Conte: “Accesso al web per Costituzione” Una famiglia su tre non ha il pc o il tablet

In tempi di didattica a distanza e smartworking a causa del coronavirus, fanno riflettere i dati dell’Istat, secondo cui un terzo delle famiglie italiane non ha computer o tablet in casa. Una percentuale che scende al 14,3% tra le famiglie con almeno un minore. E solo per il 22,2% dei nuclei familiari, ogni componente ha a disposizione un pc o il tablet.

Dati che diventano più allarmanti se si guarda al Sud, dove il 41,6% delle famiglie è senza computer in casa con Calabria e Sicilia in testa (rispettivamente 46% e 44,4%) rispetto a una media di circa il 30% nelle altre aree del Paese e solo il 14,1% ha a disposizione almeno un computer per ciascun componente. La fotografia dell’Istat, contenuta nella ricerca “Spazi in casa e disponibilità di computer per bambini e ragazzi” relativa agli anni 2018-2019, mette in luce il digital divide che si vive all’interno delle case italiane. Se a questo si aggiunge poi che 4 minori su dieci vivono in case sovraffollate, il quadro è ancora più grave.

Tanto che ieri, dopo l’approvazione del decreto legge sulla scuola, il premier Conte ha ammesso che se fosse lui “inserirerebbe una modifica alla Costituzione con il diritto all’accesso alle reti info-telematiche”. “Il concetto della libertà sostanziale – ha spiegato – è nell’art. 3, secondo il quale compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Oggi lo strumento di partecipazione più efficace è l’accesso a Internet. Dobbiamo fare degli sforzi per offrire reti info-telematiche a tutti gli studenti”.

Per ora, intanto, secondo l’Istat, oltre il 60% di bambini e ragazzi condivide il pc o il tablet con la famiglia. Ma nelle regioni del Nord la proporzione di famiglie con almeno un computer in casa è maggiore. In particolare a Trento, Bolzano e in Lombardia oltre il 70% delle famiglie possiede un computer e la quota supera il 70% anche nel Lazio. Nel Nord, inoltre, la quota di famiglie in cui tutti i componenti hanno un pc sale al 26,3%.

Sul fronte dei Comuni, la quota più alta di famiglie senza pc si osserva in quelli di piccole dimensioni, la più bassa nelle aree metropolitane. Se si considerano le famiglie con minori, la quota di quante non hanno un computer scende al 14,3%, ma le differenze territoriali risultano ancora più accentuate con valori che vanno dall’8,1% del Nord-ovest (6% in Lombardia) al 21,4% del Sud. Ed ancora. Meno di un ragazzo su tre presenta alte competenze digitali (il 30,2%, pari a circa 700 mila ragazzi), il 3% non ha alcuna competenza digitale mentre circa i due terzi presentano competenze digitali basse o di base. Le ragazze presentano livelli leggermente più elevati di competenze digitali (il 32% dichiara alte competenze digitali contro il 28,7% dei coetanei).

C’è anche un capitolo su quanto si legge. Secondo l’Istat, tra i 6 e i 17 anni, uno su due ha letto almeno un libro nell’anno. L’abitudine alla lettura interessa oltre il 60% di bambini e ragazzi di 6-17 anni residenti al Nord e il 39,4% di quelli del Sud. Sono soprattutto le ragazze a dichiarare di aver letto almeno un libro: il 58,2% contro il 46,4% dei coetanei.

“Solo una parentesi non è il futuro: così i docenti fanno una fatica immane”

La didattica a distanza sta richiedendo agli insegnanti italiani un supplemento enorme di fatica: correggere elaborati e realizzare PowerPoint a ciclo continuo; destreggiarsi tra piattaforme diverse; inventare interrogazioni astute; non far scomparire gli allievi più “difficili”; inventarsi la valutazione in assenza di una direttiva nazionale (che il decreto, araldo di future ordinanze, nuovamente rinvia). Ben pochi tra i docenti e gli allievi (quelli che hanno a disposizione un device tutto per sé: i meno agiati sono fuori) pensano che tali metodi portino giovamento rispetto alla didattica tradizionale, sia nella trasmissione delle conoscenze sia nella delicata promozione di un sapere critico.

Questa didattica va considerata una (necessaria) parentesi, non il futuro. Preoccupa sentire che alcuni (per esempio la Fondazione Agnelli) vedono l’occasione di imporre a tutti i docenti una formazione continua sulle tecnologie digitali: si configurerebbe – una volta di più – il prevalere del “contenitore” sul “contenuto”, un nuovo picco della stessa pedagogite acuta che ha contagiato da anni la scuola pubblica, obbligando gli insegnanti a dedicare tempo prezioso non già all’aggiornamento o alla riflessione sulle loro materie, bensì al mortificante verbiage di “formatori”, che sembra banale ma è spesso pericoloso (imparare l’italiano con le “app” è un modo sicuro perché s’ignori la grammatica di base). Parole sagge sul tema si leggono in un libro recente di Marco Gui, “Il digitale a scuola. Rivoluzione o abbaglio?” (Il Mulino 2019). Le risorse per la scuola non sono (mai state) infinite, non ha senso spenderle nel potenziamento di tecnologie peraltro destinate a una rapida obsolescenza; semmai, in una ben concepita piattaforma unica di teledidattica su software libero, evitando di dare dati in pasto a Google o Microsoft.

