora 604 morti in 24 ore nel nostro Paese: 288 in Lombardia, 93 in Piemonte, 72 in Emilia-Romagna. Le persone decedute con il nuovo Coronavirus sono 17.127 dal 22 febbraio. Erano state 636 lunedì, 525 domenica, 681 sabato, ma sappiamo che guardare i dati giorno per giorno non fa vedere l’andamento reale.

Sia pure lentamente calano i decessi, che sono il risultato di contagi di 15-20 giorni fa quando la pressione sul sistema sanitario era altissima e dovevi rantolare per farti fare un tampone; calano anche i nuovi contagi, che ieri sono stati 3.039 per un totale di 135.486: l’aumento è del 2,29 per cento, inferiore al 3-4 per cento che si registra dal 31 marzo; in valore assoluto è il più basso dal 14 marzo , quando l’epidemia galoppava ma si facevano un terzo (11 mila) dei tamponi che si fanno adesso (33 mila quelli registrati ieri, ma nel frattempo siamo arrivati anche a 38 mila in un giorno).

Insomma, si conferma che il picco è passato, come dicono da giorni gli analisti indipendenti. Ora lo dice anche il prudente Gianni Rezza, epidemiologo dell’Istituto superiore di sanità: “Sembra che si inizi a vedere una discesa di nuovi casi”, ha detto in conferenza stampa con il direttore della Protezione civile Angelo Borrelli. A sera ha parlato il ministro della Salute Roberto Speranza a Di Martedì: l’indice di contagiosità, quello che misura in media le persone che ciascun infetto può contagiare, “è sceso sotto il dato 1 ed è un risultato straordinario se pensiamo che eravamo a 3 o 4, ovvero un soggetto positivo infettava fino a 3-4 persone, fino a qualche settimana fa”.

Migliorano i dati della Lombardia: dei morti abbiamo detto e ricordiamo che erano saliti fino a 600 al giorno; i nuovi contagi ieri sono stati 791, in diminuzione a Bergamo (da 103 a 53), a Brescia (da 133 a 117) e a Milano (249 contro i 308 di lunedì in provincia, 99 contro 112 in città).

Continua soprattutto a scendere la pressione sugli ospedali: gli attualmente positivi, al netto cioè dei morti e dei 24.392 guariti (sono 94.067, +880) ma diminuiscono i pazienti ricoverati (28.718, ovvero 258 in meno) e quelli in terapia intensiva (3.792, meno 106), in calo da 4 giorni.

Avanzi di Gallera

Quando, per ragioni politiche o giudiziarie o tutt’e due, i fratelli De Rege che sgovernano la Lombardia, al secolo Attilio Fontana e Giulio Gallera, dovranno cambiare mestiere, avranno un futuro assicurato nel mondo dell’avanspettacolo e del cabaret. L’altroieri, nella sit-com quotidiana “Casa Gallera”, in onda ogni santo giorno sul sito della Regione Lombardia e devotamente rilanciata da RaiNews24 a maggior gloria dell’aspirante sindaco di Milano, è andata in scena una gag che, se fosse vivo Paolo Villaggio, ci ispirerebbe un nuovo film di Fantozzi. Il capocomico, che incidentalmente sarebbe pure l’assessore regionale al Welfare nonché il responsabile della nota catastrofe chiamata “sanità modello”, cedeva il microfono alla sua spalla, il vicepresidente Fabrizio Sala. Questi, siccome c’è gloria per tutti, dava la linea al caratterista Caparini, opportunamente mascherinato per non farsi riconoscere, che a sua volta lanciava un filmato: un imbarazzante autospottone con colonna sonora da kolossal hollywoodiano. Il video immortalava un furgone griffato Regione Lombardia e carico di scatole piene (si presume) di mascherine, di cui il Caparini, con voce stentorea da Cinegiornale Luce, annunciava la “distribuzione via via (sic) a tutti i sindaci”, precisando che “è questione di qualche giorno”, ma dimenticando di spiegare perché, se le mascherine devono ancora arrivare, la giunta le abbia rese obbligatorie domenica. E lì irrompeva un giovanotto atletico e scattante, tipico uomo del fare ma soprattutto del dire, chiamato a sostituire il rag. Fantozzi nel ruolo del cortigiano che urla “È un bel direttore! Un apostolo! Un santo!”. Il suo nome è Roberto Di Stefano, sindaco forzista di Sesto S. Giovanni ma soprattutto marito di Silvia Sardone, la pasionaria di B. che si fece eleggere nella Lega a Bruxelles. “Come promesso”, scandiva il principe consorte con l’aria del banditore da fiera, un filino più enfatico di Wanna Marchi, “proprio oggi Regione Lombardia ci ha inviato 25 mila mascherine!”. Stava per aggiungere “E per i primi prenotati una batteria di padelle antiaderenti!”. Ma sfortuna ha voluto che fosse collegato Mentana, che ha derubricato la televendita a “propaganda” e sfumato il collegamento.