Nell’emergenza, il governo stipula protocolli con varie aziende (da Flipnet a Talent), ma resiste per ora a chi cerca di vendere i metodi di istituti privati (test Invalsi o altri) come surrogati della valutazione ad personam che solo gli insostituibili docenti possono sensatamente formulare. Si affida a un esame di maturità ridotto all’osso, a distanza e dunque necessariamente orale, in cui sarà però essenziale garantire – per dar un minimo di dignità – un tempo lungo per ogni candidato e un ruolo non meramente notarile del Presidente esterno. Grave però un errore: escludere la bocciatura per i non-maturandi (foss’anche nel previsto “recupero” di settembre, per il quale è comunque da augurarsi si stanzino risorse adeguate) rassicura forse i genitori, ma dà un messaggio demotivante sia agli studenti nel faticoso impegno di studio a distanza, sia ai docenti che penseranno di fare pura accademia; di più, farà sì che allievi ancora fragili debbano affrontare l’anno prossimo un vero calvario.

* professore universitario

Scuola: tutti saranno promossi. Anche se si riapre il 18 maggio

La ratio del decreto Scuola è questa: il divario digitale in Italia e la consapevolezza che non tutti gli studenti possano aver avuto equo accesso alla didattica a distanza in questi mesi (insieme alla necessità di non far perdere l’anno scolastico) faranno in modo che nessuno venga bocciato. Non quest’anno. Il testo portato ieri in Consiglio dei ministri dalla ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, da un lato dà valore legale alla didattica svolta finora, dall’altro scioglie diversi nodi fondamentali per le famiglie e gli studenti. E prevede due diversi approcci a seconda che si torni in classe o meno il 18 maggio, i cui dettagli saranno comunque scanditi da successive ordinanze.

Si parte dalla prima ipotesi. Se non si dovesse tornare tra i banchi, gli scrutini e le pagelle avverranno “a distanza” e a giugno gli studenti avranno comunque i voti assegnati loro dal consiglio di classe. Insufficienze, anche tali da decretare la bocciatura in tempi normali, saranno sanate nella fase di integrazione e recupero degli apprendimenti che sarà avviata “a decorrere dal 1° di settembre 2020, quale attività didattica ordinaria”. Anche eventuali crediti scolastici andranno recuperati nell’anno successivo. Una integrazione, si specifica, che dovrà tenere conto “delle necessità degli alunni delle classi prime e intermedie di tutti i cicli di istruzione” e che viene prevista proprio per colmare il potenziale divario causato dalla didattica a distanza.

E se l’esame di terza media viene di fatto sospeso (ci sarà la valutazione finale da parte del consiglio di classe che terrà conto di un elaborato degli studenti), per la maturità, invece, è prevista anche la valutazione “telematica” con l’eliminazione delle prove scritte e la sostituzione con un unico colloquio “articolandone (sempre con apposita ordinanza successiva, ndr) contenuti, modalità anche telematiche e punteggio per garantire la completezza e la congruità della valutazione”.

Il secondo scenario, invece, prevede che l’attività didattica riprenda entro il 18 maggio e che sia consentito fare gli esami “in presenza”. Anche in questo caso andranno stabiliti i requisiti di ammissione alla classe successiva (ma si terrà sempre conto del recupero a settembre, quindi non ci sarà molta differenza), all’esame di terza media sarà eliminata una o più prove mentre la maturità si svolgerà con soli commissari interni (per privilegiare la conoscenza della storia dell’alunno) e con il solo presidente della commissione come esterno. Ci sarà la prova di italiano, la seconda prova potrebbe essere sostituita con “una prova predisposta dalla singola commissione di esame” che sia “aderente alle attività didattiche effettivamente svolte nel corso dell’anno scolastico sulle specifiche discipline di indirizzo e sulla base di criteri del Ministero dell’istruzione che ne assicurino uniformità”. Quanto imparato nei percorsi per le cosiddette “competenze trasversali” e l’orientamento sarà poi parte del colloquio.

In entrambi gli scenari, comunque, tutti gli studenti saranno ammessi all’esame di Stato o di fatto promossi all’anno successivo. All’atto pratico, la scuola potrà cominciare prima (salvo intese in Conferenza Stato-Regioni) e per i docenti restano valide le graduatorie di istituto vigenti. I libri di testo adottati quest’anno lo saranno il prossimo e restano sospesi i viaggi d’istruzione, iniziative di scambio o gemellaggio, visite guidate e le uscite didattiche. Sulle misure previste, il Consiglio superiore della Pubblica Istruzione avrà – in questo periodo di emergenza – sette giorni per dare i propri pareri e se in autunno dovessero esserci ancora pericoli per il Covid, si pensa a come ridurre il numero di alunni per classe per assicurare un maggiore distanziamento tra gli studenti.

Una parte del testo riguarda poi i concorsi e i tirocini. La ministra potrà bandire i concorsi ma lo svolgimento delle procedure è sospeso per 60 giorni. Se si protrarrà l’emergenza, poi, il ministro dell’Università potrà prevedere che tirocini e abilitazioni alle professioni di odontoiatra, farmacista, veterinario, tecnologo alimentare, dottore commercialista ed esperto contabile, nonché delle prove per l’abilitazione all’esercizio della revisione legale, possano svolgersi a distanza. Valido anche il semestre di tirocinio professionale per i praticanti che, dopo la sospensione dell’attività giudiziaria, non abbia assistito al numero minimo di udienze previste.