In quel preciso istante è venuto giù il teatrino inscenato ogni giorno dai De Rege padani, dopo il crollo dell’altro trompe-l’œil, il Bertolaso Hospital che doveva ricoverare in Fiera 600 pazienti e finora ne ha tre. E tutti hanno capito che queste baracconate servono a nascondere i disastri (e i morti da record mondiale) della “sanità modello” lombarda e dei suoi corifei.

A noi, che siamo gente semplice, bastavano le loro facce (e quella di Formigoni) per sapere che il “modello Lombardia” era una truffa da magliari, e ci siamo presi tutti gli improperi del mondo per aver osato scriverlo per primi. Ora però le stesse cose le mettono nero su bianco i presidenti degli Ordini provinciali dei medici di tutta la Lombardia in un impietoso atto d’accusa ai vertici della Regione che ogni giorno si lodano e s’imbrodano: “assenza di strategie nella gestione del territorio”, “tamponi solo ai ricoverati e diagnosi di morte solo ai deceduti in ospedale”; “errata raccolta dati”, “incertezza nella chiusura di alcune aree a rischio”; “gestione confusa delle Rsa e dei centri diurni per anziani che ha prodotto diffusione contagio e triste bilancio di vite umane (nella sola provincia di Bergamo 600 morti su 6mila ospiti in un mese)”; “mancata fornitura di protezioni individuali ai medici e al personale sanitario che ha determinato la morte o la malattia di molti colleghi”; “assenza dell’igiene pubblica (isolamenti dei contatti, tamponi sul territorio a malati e contatti)”; “non-governo del territorio con saturazione dei posti letto ospedalieri”; “sanità pubblica e medicina territoriale trascurate e depotenziate”.

Non bastando questo j’accuse, che dovrebbe tappare la bocca ai destinatari per il resto dei loro giorni, Gallera ammette bel bello che, in effetti, quel che dice Conte da una settimana è vero: la legge 833/1978 consente alle Regioni di chiudere porzioni di territorio (come Alzano e Nembro) in zone rosse per motivi sanitari. Gli sarebbe bastato digitarla su Google, o chiedere ai “governatori” Zingaretti, Bonaccini, De Luca e Musumeci, che hanno istituito zone rosse senza scaricabarile con Roma. Invece Gallera, fra una televendita e l’altra, ha personalmente “approfondito” e scoperto con soli 42 anni di ritardo che “effettivamente la legge che ci consente di fare la zona rossa c’è”. Con comodo, nel giro di un altro mesetto, scoprirà che lui sapeva dal 23 febbraio dei primi contagi all’ospedale di Alzano (chiuso e riaperto in tre ore senza sanificazione), eppure il suo comitato scientifico ipotizzò di cinturare la zona solo il 4 marzo. Ma la giunta non lo fece perché “pensavamo lo facesse il governo” (che stava preparando il lockdown di tutt’Italia). Peccato che il governo, nel decreto del 23 febbraio, avesse incaricato le Regioni di segnalargli (o disporre in proprio) le eventuali zone rosse nei rispettivi territori.

Anche Fontana ieri era in vena di scoperte: ha persino ammesso che forse, nelle case per anziani, qualcosa è andato storto (anche perché la Regione vi riversava i ricoverati Covid ancora infetti, moltiplicando i contagi e i morti). Dopo una simile Caporetto, se questa fosse gente seria come il generale Cadorna, uscirebbe dal nuovo Pirellone con le mani alzate: non per aver perso la guerra, ma per non averla neppure combattuta. Ma le dimissioni non si addicono ai cabarettisti e, temiamo, neppure i processi: per commettere un reato, bisogna sapere almeno vagamente quel che si fa. E, anche da questo punto di vista, i fratelli De Rege sono al di sotto di ogni sospetto.

“Cuccuruccuccù Michela”: Battiato non bada al senso

Chiariamo subito: non siamo qui a difendere Franco Battiato dall’accusa di aver scritto testi che a leggerli bene sono “minchiate assolute” (così ieri la scrittrice Michela Murgia, scherzando su YouTube con la scrittrice Chiara Valerio, al contrario ammirata dalla suggestività dei versi del suddetto) per affermarne invece la profonda catarsi, la mistica elevatezza, l’intrinseca filosofia. Gioco troppo facile, peraltro già scassato da Edmondo Berselli in Venerati maestri: qualcuno in vena di rivelazioni alla Fantozzi (il capolavoro X è una cagata pazzesca) dice che Battiato fa il profondo mentre non lo è affatto, e subito qualcuno tra i suoi fan (adepti? Fulminati? Discepoli?) ci casca, e si mette a sciorinare i suoi testi più pregni e significativi, a dire del Poeta la Poesia, del Maestro la Maestria, del Venerato la Venerabilità. Eh, no. Lasciamo l’ovvio a chi non ha capito niente di Battiato, e in questo non sia letta alcuna presunzione di averlo capito, avendo semmai dato per acquisito che in lui, in questo creatore di immagini, enigmi, personaggi e fantasmi, di musica sottomarina, tropicale, religiosa, superficiale e cosmica, non c’è niente da capire.

Per lui è sempre valsa la legge di Carmelo Bene: “Il talento fa quel che vuole, il genio fa quel che può”, e figuriamoci se a Battiato sia mai importato che lo si giudicasse un autore troppo astruso o esoterico, o un produttore di nonsense e calembour per fare rima, se insomma queste categorie avessero un qualche senso per lui. Cosa cambia se uno capace di scrivere versi come “Cuccuruccuccù paloma ahia-ia-ia-iai cantava… Da quando sei andata via non esisto più. Il mondo è grigio il mondo è blu” accanto a versi come “Dio differisce dalla pietra perché questa, dice, è finita. La teologia vi invita anzi vi impone di immaginare una pietra infinita”, sia uno toccato dal Demone, dalla Grazia, o ci stia solo prendendo in giro? Come perdonargli “L’esotomia I’IBM-azione de-cloro-de-fenilchetone essedi-etilizzazione” accanto alla facilità commovente de La cura?

Lui è sempre stato fuori dalla Macchina, specialmente da quella del Significato. Ha sempre rifiutato di essere artista di Stato, persino quando andava alla Radiotelevisione Italiana e cantava in playback con una faccia che era tutto un programma di lontananza e di sovranità personale e artistica; così come di essere un ribelle, un outsider, benché cercasse l’oblio lisergico quando tutti andavano in India a cercare sé stessi, e quando tutti volevano i soldi e la notorietà lui frequentava amici sufi e dervisci rotanti, infatti partecipava a Un disco per l’estate (con Fisiognomica!) e poco dopo incontrava il filosofo Sgalambro, che gli offrì testi in greco antico, citazioni di Platone, versi di Baudelaire, filastrocche, e Lux eterna Domine in excelsis Deo tra noi due ho scelto me.

È paradossale che oggi, nel 2020, quando è risucchiato nell’assenza di sé e nell’afonia sotto la cura dei parenti (come i grandi attraversati dai fulmini, come Nietzsche), Battiato sia finito, nella geografia dell’Italia musicale, dentro il calderone degli impegnati o quantomeno degli impegnativi, quelli che scrivono testi difficili con un presunto significato da smontare, categoria che lui non detestava per il preciso motivo che in lui tutto si ribella all’alternativa, che lui era ed è del tutto estraneo alla dicotomia tra impegno e disimpegno, ironia e pesantezza, etica e estetica, politica e intrattenimento.

Battiato è indifendibile perché non è raggiungibile da nessun attacco, è un ingegnere di cattedrali matematiche e liriche inespugnabili, sia da un verso che dall’altro, l’inventore di una Fortezza Bastiani che non esistendo esiste.

È il Battiato interiore che difendo, autore di stringhe testuali che riemergono dalla coscienza come i versi di Eliot o di Pessoa (amato e citato nella sua canzone più splendente, Segunda feira de Lisboa), inventore di armonie consolatorie e assurde come le preghiere, fonti interiori di conforto e di sempre nuove associazioni mentali.

Torneremo ancora, l’ultimo brano di Battiato (in tutti i sensi, anche fisico) è forse un esperimento di marketing, più che un testamento, e il canto di un corpo esausto. Perciò è un altro verso, l’ultimo di Come un cammello in una grondaia, che viene a soccorrerci in questi strani orribili giorni: “Come piombo pesa il cielo questa notte Quante pene e inutili dolori”.

Isolati, ma intimi: così siamo un corpo unico

Poco più di un anno fa ho iniziato a scrivere il mio nuovo romanzo, Le parole lo sanno. Volevo raccontare una storia in cui due persone, entrambe colte in un momento di difficoltà, decidevano che era giunto il momento di fermarsi, fermare il tempo e fare i conti con sé e con la propria vita grazie a un incontro su una panchina in un parco. Mi piaceva l’idea di scrivere una storia in cui non esistessero intermediari tecnologici. Nessun sms, nessun social, addirittura nessun telefono. Ma semplicemente due persone reali, in un tempo reale, in un luogo reale. Sembrava una cosa scontata, due persone decidono di fermarsi e di andare in un parco.

Eppure.