Ricette, Monopoli e orsi: “Nei taralli rivedo la nonna”

In cucina mi tornano in mente le vecchie estati

I taralli all’uovo di mia nonna Vincenza (vedi foto). La sua antica e semplice ricetta pugliese, a base di ingredienti genuini, l’olio dei nostri campi, i limoni raccolti al momento. Prima che, bambini, partissimo per le nostre vacanze, andavamo da lei, dalla nostra amata nonna. Non capiva perché partissimo e diceva: “Ciò che troverete altrove è qui. Non serve viaggiare”. Aveva preparato tanti chili di taralli per noi, li aveva portati a cucinare al forno in grandi e scure teglie, ogni quartiere aveva un forno e, non pochi decenni fa, bambini scalzi e con abiti laceri si occupavano delle consegne. Grazie a questa antica ricetta lei rinasce, la mia manualità è la sua e ciò dona felicità e senso in un tempo difficile.

Vincenza Amato

In questi giorni mi aiuta il pensiero di mia madre

Quello che mi manca soprattutto in questo momento difficile è la stretta di mano affettuosa con mia madre che da poco non c’è più e che vorrei condividere con tutte le persone che hanno perso una persona cara e che sentono una stretta al cuore. Immagino di stringere la mano a tutti voi per sentirci più vicini nel dolore e nella fiducia nella vita futura. Vi invio questo scatto di vita personale (vedi foto) perché è quello che mi accompagna in questo periodo e mi consente di entrare nelle case di molti.

Mafalda

Il ritrovo quotidiano è con un gioco da tavolo

Dalla quarantena vogliamo condividere il disegno della mia Giorgia che, a 7 anni, ha scoperto che giocare a Monopoly è veramente eccitante. Ogni partita è carica di emozioni che avevamo dimenticato. Il divertimento del dopo-pranzo, qui a Padova, è davvero assicurato!

Giulia Guidi

Guardare l’orologio ormai è diventato un tic

Le giornate scorrono lente, cerco di tenermi occupato inventandomi diverse faccende domestiche. Sistemo, pulisco e cucino. Addirittura ho staccato plafoniere e lampadari per pulirli a fondo. L’attività prevalente resta comunque quella di posare lo sguardo sull’orologio, è diventato un atto involontario ma costante, e quando capita mi rendo conto che il tempo passa sempre più lentamente. Spesso mi chiedo quali incontri o possibilità lavorative il destino, in questo periodo storico, ha voluto vietarci. Chissà cosa avrei fatto proprio oggi, chi avrei incontrato proprio oggi, dove avrei mangiato proprio oggi. Rimane la tristezza di aver perso sicuramente qualcosa. Si ricomincerà ma con privazioni a cui non siamo abituati, ma sarà pur sempre un ricominciare.

Dimenticavo, ho 37 anni. A maggio, che ne compio 38, spero di poter uscire a comprare una torta e magari mangiarla con la mia famiglia, tutti insieme, riunendoci finalmente. Speriamo.

Alessandro Ciaccia

Niente best-seller, meglio un bel classico

Sono una signora che la società classifica come anziana. In questi strani giorni, mi marito pota le piante, io raccolgo ramaglie e nostro figlio ingegnere che lavorava in azienda, lavora da casa. Sono una accanita lettrice da sempre: ho letto di tutto, da Liala a Goethe e non mi lascio scappare ancora oggi nemmeno un Tex!

Da circa un anno, dopo l’ennesima delusione del best seller di turno, mi sono detta che non potevo più permettermi di perdere tempo a leggere certe cavolate e ho ripreso in mano i classici. Ed è stata tutta un’altra storia! C’è un mondo da riscoprire che non delude mai. Approfitto per fare gli auguri a mio marito: tra qualche giorno sono 70! Gli preparerò una torta speciale, come lo è lui da quasi 50 anni!

Lilia

Un nuovo canale social col pupazzo di casa

Quello che ho creato per sopravvivere a questi giorni è una pagina ironica su facebook e Instagram (@orsochefacose) coinvolgendo mio figlio piccolino e il suo pupazzo, per far ridere amici, parenti e chiunque ci si imbatta (vedi foto).

Ilaria Petrosino

“Operatori positivi nelle stanze dei degenti Così è scoppiato il contagio al Don Gnocchi”

“Nessun protocollo di sicurezza applicato e operatori sanitari positivi al coronavirus sistemati nelle stanze degli anziani: anche così si è diffuso il virus nell’istituto Palazzolo della Fondazione Don Gnocchi di Milano”. Chi parla è un operatore che per anni ha lavorato proprio in uno dei reparti dedicati ad accogliere gli anziani. Con altri, ha denunciato quelle che ha definito “azioni omissive” e che, a sua detta, avrebbero portato al contagio di molti operatori sanitari nell’Istituto.

Su questo indaga la Procura di Milano mentre la Fondazione da parte sua ha respinto le accuse definendole false.

L’operatore che ha deciso di parlare con Il Fatto ma in forma anonima, lavorava proprio a contatto con gli anziani, che adesso dice non essere stati protetti abbastanza. Secondo i dati raccolti dal Fatto nell’istituto Palazzolo nel mese di marzo si sono registrati 87 decessi (583 i posti letto complessivi) e di questi 27 “in pazienti con positività o sospetto Covid-19”, come spiegano dalla Fondazione.

La fondazione Don Gnocchi è uno degli istituti che ha risposto alle delibere della Regione Lombardia in cui, in sostanza, si chiedevano posti letto per i casi di coronavirus e per i dimessi, per cercare di liberare gli altri ospedali. Nella sede di Milano, com’era la situazione quando sono arrivati pazienti degli altri istituti?

L’epidemia stava già esplodendo, infatti ci chiedevamo per quale motivo avessero accettato di ospitare altri pazienti Covid.

Il 16 marzo però la Fondazione ha aperto un reparto ad hoc per ospitare i pazienti positivi: sono stati messi a disposizione 36 i posti letto nella sede di Milano, 110 in tutta Italia.

Il problema è che quando inaugurano questo nuovo reparto il personale nell’ospedale si stava già dimezzando: c’erano già alcuni operatori sanitari contagiati. Anche io ho fatto il tampone e ho scoperto di essere positivo. E non ero l’unico caso: molti colleghi si erano ammalati già nella settimana precedente, anche se il quadro non era ancora molto chiaro.

La Fondazione ha già smentito queste affermazioni spiegando di aver intrapreso da subito tutte le azioni necessarie al contenimento dell’epidemia a protezione dei pazienti e degli operatori. Al Fatto, oggi, dall’ente spiegano che il nuovo reparto “è totalmente isolato dal resto della struttura e dalla Rsa”.

Questo è vero. Il punto però è che bisognava applicare il protocollo del reparto Covid anche nel resto dell’Istituto. Gli anziani negli altri reparti si contagiavano comunque perché qui c’erano già persone positive con le quali erano in contatto. Nel reparto dove lavoravo io, per esempio, su 70 anziani ricoverati almeno 23 sono morti nelle ultime settimane. Alcuni accertati Covid, per altri invece il tampone neanche è stato fatto. Ma c’è un’altra problematica.

Quale?

Alcuni operatori che si è scoperto essere positivi nei primi giorni sono stati ricoverati nelle stanze con altri anziani. Solo in un secondo momento quindi sono stati spostati nel reparto Covid. Nel frattempo però il danno era fatto.

Di quanto sostenuto dall’operatore Il Fatto ne ha chiesto conto alla Fondazione Don Gnocchi, che ha smentito, compresa l’ultima circostanza raccontata: “I casi di positività al Covid-19 rilevati fra gli operatori – spiegano dall’ente – sono stati gestiti e isolati immediatamente secondo i protocolli previsti dalle autorità, e in coordinamento con le autorità stesse. La Fondazione Don Gnocchi ha attivato presso il convitto, struttura fisicamente distaccata dall’Istituto, alloggi per operatori non in grado di gestire l’isolamento al proprio domicilio. Oggi ve ne sono ospitati quattro con positività o sospettati Covid-19”.

Regione Lombardia, ecco i 7 errori fatti

Non è questo il momento dell’analisi delle responsabilità, ma la presa d’atto degli errori occorsi nella prima fase dell’epidemia può risultare utile alle autorità competenti per un aggiustamento dell’impostazione strategica (…).

Ricordiamo in generale come, a fronte di un ottimo intervento sul potenziamento delle terapie intensive e semi intensive, per altro in larga misura reso possibile dall’impegno e dal sacrificio dei medici e degli altri professionisti sanitari, sia risultata evidente l’assenza di strategie relative alla gestione del territorio (…).

1) La mancanza di dati sull’esatta diffusione dell’epidemia, legata all’esecuzione di tamponi solo ai pazienti ricoverati e alla diagnosi di morte attribuita solo ai deceduti in ospedale. I dati sono sempre stati presentati come “numero degli infetti” e come “numero dei deceduti” (…), mentre il mondo si chiede le ragioni dell’alta mortalità registrata in Italia, senza rendersi conto che si tratta solo dell’errata impostazione della raccolta dati (…);

2) L’incertezza nella chiusura di alcune aree a rischio;

3) La gestione confusa della realtà delle Rsa e dei centri diurni per anziani, che ha prodotto diffusione del contagio e un triste bilancio in termini di vite umane (nella sola provincia di Bergamo 600 morti su 6000 ospiti in un mese);

4) La mancata fornitura di protezioni individuali ai medici del territorio e al restante personale sanitario. Questo ha determinato la morte di numerosi colleghi, la malattia di numerosissimi di essi e la probabile e involontaria diffusione del contagio (…);

5) La pressoché totale assenza delle attività di igiene pubblica (isolamenti dei contatti, tamponi sul territorio a malati e contatti, ecc…);

6) La mancata esecuzione dei tamponi agli operatori sanitari (…);

7) Il mancato governo del territorio ha determinato la saturazione dei posti letto ospedalieri (…).

La situazione disastrosa in cui si è venuta a trovare la nostra Regione, anche rispetto a realtà regionali viciniori, può essere in larga parte attribuita all’interpretazione della situazione solo nel senso di un’emergenza intensivologica, quando in realtà si trattava di un’emergenza di sanità pubblica. La sanità pubblica e la medicina territoriale sono state da molti anni trascurate e depotenziate (…).