Eppure oggi quella situazione non è più scontata, e in questo momento anche l’idea di recarsi in un parco ci sembra un miraggio. Oggi, un anno dopo quei giorni, mi trovo come tutti noi a condividere una situazione globale di cui non vediamo ancora l’esito, ma in cui tutte le relazioni tra le persone si sono trasformate, filtrate come sono da uno strumento tecnologico. Io stesso da qualche tempo vivo a distanza la relazione con la mia compagna, lei abita a trenta chilometri da casa mia, e ci è preclusa ogni possibilità di un incontro reale, di persona. E da uomo non nego di vivere con molta difficoltà questa assenza. È sempre un tuffo al cuore salutarsi la sera e, dopo l’ultimo “Ciao, a domani”, premere la x in alto a destra, e improvvisamente vedere scomparire la sua immagine. Come se appunto la sua fosse stata un’immagine, e non una persona.

Ma oggi si naviga a vista e, come in tempi di bonaccia, non conosciamo ancora il momento dell’approdo. Non sappiamo quando avverrà, e intanto ci difendiamo nuotando tra telefonate skype-call, videoconferenze, streaming. E in un attimo tutti noi, indistintamente, ci siamo trovati come mai prima nella storia dell’umanità, a condividere ogni istante della nostra giornata sincronicamente in compagnia di persone che per lo più non conosciamo. Siamo finiti tutti dentro il flusso di un presente continuo in cui ciascuno di noi manifesta uno struggente bisogno di esserci. Siamo immersi nella collettività e partecipiamo di questa collettività in ogni secondo. Quasi non esistono più le persone, ma esiste un corpo unico e plurale che si muove perfettamente in tempo reale, che si agita per la stessa brutta notizia, che spera per uno spiraglio di luce, che si indigna per l’ultima fake news. Siamo diventati un tutt’uno, navighiamo spalla a spalla nel mare virtuale come componenti della stessa ciurma, in balia dello stesso mare, sospinti dallo stesso vento. Vediamo all’unisono le stesse immagini, ascoltiamo contemporaneamente gli stessi discorsi. Pensiamo e proviamo le stesse emozioni, affrontiamo come possiamo gli stessi fantasmi, tanto che spesso condividiamo anche il momento in cui spegniamo tutto e usciamo dal flusso, per entrare nella notte, in cui molti di noi condividono anche l’insonnia. Chi di noi, infatti, dorme bene di notte, in questo periodo?

Ci troviamo a convivere con una massa di persone di cui conosciamo le foto, il nome, i post. Una massa indistinta, in cui non esistono più classi sociali, simboli di status, elementi distintivi sociali o economici. Perché il virus non fa differenza, di fronte a lui siamo tutti uguali.

Ho scritto un romanzo di due persone in carne e ossa e mi trovo a vivere come tutti noi dentro un flusso immateriale. Ma allora, cos’è diventata la presenza? Cosa l’autenticità?

E soprattutto cos’è questo bisogno costante di sentirsi protetti, spalla contro spalla, dentro una condivisione totale, senza pelle, scarnificata, che alle volte sa tirare fuori anche le parti più profonde e sincere del nostro essere? Che ci sa fare esprimere come nella vita reale non saremmo stati in grado e ci fa capire quanto importante sia in realtà ciò che ci manca. Ma che cos’è diventata la presenza in questo esserci a distanza?

Forse la presenza è proprio questo aggrapparsi. Una forma di nostalgia per quanto ci manca di un tempo tanto vicino che ora appare lontano. Quante storie autentiche ci sono in tutto questo calderone, in quest’unica voce collettiva che ci parla e di cui noi siamo parte? Ognuno di noi sta vivendo e scrivendo la sua storia personale.

Alla fine so per certo che quando tutto sarà finito, di grande mare collettivo di storie sul quale galleggiamo, sapremo quale è quell’unica che poi, nella vita reale avrà senso vivere e seguire per noi. Spero che questo sarà l’insegnamento del momento tanto difficile che tutti stiamo affrontando. Imparare a scegliere dentro questo noi, l’unico io che ci appartiene davvero, e di valorizzarlo grazie alle uniche persone con le quali abbiamo voglia di vivere. A scegliere la nostra vita, unica e irripetibile. La nostra unica presenza, lì, in quel posto preciso, in quel tempo specifico, con la persona che amiamo. E sarà importante farci sorprendere impreparati. Sì, impreparati, perché quando questo miracolosamente succederà, porremo meno difese davanti a noi e, forse, saremo anche più liberi di vivere le nostre emozioni senza sovrastrutture, paure, o preconcetti. Con il pizzico di leggerezza che meritano.

La beffa per BoJo: nelle mani della Sanità che ha smantellato

Il premier Boris Johnson ieri sera è stato trasferito in terapia intensiva al St Thomas hospital dopo che le sue condizioni sono peggiorate; era stato ricoverato domenica per il coronavirus. Il ministro degli Esteri Dominic Raab gli subentra alla guida del governo, almeno per il momento.