La situazione al momento risulta difficile da recuperare (…) .Per quanto riguarda gli operatori sanitari la proposta è di sottoporre tutti a test rapido immunologico, una volta ufficialmente validato, e, in caso di riscontro di presenza anticorpale (IgG e/o IgM), sottoporre il soggetto a tampone diagnostico. In caso di positività in assenza di sintomi (…) valutare la possibilità (…) di un’attività solo in ambiente Covid, sempre con protezioni individuali. (…).

Per quanto riguarda le attività non sanitarie sembra raccomandabile un’estesa effettuazione di test rapidi immunologici per discriminare i soggetti che non hanno avuto contatto con il virus, soggetti che si possono riavviare al lavoro. Per i soggetti nei quali si rileva la presenza di immunoglobuline (IgG o IgM) sembra indicata l’esecuzione del tampone diagnostico. (…)

La ripresa del lavoro dovrebbe essere subordinata all’effettuazione del test immunologico rapido di screening, non risultando in letteratura alcun termine temporale valido per la quarantena (…). È evidente come tale procedura comporti un rilevante impiego di risorse, soprattutto umane, ed è altresì evidente come la stessa, al momento, sia l’unica atta a consentire la ripresa dell’attività lavorativa in relativa sicurezza. A tale scopo Regione Lombardia dovrà mettere in campo tutte le risorse umane ed economiche disponibili. Naturalmente quanto sopra dovrà essere accompagnato dall’uso costante, per tutta la popolazione e in particolare nei luoghi di lavoro, di idonei comportamenti e protezioni. La ripresa potrà quindi essere solo graduale (…). È superfluo segnalare come qualsiasi imprudenza potrebbe determinare un disastro (…)

FROMCeO raccomanda ai colleghi di non affidarsi a protocolli estemporanei non validati e ad attenersi alle indicazioni di AIFA e di Regione, utilizzando la massima cautela.

Nell’esprimere le considerazioni di cui sopra, FROMCeO ritiene di svolgere le proprie funzioni di organo sussidiario dello Stato ed esprime disponibilità ad un confronto costante con le Istituzioni preposte alla gestione dell’emergenza. Spiace rimarcare come tale collaborazione, più volte offerta, non sia ad oggi stata presa in considerazione.

Cordiali saluti.

Gianluigi Spata e i presidenti degli Ordini provinciali dei medici della Regione Lombardia (FROMCeO)

Il business delle Rsa private grazie agli anziani contagiati

“Un attacco ignobile contro una misura che la Regione ha messo in campo per salvare la vita a centinaia di lombardi”. L’assessore al Welfare della Lombardia ha affidato ieri a un video su Facebook la difesa della delibera dell’8 marzo con la quale la giunta del governatore Attilio Fontana ha deciso di trasferire pazienti Covid nelle Rsa dotate di una struttura autonoma, come un padiglione separato indipendente anche sul piano organizzativo. Questo senza mai citare direttamente Il Fatto Quotidiano, che ieri di quella delibera e dei suoi effetti ha scritto. E rifiutandosi anche, nonostante le nostre numerose sollecitazioni, di fornire dati su quanti infettati dimessi dagli ospedali siano stati accolti dalle case di riposo nel mese di marzo.

“I primi numeri saranno probabilmente disponibili da domani (oggi, ndr)”, si è limitato a riferire il portavoce di Gallera. “Tutto quello che è stato fatto, è stato fatto con il massimo rispetto”, ha detto invece Attilio Fontana, spiegando che i pazienti Covid “non venivano messi a fianco degli assistiti delle case di riposo: esistevano dei reparti vuoti e inutilizzati”. Fontana ha usato, impropriamente, il tempo imperfetto. La delibera in questione, che ha aperto la strada al ricovero nelle case di riposo per liberare posti letto negli ospedali, è infatti solo la prima di altre delibere che non hanno fatto altro che confermare l’impianto iniziale. E tra le altre cose dispone, per le Rsa, il blocco dell’accettazione di pazienti provenienti dal territorio, e lo stop del 50% del turnover delle case di riposo che hanno alcune caratteristiche come la presenza medica e infermieristica 24 ore su 24: vale a dire che se, per esempio, si liberano dieci letti, cinque devono essere riservati ai pazienti Covid.

Il primo passo. Il 23 marzo scorso, infatti, con un’altra delibera, la Regione ha aperto anche al ricovero negli hospice, le strutture per le cure palliative. Ricovero previsto per tutti i pazienti che vengono dimessi perché clinicamente guariti: significa che non hanno più sintomi come la febbre, la tosse o il mal di gola ma sono ancora potenzialmente infetti perché su di loro non sono ancora stati eseguiti i due tamponi (uno a distanza di ventiquattr’ore dall’altro) che possono escludere la presenza della carica virale. Sempre, e ancora, per liberare posti letto negli ospedali.

Arriviamo così al 30 marzo. Le pesanti critiche già arrivate anche da Uneba, l’associazione delle case di riposo alla quale nella sola Lombardia ne fanno capo circa quattrocento, non induce la Regione a cambiare passo. Anzi, ribadisce tutto con la delibera numero XI/3018, con la quale dà alle Rsa anche le indicazioni operative per la “gestione degli ospiti e del personale per il contenimento delle infezioni correlate all’assistenza nell’ambito dell’emergenza da Covid-19”. Indicazioni che comprendono la sensibilizzazione, prevenzione e formazione di operatori e anziani. Cose come: evitare baci e abbracci, lavarsi le mani accuratamente, mantenere una distanza di almeno un metro dalle altre persone.