Ciò che è avvenuto spazza via le cautele che Downing Street ha avuto su Johnson costretto ad andare in ospedale per i suoi sintomi. La prima versione: il primo ministro britannico è stato ricoverato per precauzione in ospedale perché continuava ad “avere sintomi persistenti di coronavirus 10 giorni dopo l’esito positivo del tampone”. Per l’agenzia di stampa di Stato russa Ria Novosti, che cita due fonti ospedaliere, Johnson sarebbe invece in terapia intensiva, attaccato a un respiratore. Notizia smentita subito da Downing Street. Ma se non c’era alcuna emergenza, perché ricoverare il primo ministro alle 20 di sera, quasi in contemporanea con il discorso alla nazione della Regina Elisabetta, studiato nei dettagli per rinfrancare e unire il Regno?

Ieri mattina ufficiale su Twitter, Johnson o chi per lui, ha inviato un messaggio rassicurante: “Sono di ottimo umore e in contatto con il mio team, per lavorare insieme nella lotta a questo virus e per proteggervi tutti”. E ancora: “Vorrei ringraziare il brillante staff dell’Nhs che si sta prendendo cura di me e di altri in questo periodo difficile. Siete la parte migliore del Paese”. Un riconoscimento quasi obbligato, sulla scia dell’omaggio già presente nel discorso di Elisabetta e della ondata di sostegno al servizio sanitario che sta attraversando il Regno Unito. Ma accanto alle parole di gratitudine e agli applausi per medici e infermieri che uniscono i britannici ogni giovedì alle 8 di sera, c’è la rivolta del personale medico, mandato al fronte senza maschere, guanti, visori. Il 23 marzo scorso, quando Johnson non risultava ancora infetto, 4.000 fra infermieri e medici gli avevano rivolto un appello pubblico chiedendo l’invio di materiale protettivo. Che, malgrado grandi promesse del governo, dopo due settimane non è ancora arrivato in molti ospedali. L’Nhs, il primo servizio sanitario pubblico della storia, è una creatura laburista di cui i britannici vanno fierissimi. È anche una delle grandi vittime di una lunga stagione di austerità, gestita da successivi governi conservatori. Anni di tagli, ridimensionamenti, stipendi congelati, scontri fra il governo e il personale, manifestazioni di piazza. Nel 2017 proprio Johnson, come l’attuale ministro della Salute Matt Hancock e i conservatori più in vista che oggi applaudono l’Nhs, votarono contro la proposta laburista di sbloccare gli stipendi pubblici, compresi quelli del personale infermieristico, e alcuni gioirono sguaiatamente della sconfitta di quella proposta, con commenti del livello: le infermiere non arrivano a fine mese perché non sanno gestire i soldi. Johnson ha strumentalizzato la crisi dell’Nhs, prima durante la campagna per il Leave al referendum su Brexit, quando si faceva campione della promessa di liberare, una volta usciti dall’Ue, 350 milioni a settimana per la Sanità. Poi, durante la marcia per le politiche vinte a dicembre, promettendo grandi risorse al sistema sanitario. Promesse non ancora mantenute. La responsabilità, oggi, dell’impreparazione dell’Nhs è politica, e che ora la vita di Johnson dipenda da un sistema sanitario che ha contribuito a scarnificare è una svolta beffarda. Intanto i morti in ospedale alle cinque di pomeriggio di ieri erano 5.373, un aumento di 439 sul giorno precedente, in calo rispetto al picco di 708 sabato. Ma nella conferenza stampa giornaliera il Chief Medical Officer Chris Whitty, uscito guarito dall’isolamento, ha dichiarato di non sapere quando aspettarsi il picco di decessi.

Epidemia, agli imprenditori erogata la “disoccupazione”

Come vari governi occidentali, anche quello finlandese è molto attento alle fasce più deboli dei lavoratori che stanno subendo le conseguenze più pesanti dalla crisi indotta dall’epidemia e sta attivando misure di sostegno. Ma la Finlandia ha fatto un passo in più.

Il governo finlandese ha modificato la vigente legislazione onde consentire agli imprenditori, le cui imprese sono state danneggiate dalla pandemia del Covid-19, di richiedere l’indennità di disoccupazione; tuttavia, quelli di loro che preferiscono ricevere il beneficio retroattivamente devono richiederlo entro il 15 aprile. Se inviassero richieste dopo tale data, il beneficio avrebbe effetto a partire dalla data della domanda.

La proposta legislativa del governo, approvata dal Parlamento, mira a estendere il diritto all’indennità di disoccupazione a tutti gli imprenditori, compresi quelli che hanno dipendenti a libro paga. L’attuale sistema richiede che i titolari chiudano le loro aziende se vogliono attingere alle indennità di disoccupazione. Tuttavia, in base alle nuove regole, non avrebbero bisogno di chiudere l’attività per ricevere il sostegno economico e avrebbero anche diritto a entrate derivanti dalle operazioni in corso senza perdere l’intero beneficio. Il governo ha stanziato 160 milioni di euro per l’espansione del regime di indennità di disoccupazione, basato sul presupposto che circa 55.000 imprenditori potranno chiedere il sostegno. La disposizione è operativa dal primo aprile e scade il 31 luglio prossimo. Il governo guidato da Sanna Marin ha anche lanciato un altro pacchetto finanziario progettato per garantire che gli imprenditori possano mantenere le loro attività operative durante la pandemia. Il ministero dell’Economia e del Lavoro e il ministero delle Finanze hanno inoltre nominato un gruppo di lavoro per preparare una valutazione di esperti sull’impatto della crisi del coronavirus e sulle misure che possono essere utilizzate per limitare il danno all’economia finlandese. Il gruppo di lavoro esplorerà anche misure che potrebbero aiutare a riportare la Finlandia sulla strada della crescita sostenibile, dell’occupazione elevata e di fortificare le finanze pubbliche dopo la crisi.

Stati Uniti
Casa Bianca, lite su clorochina New York, sepolture nei parchi

Nonostante lo scetticismo degli esperti, Trump insiste sull’uso di farmaci anti-malaria come la clorochina, anche se non ci sono prove che sia efficace contro il coronavirus. La clorochina sarà sperimentata su 3.000 contagiati a Detroit, annuncia Mike Pence, lo zar anti-coronavirus: l’Amministrazione vuole portare milioni di dosi di clorochina nelle aree più investite dal contagio. A New Orleans, il tasso di mortalità è ora il doppio che a New York, la città più colpita. Sull’efficacia del farmaco, media Usa riferiscono una lite alla Casa Bianca: Peter Navarro, consigliere per il commercio iper-liberista, che non è nella task force anti-contagio, ha esibito un fascicolo con le prove che il farmaco è efficace. “Ma che stai dicendo?”, l’ha stoppato Anthony Fauci, il virologo in capo. Navarro ha reagito in malo modo. I casi di coronavirus negli Usa superano ormai i 350 mila e i morti hanno ieri sfondato la soglia dei 10 mila. A New York emerge l’ipotesi di sepolture temporanee nei parchi; ad annunciarlo su Twitter è stato il consigliere comunale Mark Levine, presidente della commissione Salute.
Giampiero Gramaglia

 

Spagna
Il giorno con meno morti: 637 Controlli, via all’app in 5 regioni

Per la prima volta dal 24 marzo, in Spagna il numero delle vittime del coronavirus scende a 637, mentre i ricoveri in terapia intensiva calano all’1% in più rispetto a domenica. Anche il numero dei contagiati sale con una percentuale più bassa: il 3% rispetto al 20% di prima del lockdown. Il governo Sanchez sta studiando come sottoporre la popolazione ai test, per far tornare alla normalità asintomatici e chi, pur non sapendolo, ha già superato il coronavirus. Intanto è già disponibile l’app contro il Covid-19 in 5 regioni. Un sistema di autodiagnosi, valutazione dei sintomi, interfaccia con i medici e localizzazione dei pazienti infetti o a rischio, che evita al sistema sanitario intasato, ulteriori pazienti. Non mancano tuttavia le polemiche politiche per la gestione dell’emergenza da parte del governo rosso-viola. Dopo il “no” del leader popolare, Casado, al “patto della Moncloa” proposto da Sanchez per fare fronte comune alla crisi economica, la presidente della comunità di Madrid, Isabel Díaz Ayuso (Pp), ha scatenato le critiche per aver incaricato della gestione delle case di riposo Encarnación Burgueño, figlia del re delle privatizzazioni della Sanità.

 

Francia
Record di vittime: 605, però i contagi si stabilizzano

L’epidemia in Francia si “sta stabilizzando”, ha detto ieri Martin Hirsch, direttore dell’ente Ospedali di Parigi. Merito del lockdown, entrato in vigore il 17 marzo, che ha “un impatto significativo”. La Francia comincia a sperare, ma con prudenza, perché ieri c’è stato il record dei morti, 605. Domenica i parigini hanno approfittato della bella giornata per passeggiare: “Non bisogna abbassare la guardia”, ha ammonito il ministro degli Interni, Christophe Castaner. Le vittime del Covid-19 continuano a crescere: sono 8.911, di cui 2.417 nelle case di riposo (+833). Ma il numero di pazienti ammessi in rianimazione (7.072 ieri) è in calo. E sale il numero dei guariti (17.250, + 1.000). “Ma non è finita qui”, ha detto il ministro della Salute, Olivier Véran, stilando il bollettino del giorno. Anche Parigi cambia strategia sulle mascherine; dopo averne negato l’utilità, nascondendone la mancanza, pensa di generalizzarne l’uso a mano a mano che il lockdown sarà levato. Nere le previsioni sul piano economico: sarà “la peggiore recessione dal 1945”, ha previsto il ministro dell’Economia, Bruno Le Maire.
Luana De Micco