Certo, precisa ancora una volta che le case di riposo da dedicare all’assistenza a bassa intensità dei pazienti Covid devono essere solo quelle dotate di un padiglione separato o con una struttura fisicamente indipendente, autonoma anche sul piano organizzativo. Ribadisce ancora una volta che dal 9 marzo è in vigore anche il blocco del 50% del turn over. Poi spiega che le Rsa devono accettare unicamente i pazienti inviati dalla Centrale unica regionale dimissione post ospedaliera e che le modalità del rapporto con la Centrale “saranno comunicate dalla Regione tramite Ats”, vale a dire le aziende sanitarie.

I pazienti sono sempre quelli dimessi dagli ospedali perché clinicamente guariti o con sintomi molto lievi. Il 27 marzo erano 8.001, dei quali il 30% (2.400) già indirizzati come precisava la stessa Regione verso case di riposo o hospice: ieri i dimessi in queste condizioni erano saliti già a 29.075 ma quanti di questi siano stati ricoverati nelle Rsa non è ancora possibile saperlo.

Sotto il profilo economico quanto vale tutto ciò? Al momento il rimborso alle Rsa che hanno accolto contagiati non è ancora stato definito. Se dovesse valere il tetto massimo previsto per le degenze non ospedaliere dovremmo parlare di 150 euro al giorno per paziente. Quindi, solo al 27 marzo, una spesa di 360mila euro ogni giorno.

“Mascherine obbligatorie”. Ma sono merce rara

Le hanno rese obbligatorie. La Lombardia per chiunque esca di casa. In Val d’Aosta e Alto Adige per entrare nei negozi. In Veneto e Friuli Venezia Giulia sono richieste anche a chi viaggia sui mezzi pubblici. Ma nelle farmacie, primo luogo in cui le si cerca, le mascherine si trovano con difficoltà. “In questo momento non è automatico”, spiega Marco Cossolo, presidentedi Federfarma, che riunisce oltre 16 mila farmacie in tutta Italia.

La Lombardia ha indicato la strada, prevedendo l’obbligo di indossarne una, o almeno di coprirsi il volto, quando si esce di casa. L’Oms ieri ha espresso seri dubbi: “Ci preoccupa che l’uso di massa possa aggravarne la carenza.” Come non detto, tra i primi a seguire il Pirellone era già stato il Friuli, dove l’uso di protezioni è d’obbligo nei mercati e negli alimentari. Ma “l’approvvigionamento rimane ancora molto difficoltoso”, spiega Luca Degrassi, presidente regionale di Federfarma. Lo sa pure il governatore leghista Massimiliano Fedriga, che ieri ha chiesto alle aziende locali di “creare una rete di protezione per la produzione interna di dispositivi di protezione individuale”. Chiudendo il recinto una volta che i buoi sono scappati.

Anche Renzo Testolin, presidente della Val d’Aosta, vuole che i suoi cittadini le portino quando entrano in un negozio. “Ora cominciano ad arrivare, ma in quantità insufficiente – racconta Cesare Quey, presidente dei farmacisti locali – fatto 100 il fabbisogno delle nostre 48 farmacie, manca ancora il 50%”. La Regione ha fatto distribuire quelle di stoffa – prosegue Quey – sono simili a quelle rifiutate dalla Lombardia (il 14 marzo l’assessore al Welfare Giulio Gallera le definì “di carta igienica”, ndr). Vengono consegnate a domicilio e 10 mila pezzi li distribuiremo anche noi. È un segno di attenzione, un certo grado di protezione lo garantiscono”.

Il Veneto ha allungato la lista dei luoghi in cui è obbligatoria: fino a ieri solo in supermarket e mercati rionali, da oggi e fino al 13 aprile anche su treni, bus, taxi e vaporetti. Ma “si fa fatica a reperirle – spiega Alberto Fontanesi, presidente di Federfarma Veneto – la domanda è enorme e l’offerta è ridotta. Le Ffp2 ormai sono merce rara, per le chirurgiche ci arrabattiamo, ma riusciamo a trovarne meno di quante ne servirebbero. Spesso, poi, ci vengono offerte e prezzi troppo alti e le rifiutiamo”. Il prezzo, altra nota dolente. “Se uno vende una chirurgica tra gli 1,5 e i 2 euro non gli si può dir niente – riprende Cossolo – a noi le portano a costi molto più alti di quelli pre-Covid”. Un esempio: “Mi sono arrivate da poco due forniture da un migliaio di pezzi a 1,40 euro più Iva l’uno, per un totale di circa 1,70”. Alla Farmacia Igea, tra le più grandi di Roma, un pacco da 10 costa 24 euro. “Per averle bisogna fare le capriole – spiega la dottoressa Maria Catena Ingria – abbiamo iniziato un mese fa a ordinarle da Londra, dalla Spagna, dalla Francia. Ci hanno promesso due forniture da 10 mila pezzi e non le abbiamo mai viste. Ora abbiamo trovato un fornitore serio, ma c’è ancora tanta confusione”.