 

Israele
Governo di unità entro Pasqua Ma a rischio festività ebraiche

Il premier Benjamin Netanyahu è impegnato in queste ore negli incontri con il leader di Blu e Bianco, Benny Gantz per la formazione di un governo di unità nazionale. L’intenzione è quella di accelerare le trattative per raggiungere un accordo prima dell’inizio della Pasqua ebraica, il Pesach, o meglio la settimana di festività, il Passover, che durerà fino al 15 aprile. In realtà l’intera celebrazione – a partire dalla cena del seder – potrebbe saltare travolta dell’inizio della serrata totale contro il coronavirus che il premier starebbe per attuare. Finora infatti, Israele ha registrato 8.611 casi e 53 vittime. In Cisgiordania i contagi sono 225 e un morto, mentre a Gaza gli infetti sono 12, per un tasso di mortalità dello 0,65%: uno dei più bassi al mondo. Nonostante questo però Netanyahu ha introdotto misure di contenimento graduali che – con l’arrivo delle festività – ha deciso di inasprire partendo dallo stop alle processioni per la domenica delle Palme, suscitando le rimostranze degli ortodossi. L’Autorità nazionale palestinese ha chiuso moschee e chiese, compresa quella della Natività a Betlemme.

Wuhan prova a guarire anche l’economia

Irreali sorrisi a volto scoperto si sono allargati su facce stupefatte, senza mascherine, qualche ora fa a Wuhan. Nella città focolaio del Corona è stato smantellato il labirinto giallo, quel serpente di barriere che sigillava un quartiere dall’altro e rendeva prigione un’intera città. I cittadini hanno aperto le porte delle case e sono usciti dai compound, complessi abitativi, dove sono rimasti immobili per due mesi di isolamento totale. Ora un passo dietro l’altro, inseguendo il loro stupore, passeggiano i wuhanesi: da domani, ufficialmente, potranno anche varcare i confini della megalopoli verso altre latitudini patrie. Devono abbracciare la sfida della riapertura e quella più gravosa della prossima rinascita, che Pechino già celebra con timido trionfo nei telegiornali allineati.

Al teatro di Qintai una squadra di volontari spara disinfettante con fucili dorati, in scafandro bianco, tra le poltroncine rosse per chi si siederà ad assistere al prossimo spettacolo. Ragazzi si scattano foto intorno alla pagoda della Gru gialla, quartiere Wuchang: immagini che provano che dove l’incubo è iniziato, è finito prima che nel resto del mondo.

Gli abitanti passeggiano sul ponte del fiume Yangtze ma lì accanto al lussuoso centro commerciale Wuhan International Plaza, nessuno entra: comprano fiduciosi cibo dagli ambulanti sui marciapiedi. Passano i bus, incrociano i percorsi delle auto, rimangono i mezzi in fila ai semafori di strade non più spettrali. Gli operai, dopo settimane di chiusura, hanno risentito di nuovo il cigolio dei cancelli aperti delle fabbriche d’acciaio e dell’industria automobilistica.

Lo spessore dell’emergenza virale è ridotto a poco più di una linea sottile sui grafici, il Covid-19 è in gabbia come prima lo erano i cittadini: gli ultimi 54 nuovi casi sono “d’importazione”, non domestici. Nove su 13 distretti sono fuori pericolo o, nel gergo del direttorio del Consiglio di Stato, risultano “a basso rischio epidemiologico”, come l’intera provincia di Hubei.

“L’epidemia causerà problemi allo sviluppo economico nel breve periodo, ma non fermerà lo slancio di crescita a lungo termine”. Ieri la ripresa plurale e simultanea di lavori e servizi è stata “migliore del previsto”, più rapida di quanto pronosticato, ha confermato il vice-sindaco Hu Yabo: la produzione delle maggiori imprese ha registrato subito una percentuale che sfiora il 100%, mentre quella delle società di servizi ha superato il 93% della capacità produttiva. Sostegno a pioggia alle aziende dal governo: sussidi, riduzioni delle tasse e liquidità; un fondo iniziale di 20 miliardi di yuan – poco meno di 3 miliardi di dollari – per uscire dal pantano.