Dulcis in fundo, per ora, è arrivata la Toscana, che però ci metterà i Dpi: 8,5 milioni di Ffp1 monouso gratuite, tre a famiglia. Ma l’obbligo scatterà solo dopo che l’ultima sarà stata consegnata. In ritardo, invece, è proprio la Lombardia: nelle sue farmacie non ci sono particolari criticità ma la Regione ha comprato 3,3 milioni di pezzi e ne darà 300 mila a Federfarma che le darà gratis agli over 65 con multipatologie e ad altre categorie vulnerabili. Però arriveranno solo nel fine settimana.

“300 agenti pronti a cinturare Alzano. Poi tutto si fermò”

È il 5 marzo. Vengono avvistati, all’imbocco della Bassa Val Seriana, centinaia di agenti: circa 150 carabinieri, 100 poliziotti e decine di militari. “Li abbiamo visti fare sopralluoghi in giro per le nostre strade, hanno iniziato a girare le foto sui social e le voci si sono subito rincorse”, racconta al Fatto Claudio Cencelli, sindaco di Nembro, una delle due cittadine al centro del contagio in Lombardia. Il giorno stesso – seguendo la cronologia degli eventi ricostruiti da Palazzo Chigi – dopo aver ricevuto, tra il 2 e il 3 marzo, una prima nota da parte dell’Istituto superiore di sanità sul preoccupante trend di contagi dei due comuni Alzano e Nembro, e “a fronte della richiesta avanzata dal presidente del Consiglio e dal ministro della Salute di un parere più approfondito, il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro, nella tarda serata di giovedì 5 marzo, rispondeva con una nota scritta nella quale si rendeva opportuna l’adozione di un provvedimento per inserire tali comuni nella cosiddetta zona rossa”. Ecco allora arrivare carabinieri e poliziotti. L’Eco di Bergamo, la mattina del 6 marzo, titolerà in prima pagina “Arriva la zona rossa”. Sia nella giornata del 6 sia in quella del 7 le forze dell’ordine si preparano a predisporre almeno 20 check-point all’imbocco della Val Seriana, per cinturare e isolare – “modello Codogno” – le cittadine di Alzano e di Nembro. Gli agenti dormiranno per quelle due notti negli alberghi di Osio Sotto e di Verdellino, in provincia di Bergamo. Di fatto, restando in stand-by per più di 48 ore. Poi, l’annuncio nella notte di sabato 7 del premier Conte: l’intera regione Lombardia diventa zona rossa, superando così ogni decisione su Nembro e Alzano. Gli agenti a quel punto “smonteranno” e lasceranno il territorio.

Ma chi ha deciso di mobilitare quegli agenti, a partire dal 5 marzo, per quella che sarà poi di fatto una mancata zona rossa? Dalla Prefettura di Bergamo precisano che “per un breve periodo di tempo c’è stato in effetti sul territorio un contingente di personale di polizia, ma non è stata una disposizione del prefetto. Questo tipo di decisioni, specie se riguardano l’arrivo di personale extra, non possono essere assunte a livello territoriale, ma solo a livello centrale”. Come dire, chiedete a Roma. Lo conferma anche, nel drammatico racconto di quei giorni, il sindaco di Nembro Cencelli: “La mia polizia locale e i miei carabinieri mi dicevano che poteva esserci l’attivazione della zona rossa. Chiamai anche la prefettura, mi dissero che erano in attesa della decisione. Sembrava che ormai fossimo lì lì… Di fronte alla richiesta di maggiori informazioni, la risposta era sempre: ‘Non abbiamo nulla da aggiungere, siamo pronti ad attivare la zona rossa, se necessario’. Almeno loro erano allertati. Perché io e il sindaco di Alzano invece…”. Cencelli ha sottolineato come la decisione sulla zona rossa avrebbe dovuto essere basata sulle indicazioni tecniche e non politiche: “Mi aspettavo che Regione e governo decidessero in modo solidale quali fossero le misure giuste da prendere in base a criteri tecnici, perché il problema era sanitario e non politico. E se si fosse utilizzato il criterio Codogno anche qui avremmo dovuto attivare la zona rossa. Io a Nembro il 5 marzo avevo 68 casi positivi, il 6 erano 76: solo tre giorni prima 55”.

Un altro comune, pur se nella vicina provincia di Brescia, che era in predicato per la zona rossa era Orzinuovi. In questi giorni molti hanno dimenticato di citarlo. Ma anche lì, racconta il sindaco e parlamentare di Fd’I Gianpietro Maffoni, “i numeri dei positivi erano di poco inferiori a quelli di Alzano. Il 5 erano 26, il 7 erano già 35, il 10 erano 73. È per questo che, su mia personale iniziativa, a partire da fine febbraio ho emanato una serie di ordinanze restrittive sul mio territorio: ho annullato il Carnevale, sospeso il mercato cittadino e quello del fieno, chiuso i locali pubblici, i ristoranti e i parrucchieri. Abbiamo anticipato di più di una settimana la stretta del premier Conte. Ho sempre agito di concerto col prefetto di Brescia. Mi diceva: ‘Lei faccia, ne ha il potere’. Ma nessuno mi ha mai chiamato né da Roma, né tanto mano dalla Regione”. E infatti Maffoni, in veste di senatore, ha presentato ieri un’interrogazione parlamentare per chiedere “come mai non si sia tenuto conto delle indicazioni dell’Iss e non si sia provveduto a chiudere i comuni di Orzinuovi, Nembro ed Alzano Lombardo”. Lì, dove il contagio ormai era sfuggito. E dove nemmeno la Regione, pur potendolo fare, prese la decisione di istituire la zona rossa.

Nord al lavoro: 350 deroghe al giorno soltanto a Brescia

Mancano otto giorni alla riapertura delle aziende, secondo il decreto del presidente del Consiglio in vigore. Ma ieri per molti è stato un lunedì qualunque: al lavoro, come sempre. Non solo perché alcuni colossi come Ast a Terni, Michelin a Cuneo o ArcerlorMittal a Genova hanno riavviato la produzione. Ma soprattutto perché altre migliaia di imprese non si sono mai fermate, in particolare nel cuore dell’industria nazionale, là dove il coronavirus continua a mietere vittime.

Brescia, Bergamo, Milano, la Brianza: le caselle Pec delle prefetture sono inondate di autocertificazioni di imprenditori che dichiarano di restare aperti, in deroga al decreto, perché parte della filiera delle attività essenziali.

Il flusso prosegue senza sosta dal 23 marzo. Solo nella provincia di Brescia ieri alle 14 erano 4871. Specifichiamo l’orario, perché il ritmo con cui il contatore delle deroghe si aggiorna è impressionante. Quando avevano lasciato l’ufficio, venerdì, i funzionari della prefettura ne avevano contate 3964. La media, dall’entrata in vigore del Chiudi Italia ad oggi, sfiora le 350 comunicazioni al giorno. E ad analizzarle c’è una “task force” composta da funzionari della prefettura, della Camera di Commercio e della Guardia di Finanza, che varia “tra le 5 e le 10 unità”. Tradotto, è già un miracolo che ne abbiano istruite 625.

Sono solo un ottavo delle quasi 5 mila arrivate dalla filiera delle attività essenziali: poi, hanno dato il via a 18 delle 724 richieste degli impianti a ciclo continuo e hanno vagliato circa 150 delle 413 autorizzazioni chieste dal comparto Difesa. Di questo passo – è matematica – non riusciranno ad esaminarle tutte prima della scadenza del lockdown e, considerando l’andamento medio, non resteranno al passo nemmeno se il Chiudi Italia dovesse essere prorogato.

Nell’attesa, a Brescia ma non solo, si continua a lavorare: 15 mila le deroghe arrivate in Veneto, 3800 solo nel Padovano; 1900 a Bergamo. Le prefetture non possono far altro che verificare il codice Ateco dell’azienda e confrontarlo con l’allegato 1 del Dpcm. In alcuni casi è un incrocio semplice, perché le aziende sono già autorizzate e hanno spedito la richiesta solo per scrupolo. In altri no: il problema sono i controlli. Impossibile “denunciare” chi allarga la produzione oltre i reparti legati alla filiera essenziale: il decreto non fa distinzioni tra attività prevalenti e secondarie, quindi può restare aperto anche chi magari ha solo una piccola parte della produzione che rientra nel settore autorizzato. “Se il legislatore avesse voluto esprimere una limitazione – spiegano dalla prefettura di Brescia – lo avrebbe fatto espressamente: il criterio della prevalenza non è previsto, anche perché si sarebbero dovuti specificare ulteriori sotto-criteri, per evitare discriminazioni”.

In prefettura, dunque, si verifica solo che non ci siano autocertificazioni false. I sindacati segnalano qua e là i casi di esplicite violazioni. Ma il tessuto produttivo è fatto soprattutto di piccole realtà, in cui i delegati non esistono e dove spesso la paura di perdere il lavoro è più forte della difesa della propria salute: per dire, nel bergamasco il 94 per cento delle imprese ha meno di 9 dipendenti. “Stiamo assistendo ad aziende che hanno pensato di cambiare in questi giorni il codice Ateco”, denunciano i confederali dei metalmeccanici di Monza e Brianza su Rassegna sindacale. “Prendi un cliente a caso per cui lavori – racconta un lavoratore che tuteliamo con l’anonimato – scopri che fa anche materiali per disabili e ti fai passare come filiera essenziale: magicamente riaperti. Tanto, noi stronzi siamo immuni”.

L’ex sottosegretario al Lavoro Claudio Cominardi, illustrando alla Camera l’interpellanza della collega 5 Stelle Valentina Barzotti, ha chiesto che gli ispettori del lavoro possano coadiuvare il lavoro di Nas e Finanza. “Sono pochi, ma servirebbe almeno come deterrente”. Mentre il segretario della Cgil di Bergamo Gianni Peracchi insiste sulla necessità di mettersi al lavoro per il dopo, quando bisognerà “investire sulla sorveglianza sanitaria”, per evitare che i focolai riprendano forza.

I sindacati denunciano che già adesso alcune aziende non sono in grado di rispettare le misure di sicurezza obbligatorie. “Dal governo e dalla Regione arrivano continui appelli al rigore – conclude il segretario della Cgil di Brescia Francesco Bertoli – ma la verità è che stanno scaricando su prefetture e lavoratori il peso delle deroghe, che ovviamente non fanno altro che aumentare il numero di persone che circolano”. Altro che runner e ora d’aria per i bambini.