Culla del virus, Wuhan è divenuta ormai sinonimo di epidemia. Soggetto non più di epidemiologi ma di economisti, la megalopoli teme di essere associata per sempre al virus che ha fatto crollare sistemi sanitari e Borse del mondo. Nonostante la propaganda della vittoria dello Stato cinese sul Corona, tutti sanno che non ci sarà resurrezione subitanea, ma un inclemente risveglio. Il Covid-19 ha provocato moltissimi “danni significativi”, dichiara Chen Bo, professore di Economia dell’Università di Wuhan: “La perdita fiscale è pari a un miliardo di dollari, l’impatto psicologico per investimenti futuri e turismo durerà”. I wuhanesi sono sopravvissuti, ora dovrà provare a farlo il loro business.

La mossa dell’Onu: mettere al bando i mercati-macello

“Se non ti preoccupi della natura, sarà lei a occuparsi di te”. Con queste parole la responsabile della biodiversità delle Nazioni Unite, Elizabeth Maruma Mrema, si è espressa in favore del bando mondiale dei mercati umidi. E cioè quei mercati, presenti soprattutto nei paesi asiatici, dove vengono venduti vivi e poi macellati animali in condizioni igieniche precarie. Proprio come a Wuhan, dove si pensa sia partito il coronavirus.

“Ora continueremo a fare pressione per passare dalle dichiarazioni ai fatti. È comunque un buon segnale”. Matteo Cupi, fondatore di Animal Equality Italia, non se l’aspettava. Questa apertura arriva a soli quattro giorni dal lancio della petizione rivolta proprio all’Onu per chiedere la chiusura dei mercati umidi, e che ha già superato le 200.000 firme. “È provato che i ‘wet market’ siano il terreno fertile in cui avviene lo spillover tra virus da animali selvatici a esseri umani, e se vogliamo evitare le prossime pandemie globali e inutili crudeltà estreme su animali selvatici e da allevamento è ora di agire subito”.

La Cina ha già disposto un divieto temporaneo alla vendita di specie selvagge. Fra queste c’è anche il pangolino, il piccolo mammifero corazzato che ora è salito sul banco degli imputati del coronavirus. Ma c’è un altro imputato nel processo sulle cause che hanno portato al coronavirus: gli allevamenti intensivi e l’industrializzazione della produzione alimentare. L’accusa viene dallo studio di due antropologi, Lyle Fearnley e Christos Lynteris, che hanno documentato un passaggio cruciale per l’evoluzione dell’economia cinese, l’inizio degli anni Novanta. In quel periodo infatti in Cina si fa strada l’industrializzazione del sistema alimentare. I grandi allevatori tagliano fuori i più piccoli. E alcuni fra questi, per cercare di sopravvivere, si danno all’allevamento delle specie selvagge, che in passato invece venivano mangiate solo come forma di sussistenza.

Ma più gli allevamenti intensivi conquistano nuovi terreni, più i piccoli allevatori vengono spinti fuori, ai limiti delle zone incolte. E cioè in prossimità delle foreste, dove vivono, appunto, pipistrelli e virus. E l’ipotesi è che sia stato l’aumento della densità e della frequenza di contatti fra animali allevati e specie selvagge che abbia favorito il salto di specie, che avrebbe poi portato al coronavirus. Se sia nato così il covid-19 è ancora troppo presto per dirlo. Ora però la discussione è tutta incentrata sulla chiusura dei mercati umidi. È la stessa responsabile della biodiversità dell’Onu Mrema però, parlando con il quotidiano britannico Guardian, a mettere in guardia: “Alcune comunità a basso reddito, e parliamo di milioni di persone, basano il proprio sostentamento sulle specie selvagge. Quindi a meno che non diamo un’alternativa a queste comunità, il rischio è di aprire le porte del mercato nero a questi animali, e così anche all’estinzione di alcune specie”.

La partita sui mercati umidi si giocherà in questi mesi, con la Cina impegnata a ripulire la propria immagine da untore del Pianeta, ma allo stesso tempo con tradizioni ed economia di famiglie a basso reddito da preservare. Nel frattempo, però, per “preoccuparsi della natura affinché non sia lei a occuparsi di noi” si sta aprendo un’altra discussione. E ci riguarda molto più da vicino, perché legata agli allevamenti intensivi, dai quali proviene oltre l’80% dei nostri prodotti di origine animale. Come ha scritto la Fao in un suo rapporto di ben sette anni fa, “il 70 per cento delle nuove malattie che hanno colpito l’uomo negli ultimi anni ha origini animali e, in parte, è direttamente collegato alla domanda di più cibo di origine animale”. Per prendere di petto seriamente il pericolo di nuove pandemie, quindi, non potremo che passare da un’attenta analisi su come produciamo il nostro cibo, e dal nostro rapporto con la natura. Perché non sia lei a occuparsi di noi.